YITZCHAK RABIN


UNA VITA IN GUERRA
PER CONQUISTARE LA PACE

di Marco Paganoni

"Sono stato un soldato per ventisette anni. Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere."

È la sera del 4 novembre 1995. La voce profonda del primo ministro e ministro della difesa israeliano YITZCHAK RABIN risuona nell’aria calda di Tel Aviv, davanti a una grande folla che si è radunata nella piazza dei Re d’Israele per sostenere la politica del governo e il processo di pace.

E aggiungeva: "La violenza corrode i fondamenti della democrazia israeliana. Bisogna condannarla, bisogna deplorarla, bisogna isolarla. Non è questa la strada dello Stato d'Israele. Questa manifestazione deve trasmettere al mondo il desiderio di pace del Popolo d'Israele"

Fra pochi minuti quella voce verrà messa a tacere per sempre da tre colpi di pistola sparati alla schiena da un giovane estremista ebreo di nome YIGAL AMIR.

Nel suo discorso Rabin spiega con poche, sintetiche parole il senso di un’intera politica, di una vera e propria svolta storica: "Ho sempre pensato – dice – che la maggioranza del nostro popolo vuole la pace ed è pronta ad assumersi dei rischi in nome della pace. Esistono dei nemici della pace, che tentano di colpirci. Ma noi oggi abbiamo trovato un partner per la pace anche tra i palestinesi. A loro chiederemo di fare la loro parte come noi faremo la nostra, per risolvere l’aspetto del conflitto arabo-israeliano più complesso, più lungo e più carico emotivamente, e cioè il conflitto israelo-palestinese".

Il vecchio generale israeliano, ora premio Nobel per la Pace, non è tipo da cerimonie. Anzi, si è fatto una fama di uomo dai modi tanto schivi e riservati da sconfinare spesso nella rudezza. Ma quella sera parla con calore e pronuncia parole quasi profetiche, destinate a restare scolpite nel cuore di milioni di persone: "Il cammino verso la pace è un cammino irto di difficoltà e di dolore. Per Israele, non c’è cammino che sia senza dolore. Ma il cammino della pace è sempre preferibile al cammino della guerra. Ve lo dico come uno che è stato soldato, che oggi è ministro della difesa e vede il dolore delle famiglie dei soldati".

Da soldato a campione della pace: una stupefacente metamorfosi o un paradossale atto di estrema coerenza? "Una volta ho visto Rabin al funerale di un soldato dopo l’attentato terrorista di Bit Lid del gennaio 1995" ha scritto Fiamma Nirenstein, corrispondente da Israele. "Mentre stava piegato dalla sofferenza, in mezzo alla folla, la madre del morto gli si rivoltò contro: ‘Perché, perché?’ La polizia, imbarazzata fra le lapidi e la folla piangente, cercava di frapporsi fra la gente e il primo ministro, ma Rabin al contrario seguiva la donna e cercava il suo sguardo, senza risponderle con le parole".
Non è difficile immaginare quali sentimenti agitassero lo statista israeliano in momenti come quello. Rabin stesso, parlando il 13 settembre 1993 alla Casa Bianca subito dopo la storica stretta di mano con Yasser Arafat, aveva esclamato: "Noi, i soldati tornati dalle battaglie segnate dal sangue; noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, che abbiamo seguito i loro funerali e che non riusciamo a guardare negli occhi i loro genitori; noi che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i propri figli, noi oggi diciamo con voce chiara e forte: basta lacrime e sangue, basta".

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NATO DA GENITORI PIONIERI -
Rabin era nato a Gerusalemme il 1 marzo 1922, cinque anni dopo la pubblicazione di quella Dichiarazione Balfour con la quale gli inglesi, prima, e la comunità internazionale, poi, avevano per la prima volta accettato l’idea che gli ebrei avessero diritto a un loro "focolare nazionale" in terra di Palestina. Era nato in una famiglia dell’aristocrazia laburista sionista, un’aristocrazia non del denaro o del possesso, ma un’élite di pionieri contraddistinta dallo spirito di sacrificio e di servizio. La madre, Rosa Cohen, era giunta dalla Russia dopo il 1917, sulla scorta della delusione per una rivoluzione in cui tanti ebrei avevano riposto speranze e che invece non aveva placato l’antisemitismo. Il suo primo lavoro, primo di una lunga vicenda di impegno politico e militante, era stato quello di piantare cedri ed eucalipti per bonificare le paludi di Galilea. Il padre, Nehemia Rubitzov, anche lui russo d’origine, era giunto in Palestina passando per gli Stati Uniti ed era impegnato come operaio, sindacalista, guardia armata.

Erano tempi molto duri: lavoro pesante, malaria, guerra. Quando sua madre muore, a 47 anni, Rabin sta studiando nella scuola agraria di Kadoorie, nella bassa Galilea. Malgrado l’impegno dei suoi genitori nelle attività di difesa, egli non ambiva a diventare un soldato. In situazioni più pacifiche avrebbe forse imboccato la strada scelta da sua sorella, quella del kibbutz. Ma negli ultimi anni Trenta Kadoorie era attorniata da villaggi arabi ostili che di frequente assaltavano la scuola. Gli stessi allievi erano chiamati a difenderla. Gli studi di Rabin vennero interrotti sempre più spesso da addestramenti e turni di guardia. All’ombra del monte Tabor, Rabin divenne soldato, gli piacesse o no. Negli anni a venire Rabin stesso avrebbe raccontato tante volte che da bambino il suo sogno era di diventare ingegnere idraulico, per dare acqua al suo arido paese, e che invece gli fu ben presto messo in mano un fucile: soldato per necessità, non per scelta.

UN’AMICIZIA FONDAMENTALE -
Il suo istruttore era Yigal Allon, un diplomato di Kadoorie nativo della Galilea, di quattro anni più vecchio di lui. Nel 1938, quando gli inglesi chiusero per sei mesi la scuola agraria, fu Yigal Allon, che poco dopo sarebbe diventato capo del Palmach (le unità d’élite dell’Haganà, la forza clandestina di autodifesa ebraica prima della fondazione dello Stato), a convincere Rabin a seguire un corso di addestramento intensivo presso il kibbutz Ginossar, sulle rive del lago di Tiberiade. Fu l’inizio di un sodalizio fra i due uomini destinato a durare tutta la vita e a segnare profondamente la storia dell’intero paese. Quasi quarant’anni più tardi, quando verrà chiamato a formare il suo primo governo (1974), Rabin vorrà Allon come suo ministro degli esteri. Quello stesso Yigal Allon che, nel frattempo, aveva informalmente formulato uno dei più articolati ed avanzati progetti di "compromesso territoriale" concepiti in Israele (noto appunto come "piano Allon"): il progetto che sostanzialmente sta alla base delle scelte politico-diplomatiche del Rabin degli anni Novanta e oggi, per quanto possa sembrare paradossale, a quelle dello stesso primo ministro Benjamin Netanyahu.

Quando la guerra scoppia in Europa e dilaga presto anche in Medio Oriente, il destino militare di Rabin è ormai segnato. Dopo aver conseguito il diploma di agraria nel 1940, le esigenze dell’Haganah lo distolgono completamente dagli studi. Nel 1941, incombendo la minaccia di un’invasione della Palestina britannica a partire dai territori siro-libanesi sotto il controllo della Francia di Pétain, le forze ebraiche del Palmach vengono mobilitate per combattere a fianco degli inglesi. La prima operazione di guerra cui prende parte Rabin avverrà oltre il confine libanese, sotto la guida di un giovane comandante del Palmach, Moshé Dayan. Si trattò di un’operazione notturna di sabotaggio dietro le linee nemiche relativamente semplice. "Una vicenda che di per sé non sarebbe passata alla storia – avrebbe ammesso lo stesso Rabin – se non fosse che, proprio in quell’azione, in uno scontro con i francesi di Vichy, Moshé Dayan perse un occhio".

CARRIERA FULMINEA -
Terminata la seconda guerra mondiale, quando apparve chiaro che la Gran Bretagna non aveva alcuna intenzione di far nascere lo stato ebraico più volte promesso, l’Haganah passò dalla cooperazione alla resistenza. Rabin intanto scalava rapidamente tutti i gradi del Palmach, da comandante di plotone a quello di battaglione e infine di brigata. Già nell’ottobre del 1945, mentre è ancora un ufficiale di basso rango, guida un reparto d’assalto a liberare dal campo di detenzione di Atlit, sulle rive del Mediterraneo, circa duecento immigranti ebrei sopravvissuti all’Olocausto che l’Inghilterra considerava "illegali" e come tali internava. È questo il periodo in cui Rabin inizia a essere circondato da una fama quasi leggendaria come comandante militare. Fama che ben presto raggiunge anche le autorità mandatarie. Nel giugno del 1946 viene arrestato dagli inglesi insieme a centinaia di leader ebrei in quello che diventerà famoso come il "sabato nero", e viene rinchiuso per sei mesi nel campo di detenzione britannico di Rafah.

Una volta rilasciato, Rabin viene nominato nell’ottobre del 1947 vice comandante del Palmach, sotto il diretto comando di Yigal Allon, proprio quando la situazione nel paese sta per precipitare. Il 29 novembre di quell’anno le Nazioni Unite approvano la risoluzione 181 che sancisce la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno arabo e uno ebraico. I sionisti accettano la risoluzione, gli arabi la rifiutano: è l’inizio, di fatto, della prima guerra arabo-israeliana, quella che tra gli ebrei verrà ricordata come la guerra d’indipendenza, e che si scatenerà in tutta la sua portata nel maggio successivo, quando l’ultimo soldato inglese lascia il paese e viene proclamata la nascita dello Stato d’Israele. Per tutto questo periodo Rabin sarà impegnato nella battaglia per Gerusalemme, la città che le Nazioni Unite avrebbero voluto porre sotto amministrazione internazionale ma che poi, in pratica, abbandonarono alle sorti della guerra.

DIFESA DI GERUSALEMME -
Le vicende famigliari e personali avevano portato Rabin a vivere fuori dalla sua città natale. E tuttavia egli sarebbe sempre rimasto orgoglioso della sua nascita a Gerusalemme ed essa, per una strana sorte, era destinata a incidere profondamente nella sua vita. Nel 1948 la parte ebraica di Gerusalemme è una città di novantamila abitanti assediati, bombardati, affamati e minacciati di distruzione. La strada che la unisce alla costa e a Tel Aviv si trasforma in una mortale trappola in cui cadono uno dopo l’altro i convogli coi rifornimenti. Rabin viene messo a capo della Brigata Harel che ha il compito di forzare il blocco: a soli 26 anni si trova sulle spalle la responsabilità di salvare la vita di decine i migliaia di persone e di difendere la città più cara alla storia ebraica. Lo farà, ma a caro prezzo. Un fatto che probabilmente lo segnerà per tutta la vita. Rabin deve lanciare ripetutamente i suoi uomini (che spesso sono giovanissimi immigrati, appena sbarcati dalle navi profughi giunte dall’Europa) contro le posizioni chiave sulla strada per Gerusalemme: il monastero trappista di Latrun, all’inizio della pianura; Bab-al-Wad, la gola d’imbocco della prima salita; Kastel, l’ex forte romano e crociato sulla sommità che domina la strada. A un certo punto Rabin si trova così a corto di uomini che deve mandare all’assalto un plotone di allievi sedicenni. Anni dopo, ancora pieno di rabbia e di amarezza, avrebbe scritto: "Le nostre autorità non avevano apprestato un numero sufficiente di armi della qualità necessaria, e i reparti combattenti non erano adeguatamente addestrati. Nessun altro popolo aveva affidato a così pochi e così male armati il compito di conquistare e salvaguardare la propria indipendenza". Più di duecento soldati della Harel persero la vita e seicento furono feriti. Alla fine della guerra, la parte occidentale della città era stata salvata e il controllo sulla strada assicurato. Ma l’antichissimo quartiere ebraico nella Città Vecchia era andato perduto, i commando del Palmach erano riusciti ad attestarsi appena fuori le mura ottomane, sul monte Sion, ma tutti gli abitanti del quartiere medioevale affacciato al Muro del Pianto erano stati espulsi e il quartiere stesso, con le sue artistiche sinagoghe, sarebbe stato sistematicamente distrutto dai soldati della Legione Araba transgiordana.

SFOLLATI ARABI: UN PROBLEMA -
Si può dunque immaginare con quale senso di personale rivincita, diciannove anni e due guerre più tardi, lo stesso Rabin sarebbe entrato nella Città Vecchia e si sarebbe recato al Muro del Pianto da capo di stato maggiore, dopo la riunificazione di Gerusalemme nell’ambito della guerra dei sei giorni del 1967. Ma Gerusalemme – e più esattamente, la necessità di garantire subito, a combattimenti ancora in corso, il collegamento tra Gerusalemme e il resto del paese – era destinata a segnare anche in un altro modo l’esperienza del soldato israeliano Yitzchak Rabin.

In generale, il dramma degli arabi di Palestina che lasciarono le proprie case per sfuggire ai combattimenti e che non poterono più fare ritorno perché alla fine della guerra non fece seguito la pace ma solo, e per decenni, una sorta di tregua armata, fu un fenomeno che le autorità israeliane non avevano né messo in conto né voluto. In alcuni casi anzi (come nella zona di Haifa) esse cercarono di arginarlo, ben sapendo che quella massa di sfollati, chiusi dai "fratelli" arabi nei campi profughi allestiti proprio nelle terre che sarebbero dovute diventare lo Stato palestinese (e che invece restarono per vent’anni sotto occupazione giordana ed egiziana) si sarebbero trasformati nella più formidabile arma contro Israele. Ma sulla strada per Gerusalemme la situazione era diversa. Troppo alto era il rischio che proprio Gerusalemme, nella quale viveva un sesto di tutta la popolazione ebraica palestinese dell’epoca, finisse di nuovo alla mercé del nemico; troppo pesanti i sacrifici fatti per forzare il blocco; troppo importante il controllo sullo stretto corridoio che la collegava al resto del paese. Dunque, se la popolazione araba abbandonava alcuni villaggi strategicamente collocati in quella zona, ciò non poteva che tornare a vantaggio della posizione israeliana. Fu così che le truppe israeliane procedettero all’espulsione di alcune decine di migliaia di arabi dalle cittadine di Lydda (oggi Lod) e Ramlah, instradandoli verso la zona occupata dai giordani, qualche miglio a est.

DUE POPOLI, UNA TRAGEDIA  -
"Non potevamo lasciarci alle spalle gente ostile e armata che poteva compromettere la sicurezza dei rifornimenti – scrisse Rabin nelle sue memorie – ma psicologicamente fu una delle azioni più dure che intraprendemmo". Non vi furono spargimenti di sangue, tutto si svolse senza resistenze. Ma si trattò ugualmente di un grave trauma che segnò, come in una tragedia greca collettiva, non solo i palestinesi che lo subirono ma anche molti soldati israeliani, compreso lo stesso Rabin. Scrive Shabtai Teveth, un giornalista che lo intervistò su questo episodio: "Rabin sapeva riconoscere la sofferenza. Da soldato, capiva la necessità dell’operazione. Ma vedeva la sofferenza e ne serbava il ricordo". La prima guerra arabo-israeliana doveva riservare al giovane Rabin altre importanti esperienze. Nelle sue ultime fasi, dopo alcune vane tregue estive (durante le quali Rabin trova il tempo di sposare Leah Schlosseberg, la donna che resterà al suo fianco fino al giorno della sua morte e che oggi ne custodisce la memoria in tutto il mondo), Rabin si trova a dirigere le operazioni sul fronte meridionale, contro le forze egiziane che pochi mesi prima erano penetrate nel deserto Negev, puntando su Tel Aviv. Alla fine del dicembre 1948 un suo reparto oltrepassa il confine e si spinge nel nord del Sinai, puntando alla cittadina costiera di El Arish. "Se El Arish fosse caduta nelle nostre mani – scrisse Rabin – l’esercito egiziano in tutta la Striscia di Gaza sarebbe rimasto tagliato fuori: tutta la successiva storia militare d’Israele sarebbe stata differente". Ma le cose dovevano andare diversamente. Ben Gurion, capo del governo israeliano, riteneva politicamente sbagliato che vi fossero soldati israeliani oltre confine alla fine della guerra, e ordinò il ritiro delle truppe dal Sinai. Racconta il generale Uzi Narkiss, suo compagno d’armi: "Fu Rabin, in una lunga, gelida notte di discussioni, che ci persuase a ubbidire agli ordini e a ritirarci. È il governo che deve decidere, ci disse". Anni dopo, da primo ministro, mentre negoziava la pace coi palestinesi, Rabin avrebbe ripetuto fino alla nausea lo stesso concetto: "Si decide a livello politico. L’esercito esegue".

GRANDE SUCCESSO MILITARE -
In quei lontani giorni nel Sinai, Rabin ebbe anche modo di incontrare un giovane ufficiale egiziano di un reparto circondato, per trattarne la resa. L’ufficiale volle sapere come gli israeliani fossero riusciti a cacciare dalla Palestina gli inglesi che restavano presenti, invece, in Egitto. Dopo aver ascoltato la risposta di Rabin, rifletté: "Sa, penso che noi egiziani stiamo combattendo il nemico sbagliato, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato".

Si chiamava Gamel Abd al-NASSER ed era paradossalmente destinato a ripetere, diciannove anni dopo, lo stesso errore che aveva così lucidamente diagnosticato quel giorno. Oggi Rabin è giustamente noto come il capo di stato maggiore israeliano che preparò e diresse il più straordinario successo militare della storia d’Israele: la distruzione a terra della forza aerea avversaria e la travolgente avanzata dei mezzi corazzati israeliani nella
guerra dei sei giorni del giugno 1967. Solo a posteriori è stata pienamente riconosciuta l’importanza del ruolo da lui svolto in quella vittoria. All’epoca molti elogi andarono a Moshé Dayan, che solo pochi giorni prima della guerra era stato nominato ministro della difesa. In realtà era stato Rabin che aveva plasmato la teoria strategica, sviluppato le tecniche di addestramento, introdotto i nuovi armamenti, riorganizzato al meglio le poche forze armate del paese memore delle situazioni impossibili che si era trovato a fronteggiare all’inizio della sua carriera militare.

Negli anni successivi alla guerra d’indipendenza, dopo essere stato tra i membri della delegazione che trattò gli accordi d’armistizio con gli Stati arabi a Rodi nel 1949, Rabin aveva percorso una brillante carriera nelle forze armate.

Nel 1950 il capo di stato maggiore Yigael Yadin (l’archeologo che più tardi porterà alla luce gli imponenti resti di Masada) lo mette a capo del dipartimento operativo. È il suo primo incarico entro lo stato maggiore. Rabin sente di aver la possibilità di correggere le gravi carenze organizzative di cui era stato testimone e si getta sul lavoro venti ore al giorno.

ONDATA DI IMMIGRATI EBREI -
Negli anni Cinquanta, oltre tutto, le forze armate israeliane sono gravate da altri compiti oltre a quelli militari: centinaia di migliaia di immigrati si riversano nel paese dall’Asia, dal nord Africa e dall’Europa. Vengono ospitati in affollate tendopoli, spesso prive di ogni servizio. L’esercito è l’unica struttura statale che può affrontare l’emergenza e Rabin ne ha la responsabilità. "La battaglia dei campi di transito – come la definì lui – verrà ricordata come una delle più belle vittorie del nostro esercito". Nel 1953 frequenta il Royal Staff College di Camberley, in Inghilterra. Un’esperienza formativa, ma all’inizio molto noiosa. "Per esempio – scrisse – dovetti elaborare i tempi per il trasporto di un’intera divisione; ma quando mai le nostre forze armate avevano avuto una formazione grande quanto una divisione?". A Camberley, Rabin incontra come compagno di corso un altro futuro capo di stato maggiore, il giordano Faez Maher. Molti anni (e guerre) più tardi, nel 1994, quando Rabin, come capo del governo, fece visita per la prima volta a re Hussein di Giordania, chiese notizie del vecchio amico. Nel giro di un’ora Maher arrivò a palazzo e l’incontro fra i due fu particolarmente commovente. Quando, nel 1995, Maher fu colpito da ictus, Rabin dispose personalmente per il suo ricovero nell’ospedale Hadassah di Gerusalemme.

Tornato da Camberley nel 1954, Rabin viene posto dal nuovo capo di stato maggiore Moshé Dayan a capo del settore addestramento. Successivamente, dal 1956 al 1959, comanda il settore settentrionale, dove impara a valutare l’importanza strategica delle alture del Golan, allora in mano ai siriani.

Nel 1961 viene nominato vice capo di stato maggiore. È il periodo in cui Rabin cerca di far passare l’idea che Israele dovesse affrancarsi dalle forniture di armi francesi, privilegiate dalla politica dell’allora vice ministro degli esteri Shimon Peres, per passare agli armamenti americani. Sarà il primo segno di una lunga vicenda di contrasti e rivalità fra i due leader del laburismo israeliano, destinati tuttavia a collaborare fino al punto di conseguire insieme, trentatré anni dopo, il premio Nobel per la Pace.

L’EGITTO PREPARA LA GUERRA -
Il primo gennaio 1964, a quarantun anni, Rabin diventa il settimo capo di stato maggiore delle forze armate israeliane. Quando Rabin assunse il comando, non si intravedevano minacce di guerra all’orizzonte. La Siria continuava a bersagliare i contadini israeliani in Galilea e cercava periodicamente di deviare le fonti idriche del paese, ma non sembrava intenzionata a imbarcarsi da sola in un’avventura militare. D’altra parte l’Egitto, il più temibile nemico d’Israele, era coinvolto in un conflitto interarabo nello Yemen. Ma Rabin era preoccupato per il fatto che l’Egitto stesse acquisendo ingenti e sofisticati armamenti dall’Unione Sovietica. Egli sapeva che, in una guerra futura, Israele avrebbe dovuto fronteggiare eserciti addestrati dai sovietici e dotati di grandi quantità di artiglieria, carri armati e aerei. Ed è verso questa eventualità che indirizzò i suoi sforzi.

Nei primi mesi del 1967 le schermaglie sul fronte settentrionale si intensificarono, ma ancora nei primi giorni di maggio nessuno sospettava che solo un mese separava Israele dalla sua più difficile prova militare. Tra l’11 e il 13 maggio i sovietici passarono all’Egitto informazioni fuorvianti su un movimento di truppe israeliane. La Siria, legata all’Egitto da un’alleanza militare, spinse sull’acceleratore delle provocazioni, spronando Nasser a raccogliere la sfida. Il 18 maggio il presidente egiziano ordinò che le truppe dell’Onu lasciassero il Sinai e il segretario generale U Thant si affrettò a eseguire. Nel giro di pochi giorni Israele vide le truppe egiziane uscire dallo Yemen e ammassarsi nel Sinai. Il 21 maggio sette divisioni egiziane erano già schierate sul confine, a poche decine di chilometri da Tel Aviv. Il 23 maggio Nasser ordinò il blocco navale degli stretti di Tiran, per strangolare i rifornimenti israeliani. Alla fine di maggio divenne chiaro che anche gli Stati Uniti del presidente Johnson non sarebbero realmente intervenuti, come promesso, per rompere l’accerchiamento d’Israele. La situazione precipitava rapidamente verso lo scontro, mentre nelle capitali arabe si inneggiava alla distruzione di Israele e si annunciavano "stragi mongole".

RABIN ANTICIPA: BLITZ MICIDIALE -
Gli israeliani si sentirono quanto mai soli davanti al proprio destino, e iniziarono a scavare trincee per le strade di Tel Aviv. Una pesante sensazione di fine imminente si impadronì del paese. E qui, ancora una volta, la vita di Rabin sembra correre in strabiliante parallelismo con quella della sua gente, quasi una metafora della vita stessa d’Israele. Sotto il peso di una decisione che i ministri dell’irresoluto Levi Eshkol tendevano a delegare alla valutazione dei militari (aspettare l’attacco arabo su posizioni praticamente indifendibili o correre il rischio di precederlo?), il capo di stato maggiore Rabin ebbe una sorta di crollo psico-fisico. Negli anni a venire si sarebbe scritto (e favoleggiato) molto su quella fatidica giornata del 24 maggio, quando Rabin scomparve per ventiquattro ore, lasciando ogni incombenza al suo vice Ezer Weizman (oggi presidente d’Israele). Resta il fatto che subito dopo, così come tutto il paese, anche Rabin si riprese e riprese in pugno la situazione, più che mai risoluto a vendere cara la pelle.

Sulla base delle sue valutazioni, il 4 giugno il governo decise per il colpo preventivo. Israele doveva fronteggiare un formidabile schieramento di forze e solo un colpo di genio avrebbe potuto garantirgli un vantaggio iniziale. Alle 7.45 del 5 giugno 1967 gli aerei israeliani decollarono e, volando raso terra, piombarono sugli aeroporti egiziani distruggendo aerei, piste, stazioni radar. Nel giro di tre ore l’aviazione nemica era stata distrutta in un’operazione che aveva costituito un azzardo assoluto: erano stati impiegati praticamente tutti i duecento aerei a disposizione di Israele, compresi quelli da addestramento. Ma il rischio fu compensato dal risultato: al termine della prima giornata di guerra le sorti delle forze egiziane erano già irrimediabilmente compromesse.

Due giorni dopo, rispondendo ai cannoneggiamenti della Legione Araba su Gerusalemme ovest, le truppe israeliane davano l’assalto alla Città Vecchia.

SOGNO COLTIVATO DA ANNI -
Esiste una foto che ritrae Yitzchak Rabin accanto a Moshé Dayan mentre raggiungono il Muro del Pianto, dove nessun ebreo aveva più potuto mettere piede da quando la città era rimasta divisa. "Nel 1948 eravamo stati costretti a lasciare Gerusalemme est nelle mani del nemico – ricordava Rabin –, questa volta non potevamo fallire. Mentre percorrevo le strade che ricordavo dalla mia infanzia, venivo investito da pungenti ricordi. Per anni avevo coltivato in segreto un sogno: quello di poter avere una parte non solo nella conquista dell’indipendenza d’Israele, ma anche nella restituzione al popolo ebraico del Muro Occidentale. Sapevo che mai più nella mia vita avrei provato una simile sensazione".

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La vittoria, tuttavia, non diede alla testa a un uomo come Rabin. Egli non perse mai di vista lo scopo fondamentale di tutte le operazioni belliche d’Israele: difendersi e creare le condizioni per arrivare alla pace. Cessati i combattimenti, Rabin dichiarò subito che Israele doveva far valere la supremazia militare così potentemente affermata sul campo per barattare da posizioni di forza una pace duratura in cambio di una parte dei territori appena conquistati. "Quella piccola nazione di sopravvissuti ai millenni di persecuzioni, fino all’Olocausto nazista – ha scritto Arrigo Levi – non poteva accettare di farsi distruggere: doveva salvare a ogni costo quella terra e quello Stato che avevano restituito al popolo ebraico il rispetto degli altri popoli e il controllo sul proprio destino. Ma la terra non acquistò mai, per i vecchi sionisti come Rabin, un valore mistico e assoluto, non divenne mai un feticcio. Essi non dimenticarono mai che per assicurare la sopravvivenza dello Stato d’Israele bisognava arrivare a fare la pace con il mondo arabo; e non cessarono mai di riconoscere che c’era un altro popolo su quella terra, con cui bisognava riconciliarsi. Non era e non poteva essere parte del sogno sionista, un sogno di liberazione, il dominio su un altro popolo". Anche i territori occupati nel corso delle guerre non acquistarono mai, agli occhi di Rabin, il valore assoluto di "un dono del Signore": erano utili come protezione per la sicurezza, ma rimasero sempre negoziabili in cambio di quella pace con i vicini arabi che i sionisti alla Rabin non smisero mai di perseguire. Ventotto anni dopo sarà proprio questo approccio, e la decisione di ritirare le forze israeliane da quei territori sulla base di un accordo coi palestinesi, ciò che scatenerà la furia del suo assassino. Per capire fino in fondo l’uomo Rabin, vale la pena rileggere le parole che pronuncia il 29 luglio 1967, quando riceve una laurea ad honorem dall’Università Ebraica di Gerusalemme.

RIFIUTO DEL TRIONFALISMO -
Non sono trascorsi neanche due mesi da quando le sue forze armate hanno letteralmente salvato Israele da un secondo Olocausto. Ma Rabin non si abbandona a nessun trionfalismo.

"Siamo qui – dice – grazie a una lotta che, benché ci sia stata imposta, si è trasformata in una vittoria che ha stupito il mondo. Tra i nostri combattenti riscontriamo sempre più spesso un fenomeno singolare. La loro gioia non è totale. Alcuni addirittura si astengono dalle celebrazioni. Chi ha combattuto sul fronte ha visto con i suoi occhi non solo l’aspetto glorioso della vittoria, ma anche il suo prezzo: i compagni caduti al suo fianco, sanguinanti. E so che anche il terribile prezzo pagato dai nostri nemici ha toccato il cuore di molti dei nostri uomini. Può darsi che il popolo ebraico non abbia mai imparato o non si sia mai abituato a gustare il trionfo della conquista e della vittoria. Perciò la accogliamo con sentimenti confusi e contrastanti".

Non sono le parole di un capopopolo carismatico. Ma sono parole che toccano le corde giuste nel cuore di molti israeliani. Rabin, a poco a poco, sta diventando il vero leader del suo paese. L’1 gennaio 1968, a quarantasei anni, Rabin smette la divisa. Come è consuetudine in Israele, si ritira dalla forze armate ancora giovane, all’apice della carriera. Viene nominato ambasciatore negli Stati Uniti dall’allora ministro degli esteri Golda Meir, carica che ricopre per cinque anni, proprio nel periodo in cui vengono gettate le basi della solida alleanza tra Israele e Stati Uniti. Cinque anni più tardi, scaduti i termini della missione, rientra in patria e trova una situazione completamente cambiata. Dopo lo shock della guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), si è aperto un dibattito lacerante nell’opinione pubblica israeliana.

DALL’ESERCITO AL PARLAMENTO -
Tutta la vecchia leadership politica, da Moshé Dayan a Golda Meir, è chiamata a rispondere, a torto o a ragione, di quanto è accaduto e dei rischi scongiurati solo all’ultimo momento. Il partito laburista ha bisogno di portare alla ribalta facce nuove. Nelle elezioni del dicembre 1973 Rabin viene eletto alla Knesset (parlamento) e quando Golda Meir forma il suo ultimo governo, nell’aprile 1974, Rabin viene chiamato a ricoprire la carica di ministro del lavoro. In giugno, quando la vecchia Golda passa il testimone, la poltrona di primo ministro tocca a lui. A 52 anni Rabin diventa così il premier più giovane della storia d’Israele. Ed è il primo di essi che possa fregiarsi dell’appellativo di sabre, il nomignolo orgogliosamente portato dagli ebrei nati in terra d’Israele. Il primo governo presieduto da Rabin durerà tre anni durante in quali vengono conseguiti alcuni importanti risultati. Rabin si dedica al rilancio dell’economia e al rafforzamento delle forze armate, due settori particolarmente provati dal tremendo sforzo fatto nella guerra dello Yom Kippur.

Sul fronte diplomatico, sfruttando a fondo i buoni rapporti instaurati con gli Stati Uniti e la serrata opera di mediazione del segretario di stato Henry Kissinger, il governo Rabin giunge alla firma dei primi accordi di disimpegno tra Israele, Egitto e Siria (1974), seguiti da veri e propri accordi ad interim siglati con l’Egitto nel 1975 e, più tardi, dal primo memorandum d’intesa fra i governi di Gerusalemme e del Cairo. Vengono così gettate le basi politiche e diplomatiche che daranno pienamente i loro frutti pochi anni più tardi, con le trattative di Camp David, nel 1978, e il trattato di pace fra l’Egitto di Anwar el Sadat e l’Israele di Menachem Begin, nel 1979: primo, storico caso di pace ufficiale tra Israele e un paese arabo. Rabin stesso aveva scritto: "L’accordo con l’Egitto del 1975 non fu mai inteso come un punto di arrivo. Posso solo sperare che la prossima conquista su questa via abbia successo e sia duratura".

INCONTRI SEGRETI PER LA PACE -
Rabin non si limitò a sperare. Oggi si sa che in quegli anni organizzò una serie di incontri segreti con vari leader arabi, in primo luogo con re Hussein di Giordania che incontrò più volte, in varie località del deserto che si stende fra i due paesi. I due uomini, che si erano fieramente combattuti in tante occasioni, impararono a conoscersi e a stimarsi. Si sviluppò in quegli anni un’autentica amicizia che si sarebbe svelata solo vent’anni più tardi, nel 1994, quando Rabin e re Hussein poterono abbracciarsi pubblicamente per la firma del trattato di pace tra Israele e Giordania (il secondo tra Israele e uno stato arabo dopo quello con l’Egitto), e che un anno dopo avrebbe commosso il mondo con le lacrime di re Hussein a Gerusalemme, davanti al feretro dell’amico assassinato

Nei primi mesi del 1977, Rabin si recò persino in Marocco, camuffato con barba e baffi finti, per incontrare re Hassan II e valutare la possibilità che egli facesse da tramite nella trattativa con l’Egitto. Anche questo fu un viaggio fruttuoso, e il successivo governo di Begin poté contare sui buoni uffici del monarca marocchino per fare il grande passo verso la pace con l’Egitto. Ma il primo governo Rabin non conobbe solo successi diplomatici. La guerra continuava, in particolare sotto forma di attacchi terroristici. E Rabin, quasi fosse un tratto del suo destino, si trovò nuovamente nella necessità di prendere fatali e rischiosissime decisioni militari. Il 4 luglio 1976 toccò a lui, come capo del governo, dare l’ultimo okey alla decisione di lanciarsi nella temeraria operazione di salvataggio di 104 ostaggi ebrei trattenuti all’aeroporto ugandese di Entebbe da un commando di terroristi arabi e tedeschi in combutta con le autorità locali. "Signori – disse Rabin ai suoi più stretti collaboratori – se l’operazione fallisce, domani si sarà un altro primo ministro". Ma l’operazione non fallì. Gli ostaggi furono salvati, gli aerei tornarono sani e salvi alle basi. L’unica vittima israeliana fu il comandante del commando, Yonatan Netanyahu (fratello maggiore dell’attuale primo ministro).

UNO SPIACEVOLE INCIDENTE -
La popolarità di Rabin saliva alle stelle. In quel momento nessuno avrebbe detto che, dopo meno di un anno, nell’aprile 1977, Rabin avrebbe dato le dimissioni. Ma accadde che uno scoop giornalistico svelò l’esistenza di due conti correnti (per un totale di duemila dollari!) che Leah Rabin aveva mantenuto su una banca americana sin dai tempi in cui il marito era stato ambasciatore a Washington. Per le rigide regole di allora in materia di valuta, si trattava di un reato. Ne seguì una breve inchiesta dalla quale non emerse nulla contro lo stesso Rabin. E tuttavia egli non volle dissociare la propria posizione da quella della moglie e fu irremovibile nella decisione di ritirarsi e lasciare a Shimon Peres il compito di guidare il partito laburista alle elezioni anticipate. "Non volle ascoltare consigli, asserendo che si trattava di un errore umano", spiega il suo collaboratore Dan Pattir.

"In effetti, restando al fianco di Leah, condividendo con lei il peso delle critiche, Rabin aveva fatto quello che fa un comandante militare che non abbandona sul campo di battaglia i soldati feriti". Un mese dopo, un milione e ottocentomila israeliani andarono alle urne sancendo il ribaltone storico e l’ascesa al governo del Likud di Menachem Begin. Anche se a quel tempo non lo sapeva, le dimissioni di Rabin nel 1977 furono determinanti nel senso che segnarono l’inizio di una lunga marcia che doveva riportarlo all’apice del potere. Le modalità delle sue dimissioni, l’aver preso lui l’iniziativa, l’essere rimasto a fianco della moglie, l’aver insistito sulla necessità che il primo ministro fosse al di sopra di ogni sospetto, tutto ciò gli procurò vaste simpatie fra l’opinione pubblica. I più erano inclini a considerare la sua colpa più una svista che una trasgressione morale. Comunque sia, nell’immediato Rabin si trovò a giocare semplicemente il ruolo di esponente dell’opposizione parlamentare. I sette anni che seguono sono per lui anni senza cariche pubbliche.

ESPLODE L’INTIFADA -
Il suo momento si ripresenta nel settembre 1984 quando, dopo mesi di stallo, i due blocchi – laburisti e Likud – formano il primo governo di unità nazionale. Israele è in un momento difficile. Due anni prima le sue forze armate erano penetrate profondamente in Libano allo scopo dichiarato di eliminare la presenza militare dell’Olp e assicurare tranquillità sul martoriato confine settentrionale. Ma l’avanzata era arrivata fino a Beirut, nella speranza di mutare definitivamente gli equilibri politici nel paese vicino. E nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, proprio mentre erano presenti le truppe israeliane, si era consumato l’ennesimo massacro libanese, in questo caso ad opera delle milizie cristiane. Anche sul versante dell’economia, la situazione era pessima, con l’inflazione annuale che era arrivata a toccare punte del 500%. Nei governi di unità nazionale (1984-88 e 1988-90) Rabin ricopre l’incarico di ministro della difesa.

Fin dal gennaio 1985 si adopera per organizzare il ritiro delle forze israeliane dal Libano meridionale (che verrà completato nel giugno dello stesso anno). Per cercare comunque di garantire un margine di sicurezza agli abitanti della Galilea, ora che in Libano si sono attestate formazioni integraliste filo-iraniane, Rabin crea la cosiddetta "fascia di sicurezza": una striscia di territorio libanese a ridosso del confine israeliano tuttora pattugliata dalle forze israeliane insieme ai loro alleati sud-libanesi. Nel dicembre 1987, quando esplode l’intifada, è Rabin il ministro della difesa che si trova a doverla affrontare, cercando di adattare il più rapidamente possibile i mezzi e i metodi di un esercito che è preparato al combattimento e che deve affrontare compiti di polizia e di ordine pubblico. Gli anni della rivolta palestinese nei territori (1988-1990) furono un periodo, soprattutto inizialmente, di confusione, di calcoli sbagliati, di tentativi ed errori. Rabin, pur convinto dell’importanza strategica dei territori occupati, non pensò mai che li si dovesse tenere tutti e per sempre (cosa che lo metteva in rotta di collisione con le espressioni più estreme del nazionalismo religioso ebraico, sviluppatosi a partire dagli anni Settanta).

REALISTA E PRAGMATICO -
Né dimenticò mai che quei territori erano abitati. Ma, come la maggior parte dei suoi connazionali, aveva anche ben chiaro quale fosse il compito delle forze armate, e cioè quello di fare tutto ciò che è necessario perché il governo possa prendere liberamente le decisioni politiche che crede, senza dover sottostare alle minacce e alla violenza. In verità, nel periodo iniziale dell’intifada né gli israeliani né i palestinesi erano in grado di comprendere davvero la portata degli avvenimenti. La protesta dei palestinesi stava conoscendo un salto di qualità la cui comprensione si affacciava molto lentamente ai responsabili sia d’Israele che dell’Olp. Per quanto riguarda Rabin, oggi si sa che in quegli anni (ma è una storia ancora da scoprire e da scrivere), oltre a cercare di ristabilire con ferma determinazione il controllo sui territori in rivolta, egli si dedicò a una serie di contatti riservati con i dirigenti palestinesi locali, nella convinzione che in ogni caso la questione palestinese avrebbe alla fine richiesto una soluzione di tipo politico. Non vi sono conferme, ma non è azzardato affermare che probabilmente già alla fine degli anni Ottanta ebbe i primi contatti, diretti e indiretti, con esponenti palestinesi come Sari Nusseibeh e Feisal Husseini.

Rabin era realista e pragmatico, e sapeva che i palestinesi locali avevano una cultura politica e interessi assai diversi da quelli che caratterizzavano i leader storici di stanza nel quartier generale dell’Olp a Tunisi. Ma sapeva anche che quelli non potevano muoversi senza l’appoggio di questi, e che dunque l’uscita dall’impasse andava cercata sui due piani contemporaneamente. Nel 1989 il governo israeliano presenta un piano di pace che prevede elezioni nei territori e un’autonomia allargata per un periodo transitorio, con un graduale ritiro israeliano dai maggiori centri a popolazione palestinese. Sono idee di Rabin fatte proprie dal primo ministro Yitzchak Shamir. Lo stesso Nusseibeh dirà poi d’essersi meravigliato nel constatare quante delle sue proposte fossero confluite nel "piano Shamir".

"MISTER SICUREZZA" -
Nel marzo del 1990, tuttavia, il governo di unità nazionale cade perché la componente laburista ritiene che Shamir non si stia realmente impegnando nell’attuazione del piano, peraltro respinto delle controparti, e i laburisti tornano (per due anni) all’opposizione. Ma a quel punto la situazione è cambiata: la rivolta di massa nei territori, dopo aver raggiunto il suo apice, ha ceduto il passo a una guerra di gruppuscoli che attaccano gli israeliani a mano armata e tende ad avvolgersi su se stessa in una spirale di violenze fratricide, mentre all’orizzonte si profila una nuova crisi inaspettata: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.

Nel frattempo, tuttavia, l’intifada aveva lasciato il segno: aveva trasformato il popolo palestinese in un vero protagonista, ancorché nemico, e in quanto tale aveva acquisito agli occhi di Rabin i requisiti potenziali per diventare un autentico interlocutore in una trattativa di pace. Nel febbraio 1992 per la prima volta il partito laburista israeliano seleziona i propri candidati attraverso un meccanismo di elezioni primarie "all’americana". Affrancato dagli angusti giochi di partito, Rabin vince la competizione interna ed è chiamato a guidare il partito nella campagna elettorale del giugno 1992. È la svolta. Forte dei suoi successi passati (tanto da meritarsi il soprannome di "Mister Sicurezza"), Rabin può permettersi di fare agli israeliani un ragionamento relativamente semplice: "La guerra del Golfo – dice – ha aperto uno spazio di opportunità per la pace in Medio Oriente. Ma questa possibilità non resterà aperta all’infinito. Il partito laburista farà il possibile per cogliere l’occasione, mentre il Likud quasi certamente la sprecherà". Il 23 giugno 1992 due milioni e seicentocinquantamila israeliani vanno alle urne. Il risultato è una netta vittoria dei laburisti, e a tutti appare chiaro che si tratta di un’affermazione personale del loro leader.

DI NUOVO PRIMO MINISTRO -
Il 13 luglio 1992 Rabin forma il venticinquesimo governo israeliano, assumendo la carica di primo ministro e ministro della difesa, e chiama agli esteri il suo vecchio compagno e rivale Shimon Peres. All’inizio i loro rapporti sono ancora tesi. Poi, con sorpresa di tutti, il binomio inizia a funzionare e i due si trovano a lavorare fianco a fianco come non erano mai riusciti a fare. Le loro grandi dispute sono ormai cosa del passato. Rabin ha settant’anni, Peres sessantanove. Hanno entrambi un’età in cui avere la preminenza conta meno di un risultato effettivo. Ed sono entrambi ossessionati da un’idea: fare la pace. "Rabin – ha scritto Hirsh Goodman, caporedattore del Jerusalem Report – fu per Israele l’uomo giusto al momento giusto. L’intifada era estinta.

L’Unione Sovietica, che per decenni aveva appoggiato i nemici più implacabili di Israele contribuendo a perpetuare il conflitto oltre ogni misura, si era dissolta. Il pericolo dell’Iraq era cessato in seguito alla guerra del Golfo. Le leadership arabe e palestinesi iniziavano a digerire l’idea che con Israele si dovesse trattare anziché scontrarsi. Come generale, Rabin era consapevole che i suoi soldati avevano sostanzialmente vinto la loro lunga guerra. Ma, a differenza di tanti altri leader, sapeva anche che la vittoria sarebbe stata vana se non fosse stata trasformata in un futuro migliore per Israele e per tutta la regione mediante trattative di pace: una pace ottenuta non da posizioni di debolezza, ma da posizioni di forza". Oggi sappiamo che i primi contatti riservati tra i negoziatori israeliani e quelli dell’Olp, svolti prevalentemente nella capitale norvegese, risalgono al dicembre 1992-gennaio 1993. Ma solo alla fine dell’agosto 1993, suscitando vivissima sorpresa in tutti gli ambienti internazionali, sarebbe stata resa pubblica la notizia che Israele e Olp avevano intrattenuto a Oslo negoziati diretti per otto mesi e che avevano raggiunto un accordo di massima sul graduale passaggio di poteri nei territori.

GRANDE VITTORIA POLITICA -
Per Rabin, la parte psicologicamente più ardua veniva adesso. Gli uomini con cui avrebbe dovuto firmare l’accordo erano gli stessi che aveva combattuto per una vita, gli stessi che portavano la responsabilità di alcuni dei più feroci attacchi terroristici contro Israele e il popolo ebraico. Rabin pretese una serie di impegni precisi: l’Olp avrebbe dovuto cessare ogni forma di terrorismo e riconoscere il diritto di Israele ad esistere come stato sovrano; avrebbe dovuto modificare la sua Carta fondamentale eliminando tutte le clausole che invocavano la distruzione d’Israele; avrebbe dovuto incitare tutti i palestinesi a rinunciare alla violenza e combattere quelli che rifiutavano di farlo.

Il 9 settembre 1993 Yasser Arafat firmava una lettera indirizzata a Rabin in cui venivano esplicitamente assunti tutti questi impegni. Il 10 settembre Rabin rispondeva ad Arafat con una lettera di due righe in cui, a nome di Israele, riconosceva l’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Il 13 settembre 1993, a Washington, sul prato della Casa Bianca, davanti agli occhi di tutti il mondo, i due uomini si incontravano e firmavano quella Dichiarazione di Principi israelo-palestinese che sta alla base di tutta la successiva sequenza di negoziati e accordi, tuttora in via di attuazione. Al termine della cerimonia Arafat, in divisa militare e keffiah, si mosse verso Rabin. Questi ebbe un attimo di esitazione. Poi, da soldato disciplinato, fece quel che doveva fare per la causa della pace. Prese la mano di Arafat e la strinse energicamente per un lungo attimo. Subito dopo si volse verso Peres e borbottò, con quel tanto di ironia cui poté fare appello: "Ora tocca a te". Quel passaggio, per Rabin, fu emotivamente molto difficile. In quel momento la sua mente non poteva liberarsi dalle immagini degli atleti uccisi alle Olimpiadi di Monaco, dei bambini massacrati negli asili, degli autobus saltati in aria, dell’abbraccio tra Arafat e Saddam Hussein mentre su Israele piovevano gli Scud iracheni.

DIFFICILE ABBRACCIO AD ARAFAT -
Ma razionalmente sapeva che quel riconoscimento reciproco, quella firma, quella stretta di mano erano proprio lo scopo per cui infinite volte nella sua vita aveva dovuto combattere e mandare a combattere. "La firma di questa Dichiarazione di principi – disse Rabin nel suo discorso in quell’occasione – non è facile né per me, come soldato, né per il popolo d’Israele e per il popolo ebraico, che ci stanno guardando in questo momento con grande speranza mista ad apprensione. Non è certo facile per le famiglie delle vittime della guerra, della violenza, del terrorismo, il cui dolore non passerà mai. Per le migliaia che hanno difeso le nostre vite anche a costo di sacrificare la propria. Per costoro, questa cerimonia è giunta troppo tardi. Oggi, alla vigilia di una opportunità di pace e, forse, della fine della violenza e delle guerre, noi ricordiamo tutti costoro uno per uno con amore imperituro. Siamo venuti da Gerusalemme, l’antica ed eterna capitale del popolo ebraico. Siamo venuti da una terra afflitta e addolorata".

"Siamo venuti da un popolo, da una casa, da una famiglia che non hanno conosciuto un solo anno, non un solo mese in cui le madri non abbiano pianto i propri figli. Siamo venuti per cercare di mettere fine alle ostilità, in modo che i nostri figli e i figli dei nostri figli non conoscano più il doloroso prezzo della guerra, della violenza, del terrore. Siamo venuti per tutelare le loro vite e per alleviare la sofferenza e le dolorose memorie del passato. Per sperare e pregare per la pace". La porta è aperta, il cammino tracciato. Un cammino senz’altro impervio, che avrebbe conosciuto (e ancora conoscerà) errori, sbandamenti, ritardi, battute d’arresto. Un cammino in salita, osteggiato da potenti forze ostili, schierate da tutte le parti, capaci di mietere vittime e spargere terrore, come nella moschea di Hebron o sugli autobus di Gerusalemme, fino al punto di far dubitare della possibilità stessa che il processo prosegua.

ACCORDO CON LA GIORDANIA -
Ma Rabin, ostinato come solo lui sapeva essere, ripete: "Continueremo il processo di pace come se non ci fosse il terrorismo e combatteremo il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace". E il processo va avanti. Il 5 maggio 1994, al Cairo, viene firmato un primo accordo pratico per l’autonomia di Gaza e Gerico. Il 13 maggio le forze israeliane sgomberano da Gerico. Il 17 dalla Striscia di Gaza. Il 25 luglio Giordania e Israele firmano un accordo di non-belligeranza. Il 3 agosto re Hussein sorvola Gerusalemme alla guida del suo jet privato e parla per radio con Rabin, mentre tutti gli israeliani applaudono commossi, col naso all’insù. Il 26 ottobre viene firmato il trattato di pace tra lo Stato d’Israele e il Regno Hashemita di Giordania. Intanto, a catena, giungono riconoscimenti e segnali di apertura da vari paesi della Lega Araba, come Marocco, Tunisia, Oman, Qatar e Bahrain. Il 30 dicembre 1993 anche la Santa Sede rompe gli indugi e riconosce ufficialmente lo Stato d’Israele.

Il 28 settembre 1995, due anni dopo la prima storica stretta di mano, i tre premi Nobel Rabin, Peres e Arafat sono di nuovo a Washington per la firma dell’Accordo ad interim israelo-palestinese, detto "Oslo Due", che garantisce ai palestinesi libere elezioni e l’autogoverno su tutte le principali città e zone abitate da palestinesi in Cisgiordania.

L’enorme elicottero color del fango si levò lentamente dalla verde collina della Knesset, a Gerusalemme, e puntò verso est. In basso il paesaggio mutò rapidamente dal brullo terreno lunare del deserto di Giudea, a una stretta vallata fertile percorsa dal fiume Giordano, e poi di nuovo al deserto spazzato dal vento. Subito dopo apparve il profilo di un’altra capitale mediorientale, costruita sulle colline, e l’elicottero dell’aviazione israeliana si accinse ad atterrare. Venti minuti dopo aver lascito Gerusalemme, Yitzchak Rabin scendeva sul terreno antistante il palazzo reale hashemita, subito fuori Amman, e veniva ricevuto con calore da re Hussein.

LA CONFERENZA DI AMMAN -
I due vecchi amici si godettero assieme una fumatina, prima di raggiungere i millequattrocento delegati alla Conferenza di Amman sull’Economia del Medio Oriente e del Nord Africa, la ragione della visita di Rabin. Era il 29 ottobre 1995. Il fatto stesso che quella conferenza si potesse tenere, in quel luogo e con quelle modalità indicavano con drammatica evidenza quanto il processo di pace, insieme al crollo dell’Urss, avesse portato tanta parte del mondo arabo a riconciliarsi con l’idea della legittima esistenza di Israele e a valorizzare la possibilità di intrattenere con esso proficui rapporti. Nel 1975, ben settantacinque paesi avevano votato a favore della vergognosa risoluzione Onu che equiparava il sionismo a una forma di razzismo. Nel 1991, quando venne convocata la conferenza di Madrid, erano 91 i paesi che avevano relazioni con Israele. Nel 1994 l’assemblea dell’Onu votò l’abrogazione di quella risoluzione. Alla fine del 1995 i paesi in rapporti diplomatici con Israele erano già diventati 155, compresi India e Cina. Quella domenica, pochi giorni prima d’essere assassinato, Rabin poteva guardarsi attorno dalle terrazze di Amman con un giusto senso di orgoglio.

Gran parte di quei successi erano opera sua. L’uomo che aveva sempre combattuto per la libertà d’Israele aveva saputo riversare le stesse energie nello sforzo di liberare Israele dal peso della guerra e dell’occupazione. Questo è ciò che ha fatto grande Rabin agli occhi del mondo, che ne ha fatto un gigante in vita e una perdita immensa nel momento della morte: la capacità che ebbe di declinare la stessa battaglia di libertà, prima nella difesa del paese dalla minaccia esterna, poi nella difesa del paese dalla guerra stessa e dai veleni di una protratta, non voluta occupazione su un altro popolo. I discorsi pubblici pronunciati da Rabin negli ultimi anni – complice il fatto che spesso si trattava di occasioni molto solenni, momenti davvero storici – sono pervasi da un profondo senso di necessità: la necessità politica e militare di combattere finché non si può fare altrimenti; la necessità etica di fare la pace appena se ne intravede la possibilità.

CENTO ANNI DI LUTTI -
Perché è intollerabile che altre sofferenze, altri lutti vengano imposti alle nuove generazioni. Il Rabin che parla sul prato della Casa Bianca pochi istanti prima di stringere la mano ad Arafat, che parla alla Knesset per presentare i diversi accordi via via sottoscritti con i palestinesi, o nel deserto di Aravah il giorno della pace con la Giordania; ma anche il Rabin che si rivolge alla nazione dopo l’ennesimo attentato contro un autobus israeliano non manca mai di ricordare, a sé e agli altri, che ogni vita umana stroncata dalla guerra è una perdita irreparabile, che i discorsi sulla pace e sulla guerra valgono poco se non trattano della vita e delle sofferenze delle singole persone. Quando, nel luglio 1994, gli fu consegnato il premio Unesco per la pace, Rabin parlò molto schiettamente:

"La pace è un concetto astratto – disse – e i governanti tendono a considerare solo gli elementi che formano il quadro generale. Per quanto mi riguarda, io cerco sempre di tradurre il concetto di pace nella vita della gente: uomini e donne in carne e ossa, con nomi e indirizzi. Talvolta, quando devo prendere una decisione, penso ad alcune persone in particolare e considero la vita che è capitata loro in sorte". Rabin ricordava con dolore tutti i giovani che aveva visto morire: "I nostri nonni, i nostri padri, noi, i nostri figli e persino i nostri nipoti, non abbiamo conosciuto praticamente altro che sangue e lutto e per cento anni questo sangue non ci ha dato tregua", disse il 4 maggio 1994 all’atto della firma dell’accordo su Gaza e Gerico. Ricordava, con visibile sofferenza, tutte le volte in cui aveva dovuto mandare dei giovani a morire. E a uccidere. "Il cuore si stringeva alla vista delle distruzioni e della morte. Anche noi momenti più amari sapevamo che le lacrime delle nostre madri non erano diverse dalle lacrime di tutte le madri".

L’ EREDITA’ MORALE E POLITICA -
Lo statista Rabin disposto a giocarsi tutto, anche la vita, pur di porre fine alla guerra illumina retrospettivamente il Rabin soldato e generale, che aveva sempre odiato la guerra, anche quando la combatteva e vinceva. E l’ebreo Rabin volle concludere il celebre discorso del 13 settembre 1993 alla Casa Bianca citando Qoèlet: "Per ogni cosa c’è una stagione e c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Oggi è arrivato il tempo per la pace". Ha scritto Hirsh Goodman: "L’eredità di Rabin non è morta con lui. Se il suo assassino Yigal Amir provò una certa soddisfazione, essa fu prematura. Il successore Benjamin Netanyahu, uomo del Likud, ha capito ben presto che la politica di Rabin aveva una sua logica inevitabile. Quando, il 4 settembre 1996, Netanyahu strinse per la prima volta la mano al presidente dell’Autorità palestinese Arafat, il fatto simboleggiò il riconoscimento che Rabin aveva avuto ragione".

(IYZHAK RABIN, è stato assassinato il 4 novembre 1995,
mentre partecipava a un raduno pacifista a Tel Aviv. Aveva 73 anni)

 

di Marco Paganoni

Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente) 
il direttore di Storia in Net


Un'altra biografia di
Di Giacomo Franciosi


Yitzchak Rabin (1922 – 1995)

Il falco che divenne colomba


Yitzchak Rabin nasce a Gerusalemme il primo marzo del 1922 da famiglia di accesi sionisti-laburisti, i suoi studi si svolgono presso la scuola agraria di Kadoorie in Palestina, terminati i quali entra nelle unita scelte della Palmach gruppo operativo d’assalto facente riferimento all’Haganah, quell’organizzazione sionista nata coi primi insediamenti di coloni in Palestina con lo scopo di proteggere gli stessi con guardie armate (Ha – Shomer), e che susseguentemente divenne un vero e proprio esercito clandestino a difesa dei possedimenti ebraici, milizia operaia, ugualitaria, volontaria, che con la nascita dello stato d’Israele (14 maggio 1948) venne sdoganata quale esercito regolare, e che si distinse immediatamente con la vittoria nella prima guerra arabo-israeliana o d’indipendenza per Israele.

Rabin prese parte da subito, quale rappresentante del suo paese alle trattative che condussero ad armistizi separati nel corso dell’anno 1949.

La sua ascesa nella gerarchia militare è cosa presto fatta, nel 1954 viene promosso al grado di generale maggiore, e fonda la dottrina di addestramento e di comando dell'esercito che verrà conosciuta con l'ordine "seguitemi".
Dal 1956 al 1960 è comandante del fronte settentrionale e vice-capo di stato maggiore (nel 1956 la seconda guerra arabo-israeliana), nel 1962 diviene capo di stato maggiore e promosso a tenente generale, il più alto grado ricopribile nell'esercito israeliano.
La tattica di combattimento basata sul movimento e sulla sorpresa che si impegna a sviluppare, trova applicazione durante la guerra dei sei giorni nel 1967 (terza guerra arabo-israeliana), strategia che abilmente orchestra coadiuvato dal ministro della difesa Moshe Dayan.

La vittoria militare riportata sulle forze arabe, rende Rabin smisuratamente apprezzato, tra i giorni che precedettero la scelta di attacco cautelativo delle forze israeliane vi è il cosiddetto giorno della depressione (24 ore nella quali lo stesso Rabin si rese totalmente irreperibile, ore di meditazione sul come agire, che precedettero la scelta del vittorioso attacco).

Al suo abbandono dell’esercito dopo 26 anni di servizio, seguì la scelta dell’ingresso nella diplomazia, diviene ambasciatore negli Stati Uniti dal 1968 al 1973, in questi anni intensifica i rapporti cooperativi tra Washington e Tel Aviv con sostegno militare ed economico.

Nel 1973 rientra in patria, ed entra alla Knesset (parlamento) nelle fila del partito laburista, ottiene subito un incarico governativo, ministro del lavoro nel governo di Golda Meir, nel 1974 le dimissioni della stessa Meir gli permettono il 2 giugno con la fiducia del parlamento di divenire primo ministro, Yitzhak Rabin è il primo capo di governo nato sul territorio del proprio stato.
Sviluppa una politica interna che si concreta in un rafforzamento dell’esercito, sull’economia, sul disagio sociale, in politica estera ribadisce i saldi e sodali rapporti con gli Stati Uniti d’America, da avvio ai primi accordi di disimpegno con Egitto e Siria, accordi cui seguirà nel 1979 il trattato di pace tra Israele ed Egitto.

Nel 1976 da seguito all’operazione Entebbe, con decine di commandos israeliani mobilitati per la liberazione di 104 ostaggi in un remoto aeroporto ugandese, ad Entebbe appunto, a parte l’equipaggio francese dell’aereo, tutti i passeggeri erano ebrei, israeliani e di altri paesi, rapiti in quanto ebrei da un commando palestinese.
Operazione conosciuta anche col nome di Yonatan dal nome del ten.col. Yonatan (Yoni) Netanyahu, che comandò l’incursione, ma ne pagò il successo con la vita.

Nel 1977 il governo Rabin cade con un voto di sfiducia, si va ad elezioni, Rabin viene riproposto quale candidato dal partito laburista, ma si scopre che la moglie Leah, in violazione alle leggi che regolano la circolazione monetaria, detiene un conto in una banca statunitense. Il clamore che segue la scoperta, lo spinge a dimettersi da leader del partito prima della tenuta delle elezioni, che saranno vinte dal leader dell'opposizione Menachem Begin (dal 1948 per la prima volta una formazione di destra (Likud) sale al potere).
Dal 1984 al 1990 ricopre il ruolo di ministro della difesa in 2 governi di coalizione (laburisti e likud) gestendo la difficile transizione dall’invasione del libano del 1982, e la prima intifada (la rivolta delle pietre) del dicembre 1987.

Nel 1990 il governo di coalizione cade, nel 1992 Rabin sottrae la presidenza del partito laburista a Shimon Peres, e vince le elezioni tornando a ricoprire la carica di primo ministro.
A questo punto inizia il vero negoziato col l’OLP di Yasser Arafat, leader del popolo palestinese. Il vecchio soldato deve confrontarsi con il suo nemico. Il riconoscimento fu reciproco: Arafat riconobbe il diritto all’esistenza dello stato d’Israele e si impegnò a interrompere ogni forma di terrorismo. Rabin, da parte sua, riconosceva, a nome di Israele, l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese.

E così, dopo otto mesi di trattative segrete ad Oslo, il 13 settembre 1993 con gli accordi di Camp David sotto l’abile regia del presidente americano Bill Clinton, tutto il mondo assisté alla celebre stretta di mano nel prato della Casa Bianca, a Washington. Un gesto che suggellava mille parole. E alle parole seguitarono i fatti: nel 1994 gli Israeliani si ritirano da Gerico e da Gaza.
Nello stesso anno viene firmato il trattato di pace tra Israele e la Giordania ( la stima tra Rabin e Hussein di Giordania era ventennale, ma non poteva essere pubblicamente resa nota).
Nel 1994 Rabin, Peres (in qualità di ministro degli esteri) ed Arafat vengono insigniti del Nobel per la pace.
In Israele l’estrema desta non digerisce compromessi di sorta, non desiste dal negare qualsiasi confronto coi palestinesi, e avvia una violenta campagna contro l’operato di Rabin, tacciato dei più volgari e squallidi epiteti.

Nel 1995 a conclusione di un comizio a Tel Aviv incentrato sulla necessità del dialogo e della coesistenza con gli arabi, Yitzhak Rabin viene assassinato da fuoco non palestinese, bensì ebreo, un giovane esagitato di estrema destra Ygal Amir, conclude mesi di ingiurie, e violenze, affogando tutto nel sangue.

Ai funerali di Rabin è presente la diplomazia di tutto il mondo, eccetto Yasser Arafat, la sua presenza fu sconsigliata per motivi di sicurezza ( si verrà a sapere che nella notte un Arafat camuffato e reso irriconoscibile renderà personalmente le proprie condoglianze alla vedova), sale sul palco a rendere il suo omaggio Re Hussein di Giordania, parole profonde le sue, toccanti, da brividi.
Yitzhak Rabin è stato un uomo di guerra, che ha combattuto ventisei anni fintanto che non si è palesata una possibilità di pace, è stato un uomo pronto, che si è assunto rischi per la pace.
Yitzhak Rabin è stato l’uomo che ha permesso di abbattere quella stupida ciarla secondo la quale il mondo si divide in guerrafondai ed in pacifisti, quella dicotomia propria del manicheismo secondo la quale un uomo di guerra non può divenire uomo di pace.

"Noi, i soldati tornati dalle battaglie segnate dal sangue; noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, che abbiamo seguito i loro funerali e che non riusciamo a guardare negli occhi i loro genitori; noi che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i propri figli, noi oggi diciamo con voce chiara e forte: basta lacrime e sangue, basta".

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