MA CAVOUR FU ASSASSINATO?

"Molti, all'intitolazione del nostro racconto, allargheranno gli occhi prorompendo in un: possibile!? Lettori, sí! Con Napoleone III in trono, il servile governo di Vittorio Emanuele II avrebbe fatto appiccare il gerente e i proti per offesa alle sovranità amiche e protettrici; ma adesso che Napoleone III è diventato un ricordo - adesso ch'egli è un privato e svergognato cittadinuzzo - adesso che la monarchia d'Italia ha riconosciuto la repubblica di Francia; - adesso siamo in diritto d'evocare dalla tomba di Santena l'ombra del gran ministro... Adesso noi solleviamo un lembo di quel lenzuolo funerario che copre le ceneri di tanti illustri spediti all'altro mondo da una testa coronata! Il lettore crederà un sogno il sentir parlare di avvelenamenti in pieno secolo XIX. No! i veleni non sono un esclusivo privilegio di casa Borgia, per torsi da piedi chi dà ombra! Cavour fu avvelenato; lo ripetiamo". 

Inizia con queste parole il libretto "Cavour avvelenato da Napoleone III" dal sottotitolo, si noti bene, "Documenti storici di un ingrato", pubblicato anonimo presso l'editore Domenico Cena di Torino nell'anno di grazia 1871. Il volumetto da noi reperito risulta essere la quarta edizione di una precedente stampa del 1870 effettuata presso la tipografia Bandiera dello Studente di Torino. 

A prima vista il contenuto del libretto parrebbe inverosimile. La tesi dell'avvelenamento, suffragata da tre documenti "storici", contrasta con tutta la tradizione storiografica italiota. Mai è stata infatti divulgata la tesi del Cavour ucciso, o meglio fatto avvelenare, da Napoleone III tramite "una giovane donna, d'un viso piacevole" moglie di un commissario di polizia (forse di Parigi), la quale, in cambio di un sostanzioso premio (500.000 lire), si sarebbe prestata allo "scellerato progetto". 


Costei si porta a Torino, riesce a diventare intrinseca dell'amante del Cavour, una certa Bianca Ronzani, bellissima valchiria prussiana separata dal marito, impresario teatrale fallito, del quale aveva assunto il cognome. Informatasi con molta cautela delle abitudini del Cavour, l'agente segreto in gonnella riesce - secondo l'Ingrato - a dare pratica attuazione al piano diabolico. In un momento di distrazione della Ronzani, intrise di veleno la "tazza di porcellana bianca filettata in oro" da cui il ministro piemontese sorbiva il suo caffè. "Cavour bevve, bevve... e non s'accorse che egli, col caffè, succhiava la morte" che lo rapí cinque giorni dopo. 

I DOCUMENTI STORICI 

L'anonimo "Ingrato" riporta anche tre dispacci ("i documenti storici" decodificati e tradotti) che l'avvelenatrice avrebbe trasmesso per il suo padrone Napoleone III.

Eccoli:

1) "Acquisto terreno - Non dispero piú - notificherete a lui una nuova strada apertami - E' fedelissima al conte Cavour la servitú che lo circonda - Tentarla sarebbe stato un compromettere il piano. Il ministro italiano è ritiratissimo e viene, può dirsi ingolfato giorno e notte nei molteplici ed infiniti suoi affari - la sera dopo il pranzo, lavora - dopo va in via Nuova (alcune volte in vettura ed altre volte a piedi) da certa signora Bianca, prussiana, della quale, se non è innamorato, è certamente affezionatissimo - » col mezzo di lei che riuscirò nello scopo - Ho preso in affitto un alloggio sullo stesso piano di lei - Procuro di trovarmela di fronte quando ella discende le scale - Prima con impercettibile segno del capo, dopo piú spiccatamente cominciai a salutarla. - Ella mi corrisponde il saluto. Presto vi darò altri ragguagli. M.S.". Per essere il messaggio di un agente segreto, questo rapporto ci sembra poco ortodosso. 

Diventata amica della Ronzani, la francese invia un secondo rapporto:

2) "Le cose sono a buon punto - Quasi giornalmente sono nella casa di lei - Si mostra molto affezionata a me - Il ministro italiano continua a recarsi da lei tutte le sere - Vi resta per parecchie ore - Egli è all'oscuro della mia relazione colla signora Bianca - Mi sono informata delle abitudini del conte - Seppi ch'egli prima di lasciare quella casa beve una tazza di caffè - Pare che il caso favorisca i miei disegni - Il conte ha un'apposita tazza di capacità maggiore a quelle comuni - A cosa fatta vi comunicherò il resto. Torino, 22 maggio 1861".

Ed infine il terzo messaggio a cose fatte:

3): "Tra due ore avrò lasciata Torino. Il mio compito è finito. Tutto andò felicemente. Per la città si conosce l'indisposizione del conte Cavour. Nessuno dubita. La prudenza non mi abbandonò un solo istante. Fra quattro o cinque giorni sarà affar finito. Raggiungo il suolo francese lieta e soddisfatta d'avere obbedito l'imperatore, reso un servizio alla mia patria. Lo saranno del pari gli altri...? Torino, 2 giugno, 1861. N.N". 

LA STORIOGRAFIA UFFICIALE 

Lo storico che maggiormente ha sudato sulle carte del Cavour, Rosario Romeo, che ha indagato nei minuti particolari con tre ponderosi volumi la vita e l'attività politica di quel giacobino che "consigliava" i suoi luogotenenti di trattare con la frusta (cioè: fucilazioni e impiccagioni) i Duosiciliani, parla invece di malaria: "Non di rado, nel corso dell'ultimo quindicennio, Cavour era stato colpito da brevi indisposizioni: episodi che si rinnovavano varie volte nell'anno, duravano alcuni giorni, e trattati con salassi, venivano superati senza speciali difficoltà...La malattia iniziata la sera del 29 maggio (1861, ndr) parve dunque una delle solite indisposizioni... il male la mattina del 31 pareva già vinto... verso mezzogiorno la malattia tornò ad affacciarsi con maggiore violenza, in un quadro clinico caratterizzato da accessi di febbre intermittente con delirio e in continuo peggioramento...Alla luce della scienza medica del XX secolo si è poi creduto di poter precisare che Cavour, già malarico cronico per un'infezione contratta nelle risaie di Leri dal parassita identificato nel 1880 da Leveran, fu vittima di una perniciosa comitata delirante con febbre di tipo terzanario, restando esclusi tanto l'eccesso di lavoro quanto l'emozione provocata dallo scontro di un mese e mezzo prima con Garibaldi, quanto la gotta di cui pure si parlò".

Anche per altri studiosi di storia risorgimentalista il quadro clinico della malattia non mostra differenze. Al massimo qualcuno se ne discosta ipotizzando la sifilide che nell'Ottocento era endemica quasi come il raffreddore. La notizia che il Cavour potrebbe essere stato ucciso da Napoleone III è però del tutto originale e proprio per questo ha solleticato la nostra curiosità sí che abbiamo deciso di fare una indagine approfondita dell'argomento. E l'indagine non poteva essere che politica, andare cioè a rivedere i patti intercorsi tra il rivoluzionario ministro giacobino (pur se di nobili natali) e l'ambizioso "crimine coronato" Napoleone III, del quale il nizzardo Garibaldi con fine intuizione ebbe a dire, ma aveva le sue ragioni: "il padrone della Francia...è mosso da libidine, da rapina, da sete infame d'impero..." (discorso tenuto al Foro Italico di Palermo il 15 luglio 1862).

LA LIBIDINE DI NAPOLEONE III 

Le gesta politiche di Napoleone III miravano a ripristinare il primo impero, quello di Napoleone I, riportare cioè sotto la Francia, oltre che la contea di Nizza e la Savoia, anche regioni che erano state inglobate nel territorio metropolitano francese cioè Liguria, Toscana e Stato Pontificio. Il Piemonte, che in epoca napoleonica aveva pure fatto parte della Francia, pare che nel 1860 non rientrasse nelle brame del terzo Napoleone, ciò nonostante il Cavour temeva che l'alleato potesse trasformarsi in padrone: "Non voglio assolutamente ch'egli regni in Piemonte come in Francia, poichè, dopo averlo qui chiamato, io debbo piú d'ogni altro essere geloso dei diritti del nostro Re e salvaguardarli da ogni usurpazione" (dal diario di Salmour all'epoca dell'alleanza franco-piemontese nel 1859). 

UN DOCUMENTO SIGNIFICATIVO 

La Toscana non figurava negli accordi di Plombières, non è detto però che verbalmente i due marpioni non si fossero accordati sul suo futuro destino. Intanto nel mese di luglio 1860, in piena invasione delle Due Sicilie, circolava copia di un trattato segreto per la cessione della Sardegna e della Liguria alla Francia:

"L'Imperatore dei Francesi ed il Re di Sardegna hanno conchiuso la seguente convenzione, che rimane segreta per le due alte parti contraenti. 

1 L'Imperatore dei Francesi acconsente perché il Re di Sardegna continuando l'intrapresa opera di unificazione nazionale Italiana si annetta per qualunque mezzo che crederà conveniente di adoperare, diretto o indiretto, quella parte della Penisola che è conosciuta sotto il nome di Reame delle Due Sicilie.

A tale oggetto l'Imperatore dei Francesi s'impegna di impiegare tutta la sua influenza diplomatica ed al bisogno se son anche necessarie l'uso delle armi perché sia piú che mai strettamente rispettato il principio di non intervento straniero nelle cose Italiane; perciò resta confermata la contratta alleanza offensiva e difensiva fra le due corone.

2 Il Re di Sardegna rispetterà assolutamente gli attuali Stati Pontifici e si asterrà da qualunque azione diretta o indiretta, non piú d'Annessione, ma ben anche di semplice agitazione, non potendo l'Imperatore dei francesi ammettere in essi e neppure tollerare alcuna finzione. Però nel caso che vi scoppiasse una insurrezione vera spontanea, per opera degli abitanti delle Provincie papali; cioè senza intervento diretto o indiretto di parte delle altre province Italiane; in questo caso e soltanto in questo caso l'Imperatore dei Francesi acconsentirà ancora all'annessione delle Marche e dell'Umbria come tratto di unione con le province meridionali Italiane, agli Stati attuali del Re Vittorio Emanuele; ma in questo caso ancora il Gabinetto di Torino si accorderà con quello delle Tuileries per ristabilire, occorrendo anche colle armi l'ordine nelle province sconvolte; obbligandosi espressamente e formalmente le due corone di riconoscere, conservare e garantire il potere temporale del Papa in Roma e nel patrimonio di San Pietro.

3 In cambio e ricompensa degli anzi detti assentimenti, deferenza, cooperazione ed in caso eventuale anche di appoggio armato concessi dall'Imperatore dei Francesi al Re di Sardegna, questo dopo aver effettuato l'annessione delle Due Sicilie, delle Marche, dell'Umbria, o solamente dopo l'annessione delle Due Sicilie, cederà alla Francia le Isole di Sardegna e d'Elba, non che tutte le Ligurie compreso Genova e la Spezia, portando cosí le frontiere dell'Impero Francese fino a tutte le Alpi Marittime. Questa cessione sarà pura e semplice, senza obbligo di consultare il suffragio della popolazione.

4 Se piú tardi il Re di Sardegna vorrà riscattare la Venezia impegnandosi in una guerra contro l'Austria ed altre potenze, l'imperatore dei Francesi non opporrà a questa nuova acquista e annessione, ma se sarà necessario ricorrere alle armi per tale oggetto il Re di Sardegna intraprenderà la guerra a suo rischio e pericolo, senza poter mai pretendere che la Francia la segua ed appoggi anche in tale intrapresa ecc. ecc." 

SMENTITE 

Questo documento, sintesi di altro documento a quanto pare ai posteri non pervenuto, viene dal Cavour negato essere farina del suo sacco (lettera n. 991 del 22 luglio 1860 Cavour a Nigra del Carteggio Cavour - Nigra, vol. 4&Mac176;): "Je vous envoie copie d'un prètendu traitè secret qui porterait la cession de GÍnes et de la Sardaigne à la France. C'est Villamarina qui me l'envoie de Naples. Le mÍme bruit s'est rèpandu à Palerme, à GÍnes, à Sassari, en Angleterre. Je m'èvertue en vain à le dèmentir. C'est un mauvais tour des Mazziniens, peut-Ítre aussi des Napolitains: certainement des ennemis de l'Empereur" (Vi invio copia di un preteso trattato segreto che comporterebbe la cessione di Genova e della Sardegna alla Francia. » Villamarina che me lo invia da Napoli. La stessa voce s'è sparsa a Palermo, a Genova, a Sassari, in Inghilterra. Io mi sforzo invano di smentirla. E' un brutto tiro dei mazziniani, forse anche dei Napolitani: certamente dei nemici dell'Imperatore). E aggiunge: "Sono queste le disposizioni principali e sostanziali della convenzione. Le parole possono essere diverse dacchè io non ho potuto avere una copia precisa, ma tale e non altro è il contenuto". 

Il giacobino Cavour mente anche al suo segretario d'ambasciata a Parigi dato che erano già tre mesi che il pittoresco Giuseppe Garibaldi infuriava su suo mandato nelle Due Sicilie e da oltre da un anno era suo chiodo fisso divorarle nel senso piú crudo del termine. Leggiamo infatti ancora dalle memorie di Salmour: "Debbo ricordare un fatto, per provare che fino dal 1859 Cavour pensava seriamente all'annessione del Reame di Napoli. Nell'ottobre di quell'anno 1859, in seguito ad alcune lettere ricevute da Napoli, mi recai da Cavour per dirgli che se egli obbligava il Ministero a mandare a Napoli Sclopis o un altro ministro di polso e di opinioni non troppo spiccate, facilmente avrebbero indotto il Re di Napoli a dare una costituzione al suo popolo. "Ma come? - mi rispose - tu che sei di spirito cosí fine, hai potuto pensare un istante che noi vogliamo che il Re di Napoli dia una costituzione? Ciò che noi vogliamo e ciò che faremo è di prenderci i suoi Stati".

In data 2 giugno 1860 aveva scritto al Nigra a Parigi: "Dans une dèpÍche officielle que j'envoie aujourd'hui à Paris et à Londres je proteste d'avance contre toute intervention armèe dans les affaires des deux Siciles. Si, comme vous me le mandez, la France et l'Angleterre ne s'opposeraient pas à l'annexion de la Sicile, je suis dècidè à marcher droit au but. Je sais parfaitement que (pour ce qui regarde les ressources matèrielles) l'annexion d'une ile èloignèe aurait plus de dèsavantages que d'avantages. Mais ce serait là un autre grand pas, un autre jalon pour l'unification dèfinitive de l'Italie. Veuillez sonder le terrain et me dire si je dois aller à toute vapeur ou enrayer la locomotive" (In un dispaccio ufficiale che oggi invio a Parigi e a Londra io protesto contro ogni intervento armato negli affari delle Due Sicilie [l'intervento degli altri no, ma il suo sí, ndr]. Se, come voi mi comunicate, la Francia e l'Inghilterra non s'opporrebbero all'annessione della Sicilia, io son deciso a marciare dritto alla meta. So perfettamente che (per quanto riguarda le risorse materiali) l'annessione di un'isola lontana avrebbe piú svantaggi che vantaggi. Ma questo sarebbe un altro grande passo, un altro picchetto per l'unificazione definitiva dell'Italia. Vogliate sondare il terreno e dirmi se devo andare a tutto vapore o arrestare la locomotiva) (lettera n. 878, 2 giugno, Carteggio Cavour - Nigra, vol. IV). 

MEMORANDUM PER L'INDIPENDENZA 

Perché l'invio di una protesta a Londra e Parigi? perché il giorno prima (1 giugno) il ministro degli esteri delle Due Sicilie, Carafa di Traetto, aveva invocato la intangibilità del territorio delle Due Sicilie: "Villamarina mande que Carafa a invoquè la garantie du territoire et l'intervention maritime des Puissances reprèsentèes à Naples. Nous lui avons ordonnè de protester d'avance contre toute intervention en se fondant sur le principe de non intervention en Italie adoptè par la France et l'Angleterre" (Villamarina comunica che Carafa ha invocato la garanzia del territorio e l'intervento marittimo delle Potenze rappresentate a Napoli. Noi gli abbiamo ordinato di protestare in anticipo contro ogni intervento basandosi sul principio di non intervento in Italia adottato dalla Francia e dall'Inghilterra) (lettera n. 874, stesso Carteggio).

Ecco infatti il memorandum con cui Carafa si rivolgeva alle Potenze europee: "In vista delle gravi circostanze nelle quali la rivoluzione ha immerso la Sicilia, S.M. ne appella a tutta l'Europa per provocare dalle varie Potenze che i loro rappresentanti siano autorizzati ad officialmente e solennemente dichiarare di voler garentire, con la Dinastia, l'integrità del Regno delle Due Sicilie ed a chiedere che con le loro forze marittime concorrano le stesse Potenze ad impedire qualunque invasione nei Reali Domini" (A.S.N., Aff. Est., Arch. Stor., busta n. 12). 

I rappresentanti diplomatici di Francia, Inghilterra e Prussia nicchiarono, favorevoli furono il Nunzio pontificio e l'ambasciatore spagnuolo, ma l'ambasciatore piemontese, Villamarina, prospettò una guerra generale in Europa se il principio di non intervento fosse stato disatteso. Lo zar Alessandro, invece, all'ambasciatore delle Due Sicilie, Duca di Regina, accreditato nella lontana Pietroburgo, faceva sapere che non riconosceva quel principio: parole al vento, chè egli non poteva dare forza concreta allo sfogo, data la lontananza della Russia dallo scacchiere di crisi: "...Circa le pratiche fatte verso il Gabinetto di Turino (sic!), esse non sono meno energiche, ed il Principe di Gortchakow in una recente conversazione tenuta col Marchese Sauli (ambasciatore piemontese a Pietroburgo, ndr) l'incaricò di scrivere al Conte Cavour che l'Imperatore Alessandro provava tale e tanta indignazione per ciò che accadeva in Sicilia, per l'attitudine che serbava il Gabinetto Sardo, che se la posizione geografica della Russia fosse stata diversa, egli sarebbe intervenuto materialmente, malgrado e contro i principii di non intervenzione che le Potenze Occidentali tengono in forza contro il diritto e rilasciano in favore della rivoluzione" (dispaccio n. 135 dell'11 giugno 1860, Regina a Carafa, Carteggi di Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno, vol. V, appendice IIB). 

Le esatte parole di Gortchakow al Sauli furono: "Ove la giacitura geografica della Russia nol vietasse, lo Czar interverrebbe con le armi a difendere i Borboni di Napoli, senza curarsi del non intervento proclamato dalle Potenze occidentali" (A. Zazo, La politica estera del Regno delle Due Sicilie nel 1859-60, pag. 288), da cui traspaiono a chiare lettere i limiti e l'impotenza della Russia ad agire in scacchieri geopolitici lontani dal suo territorio. 

FALLIMENTO DIPLOMATICO 

I tentativi della diplomazia di Napoli per un intervento delle Potenze europee in favore delle Due Sicilie tuttavia fallirono. Cosí scriveva amaramente il ministro Carafa al rappresentante a Londra, Guglielmo Ludolf, mettendo in evidenza la doppiezza delle grandi Potenze: "Rilevo la conferma dell'inalterabile non intervento, mentre poi si interviene nel modo che ogni diritto ripugna" (A.S.N., Inghilterra, fasc. 661, 23 giugno 1860). In data successiva, il 25 giugno, allo stesso Nigra il ministro piemontese cosí scriveva: "Villamarina me mande que le Roi de Naples est disposè a suivre les conseils de l'Empereur. Nous le seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaronis ne sont pas encore cuits, mais quant aux oranges qui sont dèjà sur notre table, nous sommes bien dècidès à les manger" (Villamarina mi comunica che il Re di Napoli è disposto a seguire i consigli dell'Imperatore. Noi lo asseconderemo per quanto riguarda il continente, giacchè i maccheroni non sono ancora cotti, ma quanto ai portogalli [cioè la Sicilia, ndr] che sono già sulla nostra tavola noi siamo ben decisi a mangiarli) (lettera n. 924 stesso Carteggio). 

I GENOVESI INSOFFERENTI 

Intanto i genovesi vogliono passare sotto la Francia: "Je vous envoie un des nombreus billets qui circulent dans GÍnes. Il est adressè au Marquis A. Mari un des chefs des clèricaux, qui ètait liè avec Gramont, à qui il a louè plusieurs annèes de suite son palais de Savone. Montrez-le en riant à Thouvenel" (Vi invio uno dei numerosi biglietti che circolano in Genova. Esso è indirizzato al marchese A. Mari uno dei capi dei clericali, che era legato con Gramont, a cui egli ha locato per piú anni di seguito il suo palazzo di Savona. Mostratelo ridendo a Thouvenel) (ministro degli esteri francese successo al Walewski il 28 dicembre 1859, ndr).

Ecco il biglietto: "La Nobiltà Genovese deve molto desiderare passare sotto Governo Imp. Francese. Ora essa si trova molto avvilita (sic) e non curata dal Piemonte che l'odia. Il Governo Imp. rialzerà molto con onori, impieghi, cariche di Corte etc.. Corte Imperiale abiterà spesso a Genova che diverrà seconda Capitale Impero, con residenza del Maresciallo di Francia, Ammiragliato, Banca, Grandi Feste, grande Commercio, nuove strade e dotazioni stabilimenti e Monumenti Pubblici. Religione Cattolica rispettata, Arcivescovo Franzoni rimpatriato"

Non sappiamo se in questa voglia dei liguri di diventare provincia di Francia rimestasse lo zampino dei servizi segreti napoleonici. Tuttavia nello stesso lasso di tempo, si noti bene, cominciarono a farsi sentire delle smentite da parte francese. Ne riporta qualche eco la Civiltà Cattolica (Serie IV, Vol. VI, anno 1860, pag. 752): ´Il Moniteur, che da un pezzo taceva di politica, ora parla a nome del Governo, e protesta contro chi attribuisce al Governo francese "disegni di eccitare o di lasciar nascere questioni in Europa per cercarvi occasione di nuovi ingrandimenti" oltre alla Savoia e Nizza, che ingrandirono la Francia in seguito ad articoli del Moniteur pieni di fiducia, di sicurezza e di proteste di non voler ingrandimenti. La stessa strategia usata dopo Plombières: negare per poi mettere l'Europa di fronte ai fatti compiuti". 

IL MASTINO INGLESE 

Ma c'è di piú. C'era un accanito avversario di ulteriori ingrandimenti francesi: gli inglesi. Al riguardo Rosario Romeo riporta quanto segue: "Elemento dominante, al fondo della mutevole politica seguita dal governo britannico nei mesi decisivi della crisi, fu il timore di ulteriori ampliamenti territoriali della Francia, esploso dopo l'annessione della Savoia e Nizza. Il governo di Londra incaricò dunque Hudson di chiedere a Cavour un impegno formale a non fare alcuna ulteriore concessione territoriale alla Francia...La questione parve chiusa per allora; ma nel luglio la diffusione di un falso franco-piemontese, probabilmente fabbricato negli ambienti mazziniani, rimise in allarme i governanti inglesi, e di nuovo Palmerston sollecitò un impegno formale da parte del Piemonte...".

C'è da osservare che qui il Romeo, nonostante il suo acuto ingegno, ripete acriticamente e pedissequamente le parole del ministro piemontese, laddove parla di falso e di ambienti mazziniani. 

LA RABBIA DEL NIZZARDO 

Ma c'è una frase del Cavour, dopo la cessione della contea di Nizza e della Savoia, che, ne riferiremo tra poco, merita piú che una semplice attenzione. Come si sa, la firma in calce all'atto di cessione territoriale ("adesso siamo complici", aveva detto, fregandosi le mani, il Cavour al plenipotenziario francese Benedetti) fu posta col
Trattato di Torino in data 24 marzo 1860, rendendosi il Cavour insieme al Savoia II tre volte traditore, traditore dello pseudo-parlamento piemontese per averlo tenuto all'oscuro delle sue trame con Napoleone III, della costituzione per averne violato l'articolo 5 e del popolo subalpino il cui corpo nazionale veniva lacerato indissolubilmente.

Nella tornata parlamentare del 12 di aprile, quando le cose erano diventate irreversibili e ormai di pubblico dominio, ebbero luogo le interpellanze del Garibaldi intorno a Nizza (gratta gratta il suo cuore era rimasto municipale, della Savoia non gliene importava un bel niente):
"Egli trattò la questione sotto l'aspetto costituzionale, e sotto il politico. Lo Statuto all'art. 5&Mac176; dice: "I trattati che importassero una variazione di territorio dello Stato non avranno effetto, se non dopo ottenuto l'assenso delle Camere". Ora, soggiungeva il Garibaldi, "che una parte dello Stato voti per la separazione prima che la Camera abbia deciso se questa separazione debba aver luogo, prima che abbia deciso se si debba votare, e come si debba votare pel principio d'esecuzione della votazione medesima, è un atto incostituzionale della votazione medesima". Passando poi alla questione politica il Garibaldi ricordò "che i Nizzardi, dopo la dedizione del 1388 a Casa Savoia, stabilirono nel 1391, 19 Novembre, che il Conte di Savoia non potesse alienare la città in favore di qualsiasi principe, e se lo facesse, gli abitanti avessero diritto di resistere mano armata, e di scegliersi un altro Sovrano a loro piacimento, senza rendersi colpevoli di ribellione". "Dunque, - ripigliava il Garibaldi -, nell'anno 1388 Nizza si uní alla dinastia sabauda colla condizione di non essere alienata a veruna potenza straniera. Ora il Governo col trattato del 24 Marzo l'ha ceduta a Napoleone. Tale cessione è contraria al diritto delle genti. Si dirà che Nizza è stata cambiata con due province piú importanti; però ogni traffico di gente ripugna oggi al senso universale delle nazioni civili".

Il Ministero giustificò il suo fatto col voto delle popolazioni; ma il Garibaldi domandò perché questo voto dovea aver luogo in Nizza dal 15 al 16 Aprile, mentre in Savoia si è stabilito pel 22. Si ha piú premura per Nizza! esclamò il Garibaldi accolto qui dai Bravo della galleria. E poi dichiarò che il voto popolare non avea nessuna importanza per "la pressione, sotto la quale si trova schiacciato il popolo di Nizza; la presenza di numerosi agenti di polizia, le lusinghe, le minacce senza risparmio esercitato su quelle povere popolazioni; la compressione che impiega il Governo per coadiuvare l'unione alla Francia; l'assenza da Nizza di moltissimi cittadini, obbligati di abbandonarla pei motivi suddetti; la precipitazione ed il modo con cui si chiede il voto di quella popolazione". Conchiudeva domandando la sospensione del voto di Nizza. Il conte di Cavour rispose tosto al Garibaldi che la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia non era cosa isolata, ma era ´un fatto che rientra nella serie di quelli che si sono compiuti e che ci rimangono a compiere. (La Civiltà Cattolica, Serie IV, vol. VI, anno 1860, pagg. 350/351).

La rabbia del nizzardo era esplosa già tre giorni prima. Egli "ha ricorso alla Russia invocandone l'appoggio; ha proposto far dichiarare Nizza libera e collocata sotto la protezione degli Stati Uniti..." (Canòfari a Carafa, da Torino, 9 Aprile 1860, dispaccio n. 4536). 

Dunque il Cavour mentiva spudoratamente sulle cessioni, anche se in quei giorni era fortemente combattuto dai rimorsi di coscienza, come risulta dalla relazione che l'ambasciatore duosiciliano a Torino, Canòfari, inviò a Napoli al ministro degli esteri Carafa: "Benedetti ... è giunto. Voleva Cavour differire la conchiusione della cessione...voleva impossessarne primordialmente il Parlamento...Ma Benedetti irremovibile dicea che senza la cessione immediata e conforme al programma dell'Imperatore non si sarebbero riconosciute le annessioni della Toscana e Romagne ed il movimento di ritorno delle truppe sarebbe divenuto piú celere. Quindi il trattato è stato firmato" (A.S.N., Sardegna, fasc. 2031). 

Tutte le Potenze si irritarono per quella cessione, in particolare l'Inghilterra, che vedeva in pericolo la sua politica di contenimento delle potenze continentali, come comunicava a Napoli da Londra il ministro Targioni: "L'annessione di Savoia e Nizza ha ridestata in Inghilterra violenta animosità contro Napoleone". L'unico a non prendersela fu il ministro russo Gortchakow: "Du moment oú l'annexion de la Savoie à la France est le rèsultat d'une transaction diplomatique entre les Cabinets des Tuileries et de Turin, nous ne pouvons nullement nous en occuper" (Dal momento che l'annessione della Savoia alla Francia è il risultato di una transazione diplomatica tra i Gabinetti delle Tuileries e di Torino, noi non possiamo affatto occuparcene") (A.S.N., Russia, fasc. 1700, Pietroburgo, 14-16 marzo 1860). 

SOSPETTI INGLESI 

Già nel mese di maggio, quando la Sicilia poteva dirsi ormai piemontese, il governo di Londra aveva il sospetto, anzi la certezza, che il Cavour si apprestasse ad effettuare la cessione di Genova alla Francia qualora la Sicilia fosse annessa al Piemonte: "Brunnow avec qui je causais se matin, m'a à travers ses phrases mielleuses fait entendre qu'on s'inquiètait ici de quelque combinaison mysterieuse entre vous et l'Empereur qui vous aurait laissè plus de libertè d'action en Italie. Il m'a mÍme citè à cet ègard un propos qu'on vous attribue et dont Lord Palmerston lui mÍme m'avait ègalement parlè, ajoutant que vous n'aviez mÍme pas paru l'entourer de mystère. On voit donc ici dans les arrangemens relatifs à Nice et à la Savoie une concession qui en aurait amenè une autre par rapport à Venise. Mais ce que les Ministres Anglais croient à peu près positif c'est que vous vous ètes engagè en vertu de nouvelles annexions à cèder GÍnes à la France" (Brunnow con cui ho discorso stamattina mi ha fatto intendere attraverso le sue frasi mielose che qui ci si inquieterebbe di qualunque combinazione misteriosa tra voi e l'Imperatore che vi avrebbe lasciato piú libertà d'azione in Italia. Egli mi ha anche citato a tal riguardo un proposito che si attribuisce a voi e di cui lo stesso Lord Palmerston m'aveva egualmente parlato, aggiungendo che voi non avevate dato neppure l'impressione di circondarlo di mistero. Si vede dunque qui negli accomodamenti relativi a Nizza e alla Savoia una concessione che ne avrebbe comportato un'altra in rapporto a Venezia. Ma ciò che i ministri inglesi credono quasi certo è il fatto che voi vi siete impegnati in virtú di nuove annessioni a ceder Genova alla Francia) (Cavour e l'Inghilterra, II, 2, lettera n. 1139 di E. D'Azeglio a Cavour datata 12 maggio 1860 da Londra).

I curatori della sistemazione del Carteggio a questo punto fanno una omissione, o meglio il riassunto di ciò che segue: "Rileva poi come simili apprensioni possano rendere gli Inglesi ostili alla causa italiana". 

E ancora nel dispaccio 1141 datato Londra 17 maggio: "Lord Palmerston... m'a dit qu'aucune communication ou accord avec la France par rapport à la Sicile n'avait ètè èchangè mais d'autre part il m'a rèpètè que si nous cèdions GÍnes nous nous aliènerons entièrement ce pays equivoque" (Lord Palmerston... m'ha detto, quanto alla Sicilia, che non era stata scambiata alcuna comunicazione o accordo con la Francia ma d'altra parte egli mi ha ripetuto che se noi cediamo Genova ci alieneremo interamente questo paese [in]-equivocabilmente). 

Il furbissimo ministro piemontese invia un dispaccio cifrato al suo addetto a Londra nei seguenti termini perché ci sia smentita: "J'aimerais cent fois mieux renoncer aux nouvelles provinces que cèder un ponce de la Ligurie à la France. Vous pouvez le dèclarer de la manière la plus formelle. Demain j' ècrirai" (Preferirei cento volte rinunciare alle nuove province piuttosto che cedere un sassolino della Liguria alla Francia. Potete dichiararlo nel modo piú formale. Domani scriverò) (lettera 1142).

La risposta dell'ambasciatore piemontese arriva via telegrafo cinque giorni dopo: Lord Palmerston "proteste contre toute cession de territoire et on leur a maintenant mis la tete que l'on pourrait bien demander la Sardaigne" (protesta contro ogni cessione di territorio e adesso qualcuno ha messo loro in testa che si potrebbe ben domandare la Sardegna) (lettera 1147). 

Il Palmerston non crede a una parola di quel che gli assicura l'ambasciatore piemontese. Apertamente dichiara che: "Ce n'est pas la moitiè de ce qu'on nous a dit lors de la cession de la Savoie" (Ciò non è la metà di ciò che ci è stato detto al momento della cessione della Savoia) e aggiunge: "que nous nous ètions identifiès à la politique franÁaise au point de pouvoir en etre considèrès un peu comme les instruments et qu'il n'y aurait pas grande difference si l'Empereur ou nous avions la Sicile pour ses vues ultèrieures" (che noi [cioè il Piemonte, ndr] eravamo identificati alla politica francese al punto da poterne essere considerati un po' come gli strumenti e che non ci sarebbe gran differenza se l'Imperatore o noi avevamo la Sicilia per le sue ulteriori mire). 

INTERESSI GEOPOLITICI 

Proviamo ora, solo per un istante, ad immaginare concretizzata la politica espansionistica di Napoleone III: Sardegna, Liguria, Toscana diventare territori metropolitani francesi, e il Regno delle Due Sicilie, pur formalmente indipendente, diventare un protettorato napoleonico retto da Luciano Murat o da Gerolamo Napoleone. Si sarebbero ripresentate, aggravate, le condizioni geopolitiche del primo impero: il Mediterraneo lago francese, cosa che l'Inghilterra non avrebbe mai potuto tollerare. Nel dossier diplomatico inglese urgeva inoltre una altro gravissimo problema: già da un anno erano cominciati i lavori per il canale di Suez da parte di una società francese. L'Inghilterra temeva che Napoleone III invadesse quel pezzo di impero turco impadronendosene: "Pour sa part la France tenerait de s'emparer de l'Egypte. L'Angleterre l'en empÍcherait par la force des armes ainsi que cela avait eu lieu de mèmoire d'homme. Est-ce à dire que l'Angleterre s'en emparerait elle-mÍme? Pas prècisèment. Mais l'Angleterre agissant à l'ègard de l'Egypte de mÍme que pour la Sicile, dirait: mon intèrÍt et ma politique ne sont pas de prendre ces pays. Mais de les occuper militairement chaque fois que un autre pouvoir et spècialement le France voudra s'en emparer...C'ètait pour rèaliser una de ses idèe favorites, la Mèditerranèe lac franÁais, que la convoitise franÁaise s'etendait sur l'Egypte. En mÍme temps l'Impèratrice Eugènie ècrivait imprudemment en Espagne pour exciter les susceptibilitès nationales contre la possession de Gibraltar par l'Angleterre. Elle laissait pourtant entrevoir que la possession des Iles Balèares pourrait bien devenir una necessitè pour la France" (Per parte sua la Francia tenterebbe di impadronirsi dell'Egitto. L'Inghilterra lo impedirebbe con la forza delle armi come è sempre stato a memoria d'uomo. » a dire che l'Inghilterra se ne impadronirebbe essa stessa? Non precisamente. Ma l'Inghilterra attiva in riguardo all'Egitto allo stesso modo che per la Sicilia, direbbe: il mio interesse e la mia politica non tendono ad impadronirsi di questi paesi. Ma di occuparli militarmente ogni volta che un altro potere e specialmente la Francia vorrà impadronirsene ... Era per realizzare una delle sue idee favorite, il Mediterraneo lago francese, che la bramosia francese si estendeva sull'Egitto. Nello stesso tempo l'Imperatrice Eugenia scriveva imprudentemente in Spagna per eccitare le suscettibilità nazionali contro il possesso di Gibilterra da parte dell'Inghilterra. Ella lascerebbe pure intravvedere che il possesso delle isole Baleari potrebbe ben divenire una necessità per la Francia) (lettera n. 1136 di D'Azeglio a Cavour in data 14 Aprile 1860 da Brockett Hall).

A tali seri problemi se ne aggiungeva un altro: la Russia zarista in quel tempo lavorava alacremente per portare l'impero turco alla dissoluzione. Questa eventualità avrebbe reso la Russia "padrona del Mar Nero e capace di minacciare a poco a poco l'India". Era quindi vitalissima necessità per la diplomazia inglese contenere l'espansionismo di Napoleone III, allentare o spezzare l'alleanza franco-piemontese e sostenere l'impero turco in funzione antirussa. 

Il decennio 1860/70, fino alla disfatta di Sedan dove Napoleone III fu preso prigioniero dai fieri prussiani, fu dunque per l'Inghilterra un decennio di passione e di febbrile attività politico-diplomatica. Il problema Suez fu risolto nel 1869 dal governo presieduto da Disraeli con l'acquisto del pacchetto di maggioranza delle azioni della Società del Canale. 

Superata la fase di incertezza relativa all'impresa del nizzardo, in un primo tempo definito da Lord Russell "gent out of law" cioè filibustiere, il governo inglese, con spietata doppiezza, sacrifica, per i suoi interessi di egemonia geopolitica, il Regno delle Due Sicilie dandolo in pasto al Piemonte, contraddicendo l'opinione generale che questo "adocchiasse la Sicilia in compenso della Savoia" perduta (Omodeo, La politica di Carlo Filangieri, pag. 101). 

VALUTAZIONI ERRONEE 

Nella successiva fase dell'invasione, apparentemente sembra che il regista malefico della distruzione del Regno sia la Francia. E' questa opinione abbastanza comune che non tiene conto dell'intero mosaico internazionale e mediterraneo dove i due giganti politico-militari sortiti dalla guerra di Crimea si scontravano per l'egemonia. In realtà la sovrastruttura diplomatica occulta, il grande regista dell'unità d'Italia fu il governo di Sua Maestà britannica. Questo, somma arte o astuzia o capacità diplomatica, diede a Napoleone III l'impressione di essere lui il vero stratega di tutta l'operazione. Al momento costui, dominato dalla sua boria di onnipotenza, non s'accorge di essere usato dalla occhiuta diplomazia inglese. Se ne accorgerà troppo tardi quando ormai i giochi saranno conclusi. Se ne accorse molto bene invece il principe di Carini, ministro duosiciliano accreditato presso il governo prussiano a Berlino, che trasmetteva in data 7 agosto 1860 al ministro degli esteri a Napoli, De Martino, il seguente riservatissimo dispaccio: "Diviene ormai inutile ogni insistenza piú diretta per sormontare le teorie ed assurde considerazioni affacciate dal Gabinetto Inglese per opporsi e per paralizzare le proposizioni dell'Imperador Napoleone in favor nostro....Anzi nelle piú recenti comunicazioni incalza in tal modo e con tale quasi minacciosa energia che difficilmente possono conservarsi in dubbio non solo la molesta politica di lord Palmerston, quella anche peggiore di Lord John Russell e tutta la malevolenza che ci han fabbricata in Inghilterra, ma altresí la connivenza e complicità di quel Governo negli attentati intrapresi contro la R. Nostra Dinastia e contro il nostro Regno. Gettando la maschera dell'umanità e delle filantropie che vanta colle labbra e smentisce coi fatti, esigge per noi le pruove del sangue, le pruove delle armi, per poi concedere le simpatie della Gran Bretagna o al Monarca che proditoriamente inceppa e lascia aggredire, o alla rivoluzione, che fomenta e protegge".

"Non posso dirmi sorpreso di questo implacabile accanimento, ma lo sono della docilità con cui la Francia e le altre Potenze, che sono rappresentate dai loro vascelli, si rassegnerebbero ad essere i testimoni oculari dell'assassinio del nostro Trono e della nostra nazionalità. 

"Nessuna delle cose da dirsi o da tentarsi in queste supreme circostanze è da me trascurata o taciuta, nè risparmio le considerazioni sulle conseguenze inevitabili d'una aggressione nella Venezia, d'una generale conflagrazione per tutta l'Europa, e di quanto ciascun altro Governo si può aspettare nell'abbandonare il nostro. Ricevo costantemente le piú buone e belle parole, ma in sostanza questo Governo non puole, ed altri non vogliono portare al di là del puro morale la loro assistenza ed appoggio. 

"Si compiaccia credermene indignato e trafitto...

"Poco tempo prima, prima dell'avvicendamento di ministri, il Ministro degli Esteri delle Due Sicilie, Carafa, aveva scritto al suo ministro a Londra, Ludolf, quasi negli stessi termini: "Il modo di vedere del ministro inglese non poteva essere diverso dai principi che, tranne qualche variazione inerente all'epoca, sono professati sempre da tutti i gabinetti inglesi, i quali principi devono, come i fatti costantemente lo provano, trovarsi falsati nella loro applicazione, cosí è che lord J. Russell nel tenere per fondamentale il diritto delle nazioni, ne ammette e ne tollera la violazione nella guerra civile che in uno Stato costituito porta una masnada di gente pagata da un partito che non ha governo legale... Ammetterebbe lord Russell simili dimostrazioni nei Regi Stati per effettuare una spedizione in altri, amici, dove si professano dal Governo diversi principÓ politici? I fatti non corrispondono alle teorie specialmente quando sono nel proprio senso".

"La sconfitta in quel poker di bari fu oltremodo bruciante per Napoleone III, anche perché la spedizione del nizzardo contro il Reame fu sovvenzionata inizialmente pure da lui, come risulta dal dispaccio che il ministro Antonini da Parigi inviava a Carafa a Napoli: "... Sono istruito che una porzione del danaro fornito per attivare la spedizione di Garibaldi, sia stato somministrato dal principe Napoleone e da questo ministro dell'Interno, M. Billaut che rappresenta la politica rivoluzionaria dell'Imperatore... Mi si assicura che l'Imperatore ignori o finga di ignorare le manovre del cugino e del ministro. Questi contano sul pieno successo: in tal caso agire presso i Siciliani per farne formare un Regno indipendente in favore del principe Napoleone; forzare la mano dell'Imperatore per darvi il pieno consenso, sapendo che l'Imperatore è contrario ad un maggiore ingrandimento ed a nuove annessioni al Piemonte"
(A.S.N., Francia, fasc. 476, Antonini a Carafa, Parigi, 11 maggio 1860). 

L'ERRORE FUNESTO DI RE FERDINANDO 

Che gli inglesi sospettassero una concorrenza sleale di Napoleone nella spedizione ne parla pure l'ambasciatore inglese a Napoli in una sua relazione a Lord Russell (Public Record Office London, Foreign Office 70/316, Elliot a Russell, Napoli 13 maggio 1860 n. 712, citata da A. Zazo pag. 289). La diagnosi di Carafa era esatta: ´Se la spedizione fosse stata offensiva alla Francia, essa non avrebbe avuto luogo" (Carafa ad Elliot).

La consumata diplomazia inglese si mise dunque all'opera per sventare i lacci napoleonici. Il successo che le arrise conservò all'Inghilterra il dominio del Mediterraneo, che le consentirà poi di vincere anche la seconda guerra mondiale. Come corollario a questo studio possiamo affermare, senza tema di essere smentiti, che l'errore principe commesso da Ferdinando II, che pur non difettava di acume politico, fu quello di non aver saputo trarre le logiche conseguenze dalla guerra di Crimea: tale terribile, anche se circoscritto, conflitto aveva messo in luce tutta la debolezza dell'alleata Austria, la sua pochezza industriale rispetto a Francia e Inghilterra e la sua incapacità di intervenire militarmente lontano dalle proprie frontiere. L'asse politico del mondo si era spostato definitivamente sulle rive dell'Atlantico. Il Congresso di Vienna, con l'Austria egemone, era ormai perso nella nebbia dei ricordi. Fatale calamità per il Reame. 

A conferma che il Cavour giocava con abilità su piú tavoli e che l'unità della penisola fu creazione della volontà inglese e non della Francia di Napoleone III, attestata sempre sugli accordi di Plombières, valgano infine le parole di Denis Mack Smith: "...erano stati tenuti dei plebisciti in Emilia e in Toscana. E non contento di questo, Cavour aveva quindi suggerito alla Gran Bretagna che, se la Francia non desiderava andare al di là della creazione di uno Stato dell'Italia settentrionale che facesse da contrappeso all'Austria, poteva invece essere nell'interesse inglese che si formasse un'Italia piú grande per far fronte alla Francia nel Mediterraneo" (in Vittorio Emanuele II, Laterza). 

Tale teorema trovava perfetta convergenza nei piani egemonici di Londra. Fino al giugno 1860, per motivi di liberalizzazione o meglio di globalizzazione economica, essa era stata ostile al governo borbonico che con alti dazi contrastava, in difesa della propria economia, le merci straniere, segnatamente le merci di Sua Maestà britannica, tanto che all'inizio dell'invasione garibaldesca, il 23 maggio, l'addetto duosiciliano a Washington informava il Carafa col seguente dispaccio: "Lord Lyons (ambasciatore britannico a Washington, ndr) diceva ieri sera in piena riunione sociale che se il legno che porta Garibaldi potesse essere mandato a picco, la sarebbe una vera fortuna e per lui e per l'Italia" (A.S.N. America, fasc. 3) in perfetta sintonia con le vecchie vedute di Lord Russell. 

Da quel mese l'astio politico debordò contro la nazione Due Sicilie. Napoleone fu dunque impotente a contrastare la convergenza anglo-piemontese, la situazione gli era sfuggita completamente di mano. Purtuttavia ancora il 4 settembre al Duca di Caianiello, recatosi in missione a Chambery, assicurò che egli "portava grande interesse al re di Napoli ed aveva tutto il desiderio di sostenerlo; che già lo aveva fatto per mezzo di Thouvenel e specialmente verso l'Inghilterra e il Piemonte, ed anche ultimamente nel colloquio avuto col ministro Farini (piemontese, ndr) a Chambery", ma stava barando, come barava tre anni dopo anche il ministro Thiers che ebbe a dire alla camera francese, millantando un inesistente credito di benemerenza politica: "siamo noi, noi soli che abbiamo fatto l'Italia" e che l'unità d'Italia era stata conseguita "col sangue della Francia (una voce: e col suo denaro)" (Discours parlamentaires de M. Thiers, vol. XI, pagg. 46) svalutando con ciò anche qualunque italico patriottismo. 

Per tutto il tempo della crisi l'azione diplomatica del Quai d'Orsay ebbe di mira unicamente l'inglobamento della penisola, trifrazionata, in orbita francese contrastando la costituzione di un forte Stato unitario ostile alla Francia. La linea politica di quel governo era stata ben delineata da Thouvenel, ministro degli esteri francese, a Gramont, ministro a Roma, in data 18 marzo 1860: ´Si le Pape et le Roi de Naples avaient l'intelligence de leurs intèrÍts, ils comprendraient bien vite que ces intèrÍts sur un point capital, sont connexes avec les nÙtres. L'unitè de l'Italie nous dèplaÓt autant qu'à eux-mÍmesª (Se il Papa e il Re di Napoli avessero l'intelligenza dei loro interessi, essi comprenderebbero ben presto che questi interessi, su un punto capitale, sono connessi con i nostri. L'unità dell'Italia ci dispiace tanto quanto a loro stessi). Londra invece, già nemica dell'ultimo rappresentante bonapartista della Rivoluzione, il Murat, durante la campagna d'Italia nel 1815 perché temeva che l'unità sarebbe stata sfruttata a fini di supremazia francese, nel 1860 favorí il Piemonte per fini opposti". 

NAPOLEONE III SI SVEGLIA 

In tale quadro internazionale va collocata la tardiva decisione di Napoleone di porre il blocco navale davanti a Gaeta durante l'assedio, rinnegando il principio del non intervento da lui stesso teorizzato, che aveva favorito i piani di conquista da parte del Cavour. Il suo livore traspare dalle parole che ebbe a sibilare tra i denti al plenipotenziario duosiciliano La Greca, riferite da Liborio Romano (Memorie) "che mal suo grado, e contra i suoi interessi, si era già fatta l'annessione della Toscana, e lo stesso sarebbe avvenuto a Napoli...". Con tali elementi di discordia fin troppo poco dissimulati era inevitabile che la vendetta celtica colpisse inesorabilmente, come riferisce l'Ingrato. Ma nello scontro tra i due giganti per l'egemonia nel Mediterraneo il Regno soggiacque e fu stritolato.

L'analisi di questi fatti porta dunque a concludere che la fine del Regno era comunque segnata, qualunque fosse il sistema di governo, anche il piú liberale e democratico. Si rileggano in proposito le parole del Cavour al Salmour riportate all'inizio. Ben altre che le antipatie per un certo tipo di governo erano infatti le motivazioni profonde dell'agire occulto inglese. E nacque la questione meridionale, partorita sí dunque dall'Italia una e indivisibile edificata come antemurale in funzione antifrancese, ma conseguenza del cozzo per la supremazia da parte di quelle che allora, nel 1860, erano le superpotenze mondiali. I governi "italiani" poi, oltre ai feroci massacri e alle deportazioni delle nostre popolazioni, ce l'hanno messa tutta perché tale questione diventasse irrisolubile e avesse i connotati piú odiosi e vigliacchi. 

LA PERFIDIA PUNITA 

Delineato il quadro internazionale che portò alla dissoluzione e all'asservimento delle Due Sicilie ad uno staterello da nulla, possiamo ora tornare all'Ingrato autore della memoria "Cavour avvelenato da Napoleone III". Secondo costui le ultime parole balbettate dall'aguzzino delle Due Sicilie a "persona di sua grandissima confidenza" che lo assisteva e che "la delicatezza" gli vietava di nominare furono queste: "...sento di essere avvelenato... conosco donde mi viene il colpo ... i medici negarono dinanzi me ch'io fossi vittima di un veleno propinatomi ... Sai tu a chi debbo dire grazie?... Sai tu chi mi fece avvelenare? Napoleone III!". Identiche le parole ripetute all'amante Bianca Ronzani, accorsa a visitarlo. Il veleno? Probabilmente "un estratto di cicuta polverizzato ... che s'infiltra nella massa del sangue e provoca una congestione cerebrale molto affine alla febbre tifoidea". Infine, quasi con rabbia, l'Ingrato conclude: "Quando si farà giustizia e sarà fatta maggior storia di questo assassinio?".

La Giustizia, dopo 140 anni, è sempre là in attesa di vibrare il colpo di spada. Noi, per parte nostra, quantunque quel primo ministro non goda di nostre soverchie simpatie, pensiamo modestamente di avere spezzato una lancia a favore della verità. Da questo studio, confortati dalla inesistenza di smentite nella ricca bibliografia risorgimentalista, siamo portati a dare fiducia all'Ingrato che, per tanti segni, mostra di possedere conoscenze politiche di prima mano. Forse non siamo lontani dal vero nell'indicare nell'Artom, segretario-copista del primo ministro, l'autore del libello, uno dei pochi a conoscenza degli astuti e intricati giochi diplomatici della cancelleria di Torino, del legame sentimentale del Cavour con la Ronzani, e con entrature presso la polizia e gli uffici di intelligenza per l'ottenimento di informazioni riservate.

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ANTECEDENTI

Come cercar
 di fare una guerra

Progetto, disegno di ribellione, norme generali


(testo integrale)

 La Farina e la "Società Nazionale"

Cavour aveva in mano la direzione degli affari del proprio paese colla direzione dei più alti incarichi: egli era Presidente del Consiglio, Ministro degli Affari esteri, Ministro dell’interno, Ministro della marina, Ministro della guerra! Era insomma il vero dittatore della rivoluzione italiana, e del governo costituzionale del Re Vittorio Emanuele II. [...]

Cavour a meglio esercitare e più immediatamente che fosse possibile la sua potenza, giunse al punto di far trasportare il suo letto nelle stanze ministeriali, e nel corso della notte, in veste da camera, passava da un ufficio all’altro per dare ordini in ogni ramo di pubblico servizio, — segretamente di concerto con Garibaldi e con Mazzini. — Scrive al capo settario La Farina, e lo premura a preparare il progetto pei corpi dei volontarii, dandogli appuntamento per l’ora consueta; lo assicura indi a poco che il suo disegno è accettato, e lo spinge a concentrare i mezzi d’azione là dove deve incominciare il ballo, nell’istesso tempo che spedisce e scatena tutti gli emissarii della setta negli Stati italiani.

Invitato La Farina in casa da Cavour, questi, dopo una lunga conferenza, conchiude: "L’Italia diverrà una grande nazione, secondo la vostra Società nazionale; ma non sò se tra due, dieci, venti o cento anni. — Voi non siete Ministro; ma badate che, se sarò interpellato nella Camera, o molestato dalla diplomazia, io vi rinnegherò." E conchiudeva il discorso col consueto risolino sardonico. La Farina si restringe a rispondere: "Lasciateci fare" * [Nicomede Bianchi, loc. cit. pag. 65].

I concerti tenevansi regolarmente in Torino, strada Arcivescovado, n. 13. L’autorevole giornale francese L’Univers ne riportava i particolari nel suo num. dei 12 agosto 1859.

Ma prima di addentrarci di più in questa inaudita pagina di storia è pregio dell’opera di far fare meglio al lettore la conoscenza di codesto La Farina. Ne togliamo le notizie dal libro di un suo concittadino, e ad un tempo suo amico.

"Nacque Giuseppe La Farina in Messina, e passò l’età giovanile parte negli studî, parte negli stravizî. Svegliato di mente, perfido di cuore, settario d’indole, figurò nei casi del 1848, e quindi dannato all’esilio nella restaurazione. A Torino, ove fece stanza, cospirò indefessamente contro le monarchie e per la repubblica; strinse amicizia con Mazzini e scrisse nel senso di costui parecchie opere. Nel 1856, dopo il trattato di Parigi, si gittò in braccio a Cavour fondando una società liberalesca nominata Nazionale per antitesi. — Soffiare la ribellione, mettere l’Italia in fiamme era la missione della società, avente a programma di unificare l’impero costituzionale italico. Su quest’uomo e la sua congrega sentenziò il rivoluzionario Augusto Licurghi, scrittore d’ingegno, con le seguenti parole: * [Nella sua opera edita in Torino 1858 intitolata: La nuova lega italiana, progetto di unificazione per fondare l’Impero italico, cap. 3, pag. 39. (Mem. dell’Armonia 2. 218.)]

""Non ha guari si costituiva a Torino una società, sedicente Nazionale, che alacremente continua, benché in una cerchia di idee assai ristrette e limitate, l’opera dissolutrice del Mazzinismo. L’uomo che una volta ha appartenuto a qualche società segreta, per una fatale abberrazione d’idee, non mai dimentica i pregiudizii di casta, le abitudini del settario e la cospirazione in lui diventa natura. — Vi hanno poi taluni a cui la misteriose conventicole ed i segreti maneggi sono elementi indispensabili di vita, come l’aria e la luce; né per volgere di tempo, né per cambiar di circostanze cessano di cospirare. — Questi è il signor La Farina. — Qual’è la base del suo programma politico? L’Unità piena ed assoluta imposta ipso facto senza ritardo, senza contestazione. Per avere la unità propugna la fusione, la dittatura militare e civile, la guerra a tutto ed a tutti, e non rifugge neanco dalla guerra civile. Lo scopo principale a cui tende si è di confiscare le dottrine di Mazzini a vantaggio della Casa Sabauda. Egli cospira per fondere tutta la penisola negli Stati sardi, o, per dir meglio, unire tutta Italia in un sol corpo politico sotto la bandiera e il dominio di Casa Savoia. I suoi programmi sono vaghi, confusi, declamatorii, come d’uomo che non ha fede politica, ma tutto vende all’incanto: patria, onore, sapienza a chi più lo paga."

"Aveva ragione Augusto Licurghi a scrivere codesti vaticinii nel 1858, che dal 1860 in poi si sono a mano a mano verificati. (Episodi della rivoluzione siciliana di P. Olivieri Acquaviva. Losanna 1865, pag. 9.)

Notizie storiche intorno alla Società Nazionale

È ormai noto che, di accordo con Cavour, fu La Farina il Fac totum della famosa setta della Società Nazionale organizzatasi in Torino per fare l’Italia; della quale Società fu dapprima presidente Garibaldi, dipoi Pallavicino e da ultimo il medesimo La Farina, suo fondatore e segretario perpetuo.

Dalla corrispondenza epistolare tra quest’ultimo ed i suoi proseliti si rilevano le istruzioni da lui dettate. In una sua lettera da Torno, 8 febbraio 1858, ad Ermanno Barigozzi in Pallanza si legge quanto segue:

"... In nome della Società e nel mio nome particolare, la ringrazio moltissimo di quanto ella ha fatto in sì poco tempo; si approva pienamente il suo operato, ed in quanto ad istruzioni, ecco ciò sono incaricato a comunicarle:

"1. I Comitati istituiti o da istituirsi debbono mettersi in corrispondenza diretta con noi, indirizzando le loro lettere a Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale italiana. Via Goito, n. 15. — 2. Questi comitati spediranno, almeno una volta il mese, una relazione sullo spirito pubblico del paese in cui sono istituiti, l’elenco dei nuovi socii, e tutte quelle notizie che crederanno utili siano conosciute dal Comitato Centrale. — 3. Se stabiliranno delle corrispondenze con persone, abitanti in altri Stati italiani, nelle loro relazioni mensili ne faranno cenno; ma taceranno sempre i nomi delle dette persone e terranno su di esse il più scrupoloso silenzio. — 4. Cercheranno, per quanto loro sarà possibile, di far adottare i principii del nostro programma dai giornali della località, e procureranno che detti giornali patrocinino la causa della Società Nazionale. — 5. Adopreranno tutti i mezzi onesti di propaganda che sarà loro possibile, tenendo fermi i principii della indipendenza ed unificazione italiana; ma nel medesimo tempo usando molta tolleranza, ed adoprando sempre modi conciliativi in tutte le altre questioni religiose politiche e sociali. — 6. Cureranno di propagare la Società in tutte le classi de’ cittadini, nessuna esclusa, volendo noi fare opera di concordia e non di disunione. — 7. Qualora saranno interrogati sulle intenzioni del Governo piemontese, potranno rispondere, che gli sforzi nostri sono in tutto favorevoli alla Casa di Savoia, e come teli sono ben accetti alla dinastia ed al governo; che la nostra Società, usando delle libertà concedute al Piemonte, è sotto lo scudo delle leggi; che la sua esistenza è un fatto pubblico e legale; che il Governo però non potrebbe dare alcuna solenne ed esplicita adesione senza compromettersi e procurarsi degli imbarazzi e delle difficoltà, che è prudenza evitare. — Queste, per sommi capi, sono le istruzioni da osservarsi da tutti i comitati: il resto è completamente lasciato alla loro intelligenza e al loro zelo" * [Epistolario ecc. Tom. 2. pag. 42].

In altra lettera da Torino, 25 aprile 1858, il medesimo La Farina così scrive all’abate Filippo Bartolomeo da Messina:

"... Desidero da voi, la cui intelligenza e buona fede mi è nota, risposta alle seguenti domande: — 1. Credete che il programma della Società Nazionale sarebbe accettato dalla maggioranza dei liberali siciliani? — 2. Credete che se una guerra sorgesse tra Piemonte e Napoli, Sicilia insorgerebbe in prò di Vittorio Emanuele e dell’Italia? — 3. Credete che in Sicilia ci siano elementi sufficienti per una iniziativa rivoluzionaria, avendo promessa di molti consimili nella Italia centrale? — 4. Credete che una esplicita promessa di aiuti piemontesi dopo il fatto, basterebbe a far insorgere la Sicilia? — 5. Quali, secondo voi, sono i mutamenti seguiti nella pubblica opinione in Sicilia dal 1849 in poi? — 6. Quali, secondo voi, sono gli uomini più influenti in questo momento in Messina, in Palermo, e in Catania? — Attendo ansiosamente vostre risposte * [Ivi. Tomo 2. pag. 55]."

Dee ritenersi che tali risposte fossero state abbastanza sconfortanti per il cospiratore; perocché le Due Sicilie godettero la più perfetta pace e tranquillità nel 1858 e in tutto il 1859, e anche nel primo quadrimestre del 1860, ad onta delle vittorie franco-sarde in Lombardia, dell’invasione dei Ducati e della Marche e dell’Umbria, come di tutte le mene e degli intrighi diplomatici e settarii. E se nel maggio del detto anno si tenta l’arrischiatissima invasione de’ filibustieri con Garibaldi nell’isola di Sicilia, bisogna ritenerne vera cagione primaria il Governo piemontese che operava per mano del suo strumento d’azione, la setta della Società Nazionale, coadiuvata dalla frammassoneria presso tutti i Governi d’Europa.

Disegno di ribellione

Conosciuto così all’ingrosso il La Farina e colle proprie parole e con quelle autorevoli di rivoluzionari come lui, ma non dell’istesso partito rechiamo ora il disegno dei cospiratori per rovesciare i varii Governi italiani a profitto del Piemonte, concertato nell’ottobre 1858 tra il ministro Cavour e lo stesso La Farina, ambidue fondatori della Società nazionale, e principali fattori della invasione garibaldesca della Sicilia nel 1860.

Testo del progetto, o piano d’insurrezione d’Italia per la primavera del 1859, elaborato dal La Farina, emigrato siciliano, ed autograficamente approvato dal Cavour, quale si legge nell’Epistolario di G. La Farina, tom. II, pag. 82, raccolto e pubblicato da Ausonio Franchi. Milano 1859.

I. Norme generali

1. Che la guerra e la sollevazione si aiutino a vicenda; ma abbiano per quanto sarà possibile un terreno distinto e separato. Gli eserciti regolari intiepidiscono lo slancio rivoluzionario, e le bande insurrezionali rovinano la disciplina degli eserciti.

2. Che le bande rivoluzionarie siano solamente adoperate là dove nascono spontanee pel solo fatto della rivoluzione. Le bande reclutate dopo compiuto il movimento, sciupano una quantità enorme di denaro e di munizioni, e non si battono.

3. Che le bande non siano giammai incorporate nell’esercito. Tra 100 uomini di bande non ve n’è forse uno del quale potrà farsi un soldato. L’elemento buono per le bande è fatale a qualunque esercito regolare.

4. Che l’esercito piemontese si vada rapidamente accrescendo con un modo di coscrizione sommario e con l’aggregazione di soldati di altre parti d’Italia che si uniranno a noi e non mai con altri elementi indisciplinabili.

5. Che gli abili ufficiali delle altre parti d’Italia, unendosi a noi, siano immediatamente incorporati nell’esercito piemontese, e distribuiti nei vari corpi, qualora per ragioni particolari, e come eccezione, non si credesse necessario di lasciarli uniti ai loro soldati.

6. Che là dove la rivoluzione sia compiuta, si proclami immediatamente lo stato d’assedio; s’instituiscano consigli di guerra che giudichino di tutti i reati contro le persone e contro le proprietà, allorché i detti reati abbiano carattere di violenza pubblica; e che non sia permesso altro giornale oltre un bollettino governativo.

 Modo pratico per iniziare il movimento

Suppongo che il movimento debba aver luogo il 1° maggio. Il Governo farà in modo che verso quell’epoca si trovino alla Spezia due battaglioni di Linea, due compagnie di Bersaglieri e 4 pezzi di campagna. — La notte del 30 aprile s’insorgerà a Massa e Carrara, si arresteranno le autorità Estensi, e si disarmerà il presidio. Questo movimento sarà aiutato da una banda che moverà da Lerici e da una che moverà da Sarzana.

Calcoliamo d’avere in quei luoghi 300 persone atte alle armi. Questa gente sarà capitanata da Garibaldi. La mattina del 1° maggio Garibaldi riunirà ai suoi militi gl’insorti di Massa e Carrara; traverserà gli Appennini, ed ingrossato da un’altra banda che moverà da Varese per Pontremoli, si getterà su Parma, dove potrà giungere ai 3 di maggio dopo mezzodì. Al suo appressarsi, se il presidio uscirà a combatterlo, i nostri amici s’impossesseranno dell’arsenale. Presa tra due fuochi, è probabile che la truppa parmense porrà giù le armi o si sbanderà. — Se vorrà combattere sia dentro, sia fuori la città, bisognerà accettare il combattimento; se saremo battuti, ci ritireremo sugli Appennini; se vinceremo, marceremo rapidamente sopra Reggio e quindi sopra Modena. — Il Governo piemontese, che in tutto questo non avrà preso alcuna parte apparente, protestando la necessità di assicurare i suoi confini, occuperà Massa e Carrara, e, lasciate quivi due compagnie di Linea e pochi Carabinieri, colla rimanente truppa farà custodire i due passi degli Appennini, naturalmente fortissimi, con lo scopo apparente di difendersi dagli Austriaci, con lo scopo reale di dare animo ai sollevati di Parma. Se l’impresa di Parma non riuscisse, se gli Austriaci tagliassero con forze imponenti la strada di Reggio e di Modena, Garibaldi si ritirerebbe su gli Appennini, e scenderebbe verso Pistoia, ingrossato con gli insorti del Fivizzanese e della Lunigiana, popolazioni animose e armigere. Se la fortuna ci seconderà, Garibaldi si spingerà innanzi alla volta di Bologna.

"La notte del 2 maggio i nostri amici del Lombardo-Veneto taglieranno i fili elettrici, romperanno le strade ferrate, metteranno fuoco ove sarà possibile a tutti i magazzini di viveri, foraggi, attrezzi militari.

"La mattina del 4 una parte della flotta sarda con qualche truppa da sbarco entrerà nel porto di Livorno. Il pretesto di questa comparsa si ha benissimo nei moti della Lunigiana e del Pontremolese, che potrebbero cagionare un intervento austriaco. Si ritiene per certo che questa sola apparizione basterà a cacciare in fuga il Granduca e il suo Governo; si ritiene per certo che la truppa toscana non si batterà contro i cittadini, vedendo vicini i Piemontesi.

"Nel caso probabile che il Veneto e la Lombardia insorgessero, una parte delle forze radunate a Bologna, capitanate da Ulloa, passerebbero il Po, e Garibaldi si getterebbe nelle Marche. Volendosi un movimento più ardito, e forse più decisivo, si potrebbe da Massa attraversare gli Appennini, e pigliare la via di Garfagnana, Montecuccolo, Montagnano e Modena. In questo caso si rasenterebbe la Toscana e si lascerebbe a sinistra il Ducato di Parma. Credo che partendo da Massa la notte del 1° la sera del 15 si potrebbe giungere a Modena.

"Accettato" * [La parola accettato è autografa di Cavour, che la scriveva nella notte del 19 ottobre 1858, e riteneva l’originale presentatogli dall’autore La Farina. (Nota alla pag. 81 del tom. II dell’Epistolario succitato.)]

 Vantaggio dell’esposto piano

1. L’esercito Sardo non si priverà che di pochissime truppe.

2. Si moverà da luoghi in cui la popolazione dello Stato è dispostissima a secondare la sollevazione: Lerici, Sarzana, Spezia.

3. Si agirà da luoghi in cui la Società Nazionale conta maggiori aderenti: Carrara, Massa, Fivizzano, Pontremoli, Piacenza, Parma, Reggio, Pistoia, Modena, il Veneto e le Romagne.

4. Se alcuna delle fazioni proposte non riesce, non si corre rischio di rovinare la impresa.

5. Si propaga la sollevazione nei due versanti degli Appennini dove abitano le popolazioni più forti, armigere e malcontente.

6. Riuscendo, si piglia l’esercito austriaco tra due fuochi, o almeno si costringe a tenere gran parte delle sue forze sul basso Po e sul basso Adige.

7. Si evita la mescolanza pericolosa di esercito regolare e di bande insurrezionali.

8. Si fa comparire agli occhi di chi è disposto a non vedere, il Governo piemontese obbligato a pigliar parte per la difesa e sicurezza dello Stato.

9. Si lascerà aperta all’esercito piemontese la via di Toscana e Romagna in caso che credesse utile a’ suoi disegni di guerra girare il quadrilatero austriaco dell’Adige e del Mincio.

 Aiuti che si credono necessari

"Per i primi di novembre: fucili 300, carabine 100, pistole 200, polvere un quintale, piombo due quintali, capsule 20,000. Successivamente per i mesi di dicembre, gennaio, febbraio e marzo: fucili 8,000, carabine 2,000, polvere cinque quintali, piombo dieci quintali, capsule un milione.

"Sarebbe anche utile avere giberne di scarto 3,000, sacchi a pane 3,000.

"In quanto a denari, per tenere spie in tutte le piazze d’armi austriache e per tenere in punto tutto ciò che occorre e pagare il viaggio alle persone che si debbono far venire dai luoghi designati, bastano da novembre a marzo franchi 400 al mese. Quando sarà tempo di operare occorreranno un 50 mila franchi. Le requisizioni suppliranno al resto."

"Approvato dopo lunga discussione (col conte di Cavour, e con un suo segretario particolare) la sera dei 19 ottobre 1858."

E La Farina era tanto sicuro che il Governo piemontese avrebbe attuato tali disegni a danno de’ pacifici Stati vicini, che con una sua lettera da Torino, 20 ottobre 1858, al Dottor Bolognini a Lerici, dice, tra l’altre cose:

"Speriamo con fiducia di esser nel caso di dover agire nella prossima primavera. Il come e il dove sarà comunicato ai capi dei Comitati (della Società Nazionale) verso la fine dell’inverno, ciascuno per la parte che lo riguarda; ma tenga per fermo, che noi agiremo e con moltissime probabilità di buona riuscita."

 

Bibliografia
Paolo Mencacci
Storia della Rivoluzione Italiana
Volume Secondo
Parte
Seconda — Libro Secondo
Capo I.
- Lett.e alleg.e

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PLOMBIERES:

* CAVOUR IN CERCA DI UNA GUERRA 
* IL PATTO: UN REGNO DELL'ALTA ITALIA
* IL SACRIFICIO DELLA FIGLIA DEL RE

"Coll’attentato di Orsini, e colla morte sua e dei suoi complici si apre, per così dire, risolutamente l’ultimo stadio della rivoluzione d’Italia.
Nell’estate del 1858 Napoleone III, recatosi ai bagni di Plombières, il conte di Cavour vi si portò a complimentarlo, dicevasi, per parte di Vittorio Emanuele II. Allora ebbe luogo tra loro quella lunga conferenza di circa otto ore, che andò celebre nella storia, sotto il nome di Colloquio di Plombières, e nella quale si presero gli ultimi accordi per la imminente guerra che doveva essere iniziata col nuovo anno. Fu infatti stabilito tra le altre cose che, se l’Austria avesse mosso guerra al Piemonte, la Francia lo avrebbe soccorso, e avrebbe fatto in modo che ottenesse nell’alta Italia uno Stato di dodici milioni di abitanti, passando in compenso alla Francia la Savoia e Nizza * [
Nicomede Bianchi: Il Conte di Cavour. — Ravitti: Delle Recenti Avventure d’Italia].

Così, mentre Mazzini con una sua lettera del 29 luglio 1858 al Mills annunziava alla trepidante Italia: "Il nostro giorno verrà", contemporaneamente L’Opinione di Torino, diario ministeriale di Cavour, il 30 dell’istesso mese di luglio, precisamente un giorno dopo la pubblicazione di quella lettera fatta nell’Italia e Popolo, gravemente vaticinava: "Verrà il giorno in cui la storia noterà la visita fatta recentemente dal conte di Cavour a Plombières, come un avvenimento di grande importanza per alcune questioni della politica europea". Ma fra il giorno aspettato da Mazzini e quello affrettato da Cavour, quali giorni funestissimi non doveva passare la sventurata Italia!

I due grandi agitatori prepararono la strada l’uno all’altro, mentre cospiravano egualmente allo sfasciamento della vera Italia per farla unita in un solo caos materiale, morale e religioso. Secondo il de La Rive, nell’Opera citata, la Convenzione di Plombières consisteva nella creazione di un Regno dell’Italia settentrionale sino all’Adriatico, compresivi i Ducati di Parma e di Modena, assegnandovi così al Piemonte una popolazione di 12 milioni di abitanti; la Toscana ingrandita con una porzione degli Stati pontificî; Savoia e Nizza ceduta dal Piemonte per indennità alla Francia, la quale dovrebbe difenderlo in caso di guerra aggressiva da parte dell’Austria".

Magnificando il risultato di questo arcano trattato, gli ammiratori di Cavour attribuiscono all’Imperatore di aver detto a quell’incontro: "In Europa non vi sono che tre uomini: noi due e un terzo che non voglio nominare".

Da Plombières, ai 21 di luglio, Cavour scriveva al marchese di Villamarina, ambasciadore sardo a Parigi: "Ho passato quasi otto ore testa a testa coll’Imperatore, che mi ha esternato il più vivo interessamento, assicurandomi che non ci avrebbe mai abbandonati; ho insistito appo lui con energia per essere autorizzato a mettervi al corrente dei nostri segreti, ed egli vi ha acconsentito." * [Nicomede Bianchi, loc. cit.] Ed ecco spiegato anticipatamente il futuro contegno del Villamarina, quando sarà spedito Ministro plenipotenziario presso la Reale Corte di Napoli, alla cui rovina dovrà diplomaticamente cooperare.

A Plombières pertanto la guerra contro l’Austria veniva risoluta, e lo scopo di essa nettamente stabilito. [...] .Così a Plombières si cospirava contro l’Austria e contro i Governi italiani [...].

Lettera di Cavour a Vittorio Emanuele

La Perseveranza pubblicava nel testo francese (giacché questa nuova specie d’Italiani parla tutte le lingue all’infuori dell’italiano, che sanno malamente) la seguente lettera del conte Camillo Benso di Cavour al suo re Vittorio Emanuele II, che noi riportiamo tradotta nel nostro idioma.

"Baden 24 luglio 1858.

"Sire,

"La lettera in cifra spedita a Vostra Maestà da Plombières non ha potuto dare a V. M. se non un’idea molto incompleta dei lunghi colloqui, che io ho avuto coll’Imperatore. Per conseguenza penso che Ella sarà impaziente di averne una relazione esatta e particolareggiata. Questo è quello che mi affretto a fare, appena uscito dalla Francia, con questa mia, che spedirò a V. M. per mezzo del signor Tonits, addetto alla Legazione di Berna.

"L’Imperatore, appena fui introdotto nel suo gabinetto, entrò nell’argomento, che era stato cagione del mio viaggio. Incominciò col dire che era deciso di aiutare la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l’Austria, purché la guerra fosse intrapresa per una causa non rivoluzionaria (?!), che potesse giustificarsi agli occhi della diplomazia, e più ancora dell’opinione pubblica in Francia e in Europa.
"La ricerca di questa causa presentando la difficoltà principale da risolvere per accordarsi, credetti di dover trattare tale questione prima di tutte le altre. Proposi dapprima di far valere i lamenti cui dà luogo la poco fedele esecuzione per parte dell’Austria del trattato di commercio stretto con noi. A ciò l’Imperatore rispose, che una questione commerciale di mediocre importanza non potea dar luogo a una gran guerra destinata a cambiare la carta dell’Europa.

"Proposi allora di mettere innanzi nuovamente le cagioni che ci aveano determinato di protestare dinanzi al Congresso di Parigi contro l’estensione illegittima della potenza dell’Austria in Italia: cioè il trattato del 1847 tra l’Austria e i Duchi di Parma e di Modena; l’occupazione prolungata della Romagna e delle Legazioni; le nuove fortificazioni innalzate intorno a Piacenza. L’Imperatore non gradito questa proposta. Osservò che le querelle da noi fatte valere nel 1856 non erano state giudicate sufficienti per ottenere l’intervento della Francia e dell’Inghilterra in nostro favore; non si comprenderebbe come esse potessero giustificare ora un appello alle armi.

— "D’altra parte, aggiunse egli, mentre le nostre soldatesche sono a Roma, io non potrei esigere che l’Austria ritirasse le sue da Ancona e da Bologna." L’obbiezione era giusta. Dovetti dunque rinunciare alla mia seconda proposta; e lo feci con rincrescimento, perché questa avea qualche cosa di franco e di audace che si confaceva perfettamente col carattere nobile e generoso di V. M. e del popolo che Ella governa.
"La mia posizione diventava imbarazzante, perché io non avea più nulla di ben determinato da proporre. — L’Imperatore venne in mio aiuto, e noi ci ponemmo a percorrere insieme tutti gli Stati dell’Italia, per cercarvi questa cagione di guerra così difficile a trovarsi. Dopo aver "viaggiato" inutilmente in tutta la Penisola, giungemmo senza badarci a Massa e Carrara: e là scoprimmo quello che cercavamo con tanto ardore. — Avendo io fatto all’Imperatore una descrizione esatta di quel disgraziato (?!) paese, del quale per altra parte egli aveva un concetto assai preciso, noi restammo d’accordo che si provocherebbe un indirizzo degli abitanti a V. M. per chiedere protezione, ed anche per reclamare l’annessione di quei Ducati alla Sardegna. [...] Vostra Maestà non accetterebbe la proposta dedizione; ma, prendendo le parti delle popolazioni oppresse, rivolgerebbe al Duca di Modena una nota altera e minacciosa. Il Duca, forte dell’appoggio dell’Austria, risponderebbe in modo impertinente, in seguito a ciò V. M. farebbe occupare Massa, e la guerra incomincerebbe. Siccome il Duca di Modena ne sarebbe la cagione (!!!), l’Imperatore pensa che la guerra sarebbe popolare non solamente in Francia, ma anche in Inghilterra e nel resto dell’Europa; poiché quel Principe a torto o a ragione, è considerato come il capro emissario del dispotismo. D’altra parte il Duca di Modena, non avendo riconosciuto alcun Sovrano di quelli che regnarono dopo il 1830 in Francia, [...] l’Imperatore ha meno riguardi da osservare verso di lui che non verso qualsiasi altro Principe.

"Risoluta questa prima questione, l’Imperatore mi disse: "Prima di andare più innanzi, bisogna pensare a due gravi difficoltà che noi incontreremo in Italia. Il Papa e il Re di Napoli; io devo andar piano con essi: col primo per non sollevare contro di me i Cattolici della Francia; col secondo per conservarci le simpatie della Russia, che pone una specie di punto d’onore a proteggere Re Ferdinando". Risposi all’Imperatore che, — quanto al Papa, gli era facile concedergli il tranquillo possesso di Roma per mezzo della guarnigione francese, che vi si trovava stabilita, lasciando che insorgessero le Romagne; che il Papa, non avendo voluto seguire, a riguardo di quelle, i consigli che egli gli aveva dato, egli non poteva vedere di mal’ occhio che quelle contrade approfittassero della prima occasione favorevole per liberarsi dal detestabile (?!) sistema di governo, che la Corte di Roma si era ostinata di non riformare; che quanto al Re di Napoli non bisognava occuparsi di lui, a meno che egli non prendesse le parti dell’Austria; fermo tuttavia di lasciar fare i suoi sudditi, se, approfittando del momento, si sbarazzassero della sua paterna dominazione. 

"Questa risposta soddisfece l’Imperatore, e noi passammo alla grande questione: — Quale sarebbe lo scopo della guerra? 
"L’Imperatore concesse senza difficoltà, che bisognava cacciare gli Austriaci dall’Italia e non lasciar loro un palmo di terreno al di quà delle Alpi e dell’Isonzo.
"Ma poi, come ordinare l’Italia? — Dopo lunghe dissertazioni, delle quali risparmio a V. M. il racconto, noi ci saremmo posti d’accordo a un di presso sopra le seguenti basi, riconoscendo però che si potrebbero modificare dagli eventi della guerra:

"— La Valle del Po, la Romagna e le Legazioni avrebbero costituito il Regno dell’Alta Italia, sul quale regnerebbe Casa Savoia. Al Papa si conserverebbe Roma e il territorio che la circonda. Il resto degli Stati del Papa, colla Toscana, formerebbe il Regno dell’Italia Centrale. Non si toccherebbe la circoscrizione territoriale del Regno di Napoli. I quattro Stati italiani formerebbero una Confederazione a somiglianza della Confederazione Germanica, della quale si darebbe la presidenza al Papa per consolarlo della perdita della miglior parte de’ suoi Stati. 

"Questo assetto mi pare interamente accettabile. Imperocché V. M., essendo Sovrano di diritto della metà più ricca e più forte dell’Italia, sarebbe sovrano di fatto di tutta la Penisola.

"Quanto alla scelta dei Sovrani da collocarsi a Firenze e a Napoli, nel caso assai probabile che lo zio di V. M., e il suo cugino prendessero il savio partito di ritirarsi in Austria, la cosa fu lasciata in sospeso; tuttavia l’Imperatore non nascose che egli vedrebbe con piacere Murat risalire il trono di suo padre. Da parte mia indicai la Duchessa di Parma come quella che potrebbe occupare, almeno in via transitoria, il palazzo Pitti. Quest’ultima idea piacque assai all’Imperatore, il quale sembra annettere un gran pregio al non essere accusato di perseguitare la Duchessa di Parma, nella sua qualità di principessa della famiglia di Borbone.

"Dopo aver regolato la sorte futura dell’Italia, l’Imperatore mi chiese che cosa avrebbe la Francia, e se V. M. cederebbe la Savoia e la Contea di Nizza. — Risposi che V. M., professando il principio delle nazionalità, comprendeva che la Savoia per conseguenza dovesse essere riunita alla Francia; che perciò Ella era pronta a farne il sacrificio, quantunque le costasse immensamente il rinunziare ad un paese che era stato culla della sua famiglia, e ad un popolo che avea dato ai suoi antenati tante prove di affezione e di fedeltà. Che, quanto a Nizza, la questione era diversa, perché i Nizzardi per la loro origine, lingua e costumi appartenevano più al Piemonte che alla Francia, e che per conseguenza la loro unione all’Impero sarebbe contraria a quello stesso principio, per far trionfare il quale si pigliavano le armi. — L’Imperatore allora si accarezzò più volte i mustacchi, e si contentò di aggiungere, che queste per lui erano cose del tutto secondarie, delle quali si avrebbe il tempo di occuparsi poi.

"Passando quindi all’esame dei mezzi da adoperarsi affinché la guerra avesse un riuscimento favorevole, l’Imperatore osservò che bisognava cercare d’isolar l’Austria e di aver a fare con essa sola; imperocché era per questo che gli stava tanto a cuore che la guerra procedesse da un motivo, il quale non spaventasse le altre potenze del continente e che fosse popolare in Inghilterra. L’Imperatore parve convinto che quello da noi adottato corrispondeva al doppio fine.

"L’Imperatore conta positivamente sulla neutralità dell’Inghilterra; egli mi ha raccomandato che noi usassimo di tutte le nostre forze per agire sull’opinione pubblica di quel paese a fine di costringere il governo, che ne è schiavo, a nulla intraprendere in favore dell’Austria. Egli conta pure sull’antipatia del Principe di Prussia contro gli Austriaci, [...] perché la Prussia non si pronunci contro di noi.

"Quanto alla Russia, egli ha promessa formale, più volte ripetutagli dall’Imperatore Alessandro, che non avrebbe contrastato i suoi disegni sulla Italia. Se l’Imperatore non s’illude, come io sono inclinato a credere, per tutto quello che egli mi ha detto, l’impresa sarebbe ridotta a una guerra tra la Francia e noi da una parte, e l’Austria dall’altra.

"L’Imperatore tuttavia considera che l’impresa, ancorché ridotta a queste proporzioni, è di una estrema importanza e presenta difficoltà immense; l’Austria, bisogna non dissimularselo, ha immense risorse militari. Le guerre dell’Impero lo hanno provato chiaramente. Napoleone ebbe un bel batterla per 15 anni in Italia e in Germania, ebbe un bel distruggere gran numero dei suoi eserciti, toglierle province, sottoporla a schiaccianti tasse di guerra; egli l’ha sempre trovata sui campi di battaglia pronta a ricominciare la lotta. E bisogna conoscere che alla fine delle guerre dell’Impero, alla terribile battaglia di Lipsia, sono stati ancora i battaglioni austriaci quelli che hanno maggiormente contribuito alla disfatta dell’esercito francese. [...] Dunque per forzare l’Austria a rinunciare all’Italia, due o tre battaglie vinte nelle valli del Po e del Tagliamento non basterebbero; bisognerà necessariamente entrare dentro i confini dell’Impero e, ficcandole la spada nel cuore, cioè nella stessa Vienna, costringerla a sottoscrivere la pace sulle basi prima stabilite.

"Per giungere a questo fine ci vogliono forze assai considerevoli. L’Imperatore le calcola a 300.000 uomini, almeno: e io credo che ha ragione. Con 100.000 si bloccherebbero le piazze forti del Mincio e dell’Adige, e si custodirebbero i passi del Tirolo; 200.000 per la Carinzia e la Stiria marcerebbero sopra Vienna. La Francia fornirebbe 200.000 uomini; la Sardegna e le altre province d’Italia gli altri 100.000. Il contingente italiano forse sembrerà debole a V. M.; ma se Ella riflette che, trattasi di forze che bisogna fare operare, di forze in linea, Ella riconoscerà che per avere 100.000 uomini disponibili, ne occorrono 150.000 sotto le armi.

"Mi sembrò che l’Imperatore abbia idee assai giuste sulla maniera di condurre la guerra, e sulla parte che vi devono prendere i due paesi. Riconobbe che la Francia dovea fare della Spezia la sua gran piazza d’armi, e operare specialmente sulla sponda destra del Po, fino a che si sia conquistata la padronanza del corso di questo fiume, forzando gli Austriaci a chiudersi nelle fortezze. Vi sarebbero dunque due grandi eserciti, dei quali l’uno comandato da V. M. e l’altro dall’Imperatore in persona.

"D’accordo sulla questione militare, noi ci trovammo d’accordo anche sulla questione finanziaria, che devo far conoscere a V. M. essere quella che preoccupa in modo speciale l’Imperatore. Egli acconsente tuttavia di fornirci il materiale di guerra che potrà abbisognare, e di facilitarci a Parigi la negoziazione di un prestito. Quanto al concorso delle province italiane, sia di denaro che di robe, egli crede che bisogna prevalersene, salvando però fino ad un certo punto i riguardi. Gli argomenti che ho avuto l’onore di riassumere a V. M. il più brevemente possibile, furono oggetto di un colloquio coll’Imperatore, che durò dalle 11 del mattino alle 3 del pomeriggio. A 3 ore l’Imperatore mi congedò, impegnandomi a tornare alle 4 per fare con lui una passeggiata in carrozza.

"All’ora indicata salimmo sopra un elegante phaëton, tirato da due cavalli americani, che erano guidati dall’Imperatore seguito da un servo solo. Egli mi condusse per tre ore in mezzo alle foreste e ai declivi, che formano dei Vosgi una delle più pittoresche contrade della Francia.

"Appena fummo usciti dalle vie di Plombières, l’Imperatore entrò nell’argomento del matrimonio del principe Napoleone, chiedendomi quali fossero in proposito le intenzioni di V. M. — Risposi che Vostra Maestà si era trovata in una posizione assai imbarazzante, allorché le comunicai le proposte fattemi da Bixio; imperocché Ella aveva avuto dei dubbî sulle intenzioni che egli, l’Imperatore, nutriva intorno a ciò; che, ricordando un certo colloquio avuto da V. M. con lui a Parigi nel 1855 intorno al principe Napoleone, e ai suoi disegni di matrimonio con la Duchessa di Genova, non sapeva bene apporsi. Aggiungeva che questa incertezza era stata aumentata dalla visita fatta a V. M. dal dott. Conneau, che, messo alle strette sopra questo argomento da Lei e da me, aveva dichiarato, non solo di non avere istruzioni su questo punto, ma anche di ignorare del tutto quello che l’Imperatore ne pensasse.
"Aggiunsi che V. M., benché avesse in grandissimo conto l’adoperarsi quanto potesse per fargli cosa grata, avea una grande ripugnanza a maritare la sua figliuola a cagione della giovinezza di lei, e non sapeva imporle una scelta alla quale essa dovesse rassegnarsi. Che, quanto a V. M., se l’Imperatore molto lo desiderasse, non aveva obbiezioni insuperabili contro questo matrimonio; ma che voleva lasciare intera libertà a sua figlia.

"L’Imperatore rispose che desiderava vivamente il matrimonio di suo cugino colla principessa Clotilde, che egli fra tutte preferirebbe un’alleanza colla famiglia di Savoia, che se non aveva dato incarico a Conneau di parlarne a V. M. fu perché credeva di non dover fare pratiche verso di Lei senza essere prima certo che sarebbero state gradite. Quanto al colloquio con V. M. che io gli avevo ricordato, l’Imperatore mostrò dapprima di non rammentarsene; poi, dopo qualche tempo, mi disse: "Mi ricordo assai bene di aver detto al Re, che mio cugino aveva avuto torto di chiedere la mano della Duchessa di Genova; ma era perché io stimava assai sconveniente che egli le facesse parlare di matrimonio pochi mesi dopo la morte di suo marito."
"L’Imperatore tornò più volte sull’argomento del matrimonio.

"Disse, ridendo, essere possibile che egli qualche volta avesse parlato male di suo cugino a V. M.; imperocché sovente era stato in collera con lui; ma che in fondo lo amava teneramente, perché aveva delle qualità eccellenti, e da qualche tempo egli si comportava in modo da conciliarsi la stima e l’affezione della Francia. "Napoleone, aggiunse egli, vale molto più della sua riputazione; egli censura, ama di contraddire, ma ha ingegno, abbastanza giudizio e un cuore eccellente". — Ciò è vero; che Napoleone abbia ingegno V. M. ne poté giudicare, e io ne la potrei accertare pel molto conversare che ho fatto con lui. Che abbia giudizio, la sua condotta tenuta dal tempo dell’Esposizione, che egli ha presieduto, lo prova. Finalmente che il suo cuore sia buono, la costanza serbata sia verso i suoi amici, sia verso le sue amiche, ne è una prova indiscutibile. Un uomo senza cuore non avrebbe lasciato Parigi in mezzo ai piaceri del carnevale per fare l’ultima visita a Rachele, che moriva a Cannes, e ciò benché se ne fosse separato già da quattro anni. [...]

"Nelle mie risposte all’Imperatore, mi sono studiato sempre di non offenderlo, evitando però di prendere un impegno qualsiasi. A giornata finita, sul punto di separarci, l’Imperatore mi disse: "Capisco che il Re abbia ripugnanza a maritare la sua figlia così giovane; perciò io non insisterò che il matrimonio abbia luogo subito; io sarei disposto ad aspettare un anno e più, se è necessario. Ciò che desidero è di sapere che cosa possa ripromettermi. Per conseguenza vogliate pregare il Re di consultare la sua figliuola, e di farmi conoscere le sue intenzioni in modo positivo; se consente al matrimonio, ne stabilisca il tempo; io non domando altra garanzia che la nostra parola reciprocamente data e ricevuta." E con ciò ci siamo separati. L’Imperatore mi strinse la mano, e mi congedò, dicendomi: "Abbiate confidenza in me, come io l’ho in voi".
"V. M. vede che io ho seguito fedelmente le sue istruzioni.

"L’Imperatore, non avendo fatto del matrimonio della Principessa Clotilde una condizione sine qua non dell’alleanza, a questo riguardo non presi il menomo impegno, né ho contratto verun obbligo.
"Ora prego V. M. di permettermi di esprimerle in maniera franca e precisa la mia opinione sopra un argomento, dalla soluzione del quale può dipendere il successo felice della più gloriosa impresa, dell’opera la più grande che sia stata tentata da molto tempo.
"L’Imperatore non fece del matrimonio della Principessa Clotilde con suo cugino una condizione sine qua non dell’alleanza; ma ha chiaramente manifestato che gli sta molto a cuore. Se il matrimonio non si fa, se V. M. rifiuta senza motivi plausibili le proposte dell’Imperatore, che cosa avverrà? L’alleanza sarà rotta? È possibile; ma io penso che ciò non accadrà. L’alleanza si farà. Ma l’Imperatore vi metterà una disposizione affatto diversa da quella che vi avrebbe messo, se per prezzo della corona d’Italia, che egli offre a V. M., Ella gli avesse accordato la mano di sua figlia per il più prossimo parente di lui. Se v’è una qualità che distingue l’Imperatore, è la costanza nelle sue amicizie e nelle sue antipatie.
"Egli non dimentica mai un servizio, come non perdona mai un’ingiuria. Ora il rifiuto, al quale egli si è esposto, sarebbe una ingiuria sanguinosa, non bisogna dissimularlo. Questo rifiuto avrebbe un altro inconveniente: metterebbe nel Consiglio dell’Imperatore un nemico implacabile. Il Principe Napoleone, più côrso ancora di suo cugino, ci giurerebbe un odio mortale, e la posizione che egli occupa, quella cui può aspirare, l’affezione, direi quasi la debolezza, che l’Imperatore ha per lui, gli darebbero molti mezzi di soddisfarlo.

"Non v’è da illudersi: accettando la proposta alleanza, V. M. e la sua nazione si legano in modo indissolubile all’Imperatore e alla Francia.
"Se la guerra, che ne sarà la conseguenza, sarà felice, la Dinastia di Napoleone è consolidata per una o due generazioni; se fosse infelice, V. M. e la sua famiglia corrono pericoli tanto gravi quanto il suo potente vicino. Ma ciò che è certo si è, che il successo della guerra, le gloriose conseguenze che ne devono venire per V. M. e pel suo popolo, dipendono in gran parte dal volere dell’Imperatore, dalla sua amicizia per V. M.

"Se, per lo contrario, egli chiude nel suo cuore un vero rancore contro di Lei, ne possono derivare le conseguenze più deplorevoli. Io non esito a dichiarare colla più profonda convinzione, che accettare l’alleanza e negare il matrimonio sarebbe un immenso errore politico, che potrebbe attirare sopra V. M. e sopra il nostro paese dei grandi malanni.
"Ma, io lo so, V. M. è padre come è Re; ed è come padre che Ella esita ad acconsentire ad un matrimonio che non le pare convenevole, e non tale da assicurare la felicità di sua figlia. Che V. M. mi permetta di considerare la questione, non coll’impassibilità del diplomatico, ma coll’affezione profonda, colla divozione assoluta che Le ho giurato.
"Io non penso che il matrimonio della Principessa Clotilde col Principe Napoleone si possa dire sconvenevole.

"Egli non è Re, è vero; ma è il primo Principe del sangue del primo Impero del mondo; egli non è separato dal trono se non da un fanciullo di due anni. D’altra parte V. M. deve ben risolversi a contentarsi di un Principe per la sua figliuola, poiché in Europa non ci sono Re e Principi ereditarî disponibili. Il Principe Napoleone non appartiene a un’antica casa sovrana, è vero; ma il padre suo gli legherà il nome più glorioso dei tempi moderni; e dal lato della madre, Principessa di Wurtemberg, egli è imparentato colle più illustri case principesche dell’Europa. Il nipote del decano dei Re, il cugino dell’Imperatore di Russia, non è proprio un uomo nuovo col quale non si possa imparentarsi senza onta.

"Ma le principali obbiezioni che si possono fare contro questo matrimonio derivano forse dal carattere personale del Principe e dalla riputazione che gli venne fatta. A questo proposito io mi permetterò di ripetere ciò che l’Imperatore mi ha detto con piena convinzione: che egli vale, cioè, più della sua riputazione. Gettato giovanissimo nel turbine delle rivoluzioni, il Principe si è lasciato trascinare ad opinioni assai esagerate.
"Questo fatto, che non ha nulla di straordinario, ha contro di lui eccitato una folla di nemici. Il Principe si è molto moderato; ma ciò che gli fa grande onore, è che egli restò fedele ai principii liberali della sua giovinezza, nel mentre che rinunziava ad applicarli in maniera irragionevole e pericolosa; (stranissimo elogio! Ndr.) e che conservò i vecchi amici, benché colpiti da disgrazia. Sire, l’uomo che, giungendo a grandi onori e fortuna, non sconfessa quelli che furono suoi compagni di avversità, e le amicizie che aveva nelle file dei vinti, non ha cuore cattivo. Il Principe ha sfidato la collera di suo cugino per conservare le sue antiche affezioni; non gli ha ceduto mai sopra questo punto, e non cede nemmeno oggi.

"Le generose parole da lui pronunciate alla distribuzione dei premî dell’Esposizione di Poitiers ne sono una prova evidente. La condotta del Principe in Crimea fu deplorevole. Ma se non ha saputo resistere alle noie e alle privazioni di un lungo assedio, nella battaglia d’Alma ha tuttavia dimostrato coraggio e sangue freddo.
"D’altra parte egli potrà riparare sui campi dell’Italia il torto che poté incontrare sotto gli spalti di Sebastopoli. La condotta privata del Principe poté essere leggiera; ma non diede mai luogo a gravi rimproveri.
"Fu sempre buon figliuolo; e con suo cugino, se lo fece stizzire più di una volta nelle quistioni serie, gli si mantenne sempre fedele e affezionato.

"Malgrado di tutto ciò che io ho esposto, capisco che V. M. esiti, e tema di compromettere l’avvenire della sua amata figliuola. Ma sarebbe ella più tranquilla unendo la sorte sua con un membro di antica famiglia principesca? La storia è là per provarci che le Principesse sono esposte a una ben triste esistenza, anche quando i loro matrimoni hanno luogo con tutti i riguardi e gli usi d’una volta. Per provare questa verità io non andrò lontano a cercare gli esempî: porrò sotto gli occhi di V. M. quello che accadde al tempo nostro nella sua stessa famiglia.

"Lo zio di Vostra Maestà, il Re Vittorio Emanuele, aveva quattro figlie modelli di grazia e di virtù. Ebbene, quali furono i risultati dei loro matrimonî? La prima, e fu la più fortunata, sposò il Duca di Modena ed associò il suo nome a quello d’un Principe universalmente detestato [...]. V. M. non acconsentirebbe certo a un tal matrimonio per sua figlia.

"La seconda delle sue zie sposò il Duca di Lucca. Non ho bisogno di ricordare gli effetti di questo matrimonio. La Duchessa di Lucca fu ed è infelice quanto si può esserlo a questo mondo. La terza figlia di Vittorio Emanuele salì il trono dei Cesari, è vero; ma fu per unirsi ad un marito impotente e imbecille, che dovette discenderne ignominiosamente pochi anni dopo. La quarta finalmente, la bella e perfetta principessa Cristina, sposò il Re di Napoli. V. M. conosce certamente i trattamenti grossolani ai quali fu esposta, e i dispiaceri che la condussero alla tomba colla riputazione di una santa e di una martire. [...] Sotto il regno del padre di V. M. un’altra principessa di Savoia andò a marito; questa è la cugina di V. M., la principessa Filiberta. Fu ella più felice delle altre? 
Ed è la sorte di lei che V. M. vorrebbe fosse serbata a sua figlia?

"Gli esempî che ho posto sotto gli occhi di V. M. provano che acconsentendo al matrimonio della sua figlia col principe Napoleone, vi sono più speranze di renderla felice, che se, come suo zio e suo padre, la maritasse ad un principe della casa di Lorena o di Borbone. [...]

"Che V. M. mi permetta un’ultima riflessione. Se V. M. non acconsente al matrimonio di sua figlia col principe Napoleone, con chi vuole maritarla? L’Almanacco di Gotha è là ad attestare che non vi sono Principi adatti per lei, e ciò è ben naturale. La differenza di religione si oppone a legami di famiglia colla maggior parte dei Sovrani che regnano sopra paesi, che abbiano istituzioni analoghe alle nostre. La lotta di V. M. coll’Austria, le simpatie per la Francia rendono impossibili le simpatie coi membri di famiglie attinenti alle case di Lorena e di Borbone. Queste esclusioni riducono la scelta di V. M. al Portogallo e a qualche piccolo principato tedesco, più o meno mediatizzato.

"Se V. M. si degna meditare sulle considerazioni che ho avuto l’onore di sottoporle, oso sperare, riconoscerà che Ella può, come padre, acconsentire al matrimonio, e che l’interesse supremo dello Stato, l’avvenire della sua famiglia, del Piemonte, di tutta l’Italia gli consigliano di contrarlo.
"Supplico V. M. di perdonare alla mia franchezza, alla lunghezza de’ miei racconti. Non seppi, in un argomento così grave, essere più riserbato o più breve.
"I sentimenti che mi ispirano, le cagioni che mi muovono sono una scusa che V. M. vorrà ben gradire.

"Avendo dovuto scrivere questa lettera eterna sopra un angolo della tavola dell’albergo, senza aver il tempo di copiarla, e neppure di rileggerla, io prego V. M. di volerla giudicare con indulgenza, e scusare ciò che vi può essere di disordinato nelle idee e di incoerente nello stile. Ad onta dei difetti che io accenno, questa lettera, contenendo l’espressione fedele ed esatta delle comunicazioni, che mi fece l’Imperatore, oso pregare V. M. di volerla conservare, affinché io possa, dopo tornato a Torino, estrarne appunti che potranno servire alla continuazione dei negoziati che possono aver luogo. Nella speranza di potere alla fine della prossima settimana deporre ai piedi di V. M. l’omaggio della mia profonda e rispettosa devozione, ho l’onore di essere di V. M.

"Sire,
"l’umo ed obbmo servitore e suddito
"C. Cavour."

[...]

Contemporaneamente, sotto la stessa data e sullo stesso oggetto scriveva Cavour un’altra lettera al Generale Lamarmora, che figura autografata nella citata raccolta delle sue lettere, e che vale la pena di aggiungere alla precedente, della quale è necessario complemento. Essa è del tenore seguente:

"Baden 24 Luglio.

"Caro Amico,

"Ho creduto debito mio il far conoscere senza indugio il risultato delle mie conferenze coll’Imperatore al Re. Ho quindi redatta una lunghissima relazione (40 pagine in circa) che spedisco a Torino da un addetto alla legazione del Re a Berna. Desidererei molto che il Re te la facesse leggere, giacché mi pare di avere in essa riferito quanto di notevole mi disse l’Imperatore in una conversazione che durò poco meno di otto ore. Non ho il tempo di ripeterti ogni cosa; in massima ti dirò che si è stabilito:

"1. Che lo stato di Massa e Carrare sarebbe causa o pretesto della guerra.

"2. Che scopo della guerra sarebbe la cacciata degli Austriaci dall’Italia, e la costituzione del regno dell’Alta Italia, composto di tutta la valle del Po, e delle Legazioni e le Marche.

"3. Cessione della Savoia alla Francia. Quella della contea di Nizza in sospeso.

"4. L’Imperatore si crede sicuro del concorso della Russia, e della neutralità dell’Inghilterra e della Prussia.

"Nullameno l’Imperatore non s’illude sulle risorse militari dell’Austria, sulla sua tenacità, sulla necessità di prostrarla per ottenerne la cessione dell’Italia. Egli mi disse che la pace non si sarebbe firmata che a Vienna, e che per raggiungere questo scopo era mestieri allestire un esercito di 300.000 uomini. Essere pronto a mandare 200.000 combattenti in Italia; richiedere 100.000 Italiani.
"L’Imperatore entrò in molti particolari sulle cose della guerra che m’incaricò di comunicarti, e ch’io ti riferirò a viva voce. Mi parve di avere studiata la questione assai meglio dei suoi generali, ed avere in proposito idee giuste.
"Parlò pure del comando, — del modo di governarsi col Papa, — del sistema di amministrazione da stabilire nei paesi occupati, — dei mezzi di finanza: in una parola, di tutte le cose essenziali al nostro grande progetto. In tutto fummo d’accordo.

"Il solo punto non definito si è quello del matrimonio della Principessa Clotilde. Il Re mi aveva autorizzato a conchiudere, solo nel caso in cui l’Imperatore ne avesse fatta una questione sine qua non dell’alleanza. L’Imperatore non avendo spinto tant’oltre le sue istanze, da galantuomo non ho assunto impegno. Ma sono rimasto convinto che egli mette a questo matrimonio una grandissima importanza, e che da esso dipende, se non l’alleanza, l’esito suo finale. Sarebbe errore ed errore gravissimo l’unirsi all’Imperatore, e nello stesso tempo fargli un’offesa che non dimenticherebbe mai. Ci sarebbe poi di danno immenso l’avere a lato suo nel seno dei suoi Consigli, un nemico implacabile, tanto più da temersi che gli corre nelle vene sangue côrso.

"Ho scritto con calore al Re, pregandolo a non porre a cimento la più bella impresa dei tempi moderni, per alcuni scrupoli di rancida aristocrazia. Ti prego, ove ti consultasse, di aggiungere la tua voce alla mia. Non si tenti l’impresa, in cui si mette a repentaglio la corona del nostro Re e la sorte dei nostri popoli; ma se si tenta, per amor del cielo, nulla si trascuri di quanto può assicurare l’esito finale della lotta.
"Ho lasciato Plombières coll’animo più sereno. Se il Re consente al matrimonio, ho la fiducia, dirò quasi la certezza, che fra due anni tu entrerai a Vienna a capo delle nostre file vittoriose.

"Tuttavia, onde accertarmi del fondamento delle speranze manifestatemi dall’Imperatore, circa al contegno probabile delle grandi Potenze nell’evento di una guerra coll’Austria, ho pensato di venire a fare una corsa a Baden ove trovansi riuniti Re, Principi e Ministri di varie contrade dell’Europa. Fui bene ispirato, poiché in meno di ventiquattr’ore parlai col Re di Wurtemberg, col Principe Reale di Prussia, con la Gran Duchessa Elena, con Manteuffel, e vari altri diplomatici russi, si potrebbe fare assegno sicuro sulla cooperazione armata della Russia. La G. D. mi disse che, se la Francia s’univa a noi, la nazione russa costringerebbe il suo governo a fare altrettanto. Balan mi disse: — Si vous avez à l’un de vos côtés un volontaire de Vincennes, comptez que de l’autre vous aurez un soldat de notre garde.

"Rispetto alla Prussia, credo che, quantunque risenta una grande antipatia per l’Austria, essa rimarrà dubbiosa ed incerta, finché gli eventi la spingano irresistibilmente a prender parte alla lotta.
"Non ho più tempo di proseguire. Ma il sin qui detto ti proverà che non ho perduto il mio tempo, e che il mio viaggio non si può contare per vera vacanza.

"Addio. Spero sempre vederti al confine.

"C. Cavour"

Bibliografia 
Paolo Mencacci
Storia della Rivoluzione Italiana
Volume Secondo
Parte
Seconda — Libro Secondo
Capo I.
- Documenti-lettere allegate

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LA CONTESSA CASTIGLIONE

IL MOMENTO STORICO


Siamo in pieno Risorgimento italiano, anno 1858, precisamente tra la prima e la seconda guerra per l'indipendenza. Sconfitto dagli Austriaci nel 1849, il Piemonte si sta preparando per la rivincita. L'arduo compito viene affidato a Cavour, primo ministro di Vittorio Emanuele II. Egli comprende che per riuscire nella difficile impresa il Piemonte deve procurarsi un alleato potente. Cavour punta allora sulla Francia e mette in atto ogni mezzo per farsela amica. (vedi sopra i colloqui di Plombiers)
Oltre ai suoi validi diplomatici, pensa di sfruttare anche la bellezza e l'ambizione della contessa di Castiglione per penetrare fin nell'intimità di Napoleone III. Il tentativo del Primo Ministro riuscì però soltanto in parte, perché il contributo di questa «divina plenipotenziaria» non corrispose del tutto alle aspettative di Cavour.
Gli riuscì meglio invece - e non gli mancò l'appoggio della contessa - quello di spingere la giovane figlia di Vittorio Emanuele II, Clotilde a sacrificarsi sposando Gerolamo il cugino dell'imperatore (brutto e volgare).

Riguardo a questo matrimonio "sacrificale" della giovanissima Principessina (che era un po' la "cocca" del Re), il Principe d'Assia così scrive a sua sorella, l'imperatrice zarina Maria di Russia:  "Povera vittima della politica, il Savoia sacrifica la sua graziosa figliola quindicenne a un uomo come il principe Napoleone, scostumato, disprezzato in Francia da tutte le persone oneste e da tutti deriso, solo per la speranza di poter conquistare con l'aiuto della Francia qualche chilometro quadrato di territorio".
(Lettera di Alessandro D'Assia all'imperatrice Maria di Russia, 30 gennaio 1859 - Docum. Castello di Walchen).

In realtà il Re suo padre si dibatteva tra il suo desiderio di agevolare l'alleanza, e il dolore di dover dare la figlia prediletta ad un uomo indubbiamente spregevole. (lui che sapeva cosa era l'amore con la bella Rosina). Cavour scrisse a Villamarina -marito della dama di compagnia della Principessa- "...essendo egli (il Re) di carattere straordinariamente debole, non osa insistere con sua figlia. Vuole che solo io faccia la parte del tiranno, riservando per sè quella di padre nobile, affettuoso. Ma non importa: se il re è debole, io sono duro come il macigno e per raggiungere il santo scopo che ci siamo preposti, incontrerei ben altri pericoli che l'odio di una ragazza e le ire dei cortigiani"
(Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II,  Utet, To 1942, pag. 142)

Che cosa poi abbia veramente spinto Napoleone III a unirsi a Cavour è ancora materia di studio da parte degli analisti. Le ipotesi formulate sono state molte, qualcuna anche convincente ma non esaustiva. Si è parlato di intrighi, del dopo attentato fatto da Orsini all'imperatore francese, del combinato matrimonio di Clotilde, e di tante altre motivazioni.
Ma qualcuno ha anche accennato alla personale "dabbenaggine" di Napoleone III, un parvenu al potere imperiale e molto sensibile al fascino femminile. Non c'è da meravigliarsi che Cavour usando tutte le altre varie sue "armi", abbia tentato di ficcargli tra le lenzuola anche la Contessa di Castiglione e col suo aiuto - fargli sposare la sua causa: che era poi un'alleanza per la guerra contro gli Austriaci.

Quella guerra finì poi male, o meglio come lui assolutamente non voleva: l'abbandono della guerra alla linea del MIncio, la cessione di Nizza e della Savoia ( a Plombieres si era sì parlato di Nizza e Savoia, ma se si arrivava vittoriosi fino a Venezia e non solo a Peschiera), l'arroganza dell'imperatore, e si dice anche per l'insistente richiamo a Parigi della gelosa Eugenia.
Il giorno 22, l'imperatrice nonostante tutte le vittorie di suo marito nell'avventura italiana seguendolo con preoccupazione, gli telegrafava piena di ansia che se oltrepassava il Mincio parecchie Potenze si sarebbero schierate contro di lui. La Prussia stava già mobilitando, e sul Reno la sua Francia era troppo debole a causa della guerra in Italia. Ella temeva un'invasione del territorio patrio e desiderava perciò una pronta pace e il suo ritorno con l'esercito in Francia.

Nella stesura di quell'armistizio, Vittorio Emanuele II non era stato nemmeno interpellato nè invitato. Si erano incontrati solo i due imperatori. La decisione di interrompere la guerra l'avevano presa solo loro due.

 "La notte del 10 luglio 1859, con una cavalcata interminabile, Cavour, stravolto e già sul "teatro della sciagura", attendeva nella villa Melchiorri, a Monzabano il ritorno del re da Valeggio, ove si trovava il quartiere generale di Napoleone III. Appena Vittorio Emanuele giunse, racconta Nigra, unico testimone della storica scena, fece entrare il ministro nella stanza che gli serviva da salotto. Il re si tolse la tunica (il caldo era soffocante) e accese un sigaro. Fumava ferocemente. Si sedette alla gran tavola con i gomiti appoggiati sull'orlo. Disse: "Nigra, date il foglio a Cavour". Cavour era in piedi, vicino al tavolo, alla sinistra del re. Prese il foglio e lesse: ma prima di terminare la lettura lo buttò sulla tavola e scattò: "Lei non firmerà mai un simile obbrobrio!".

Il colloquio che seguì ebbe momenti tempestosi e drammatici.
Cavour che vedeva crollare in un solo istante l'edificio che con tante difficoltà era andato costruendo, scongiurava il re di respingere le inique proposte di pace di Villafranca: "Maestà, voi non firmerete questo documento, sarebbe ignominioso. Ci vien data la Lombardia. Ma che vale se il resto dell'Italia vien mantenuto sotto il dominio degli Asburgo? Napoleone se ne vuole andare. Se ne vada. Lei continui la guerra da solo. Se dovremo perire, periremo da prodi".
"Si -disse il re- torneremo a Torino sotto le baionette austriache, tra le risate di tutto il mondo".

In un impeto d'ira Cavour invitò allora il sovrano ad abdicare.
"A questo ci devo pensare io, che sono il re", ribattè Vittorio Emanuele.
E Cavour: "Il re? Il vero re in questo momento sono io!".
"Chiel a l'è 'l re? Chiel a l'è mac un birichin!" ("Lei il re? Lei non è altro che uno sfacciato!) scattò in piemontese il re e rivolgendosi a Nigra: "Nigra, ca lu mena a dourmi!" (Nigra, lo porti a dormire!).

Cavour presentò la mattina dopo le dimissione e si ritirò nel suo possedimento di Leri. Vittorio Emanuele nell'accettarle commentò: "Questi signori con le dimissioni si aggiustano sempre. Sono io che non mi posso dimettere!".

Un'altra versione, molto simile di Kossuth (uomo di Napoleone, presente sul luogo)
"All'armistizio di Villafranca, nel 1859, Cavour da Torino -a cose quasi fatte- giunse trafelato a notte alta  al Q.G. di  Momzambano. Nel tempestoso colloquio notturno, per le condizioni del trattato accettate (anche se era ancora da firmare) da Vittorio Emanuele,  perse ogni ritegno e rispetto nei riguardi di Napoleone III; ma anche di fronte al suo stesso sovrano.
Cavour era fuori di se' dal furore, e fu tale da chiedere le proprie dimissioni, che il Re imperturbabile accettò.  Nella sua indignazione egli arriva a dire al re che anche lui dovrebbe dimettersi, abdicare. Allorchè Vittorio Emanuele risponde che, in fin dei conti il Re era lui e che quello era affar suo, Cavour, perde le staffe, e lasciandosi del tutto andare nell'ira diventa perfino insolente "il Re?  Gli italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono io". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra "Si è fatto molto tardi, portatelo a dormire!"

Il giorno dopo, presente io Kossuth e Petri (uomini di fiducia di Napoleone III - Ndr.) Cavour prosegue con  la propria furia e l' indignazione: "Il vostro imperatore mi ha disonorato. Mi aveva dato la sua parola che avremmo cacciato tutti gli  austriaci dall'Italia. E adesso si prende il premio (Nizza e la Savoia, ma senza darci il pattuito Veneto) e ci pianta in asso a mezza strada. E' terribile, terribile...Alla pace non si verrà!...Io mi farò cospiratore. Rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovrà attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai"  (Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol. 1, pagg.518-519).

Cavour cospiratore? Rivoluzionario? Lo avrebbe fatto. In Parlamento si alleò con la sinistra, con la destra, con i democratici, con i ribelli, con tutti. Usò Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasformò in nemici di altri amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacciò un po' tutti, e s'inventò le "annessioni" che volevano dire "sottomissioni",  il tutto per dare una soluzione monarchica all'unità italiana, o forse se fosse vissuto 
(la impudente frase di sopra era abbastanza già chiara)  farne un Regno personale (Lo Statuto Albertino così com'era concepito lo permetteva - vedi poi Mussolini)
e non una Nazione. La Chiesa gli fu ostile, ma lui camminò diritto, imperturbabile; si disse coerente con la tradizione liberale (tutta sua però, dicono i nemici. Gli inglesi non erano per nulla d'accordo. Ne erano perfino inorriditi, ma intanto "lo ammiravano e... lo utilizzavano").

La filosofia di Cavour era che: "Non dovevano ripetersi "quarantottate" che avrebbero allarmato i conservatori; ciò che occorreva era una guerra regolare, non una rivoluzione popolare. Cavour guardava lontano, mirando a coinvolgere se necessario, persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto mondiale; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo"; e  affermava: "noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa". - Gli inglesi erano addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore "cercasse in modo così deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati". (C. Cavour,  Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307 -  G. Massari, Diario delle cento voci, Bologna 1959, pag. 116, 140, 142, 147,148, 206. - D. Mack Smith, Univ. Cambridge, Storia del Mondo Moderno, Garzanti, 1970-82,  X vol, pag.734 ).

Poi nel '60 ci fu la spedizione di Garibaldi in Sicilia. Cavour prese le distanze. Il re un po' meno, e solo ufficialmente. Entrambi non volevano complicare i rapporti internazionali. Poi andò come andò. E montarono entrambi sul carro garibaldino. Noncuranti degli altri, e soprattutto dei Francesi e degli Inglesi.

Qualcuno ancora più cattivo e malizioso, insinua che Napoloene III si sia poi vendicato, per il comportamento di Cavour avuto prima a Momzambano e poi in Sicilia (unione all'Italia con un improvviso plebiscito) compromettendo lui e Farina l'indipendenza che invece Garibaldi (appoggiato dagli inglesi) voleva offrire ai siciliani.
La cattiveria è che l'imperatore pochi mesi dopo lo abbia ripagato con la stessa moneta tramite "una giovane donna, d'un viso piacevole" moglie di un commissario di polizia (forse di Parigi), che in cambio di un sostanzioso premio (500.000 lire) si sarebbe prestata allo "scellerato progetto" di avvicinare Cavour e di avvelenarlo pure.

E veniamo a LEI,
alla Contessa Castiglione

"Nacqui nell'istante in cui una stella cadente passava sulla mia culla. Correva l'anno 1843 e non 1840 e non fu il mio « antico villaggio a sentire i miei primi vagiti, ma un altro villaggio, poiché il segreto circonda la mia nascita non so bene dove sia nata e da chi sia nata..."

Chi scriveva così sapeva benissimo di essere nata a Firenze il 22 marzo del 1837 dal marchese Filippo Oldoini e da donna Isabella Lamporeschi.
Questo strano modo di avvolgere i propri natali in un alone di mistero è una chiara testimonianza di un carattere fantasioso e bizzarro.
Virginia Oldoini era di una bellezza rara. Quando a Firenze, ancora dodicenne, passava sui Lungarni, la gente si affollava per guardarla. Qualcuno la chiamò l'Unica. Gli occhi, di un azzurro intenso, con una strana sfumatura violacea, facevano un profondo contrasto con i capelli castano-dorati, morbidi, inanellati. Virginia non ebbe una grande cultura, ma mostrò presto un'intelligenza vivace e un intuito pronto. In casa la chiamavano « Nicchia » e sotto questo nome la conobbe il principe Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III) quando a quell'epoca abitava a Firenze.

Crescendo, Nicchia divenne oltre che bella sempre più strana: amava sbalordire, farsi ammirare, essere al centro dell'attenzione generale. Si vestiva preferibilmente di viola, anche se questo colore non si addiceva ad una giovinetta. Ma i suoi occhi non avevano forse sfumature viola?...

A diciassette anni, e precisamente il 9 gennaio del 1854, Virginia Oldoini diventa contessa di Castiglione poiché sposa il vecchiotto conte Francesco Verasis Asinari di Castiglione Tinella, gentiluomo di corte di S. M. Maria Adelaide, la prima moglie di Vittorio Emanuele II. Ma non si può certo dire che sia stato un matrimonio d'amore: la giovane sposa infatti confessa nel suo diario di aver pianto quel giorno, e non per la più comprensibile delle emozioni.
Di questo matrimonio disgraziato (pur con tutti i benefici economici e la entrata a corte) ella incolperà in seguito la madre, rimproverandola di non averla accompagnata allora in Francia (due anni prima (1852) Napoleone III era diventato Imperatore dei francesi e l'anno dopo (1853) si era sposato).

«Se così fosse stato - scriveva - oggi la Francia avrebbe per imperatrice un'italiana e non una spagnola». (Riferendosi a Eugenia - E chissà quante cose sarebbero andate per un altro verso ! In Italia, in Francia, in Prussia)

Parole non certo modeste, che rivelano chiaramente quale grande ammirazione la bella contessa ha di se stessa.
Come detto sopra, Napoleone III aveva sposato nel 1853 la spagnola Eugenia de Montijo (nell'immagine a sinistra) , figlia di Guzman, conte di Teba.


A Torino, dove i Castiglione si erano trasferiti, Nicchia trovò ben presto modo di risplendere nei salotti della nobiltà piemontese, anche se due avvenimenti vennero in questo periodo ad interrompere la sua scintillante vita mondana: la morte della regina Maria Adelaide e la nascita del suo primo figlio.

La morte della Regina, che valse a far chiudere per qualche tempo i salotti torinesi, parve turbare la giovane Contessa più di quanto non la esaltasse la gioia per la nascita del figlio. Comunque a Torino conobbe un cugino molto importante: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Camillo Benso conte di Cavour.

Cavour ebbe modo per più di un anno di studiare questa giovane fatua ma intelligente, vanitosa ma affascinante cugina. E, da quel grande conoscitore dell'animo umano che era, pensò di sfruttare tali qualità. A poco a poco andò maturando un progetto, originale per quei tempi, ma che dimostra l'acume del grande ministro piemontese: mandare cioè Nicchia a Parigi, dove col suo fascino, ma soprattutto con la sua ambizione, avrebbe potuto influire sull'animo di Napoleone, sensibile alla bellezza femminile, e convertirlo alla causa italiana.

Cavour sapeva che durante la sua vita l'Imperatore era stato sempre dominato dalle donne: prima fra tutte dalla madre, la regina Ortensia, che ne aveva forgiato il carattere come meglio aveva creduto. L'avvenenza e l'ambizione di Nicchia non avrebbero quindi potuto avere facilmente ragione della debolezza dell'Imperatore?

A Parigi però ben pochi seppero trovare in questa bellissima giovane quella vivace intelligenza su cui puntava il conte di Cavour. Fu definita da qualcuno addirittura «sciocca e priva di fascino» e alla corte francese circolò per lei il soprannome di «la bella e la bestia» per sintetizzare in due parole le sue uniche qualità. Le malelingue dissero anche di peggio.

Comunque il suo primo ingresso a Corte fu veramente teatrale. Apparve molto in ritardo, vestita di un vaporoso abito bianco e assolutamente priva di gioielli. Era una sfida. La bella italiana voleva conquistare Parigi solo con la propria bellezza.
Ma più che Parigi voleva conquistare Napoleone III (come già detto, suo ammiratore all'epoca del suo soggiorno a Firenze).

La conquista fu facile. Lei aveva 20 anni, lui 50. Ben presto l'Imperatore si prostrò ai suoi piedi. Cavour, nel congedarla, le aveva detto: «Cercate di riuscire, cara cugina, con il mezzo che più vi sembrerà adatto, ma riuscite! ». E il « mezzo » la bella Contessa lo trovò facilmente.
I doni dell'Imperatore superarono le sue più rosee previsioni. C'è chi parla di 50 mila franchi mensili per le spese voluttuarie o, come si diceva allora, per « i dolciumi e i guanti », e di una famosa collana di perle a sei giri che sarà poi venduta per 422 mila franchi.

Ma non erano quelli i soli regali, perchè non era solo l'imperatore a ricevere le sue grazie. E anche qui le malelingue furono spietate, affibbiandole la nomina di "vulva d'oro".
Si narra che la stessa Eugenia, in una delle tante teatrali entrate della sua rivale, apparsa nei saloni con un ciondolo a forma di cuore un po' sotto la cintura, perfidamente la indicò "ecco essa dove ha il cuore".

La bella contessa di Castiglione offrendo questo "cuore", non è che si sacrificò dunque molto sull'ara della patria; e, secondo alcuni suoi critici, fu anzi molto interessata a ben altro. Tuttavia la bella Contessa si vantò più volte, in seguito, di aver addirittura «fatto l'Italia».

Non fece certo l'Italia, siamo d'accordo, ma la sua presenza a Parigi ebbe indubbiamente un certo influsso sulla politica francese nei riguardi del Piemonte. Sta di fatto che l'allora Ministro degli Esteri francese, Walenski, divenne a poco a poco filo-piemontese.

Quando realmente ha inizio la relazione tra la Contessa e l'Imperatore? Pare non prima del 1856, forse il 9 gennaio 1856
quando Cavour negli incontri di Parigi giocò queste carte della seduzione della cugina per entrare nella grande coalizione per la guerra in Crimea, volendo far diventare il Regno di Sardegna una rispettata potenza d'Europa.

La moglie di Napoleone III, Eugenia assistette impotente al trionfo della contessa, che conquistò il cuore dell'imperatore oltre essere sempre al centro dell'attenzione alla corte di Francia.

Nicchia stabilì la sua residenza in una villetta in Rue de Passy e raramente si mosse da Parigi nonostante gli insistenti richiami del vecchio marito che viveva solo soletto a Torino. Nicchia fu tanto presa da quel gioco così piacevole che non si sentì più di rituffarsi nella vita provinciale della capitale piemontese.
E ben presto la sua separazione dal marito diverrà legale. Ritornerà ancora in Piemonte, ma per brevi soggiorni, soprattutto quando dovrà caldeggiare il matrimonio tra la principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e Gerolamo Bonaparte: matrimonio che farà inorridire i sudditi sabaudi, ma che si rivelerà utilissimo alla causa italiana.
Le fanciulle piemontesi non la inviadiarono, anzi si dicevano fra di loro "guarda un po' ad essere figli di Re che cosa poi ti ritrovi come marito".

L'armistizio di Villafranca (luglio 1859) sarà un duro colpo per la Contessa e segnerà l'inizio del distacco da Napoleone. In verità il distacco non fu dovuto al voltafaccia del «piccolo Bonaparte», come Nicchia dirà in seguito, ma ad un fantomatico attentato all'Imperatore organizzato, pare, da una sconosciuta cameriera della Contessa durante un convegno dei due amanti (qualcuno disse che a organizzare la messa in scena sia stata proprio Eugenia per sbarazzarsi della rivale).
L'attentato ovviamente fallì, ma l'imperatrice Eugenia ottenne ciò che voleva: l'espulsione dalla Francia della rivale. La stella di Nicchia volgeva ormai al tramonto.

Fino al 1862 alla contessa di Castiglione non sarà permesso di rimettere piede in Francia. Non appena però, per l'intervento di potenti amici, potrà farvi ritorno, cercherà di rinverdire gli allori di un tempo. Ma l'incostante Napoleone aveva già rivolto i propri pensieri verso altri amori.
Allora Nicchia cercherà altre vittorie. Saranno piccole vendette di donna, come, quando smetterà di indossare la crinolina che, per ragioni estetiche, l'Imperatrice aveva rimessa in voga. Tale gesto costituirà una sfida alla bella Eugenia, poiché l'Imperatrice non potrà mai indossare un abito sciolto con la medesima disinvoltura della bellissima contessa di Castiglione.

Poi venne il suo giorno. E chissà con quale soddisfazione nel '70 apprese la sconfitta dell'imperatore e con l'imperatrice caduta dal suo regale piedistallo. Forse pensò di ritornare al centro dell'attenzione. Ma molti per le mutate condizioni politiche avevano ormai fatto tramontare un epoca e con essa anche le spuntate armi seducenti della contessa, che da un paio d'anni era anche diventata vedova.

A trentatre anni la bella Nicchia si sente già vecchia. Ma non sa arrendersi. La sua bellezza va sempre più sfiorendo e la lotta con gli anni sarà patetica e disperata, tenace e umiliante. Nel 1868 gli era morto il marito travolto da una carrozza e poco dopo, in Spagna, gli morì l'unico figlio che di certo non ebbe le attenzioni di una amorevole madre.
Ombre tristi si addensano sull'animo di questa bellissima donna, ombre che varranno sempre più ad incupirla, a renderla sospettosa e persino maniaca. Il disinteresse degli altri è visto come una congiura, come una persecuzione.
Inoltre la sua situazione economica va sempre peggiorando. Fin dal suo primo ingresso in società ella ha puntato tutto sui due doni passeggeri: la giovinezza e la bellezza, e deve constatare con immenso sgomento che ha puntato su due cavalli perdenti. E forse, solo in questa situazione riuscì a capire di essere stata soltanto usata e di essersi lei stessa buttata via. Forse.

E non varrà ad allontanare la sconfitta il velo nero con cui farà coprire gli specchi di casa per non guardarsi. Le rughe si addenseranno ugualmente sul suo viso, il corpo perderà ugualmente la propria freschezza e Nicchia vivrà la sua squallida e solitaria vecchiaia in modo triste e angosciante, poiché mai saprà rassegnarsi al declino ma vivrà sempre nel disperato rimpianto della giovinezza perduta.

Giungerà la fatale data del 28 novembre 1899, quando la morte la coglierà, improvvisa, in una camera del ristorante Voisin di Parigi ove, tormentata dalla mania di persecuzione, si era ritirata negli ultimi tempi.
Essa aveva disposto che la propria salma venisse rivestita con una certa camicia da notte, in ricordo dell'amore imperiale e che i suoi due cagnolini, imbalsamati, venissero sepolti con lei; queste disposizioni non furono però eseguite, poiché il testamento venne alla luce solo dopo la sua sepoltura.

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