COSTANTINO

Naissus 27 febbraio 274 – Nicomedia, 22 maggio 337
imperatore romano dal 306 fino alla sua morte 337.


COSTANTINO E GLI ALTRI - Lo abbiamo già anticipato in altri capitoli: se tutte le riforme di Diocleziano erano state un fallimento, anche la successione all'impero fu destinata a fallire miseramente in questo nuovo periodo.

Infatti Diocleziano dopo l'abdicazione, ritiratosi nella sua solitaria villa di Solona non tardò ad assistere alla morte della tetrarchia che lui aveva concepita e le tante tragedie che causarono.

Fra i successori c'era COSTANZO, che era impegnato in Britannia. Qui il 25 luglio del 306 in uno scontro con i Pitti perse la vita. 

COSTANZO Cloro aveva un figlio, Flavio Valerio Aurelio COSTANTINO, nato a Naisso nel 274 e vissuto alla corte di Diocleziano che lo aveva nominato tribuno militare. Costantino mentre il padre combatteva in Britannia lui era impegnato in Oriente con GALERIO (altro successore) e pur richiamato dal padre in Britannia per farsi aiutare a sconfiggere i Pitti, trovò in Galerio  un netto rifiuto. Tale presa di posizione sembrò a padre e figlio un vero e proprio atto di ostaggio. Stava quindi sorgendo un caso piuttosto critico preoccupante.
Alla fine Galerio  (raccontano i maligni - ma il comportamento di Costantino lo fa supporre)  avendo predisposto con l'aiuto di Severo (l'antagonista di Costantino) lungo il percorso delle trappole con delle imboscate, era convinto che pur rilasciando Costantino, questi non sarebbe mai arrivato a destinazione.
La leggenda narra che Costantino appena rilasciato, dall'Oriente fino a Boulogne in Francia, cavalcò ininterrottamente senza mai fermarsi, senza mai dormire, sfiancando più di un destriero, onde evitare quello che forse immaginava e temeva: di essere assassinato lungo il percorso.

Scampato ad ogni tranello teso, Costantino si ricongiunse con il padre Costanzo e quindi lo troviamo quest'anno ad affrontare i Pitti, ma disgraziatamente il padre nello scontro perse la vita.

Si veniva a creare subito una critica situazione dinastica. 
Secondo l'ordinamento di Diocleziano spettava a VALERIO SEVERO la porpora di Augusto, ma prima che Galerio, come più anziano, proclamasse il nuovo collega, le legioni di Britannia proclamarono imperatore COSTANTINO di cui avevano potuto apprezzare, nella campagna contro i Pitti le sue qualità militari. .
Per impedire che scoppiasse una guerra civile, Galerio concesse a Costantino la dignità di Cesare e innalzò all'impero Valerio Severo, salvando così artificiosamente la costituzione di Diocleziano e accontentando i soldati in Britannia. Ma così facendo Galerio dava un cattivo esempio alle altre truppe e dava occasione a chi si trovava nelle medesime condizioni di Costantino di violare le norme che regolavano la successione. Da questa erano esclusi i figli degli Augusti, ma poiché Costantino era stato assunto alla dignità di Cesare non osservando la costituzione, non mancò chi pretese per sé quello ch'era stato concesso ad altri.

Questi fu M. Valerio MASSENZIO, figlio di Massimiano. Approfittando del malcontento di Roma, provocato da Galerio che aveva tolto ai romani l'ultimo privilegio estendendo anche alla metropoli l'imposta fondiaria, il 27 ottobre del 306 Massenzio si fece proclamare imperatore.

A reprimere la ribellione che era costata la vita ad Abellio, prefetto della città, caduto per mano dei pretoriani, fu Valerio SEVERO, che allora si trovava in Pannonia, e che marciò immediatamente su Roma. Massenzio, che non aveva truppe sufficienti per muovergli contro, richiamò dalla Lucania il padre Massimiano e questi, che malvolentieri aveva abdicato, accettò l'invito del figlio e, recatesi a Roma, si rimise addosso la porpora.
La sua presenza salvò Massenzio e causò la rovina di Severo. Le sue legioni che in gran parte avevano militato sotto Massimiano,  quando furono nelle vicinanze di Roma, si rifiutarono di combattere contro il loro vecchio imperatore e passarono nelle sue file.  Severo, abbandonato dai suoi soldati, fuggì a Ravenna, ma, assediato si arrese poi a Massimiano che lo relegò in una prigione.

Non era ancora trascorso un anno e mezzo dall'abdicazione di Diocleziano, e quella costituzione che doveva dare stabilità al potere imperiale era già morta. L' impero romano aveva tre Augusti e due Cesari e tra i primi si trovava il vecchio collega del solitario di Solona!

Ma uno degli Augusti voleva che la costituzione dioclezianea fosse rispettata. Era questi GALERIO, che dall'Illirio si diresse alla volta dell' Italia per liberare il collega prigioniero a Ravenna ed abbattere i due usurpatori. Ma il tentativo non gli riuscì. Appena giunse in Italia il suo stesso esercito gli fece capire che non intendeva muovere contro Roma e, poiché egli si ostinava nel suo proposito, parte delle legioni gli si ribellarono. Allora Galerio non trovò di meglio che trattare con il vecchio Massimiano.

 Ma Massenzio il figlio, che temeva l'ambizione del padre ed era sicuro di venir sacrificato, gli attraversò i disegni, e mise contro il padre le guardie e il popolo e fece uccidere Valerio Severo (agosto del 307).

Erano a questo punto le cose quando Diocleziano, che da Solona assisteva con tristezza al crollo della sua opera, pregato da Galerio, si recò a Carnuntum ad un convegno cui prese parte anche Massimiano. Questi propose all'antico collega di riprendere la porpora, ma il vecchio imperatore rifiutò, dicendo fra l'altro: «Se tu vedessi i bei piselli che mi coltivo giudicheresti tu stesso se la porpora mi possa ancora allettare ». 
Fu un male. Forse l'impero avrebbe avuto un altro periodo di pace se Diocleziano fosse ritornato al trono e con la sua autorità ristabilita la tetrarchia. Si ostinò nel rifiuto, e riuscì a far deporre la porpora pure a Massimiano
Se il ritiro di un pretendente rendeva meno difficile la situazione, un'altra decisione presa a Carnuntum nel novembre di quell'anno impediva ad altri il beneficio dato a Costantino: infatti oltre Massenzio che fu escluso dall' impero (ma seguitava a Regnare a Roma), come successore di Severo fu scelto LICINIO LICINIO, amico e compagno di Galerio.
La proclamazione del nuovo Augusto era un'aperta violazione alla costituzione di Diocleziano secondo la quale per ottenere la porpora imperiale si doveva prima avere la dignità di Cesare. Licinio che non era mai stato tale veniva a ledere i diritti di Massimino e di Costantino, i quali, senza perdere tempo, si proclamarono non più Cesari, ma anche loro  Augusti.

Cosi, al principio del 308, l'impero aveva cinque Augusti: GALERIO, MASSENZIO , COSTANTINO, LICINIO e MASSIMINO.
A complicare la situazione, già grave, si aggiungeva l'ambizione di Massimiano. Si era pentito di avere deposta per la seconda volta la porpora e, poiché non poteva più sperare nell'appoggio del figlio, si rivolse a Costantino, cui diede in moglie la figlia Fausta Massimiana, e tentò anche a Roma di abbattere suo figlio Massenzio, ma, fallito il tentativo per il contegno contrario dei pretoriani, dovette abbandonare la metropoli e cercare ospitalità alla corte di Costantino.
Sebbene accolto con ogni onore dal genero, il vecchio mal sopportava la sua condizione di cittadino privato ed aspettava una occasione favorevole per riprendere la porpora. L'occasione gli fu data dai Franchi, i quali, invadendo la Gallia dal Medio Reno, costrinsero Costantino ad accorrere contro il nemico alla testa di un gruppo di legioni. Approfittando dell'assenza del genero, Massimiano s'impadronì della cassa dello stato, di cui divise il denaro fra le milizie della Gallia meridionale, e si proclamò imperatore ad Arles, ma, saputo che Costantino tornava, si ritirò a Marsiglia dove sperava di resistere. La guarnigione della città, invece, aprì le porte a Costantino e gli consegnò il suocero e il genero  non indugiò a metterlo morte nel febbraio del 310.

Un anno dopo, nel 311, a Cirta, città d'Africa, dove si era chiuso ed era stato assalito dal prefetto del pretorio Eufio Volusiano, periva L. Domizio Alessandro che, ribellatosi a Massenzio, da due anni si era proclamato imperatore. Una delle tante schegge finite subito male.

L'EDITTO DI NICOMEDIA

In questo stesso anno avviene un fatto di grande importanza: il 30 aprile, a Nicomedia anche a nome di Costantino e di Licinio, GALERIO pubblica un editto con il quale si concede ai Cristiani, purché essi rispettino le leggi, libertà di culto e la riedificazione delle chiese. È la prova del fallimento della politica anticristiana. Le cose erano a tal punto che bisognava decretare lo sterminio dei Cristiani o venire ad una riconciliazione. Le mezze misure adottate fino allora non solo non avevano dato alcun risultato favorevole ai persecutori, ma avevano indebolita la loro posizione specie dopo il fallimento della costituzione di Diocleziano, l'avvento di tanti imperatori e il pericolo di una guerra civile. 
Contro il Cristianesimo, invece che la lotta a oltranza che avrebbe spopolato le province d'Oriente, si preferì la conciliazione, ma vi rimasero estranei, anzi contrari, Massimino e Massenzio.
Cinque giorni dopo, il 5 maggio del 311, moriva Galerio.

Parve allora che dovesse scoppiare una guerra civile tra MASSIMINO e LICINIO: il primo, ritenendosi erede legittimo di Galerio, voleva che il collega lo riconoscesse superiore, mentre il secondo desiderava aggiungere alla penisola balcanica, di cui aveva il dominio, l'Asia Minore e il Ponto. Ma le ostilità non ebbero luogo e tra i due Augusti si venne ad un accordo in virtù del quale a Massimino rimasero le province d'Asia e l'Egitto, e a Licinio la penisola balcanica.

La guerra si andava invece maturando in Occidente tra MASSENZIO e COSTANTINO. Il primo continuava nella sua politica filopagana, che lo accostava a Massimino, e aspirava a diventar padrone delle province sottoposte a Licinio e a Costantino. Anche se aveva sotto di sé numerose truppe, non godeva il favore del popolo né quello del Senato, il quale, pur essendo l'ombra di sé stesso, desiderava in qualche modo risorgere.

Costantino, pur rimanendo un devoto del dio Sole, rispettava i suoi sudditi pagani al pari dei Cristiani, anzi di molti di loro amava circondarsi; era in segreti rapporti con i senatori e si procurava l'amicizia e l'appoggio di Licinio promettendogli in moglie la sorella Costanza. Costantino non disponeva di un esercito numeroso come quello di Massenzio, ma in compenso le sue truppe erano agguerrite e disciplinatissime e molto devote al loro imperatore che era stato capace più volte di portarle alla vittoria contro i Pitti in Britannia o contro i Franchi e gli Alemanni oltre il Reno.
Il primo ad iniziare le ostilità fu Costantino, che, lasciata a guardia del Reno e della frontiera britannica parte delle sue truppe, con un esercito di cinquantamila uomini, la maggior parte veterani, nel 312 passò le Alpi attraverso il Moncenisio e scese in Italia.

La prima resistenza la trovò a Segusia (Susa) ma fu presto superata: la città fu presa d'assalto dai suoi uomini e subito incendiata. Le fiamme non distrussero Susa; Costantino, che era dotato di finissimo tatto politico, volle cominciare la sua campagna con un atto di clemenza ed ordinò agli stessi suoi soldati piromani che l'incendio venisse subito spento. 
Poi marciò su Torino, nei cui pressi venne combattuta una grande battaglia. L'esercito mandato da Massenzio era dotato di un forte corpo di cavalleria pesante. Costantino seppe evitarne l'urto facendo aprire abilmente il proprio fronte e si sbarazzò dei cavalieri nemici con assalti laterali eseguiti da schiere armate di mazza. Sbaragliata la cavalleria, la fanteria di Massenzio fu messa in rotta e cercò riparo dentro le mura delle città, ma questa una volta tutti dentro chiuse le porte ma le aprì a Costantino e vennero poi tutti sterminati; compiuta  la strage, avanzando in poco tempo si rese padrone di quasi tutta la Transpadana e Milano lo accolse trionfalmente.
Un esercito di Massenzio stava al campo presso Brescia, ma, messo in rotta anche questo da Costantino, dovette riparare a Verona. Ruricio Pompeiano, valentissimo generale che comandava le truppe di Massenzio, schierò l'esercito sull'Adige, ma Costantino seppe superare l'ostacolo e con una  rapidissima marcia passò il fiume a monte di Verona ed investì da nord la città, dove il nemico si era ritirato. Ruricio allora tentò di eseguire un piano che, se gli fosse riuscito, avrebbe troncato a mezzo la spedizione di Costantino. Egli uscì segretamente da Verona e, messosi alla testa di nuove milizie, ritornò contro il nemico sperando di averne ragione. La fortuna gli fu avversa, l'abilità di Costantino fece fallire il disegno di Ruricio.
L'imperatore non abbandonò il blocco di Verona intorno alla quale lasciò parte delle truppe, col resto andò contro Pompeiano. La battaglia fu accanitissima e per lungo tempo l'esito rimase incerto, ma quando Ruricio cadde, l'esercito nemico fu sbaragliato. Verona si arrese e ne seguirono l'esempio Modena ed Aquileia. 

COSTANTINO A ROMA

A questo punto, per la via Flaminia Costantino si mise in marcia alla volta di Roma.
Secondo la tradizione ecclesiastica riportata da Eusebio, prima che giungesse in vista della metropoli, una croce sfolgorante di luce si disegnò nell'azzurro del cièlo agli occhi di Costantino con il motto In hoc signo vinces e l'imperatore volle o permise che sui labari e sugli scudi i soldati ponessero il monogramma di Cristo.
A Roma intanto il popolo, che temeva le conseguenze di un lungo assedio, spingeva il figlio di Massimiano ad uscire incontro al rivale e gli aruspici e i libri sibillini vaticinavano che sarebbe perito il nemico di Roma. Confortato dal responso, Massenzio uscì dalla metropoli e, passato il Tevere a ponte Milvio, schierò il suo esercito tra la riva destra del fiume e alcune basse colline e mai un 
capitano scelse per le sue truppe una posizione più infelice. 
Costantino, giunto in faccia al nemico il 28 ottobre del 312, seppe trame immediato vantaggio ordinando ai suoi di attaccare Massenzio. Solo la guardia dei pretoriani oppose accanitissima resistenza a Costantino, le altre truppe, specie la cavalleria, furono scompigliate al primo urto. Alla disfatta seguì una fuga precipitosa e disordinata sopra un ponte di legno che Massenzio aveva fatto costruire a monte del Milvio, ma per il troppo peso o per la poca solidità il ponte crollò trascinando nel fiume quanti vi erano sopra: fra questi Massenzio che trovò la morte nelle acque.

Costantino entrò a Roma accolto trionfalmente. Un figlio di Massenzio e alcuni suoi ministri furono messi a morte, i pretoriani furono sciolti e la loro cittadella fuori porta Nomentana venne demolita. Le vendette non andarono più in là: l'imperatore era buon politico e, pur avendo con sé la forza e sapendo come si era ridotto il Senato,  promise una restaurazione degli antichi privilegi e da quella larva di Curia ebbe il titolo di primo degli Augusti, statue e un arco di trionfo che venne rivestito dei bassorilievi come quelli di Trajano.

EDITTO DI MILANO

La scomparsa di Massenzio e la conquista dell' Italia alteravano in favore di Costantino l'equilibrio tra quest'ultimo e Licinio. Si rendeva necessaria quindi una conferenza tra i due imperatori d'Occidente. Il convegno ebbe luogo a Milano -nei primi del 311- e qui venne celebrato il matrimonio tra Costanza e Licinio. A Milano i due Augusti pubblicarono un editto (Editto di Milano) che segna un gran passo vera l'affermazione del Cristianesimo. In esso veniva riconfermato quanto era stato detto in quello del 311; in più si ordinava la restituzione ai Cristiani dei beni confiscati, e il Cristianesimo veniva messo alla pari delle altre religioni. Nell'editto, inoltre, c'era un' implicita professione di fede monoteistica, parlando di Divinità anziché di Dèi  a questa Divinità si invocava il favore per i monarchi e per i sudditi.

Ma non certo di religione soltanto si parlò a Milano e il fatto che Massimino dal convegno fu escluso ci mostra chiaramente che un'azione contro quest'ultimo fu discussa e decisa tra Licinio e Costantino. Per la prima volta la religione fu messa a servizio della politica. Massimino, dopo un brevissimo periodo di tregua, aveva ricominciato a perseguitare i Cristiani e aveva tentato di rialzare il prestigio del paganesimo riorganizzandone il sacerdozio ed affidandogli l'esecuzione dei provvedimenti contro i seguaci della religione avversaria. Costantino e Licinio invece con il loro editto intendevano accaparrarsi la simpatia dei numerosi Cristiani d'Oriente e metter contro Massimino gli stessi suoi sudditi.

L'editto di Milano venne spedito a Massimino con l'invito di desistere dalle persecuzioni, e Massimino al cui esercito una guerra contro la Persia e una violentissima peste avevano arrecato gravi danni, dovette far mostra di aderire all'editto dei due colleghi.

Poi Massimino segretamente incominciò i preparativi per una guerra contro Licinio e nell'inverno del 312-13, mentre Licinio si trovava ancora in Italia e non si aspettava di essere attaccato, passò con un forte esercito di qua dal Bosforo, prese d'assalto successivamente Bisanzio, Eraclea e Perinto, e marciò verso Adrianopoli. Qui corse precipitosamente ad incontrarlo Licinio. Di molto inferiori erano le sue forze, ritenne quindi opportuno il cognato di Costantino fare delle proposte di pace al suo rivale, ma questi, sentendosi sicuro, rifiutò.
Il 30 aprile del 313 si venne a battaglia nei Campi Sereni, tra Eraclea ed Adrianopoli dove Licinio dicesi che facesse ai suoi soldati innalzare una preghiera al Deus Summus et sanctus : «Dio supremo, noi ti preghiamo, - Dio santo, noi ti preghiamo. — Ogni giusta causa a te raccomandiamo; a te la nostra salvezza raccomandiamo, — a te raccomandiamo il nostro impero.... ».

La vittoria fu dell'esercito di Licinio. Massimino in fuga, dovette ripassare il mare e fuggire in Bitinia; il vincitore non rimase a dormire sugli allori: il 13 giugno entrava a Nicomedia e vi pubblicava l'editto di Milano. Il vinto si era ritirato in Cappadocia e, mentre si apprestava a raccogliere forze per sbarrare al nemico i passi del Tauro, mutava la sua politica e cercava con un suo editto di guadagnarsi le simpatie dell Oriente cristiano.
Ma era troppo tardi: i Cristiani avevano accolto Licinio come liberatore e non avevano interesse alcuno di parteggiare per l'antico nemico il cui mutamento reigioso non era certo sincero. 
Poi nel dicembre lo stesso anno Massimino che si trovava a Tarso improvvisamente morì.

Con la scomparsa di Massimino, Licinio diventava il padrone dell'Oriente. Poteva essere clemente dopo il trionfo: ma non volle, temendo per sé in un avvenire prossimo o lontano delle sorprese, così  fu spietato contro le tre famiglie imperiali. La moglie di Massimino la fece perire nell'Oronte e i due figlioletti e i ministri li mandò a morte; poi fece uccidere anche il figlio di Galerio e il figlio di Valerio Severo. Né qui si arrestò la ferocia del vincitore: perirono pure nella strage di Tessalonica  la moglie e la figlia dello stesso Diocleziano che erano nella città.
Se è vero che il, vecchio Diocleziano si spense nel 316, egli ebbe la sventura di sopravvivere al crollo della sua riforma, e alla strage della sua famiglia, nel solitario palazzo di Solona, da cui si era rifiutato di partecipare al convegno di Milano e invano aveva pregato che Massimino gli rimandasse indietro la moglie e la figlia.
Egli venne sepolto nel mausoleo che s'era fatto erigere di fronte al tempio di Giove Ottimo Massimo; ma neppure qui il corpo del grande imperatore doveva trovare il riposo che invano aveva cercato in vita.

COSTANTINO E LICINIO, GUERRA 

 Dopo la morte di Massimino l'impero ebbe la pace solo per pochi mesi, poi la guerra civile scoppiò nuovamente e questa volta tra i due imperatori.
Gli storici affermano che lo scontro fu causato da una congiura ordita da Bassiano marito di Anastasia, contro il cognato Costantino; una congiura alla quale avrebbe partecipato Licinio, e può anche darsi; ma il vero motivo della guerra deve ricercarsi nell'ambizione del figlio di Costanzo Cloro e in quello squilibrio che si era venuto a creare dopo la scomparsa di Massimino
Caio Licinio si era venuto a trovare padrone delle più vaste e più ricche province dell'impero e -ciò che più conta- in possesso dell' Illirico, miniera inesauribile di soldati e da dove si poteva minacciare seriamente l'integrità dei territori d'Occidente. 
Costantino che mirava a diventare l'unico padrone di tutto l' impero, fallito il tentativo di far suo l'Illirico, colse il pretesto  per muovere guerra al collega a causa del rifiuto oppostogli da Licinio di consegnargli Senecione -uno dei congiurati- che si era rifugiato alla sua corte.

Con la risolutezza che gli era solita, Costantino invase prima l'Illirico. Con sé aveva un esercito piuttosto scarso come numero - venticinquemila uomini circa in tutto - ma era composto di soldati agguerriti che avevano una grandissima fiducia nel loro capo e questi, d'altro canto, contava sul proprio talento e sulla rapidità delle sue mosse. Due battaglie furono combattute: una a Cibale, in Pannonia, sulla Sava, l'8 ottobre del 314, l'altra presso Adrianopoli, nella pianura tracica di Mardia.

 L'una e l'altra finirono con la vittoria di Costantino. Non furono però vittorie decisive: il vincitore disponeva di poche truppe per poterle sfruttare; mentre il nemico, sebbene sconfitto, aveva grandi riserve pronte e con le quali rendeva difficile il vettovagliamento dell'esercito d'Occidente, infine l'inverno avanzava e costituiva un alleato prezioso per Licinio. 

Per questi motivi Costantino accettò le proposte di pace che il rivale gli offriva, ed ebbe per sé il Norico, la Dalmazia, la Pannonia, parte della Mesia, la Macedonia, la Dacia l'Epiro e la Grecia. Licinio conservò il resto della Mesia, la Scizia e la Tracia e sacrificò Cajo Aurelio Valente che durante la guerra aveva nominato Cesare
Alla stessa dignità Costantino innalzò il proprio figlio CRISPO, avuto dalla prima moglie Minervina, e l'altro figlio Flavio Claudio Costantino; dal canto suo Licinio creò Cesare il figli LICINIANO.

La pace conclusa dopo la battaglia di Mardia durò circa nove anni. Pareva che la tetrarchia dioclezianea fosse stata restaurata, ma in sostanza - pur essendo uno l'impero - come al tempo di Diocleziano, non era invece unico l'indirizzo politico, specialmente nei riguardi della religione. Se per alcuni anni Licinio rispettò l'editto di Milano, mantenendosi inizialmente neutrale in mezzo ai vari culti, Costantino fece una politica apertamente più favorevole al Cristianesimo e senza perseguitare i pagani. 
Egli accordò al clero l'esenzione dalle imposte e dai munera civilia, riconobbe alla chiesa il diritto di accettare legati ed eredità ed accrebbe l'autorità dei vescovi considerando valide le loro sentenze nelle cause civili, il che rappresentava un grandissimo privilegio per i Cristiani che venivano sottratti al giudizio dei tribunali di Stato. E non solo con i privilegi Costantino si assicurò l'appoggio della chiesa ma anche con i donativi; e fu tale il prestigio che egli riacquistò tra i Cristiani da esser chiamato a dirimere le loro contese interne (anche se erano puramente di carattere teologico, lui che era, e rimase sempre  un adoratore del dio Sole).

LE DISCORDIE DEI CRISTIANI

Violente discordie travagliavano la chiesa africana. Dopo le persecuzioni di Diocleziano si era formato, in seno alle comunità cristiane d'Africa, un partito di intransigenti, i quali volevano che fossero esclusi dalle comunità stesse i cosiddetti traditores, tutti coloro cioè che in obbedienza ai precedenti editti di persecuzione avevano consegnato i libri e gli arredi sacri. Essendo rimasta nel 311 vacante la sede vescovile di Cartagme era stato eletto Ceciliano, ma gl'intransigenti non avevano voluto riconoscerlo perché nominato dai traditores e gli avevano opposto prima Maggiorino poi Donato, da cui  prese nome lo scisma (Donatismo).

Costantino, che voleva una chiesa forte e concorde, non poteva disinteressarsi delle contese che, dividendo in due campi la chiesa creavano violenze e disordini, e intervenne. Per ordine suo fu nominata una commissione che risultò composta da tre vescovi delle Gallie, da Merocle vescovo di Milano e da Milziade vescovo di Roma. In questa città e sotto la presidenza del suo vescovo ebbe luogo il concilio che si pronunciò in favore di Ceciliano. I Donatisti non furono contenti del giudizio del consesso e si appellarono al tribunale imperiale, sostenendo che i vescovi non avevano preso in  esame il tradimento di Felice di Aptonga, di colui cioè che aveva consacrato Ceciliano.

Costantino nel 314 convocò ad Arles un nuovo e più numeroso concilio di vescovi, che confermò la sentenza del convegno di Roma; ma neppure quella di Arles venne accettata dai Donatisti. A questo punto, l'imperatore chiamò a comparire davanti il suo tribunale a Milano i due vescovi competitori, e qui decise a favore di Ceciliano, indi ordinò che le chiese occupate dai Donatisti venissero sequestrate e agli scismatici applicata la pena dell'esilio e della confisca.  Ma nemmeno questi provvedimenti giovarono e dopo cinque anni di disordini e di lotte l'imperatore avendo compreso che perfino la forza era impotente a risolvere questioni di fede, decise di tollerare gli 
scismatici e convinse i cattolici che la cosa migliore da farsi era quella di attendere eventi migliori.

Mentre Costantino, pur rimanendo pontefice massimo del paganesimo, lentamente si accostava al Cristianesimo di cui già aveva accettato il fondamentale principio di fede nel Dio unico, e del Cristianesimo abilmente iniziò a farne uno strumento della sua politica.

Licinio andava abbandonando la sua neutralità e si accostava al paganesimo: per misura di moralità e di ordine pubblico proibiva che uomini e donne insieme intervenissero alle funzioni cristiane e che i vescovi predicassero davanti alle donne; vietava che le assemblee dei Cristiani si tenessero entro le mura della città, ed epurava la sua corte e l'amministrazione statale dagli elementi cristiani.

La lotta che da tempo si andava preparando tra Costantino e Licinio assumeva anche un carattere religioso. I Cristiani d'Oriente erano tutti per Costantino, per l'imperatore che concedeva ampia libertà di culto, che dava somme per la costruzione di chiese, che si circondava di Cristiani, che teneva in grande stima i vescovi, che si adoprava per appianare e risolvere le contese, che assegnava a un corpo delle sue migliori guardie, come insegna, il labaro sormontato dalla croce, per quell'imperatore che essi consideravano cristiano. Ma Cristiano Costantino non era; era un monoteista. Ma la sua politica era così abile che sembrava pagano ai pagani e cristiano ai cristiani.

La guerra che l'uno e l'altro andavano da tempo preparando, scoppiò nel 323.
Forse per rendere più sicura la frontiera del Danubio, forse per avere pronte truppe contro il collega e forse anche per l'una e l'altra cosa insieme, Costantino aveva effettuato un concentramento di milizie nell'Illirico. Nell'estate del 322 i Goti condotti da re Rausimondo, avevano passato il Danubio. Costantinoli aveva sconfitti e inseguiti oltre il fiume.
Un'altra invasione di Goti aveva avuto il medesimo risultato. Si crede  che,guerreggiando contro questi barbari, Costantino sia passato nei territori balcanici appartenenti a Licinio costrettovi da necessità belliche. Ma questa violazione costituì il casus belli.

Le ostilità furono iniziate nell'estate del 323 e la prima battaglia venne combattuta il 3 luglio. Licinio con un esercito molto più numeroso di quello del rivale, aveva preso posizione sopra una collina che dominava l'Hebro (Maritza), nelle vicinanze di Adrianopoli. Con una manovra che ricorda quella usata presso Verona contro Ruricio Pompeiano, Costantino passò il fiume e, minacciando di aggirare il nemico, lo costrinse a lasciare la sua posizione. Ingaggiatosi il combattimento, questo ebbe un esito favorevole per Costantino. Licinio, sconfitto, riparò a Bisanzio e vi venne assediato, mentre Abante il suo ammiraglio, con una flotta di duecento navi tentava di impedire che la flotta nemica inferiore per numero di navi, comandata da Prisco, primogenito di Costantino che nel 320 si era segnalato sul REno contro i Franchi e gli Alemanni, forzasse l'Ellesponto e prestasse man forte all'esercito. Ma anche sul mare la fortuna fu contraria a Licinio: a Gallipoli la sua flotta venne sconfitta e il giorno dopo, sbattuta dai venti, dopo aver subito molte perdite fu costretta a rifugiarsi a Calcedonia.

Qui Licinio che non poteva più sostenersi a Bisanzio, raggiunse Abante e si preparò a chiudere al rivale la via dell'Asia. Ma non gli riuscì: padrone del mare, Costantino passò il Bosforo, e Licinio dovette affrontarlo con un ultimo esercito.
La battaglia ebbe luogo a Crisopoli (Scutari) il 18 settembre e la vittoria fu ancora di Costantino.
Licinio corse a chiudersi a Nicomedia. Sperava forse di poter fronteggiare ancora il rivale, ma, quando seppe che Bisanzio e Calcedonia si erano arrese, ogni sua speranza svanì. Sua moglie Costanza, sorella di Costantino, ottenne che questi giurasse di lasciare salva la vita al cognato, e Licinio il 23 settembre di quello stesso anno, si arrese al vincitore, che lo relegò a Tessalonica.
Sei mesi dopo però, accusato, forse a torto, di complottare con i barbari d'oltre il Danubio a danno di Costantino, Licinio veniva messo a morte. La stessa sorte subiva il generale Martiniano, creato Cesare durante la guerra, e Costantino diventava padrone di tutto l'impero romano che la sua scaltra politica e il suo talento militare avevano unificato.

IL GOVERNO DI COSTANTINO

La vittoria di Costantino su Licinio si può considerare come una vittoria del Cristianesimo sul paganesimo; ma il Cristianesimo, vittorioso per virtù propria e per merito dell' imperatore, attraversava una crisi pericolosissima che minacciava di intaccarne l'unità e la forza.
Un prete alessandrino, ARIO, volendo indagare sulla natura di Cristo, aveva sostenuto che non poteva esserci identità tra le persone della Trinità. Secondo lui soltanto il Padre, cioè il Dio unico, era increato; questi, non della sua sostanza divina, ma dal nulla, aveva creato Cristo non dalla sua sostanza divina ma dal nulla, Cristo era la prima di tutte le creature, ma solo uno strumento del Padre e non eterno come lui.
Quell'eresia pericolosissima era stata aspramente combattuta da Alessandro, vescovo di Alessandria, il quale aveva scomunicato Ario (321), che si 'era poi rifugiato presso il vescovo Eusebio di Nicomedia. Quando Costantino si sbarazzò di Licinio, l'Arianesimo in Oriente si era largamente diffuso ed aveva dato luogo a violenze e disordini.
L'imperatore che aveva in cima ai suoi pensieri l'armonia dei sudditi, intervenne sperando di far cessare le discordie e indisse a Nicea un concilio di vescovi che tenne le sue sedute dal 19 giugno al 25 settembre del 325. Circa trecento vescovi, orientali la maggior parte, accorsero. Il concilio fu presieduto dal vescovo spagnolo Osio, segretario dell' imperatore, e proprio Costantino lo inaugurò con un breve discorso in cui invitava i presenti a trovar l'accordo e la concordia.
Il concilio, anche per le pressioni di Costantino, proclamò l' omousia (uguaglianza di natura) del Padre col Figlio, ma Ario rimase fermo nelle sue opinioni e il famoso concilio niceno che doveva dare l'unità dottrinale alla chiesa rappresentava l'inizio di una lotta senza quartiere che per secoli con la chiesa avrebbe dilaniato l'impero.

Nel 326 Costantino si recò a Roma a celebrarvi i suoi Vicennali; nello stesso anno però fece inorridire la vecchia metropoli per una fosca tragedia che per un momento parve rivivere Roma i tempi di Tiberio e di Nerone. Crispo, il vincitore di Abante e dei Franchi, mandato a Pola per ordine del padre, vi trovò la morte; molti importanti cittadini furono giustiziati o relegati, e fra questi ultimi Lattanzio, il famoso apologista del Cristianesimo; Liciniano, figlio di Costanza e Licinio, ebbe la stessa sorte di Crispo, e Fausta, figlia di Massimiano e seconda moglie dell' imperatore che aveva reso padre di tre figli, fu soffocata anche lei nel bagno. Insomma una strage in famiglia.

Il popolo disse che Fausta aveva accusato Crispo d'incesto e, scopertasi dopo l'innocenza di questo, era stata punita con la morte la fatale calunnia. Ma il racconto del popolo non può appagare la storia. Come spiegare difatti la morte del giovanissimo Liciniano? Forse solo politico fu il movente della tragedia. Se Prisco (e questo era già accaduto fra padre e figlio ai tempi di Massimiano) abbia tentato o no di mettersi contro il padre, alla testa dei malcontenti di Roma, i quali rimproveravano a Costantino la politica filo-cristiana e il fermo proposito di trasportar la capitale a Bisanzio, non lo sappiamo con cetezza. Qualche storico lo pensa, e può anche essere vero, ma tutto fa credere che sia stata Fausta, spinta dal desiderio di togliere ai suoi tre figli un rivale (Crispo, che era figlio della precedente moglie di Costantino) e un rivale potenziale (Liciniano), a far nascere nell'animo del marito sospetti verso il figliastro; sospetti, che, risultati infondati dopo la morte di Crispo, avrebbero esacerbato l'animo del padre sconvolto, a quel che si dice, anche quello della vecchia madre Elena che prediligeva quel nipote e non gli altri e che avrebbero provocata la fatale punizione di Fausta.

La casa di lei, la domus Faustae, che era appartenuta al Laterano, fu da Costantino donata al vescovo di Roma. Fin dalla vittoria su Licinio, Costantino aveva pensato di scegliersi una capitale. Roma non poteva essere la capitale dell' impero costantiniano: la città che era stata il centro del paganesimo non poteva (ma questo sono scritti posteriori cristiani) diventare pacificamente e senza pregiudizio della politica imperiale il centro operante del Cristianesimo.

Altri motivi, e non meno importanti, rendevano Roma inadatta come capitale: essa era troppo lontana dal Danubio e dalle frontiere d'Oriente, che rappresentavano i punti più minacciati dell' impero. Occorreva una città che fosse vicina al Danubio e non lontana dall'Eufrate, in una posizione forte da cui si potesse anche dominare il Mar Nero e tenere le chiavi del Mediterraneo. La scelta di Costantino era caduta su Bisanzio e fin dalla seconda metà del 326 si erano iniziati i lavori per fare di essa una capitale degna di un così grande impero.
La capitale nuova fu inaugurata 1' 11 maggio del 330 ed ebbe il nome ufficiale di Nuova Roma, ma comunemente fu chiamata Costantinopoli. Essa fu la capitale di un impero in cui Cristianesimo e Paganesimo vivevano accanto e il principe, pur rimanendo sempre devoto al dio Sole, adottava come insegna la Croce. La sua ibrida fisionomia cristiano-pagana si leggeva chiaramente nei monumenti: templi pagani, quali quelli a Cibele e alla Fortuna di Roma, e chiese come quelle dedicate agli Apostoli e a Santa Irene, statue a Castoro e a Polluce e la statua alla equivoca divinità cui era devoto Costantino, cioè al Sole Invitto, una immagine che fece sormontare dalla Croce (così accontentava gli uni e gli altri).

Al pari di Roma, Costantinopoli, che sorgeva su sette colli, fu divisa in quattordici regioni, ebbe un Campidoglio, un Palatino, la Curia, il miliare aureo, il Foro, la via Sacra, chiamata trionfale, circhi e teatri, ebbe il diritto italico e le distribuzioni gratuite di grano, vino ed olio che, con le facilitazioni concesse agli immigranti, affollarono la città di plebei oziosi e corrotti.
Costantinopoli fu la capitale di un impero edificato a monarchia assoluta come Diocle-ziano aveva voluto, ma con successione ereditaria. Infatti Cesare era stato Prisco e Cesari erano i tre figli avuti da Fausta. 
L'ordinamento civile e militare dell' impero rimase in parte quello di Diocleziano, in parte fu modificato o sviluppato secondo le necessità dinastiche o gli scopi di difesa esterna (barbari) e interna (pronunciamenti).
Sotto Costantino le gerarchie sono numerose e ben definite e tutte fanno capo all'imperatore e sono strumento del suo assolutismo. Alla testa dell' impero è il principe di investitura divina, che i sudditi adorano; immediatamente dopo di lui vengono i suoi consiglieri, i sette mèmbri del concistorium imperiale: il praefectus sacri cubìculi, specie di direttore del servizio privato del principe, il quaestor sacri Palatii che prepara e controfirma le leggi, il magister officiorum, ministro della casa imperiale, che dirige il personale della reggia e gli impiegati dell'amministrazione centrale, il comes sacrarum largitionum, ministro delle finanze dello stato, il comes rerum privatarum, amministratore del patrimonio privato dell' imperatore e i comites domesticorum equitum et peditum, comandanti della guardia d'onore.

Dopo il concistorium, alle cui sedute sovente partecipano, stanno i quattro prefetti del pretorio. Essi non hanno più poteri militari, ma esercitano il potere civile e giudiziario, ciascuno nella propria prefettura. Quattro sono le prefetture: quella d'Oriente con capoluogo Costantinopoli, che comprende cinque diocesi e quarantasei province, quella dell' Illirico con capoluogo Sirmio, comprendente la Pannonia, la Dacia, la Macedonia e la Grecia, undici privince raggruppate in due diocesi, quella dell' Italia — quattro diocesi e quaranta province — formata, oltre che dall'Italia, dalla Rezia, dalle isole mediterranee e dai territori africani tra la Pentapoli Libica e la Mauritania Tingitana, con Milano per capoluogo, e infine la Gallia — tre diocesi e ventinove province con sede del governo a Treveri — comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia.
Dai prefetti del pretorio dipendono i vicarii delle diocesi e i praesides o consulares o correctores delle province.
Capo supremo dell'esercito è l'imperatore. Sotto di lui stanno quattro magistri militum, ciascuno dei quali ha il comando militare di una prefettura e ai suoi ordini un magister equitum e un magister peditum e un certo numero di duces.

Se l'ordinamento civile è tale da recar vantaggi all'impero, infelice è invece quello militare. Per impedire o reprimere più facilmente le sedizioni Costantino riduce a millecinquecento uomini gli effettivi della legione, indebolendone così l'organismo; crede di semplificare i servizi e di dar maggiore autonomia alle varie armi separando il comando della cavalleria da quello della fanteria e quello tattico da quello logistico e invece toglie organicità e snellezza all'esercito. 
Questo è diviso in tre ordini di milizie: milizie palatine (domestici, protectores, scolares), che comprendono un quinto o un sesto di tutti gli effettivi, ricevono una paga maggiore, poltriscono nei capoluoghi delle province e seguono l'imperatore nelle spedizioni più importanti; milizie di linea (comitatenses) che rappresentano la parte migliore dell'esercito, ma sono acquartierate nei piccoli centri dell' interno, dove perdono il loro spirito militare; e da ultimo milizie di confine (riparienses o limitanei), con paghe minori e ferme più lunghe, scaglionate lungo le frontiere.

Il governo di Costantino non fu migliore né peggiore di quello di parecchi altri imperatori: molti atti propri di un governo assoluto, di cui lo accusano gli storici, gli furono imposti dalle difficili condizioni in cui versava l'impero, altri atti, buoni, furono più che un merito suo, una conseguenza dell'evoluzione sociale. Egli difatti fu costretto da un canto ad usare odiose coercizioni per assicurare la riscossione delle imposte e il funzionamento dei servizi pubblici e ad accrescere certe imposte per far fronte alle enormi spese richieste dall'aumentato numero dei funzionari e delle truppe, dall'altro seguì, nei provvedimenti legislativi, l'indirizzo dei tempi e forse il consiglio dei non pochi cristiani che erano alla sua corte.

Sotto due aspetti Costantino è degno d'elogio: egli volle che alla giustizia non si facessero infrazioni e cercò di risanare la circolazione monetaria. Ma sia per l'una che per l'altra cosa bisogna  lodarlo solo per la buona volontà che ci ha messo più che per i risultati conseguiti: non mancarono sotto di lui gli abusi dei funzionari dell'amministrazione provinciale, né le cattive monete scomparvero, malgrado la coniazione di alcuni nuovi tipi di buone monete quali i solidi, i miliarensi e le silique.

Nel 322, richiesto di aiuti dai Sarmati, che erano in guerra coi Goti, Costantino mandò contro questi ultimi il figliolo dello stesso nome, che sconfisse i barbari e ricevette in ostaggio il figlio del re Ariarico. Più tardi i Sarmati, scacciati dalla popolazione del paese da loro occupato, ebbero buona accoglienza nel territorio dell' impero e in numero -si narra- di trecentomila furono distribuiti come coloni nella Pannonia, nella Tracia, nella Macedonia e anche in Italia (334).

L'anno 335 segna il fallimento della politica di Costantino.
Egli che tanto aveva lottato per unificare sotto di sé l'impero, ricostituì la tetrarchia, dividendo i territori dell'impero fra i membri della sua famiglia. Tre figlii gli aveva dato Fausta: 
COSTANTINO, COSTANZO e COSTANTE. Al primo diede le Gallie, la Spagna e la Britannia, al secondo le province asiatiche e l'Egitto, al terzo l'Italia, l'Illirico e l'Africa. 
A Dalmazio, figlio del fratello, nominato Cesare in questo anno per avere repressa in Cipro una sedizione capitanata da un certo Calogero, assegnò la Tracia, la Macedonia e l'Acaia.
Ma attenzione a questi tre fratelli, fra di loro c'e' già il tarlo dell'onnipotenza. Ognuno di loro vuole imitare il padre, cioè diventare unico padrone assoluto dell'impero (cesaropapista). Ma non possedendone le qualità, le stanno aggirando iniziando a tramare congiure fra di loro. Ognuno pensa di far fuori l'altro. Li seguiremo nei prossimi anni.....

COSTANTINO E LA CHIESA - MORTE DI COSTANTINO

Costantino aveva fino allora favorito la chiesa cattolica contro i Donatisti e gli Ariani; ma l'Arianeaimo non aveva disarmato, anzi era riuscito a penetrare nella corte e a guadagnarsi il favore dell' imperatore. Costantino cercò di ridare unità alla chiesa conciliando Cattolici ed Ariani, ma trovò un grandissimo ostacolo nel battagliero Atanasio vescovo di Alessandria, che con la sua opposizione fece schierare questa volta Costantino dalla parte ariana, la quale diventò così potente che nel concilio di Tiro (335) fece condannare Atanasio. 
Era la vittoria dell'Arianesimo in Oriente e la sconfitta della politica religiosa (a dire il vero molto ambigua, opportunistica) di Costantino, il quale, anziché pacificare gli animi dei Cristiani, apriva, con il favorire la parte che proprio lui prima aveva avversata, un periodo di nuove e più aspre lotte in seno alla Chiesa.
 Al nuovo Concilio cioè le cose non cambiarono, anzi peggiorarono, infatti Costantino piu' che ascoltare i sacrilegi e le eresie che venivano elencate e le dispute teologiche che si erano svolte già in un Concilio a Gerusalemme, ascoltò le accuse politiche rivolte ad Atanasio. Accuse che definivano Atanasio un perturbatore dello Stato. E questo gli bastava!
Costantino voleva la pace, l'unita' politica, il vasto consenso, e visto che Atanasio era un uomo di grande energia e passionalità tanto da sembrare un ribelle (e proprio per questo dopo Gerusalemme ormai contava a Costantinopoli poche simpatie nel numeroso partito teologico ariano che si era formato nel Palazzo) preferì non giudicare ma ascoltare le pesanti accuse di carattere politico che i vescovi rivolgevano ad Atanasio.
Non dimentichiamo che dei 300 vescovi che nel 325 a Nicea avevano condannato la dottrina di Ario, era rimasto solo Atanasio (ortodosso) sulle sue posizioni, mentre gli altri -tutti-  avevano fatto atto di apostasia e accettarono, rinnegando la sua tesi, pur di dar ragione all'imperatore.
A Costantino non era certo sfuggito il voltafaccia, ma lui era un uomo politico non di chiesa, e guardava ai numeri del consenso politico e non alla sostanza teologica. Infatti si lamento' proprio con Eusebio (ormai capo indiscusso degli Ariani) affermando che i vescovi e quindi anche i colleghi di Eusebio, avevano votato la sua tesi di condanna ad Atanasio "solo per piaggeria" e che delle tesi giuste o sbagliate che fossero non gli importava proprio niente a nessuno. (nel riportarci queste cose, Eusebio è forse onesto, ma un po' ipocrita. In tutto il libro ci parla del concilio di Nicea e del sinodo di Tiro senza mai nominare l'eretico Ario nè l'ortodosso Atanasio).

Di dispute ce ne saranno ancora e la Chiesa Orientale non riconoscerà mai il primato di Roma;  la prima si andrà distinguendosi sempre di più non solo nelle usanze e nelle forme di culto differenti, ma farà dilagare in Oriente, la cosiddetta CHIESA GRECA usata poi in occidente per indicare tutte le Chiese Orientali, fra cui la ORTODOSSA in senso stretto, la ABISSINIA, la NESTORIANA, la SIRIACA, la ARMENA, la COPTA. Tutte Chiese che si proclamarono poi tutte "Chiese ortodosse". Tutte nate perchè non tollerarono il "cesaropapismo" post-costantiniano .
Alla fine fra quella Cattolica e la Ortodossa conteremo 5 grandi correnti e 52 Chiese.

Sugli ultimi anni della sua vita Costantino preparava una grande guerra contro la Persia, di cui era re Shapur II. Questi aveva tolto dal trono dell'Armenia Tiridate, che nel 332 aveva abbracciato il Cristianesimo; l'imperatore, per tutta risposta, aveva dato l'Armenia al fratello di Dalmazio, Annibaliano, che era stato creato Re dei Re. Questi avvenimenti erano stati seguiti da una richiesta persiana che rappresentava la rottura definitiva dei rapporti tra il regno dei Sassanidi e l'impero: Shapur voleva le cinque provincie oltre il Tigri cadute sotto il vassallaggio romano al tempo di Diocleziano.
La guerra era inevitabile, ma Costantino, pur non essendo vecchio, era ammalato. Da Costantinopoli, dove aveva celebrata la Pasqua del 337, si era recato, per cura, a Drepano in Asia Minore. Aggravandosi il suo male, l'imperatore si mise sulla via del ritorno, ma non riuscì a rivedere la capitale nuova che doveva passare ai secoli col il suo nome : il 22 maggio di quell'anno morì ad Ancirona, nelle vicinanze di Nicomedia. Dicesi (ma lo scrive solo il suo panegirista Eusebio) che sul letto di morte ricevesse il battesimo.
Eusebio è solo lui a raccontarci queste cose, e nella stesura della sua Storia di Costantino, ci narra che giunta a questa sua ultima ora Costantino gli disse " bando alle ambiguità, battezzami ". Ma la sua storia è un panegirico a Costantino, quindi è da prendersi con beneficio di inventario.


Malgrado il suo interessato appoggio alla cristianità, pare che Costantino sia invece rimasto fedele, sino all'ultimo giorno al culto del dio Sole. Ma se la storia del battesimo narrataci da Eusebio la vogliamo credere vera, allora Costantino è morto eretico perchè Eusebio era vescovo della setta ariana.

Costantino perseguiva probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Le festività religiose più importanti del cristianesimo e della religione solare furono fatte coincidere. Il giorno natale del Sole e del dio Mitra, il 25 dicembre, divenne anche quello della nascita di Gesù. Le statue del dio Sole erano spesso adornate del simbolo della Croce, ma a Costantinopoli furono eretti anche dei templi pagani.
Probabilmente il progetto politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo trascendente ed aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante.

Nel 321 fu introdotta la settimana di sette giorni e fu decretato come giorno di riposo il dies Solis (il "giorno del Sole", che corrisponde alla nostra domenica ("giorno del Sole", e così si chiama ancora nelle lingue dell'alta Europa - Sontag).

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