RIVOLUZIONE FRANCESE

Alfred De Musset, quando scrisse "Le confessioni" aveva 27 anni. Nei suoi primi anni in collegio, come tanti coetanei, adolescente e poi come studente aveva "vissuto" il periodo migliore Napoleonico ma anche il periodo peggiore quando la Restaurazione si mise a reprimere tutti coloro che avevano ambito a quelle libertà che il Corso aveva fatto balenare nei loro spiriti giovanili, che attendevano un mondo più moderno sovrastato dalla parola Libertà.
Quando uscì dal collegio si ritrovò come quei soldati francesi che avevano combattuto per quella libertà; afflitti e delusi e caddero tutti nell'apatia, fino ad addormentarsi in un sonno profondo. E così anche molti giovani. I nuovi re e i governanti era quello che volevano. Ma dal torpore - con la penna - a 27 anni si risvegliò il deluso giovane De Musset.
E scrisse "Le confessioni". A questo libro, in sè stesso preso, non è possibile immaginar prefazione più bella di quella che l'autore stesso ne ha scritto componendo le pagine d'uno dei capitoli iniziali; quello cioè in cui la « malattia del secolo diciannovesimo » culminante nella alienazione della coscienza umana, è raccontata con l' inspirata foga di un cantante del dolore.

Capitolo I - (quasi una prefazione)

Per scrivere la storia della propria vita, bisogna prima aver vissuto; perciò non scrivo la mia.
Se fossi malato io solo, non ne farei parola; ma poiché molti altri soffrono dello stesso male, scrivo per loro, pur non sapendo bene se vi faranno attenzione. Anche se così fosse, dalle mie parole avrò tuttavia tratto il vantaggio di guarir meglio e, come la volpe presa in trappola, d'aver morso per liberarmi la mia zampa prigioniera.

Durante le guerre dell' Impero, mentre i mariti e i fratelli erano in Germania, le madri avevano generato nell' inquietudine una generazione ardente, pallida, nervosa. Concepiti fra una pattuglia e l'altra, allevati in convitto fra il rullo dei tamburi, migliaia di ragazzi si guardavano l'un l'altro con occhio triste, tastando a vicenda i loro gracili muscoli. Di quando in quando, i loro padri insanguinati facevano un'apparizione, li sollevavano sui loro petti sgargianti d'oro, poi li rimettevano a terra rimontando a cavallo.

Un uomo solo viveva allora in Europa; il resto dei viventi cercava di riempire i polmoni con l'aria ch'egli aveva respirato. Ogni anno la Francia faceva a quell'uomo il dono di trecentomila giovani. Era I' imposta pagata a Cesare, il quale, se non avesse avuto dietro a sé quel gregge, non avrebbe potuto seguire il suo destino. Era la scorta necessaria perché egli potesse attraversare il mondo e andare a soccombere nella valletta di un' isola deserta, sotto un salice piangente.

Non mai si ebbero tante notti insonni come al tempo di quell'uomo ; non mai si vide sporgersi ai bastioni delle città una tal massa di madri desolate; non mai fu fatto tanto silenzio attorno a coloro che parlavano di morte.
E tuttavia non mai vi fu tanta gioia, tanta vita, tanto impeto di fanfare guerresche nei cuori di tutti.
Soli così tersi, come quelli che asciugarono tutto quel sangue non si ebbero mai più; si diceva che il Dio li mandava per quell'uomo e si chiamavano i soli di Austerlitz. Ma era proprio lui che li creava, coi suoi cannoni continuamente rombanti, che lasciavano nubi soltanto l' indomani delle battaglie.

I ragazzi di allora respiravano l'aria di quel cielo senza macchia, dove brillava tanta gloria e balenava tanto acciaio. Ben sapevano essi di esser destinati alle ecatombi; ma Murat, per essi, era invulnerabile, e l' Imperatore lo si era visto passare un ponte sul quale fischiavano tante palle, che si dubitava potesse morire di ferite. E anche se si avesse dovuto morire, che importava ?
La stessa morte era bella allora, era grande e magnifica nella sua porpora fumante! Somigliava tanto alla speranza, falciava spighe sì verdi, che alla vecchiaia non si credeva più! Tutte le culle di Francia erano scudi ; tutte le bare lo erano ugualmente: davvero, non c'erano più vecchi, ma soltanto cadaveri o semidei.

Frattanto, I' Imperatore immortale stava un giorno su una collina a guardare sette popoli che si sgozzavano, non sapendo ancora se sarebbe stato padrone di tutto il mondo o solo della metà. Ma Asraele passò sfiorandolo col lembo della sua ala e lo spinse nell'Oceano. Al rombo della sua caduta, le potenze moribonde si drizzarono sui loro lettucci , e allungando le zampe adunche, tutte le reali aracnidi fecero a pezzi I' Europa, facendosi della porpora di Cesare un vestito d'Arlecchino.
Come il viandante che durante il viaggio cammina notte e giorno sotto la pioggia e il sole, senza accorgersi delle veglie e dei pericoli, ma arrivato in seno alla famiglia e seduto davanti al fuoco, sente d' improvviso una stanchezza senza limiti e può appena trascinarsi al suo letto, così la Francia, vedovata di Cesare, sentì d' improvviso le sue ferite. Allora cadde in deliquio e si addormentò
di un sonno così profondo, che i suoi vecchi re, tornati sul trono, credendola morta, l'avvolsero in una sudario bianco.

Il vecchio esercito in capelli grigi rientrò, spossato, e i focolari dei castelli disertati si riaccesero nella tristezza.
Allora, quegli uomini dell' Impero che avevano percorso tanto mondo e versato tanto sangue, abbracciarono le loro donne smunte e ricordarono i loro primi amori, si specchiarono nelle fonti delle loro native praterie, e vi si scorsero così vecchi, così mutilati, che si ricordarono dei loro figli, perché qualcuno chiudesse loro gli occhi.
Domandarono dove si trovassero, e i figli uscirono dai convitti, e non vedendo più né sciabole, né corazze, né fanti, né cavalieri, a loro volta domandarono dove erano i loro padri.
Ma si rispose loro che la guerra era finita, che Cesare era morto, che nelle anticamere dei consolati e delle ambasciate erano appesi i ritratti di Wellington e di Blúcher, con sotto la scritta: Salvaloribus mundi.

Allora un'angosciata gioventù si sedette su un mondo in rovina. Tutti quei figli erano gocce di un sangue ardente che aveva inondato la terra, erano nati in grembo alla guerra, per la guerra.
Per quindici anni tutti nella loro gioventù avevano sognato le nevi di Mosca e il sole delle Piramidi. Senz'essere usciti dalla loro città, si era detto loro che da ognuna delle sue barriere si andava ad una delle capitali di Europa. Avevano nella testa tutto un mondo, e guardavano la terra, il cielo, le vie e le strade: ma tutto era vuote e le campane delle loro parrocchie risuonavano sole, nella lontananza.

Pallidi fantasmi, coperti di toghe nere, percorrevano a lenti passi le campagne; altri bussavano alle porte delle case, e non appena si era loro aperto, traevano dalle tasche grandi pergamene logore, e con quelle in mano cacciavano via gli abitatori. Da tutte le parti arrivava gente ancora tremante per la paura che l'aveva colta alla partenza, vent'anni prima. Ora tutti pretendevano, litigavano, gridavano: ed era stupefacente che un solo morto avesse richiamato tanti corvi.

Il nuovo re di Francia stava sul suo trono, guardando qua e là se non scorgesse un'ape nelle tappezzerie. Taluni gli tendevano il cappello supplici, ed egli dava loro del danaro; altri gli mostravano il crocifisso, ed egli lo baciava; altri si contentavano di gridargli all'orecchio grandi nomi altisonanti, ed a quelli egli rispondeva di passare nel suo salone, la cui eco ne rimbombava; altri gli mostravano il vecchio mantello, da cui le api erano state cancellate con cura, e a quelli egli regalava un vestito nuovo.

I ragazzi guardavano tutto ciò pensando sempre che Cesare sarebbe sbarcato a Cannes e avrebbe soffiato via quelle larve; ma il silenzio continuava pur sempre, e in cielo non si vedeva alitare che il pallore dei gigli. Quando i figli parlavano di gloria, gli si rispondeva : « Fatevi preti » ; quando parlavano d'ambizione : « Fatevi preti » ; quando parlavano di speranza, di amore, di forza, di vita: « Fatevi preti ! ».
Tuttavia, un uomo salì sui rostri, e tenendo in mano un contratto fra il re e il popolo, comin
ciò col dire che la gloria era una bella cosa, e l'ambizione della guerra pure; ma ve n'era un'altra anche più bella, che si chiamava Libertà.

I figli alzarono la testa e ricordarono i nonni, che pure avevano gridato quella parola. Ricordarono di avere scorto, negli angoli bui delle case paterne, misteriosi busti di marmo, dai capelli lunghi, con iscrizioni romane; ricordarono di aver visto, di sera, a veglia, le nonne scrollare la testa e parlare di un fiume di sangue ben più terribile di quello dell' Imperatore; e vi era, in quella parola di Libertà, qualche cosa che faceva loro battere il cuore, come un ricordo lontano e terribile e come una cara speranza, ancor più lontana.

A sentirla, trasalirono; ma rientrando in casa loro, videro i tre panieri che venivano portati a Clamart (Allude alla esecuzione dei sergenti della Rochelle in Piazza di Greve il 20 sett. 1822) perchè tre giovani avevano pronunciato a voce troppo alta quella parola di libertà.
Uno strano sorriso passò sulle loro labbra a quella triste visione; ma altri arringatori, montati alla tribuna, cominciarono a fare pubblicamente un calcolo di quanto costasse l'ambizione e quanto fosse cara la gloria; fecero vedere l'orrore della guerra, e chiamarono macelli le ecatombi.
E ne parlarono tanto alto e sì a lungo, che tutte le illusioni umane, come gli alberi di autunno cadevano foglia a foglia; e coloro che ascoltavano si passavano la mano sulla fronte, come febbricitanti che si svegliano.
Gli uni dicevano : « La vera causa della caduta dell' Impero fu questa : il popolo non ne voleva più sapere ». Gli altri: « Il popolo voleva il re; no, la libertà ; no, la ragione ; no, la religione ; no, la costituzione all' inglese; no, l'assolutismo ». Alla fine qualcuno aggiunse: « No, niente di tutto questo, ma la quiete ».

Di tre elementi, dunque, si componeva la vita che si apriva allora ai giovani : dietro di loro, un passato distrutto per sempre che si agitava ancora sulle sue rovine, con tutti i fossili dei secoli dell'assolutismo; davanti a loro, l'aurora di un immenso orizzonte, i primi albori dell'avvenire; fra questi due mondi..., qualche cosa simile all'Oceano che separa il vecchio Continente dalla giovane America, un non so che di indeciso e di fluttuante, un mare agitato e pieno di naufragi, attraversato di quando in quando da qualche bianca vela lontana o da qualche naviglio dal pesante vapore; in una parola, il secolo contemporaneo, quello che divide il passato dall'avvenire, che non é l'uno e non é l'altro, e somiglia ad entrambi, e dove non si sa se ad ogni passo si cammina su germi o su rottami.

Ecco il caos, nel quale allora si doveva scegliere; ecco che cosa si presentava allora ai giovani pieni di forza e di audacia, figli dell' Impero e nipoti della Rivoluzione.
Ora, del passato non volevano più saperne, perché la fede nel nulla non può esistere; l'avvenire l'amavano, ma come ? Come Pigmalione amava Galatea; era per loro come un'amante di marmo, e aspettavano che prendesse vita, che il sangue ne colorisse le vene.
Restava, dunque loro il presente, lo spirito del secolo, angelo del crepuscolo che non è né la notte, né il giorno. Lo trovarono seduto su un sacco di calce, pieno di ossa, chiuso nel mantello degli egoisti e tremante di un freddo terribile. L'angoscia della morte entrò loro nell'anima alla vista di quello spettro mezzo mummia e mezzo feto; si avvicinarono ad esso, come il viaggiatore al quale si mostra a Strasburgo la figlia del vecchio conte di Sarvenden, imbalsamata nelle sue vesti di fidanzata ; uno scheletro infantile che mette i brividi, poiché le mani esili e livide portano l'anello da sposa, e la testa cade in polvere tra i fiori di arancio.

Come all'avvicinarsi dell'uragano passa nella foresta un terribile vento che fa fremere tutti gli alberi, e poi succede un profondo silenzio, così Napoleone aveva tutto sconquassato nel suo passaggio sul mondo. I re avevano sentito vacillare le loro corone, e portando la mano alla testa, non ci avevano trovato che i capelli irti per il terrore. Il Papa aveva fatto trecento leghe per benedirlo nel nome di Dio e imporgli la corona; ma Napoleone gliel'aveva levata di mano.

Così tutti avevano tremato nella foresta lugubre della vecchia Europa ; poi era venuto il silenzio.
Si dice che quando, incontrando un cane arrabbiato, si ha il coraggio di camminare lentamente, senza voltarsi e in modo regolare, il cane si accontenta di seguirvi per qualche tempo, digrignando i denti; mentre, se si affretta il passo, la bestia si scaglia su voi e vi divora, poiché dopo il primo morso non c'é più modo di sfuggirgli.

Ora, nella storia di Europa era spesso accaduto che un sovrano avesse fatto quel gesto di terrore e che il suo popolo l'avesse divorato; ma se un popolo aveva divorato il suo re, non tutti avevano fatto lo stesso nel medesimo tempo; cioè, era scomparso un re, ma non la maestà del re. Davanti a Napoleone, la maestà del re aveva fatto quel gesto che rovina non soltanto la maestà, ma la religione, la nobiltà e ogni potenza divina ed umana.

Morto Napoleone, le potenze divine ed umane furono bensì ristabilite di fatto, ma la fiducia in loro non esisteva più. C'è un terribile pericolo nel distinguere ciò che é possibile, poiché lo spirito va sempre più in là. Altro é dire: «Potrebbe essere» e altro dire: « È stato» : é questo il primo morso del cane.
Napoleone, despota, fu l'ultimo bagliore della lampada del dispotismo; distrusse e parodiò i re, come Voltaire il Vangelo. E dopo lui si udì un gran tuono: era la pietra di S. Elena che cadeva sul vecchio mondo. Subito dopo apparve all'orizzonte l'astro glaciale della ragione, e i suoi raggi, simili alla fredda dea della notte, versando una luce senza calore, avvolsero il mondo in un livido sudario.

Già si era vista gente che odiava i nobili, declamava contro i preti, cospirava contro i re; gia si era gridato contro gli abusi e i privilegi; ma la grande novità fu di vedere il popolo sorriderne.
Al passaggio di un nobile, di un prete, di un sovrano, i contadini che avevano fatto la guerra cominciavano a scrollare la testa e a dire « Quello l'abbiamo visto noi in altri tempi e in altri luoghi ; aveva un'altra faccia, allora ».
E quando si parlava del. trono e dell'altare, rispondevano. « Sono quattro tavole di legno ; l'abbiamo bene inchiodate e schiodate, noi ».
E quando si diceva loro : « Popolo, ti sei ricreduto degli errori che ti avevano fuorviato e hai richiamato i tuoi re e i tuoi preti ? », rispondevano: « Non siamo stati noi, sono stati quei chiacchieroni ».
E quando si diceva : « Popolo, dimentica il passato, lavora e obbedisci », essi si levavano in piedi, e si udiva un sordo rumore. Una sciabola arrugginita e intaccata si era mossa in un angolo della casupola. E subito si aggiungeva : «Sta' tranquillo, almeno; se non ti si fa del male non cercare di farne».

Purtroppo, si accontentavano di questo.
Ma non se ne accontentava la gioventù. Nell'uomo esistono certamente due potenze occulte che si combattono fino alla morte: una, chiaroveggente e fredda, si attacca alla realtà, la calcola, la pesa e giudica il passato; l'altra è avida di avvenire e si slancia verso I' ignoto. Quando la passione trasporta l'uomo, la ragione lo segue a malincuore e lo avverte del pericolo; ma non appena l'uomo si é fermato al richiamo della ragione e si è detto : « è vero, sono un pazzo ; dove andavo a finire ? » la passione gli grida : « E io, dunque, cesserò di esistere ? ».

Un sentimento d' inesprimibile malessere cominciò, dunque, a fermentare nei cuori dei giovani. Condannati all' inerzia dai sovrani del mondo, dati in balìa a pedanti di ogni genere, alla neghittosità e alla noia, i giovani vedevano allontanarsi da loro le onde spumose contro le quali essi avevano allenato le braccia.
Tutti quei gladiatori, già spalmati d'olio, sentivano in fondo alla loro anima una insopportabile miseria. I più facoltosi si diedero al libertinaggio; quelli di mezza fortuna si fecero una posizione, chi rassegnandosi alla toga e chi alle anni; i più poveri si buttarono agli entusiasmi a freddo, ai paroloni, al marasma dell'azione senza scopo. E siccome la debolezza umana cerca l'associazione e gli uomini sono per natura un gregge, la politica vi si intromise. Si andava a far baruffa con le guardie del corpo sulle gradinate della Camera Legislativa, si correva a un dramma dove Talma portava una parrucca che lo faceva somigliare a Cesare.

Ci si precipitava a un funerale di un deputato liberale. Ma dei membri dei partiti in lizza non ve n'era uno che, rientrando in casa, non sentisse l'amarezza del vuoto della propria esistenza e la povertà della sua azione.
Mentre la vita esteriore era tanto scolorita e meschina, la vita interiore della società prendeva un aspetto tetro e silenzioso. L' ipocrisia più severa regnava nel costume ; le idee inglesi essendosi aggiunte al bigottismo, anche l'allegria se ne era andata.
Preparava forse la Provvidenza nuove vie di uscita, o forse l'angelo precursore della società futura seminava già nel cuore delle donne i germi di umana indipendenza, che un giorno esse reclameranno. Ma é pur certo che, tutto ad un tratto - cosa inaudita - in tutti i salotti di Parigi, gli uomini si ritrassero da un canto e le donne dall'altro: e così le une, vestite di bianco coeve fidanzate, gli altri di nero come orfani, cominciarono a guardarsi dall'alto in basso.

Non si sbaglia: il vestito portato dai nostri contemporanei è un simbolo terribile; per arrivare fino ad esso bisognò che le armature cadessero ad una ad una, e i ricami fiore a fiore. La ragione umana ha proprio abbattuto tutte le illusioni e ne porta essa stessa il lutto per consolarsene.
Le usanze degli studenti e degli artisti, usanze così libere, belle e piene di gioventù, risentirono il generale cambiamento. Separandosi dalle donne, gli uomini avevano mormorato una parola che ferisce a morte : disprezzo.

Si erano buttati al vino e alle cortigiane. Anche gli studenti e gli artisti vi si buttarono, l'amore era trattato come la gloria e la religione come un' illusione antiquata. Si andava, dunque, nei postriboli. La griselle, quella specie di donna piena di sogno e di romanzesco, di un amore così tenero e dolce, si vide abbandonata al banco delle botteghe. Era povera e non la si amava più.
Volle aver vesti e cappellini, e si vendette. Che miseria ! Il giovane che avrebbe dovuto amarla e ch'ella avrebbe amato, quello che prima la conduceva alle foreste di Verrières e di Romainville, ai balli sui prati e alle cenette nell'ombra; colui che la sera andava da lei a far chiacchiere sotto la lampada, in fondo alla bottega, durante le veglie lunghe dell' inverno; colui che divideva con lei il pezzo di pane bagnato dal sudore della fronte e il suo amore sublime e povero; era lo stesso uomo che, dopo averla abbandonata, la ritrovava in qualche serata d'orgia, in fondo al lupanare, pallida e disfatta, perduta per sempre, con la fame sulle labbra e la prostituzione nell'anima !

Ora, proprio in quel tempo, due poeti, i due più bei geni dell'età post-napoleonica, avevano consacrato tutta la loro vita a raccogliere gli elementi dell'angoscia e del dolore sparsi nell'universo. Goethe, il patriarca della nuova letteratura, dopo aver tratteggiato nel Werther la passione che conduce al suicidio, aveva tracciato nel suo Faust la più cupa natura umana che mai avesse rappresentato il male e l' infelicità. Dal fondo del suo studio, circondato di quadri e di statue, ricco, fortunato e tranquillo, guardava arrivare fino a noi la sua opera tenebrosa con un sorriso paterno.
Byron gli rispondeva con un grido di dolore, che fece sussultare la Grecia, e sospese il suo Manfred sugli abissi, come se il nulla fosse la parola dell'enigma orrendo nel quale si avvolgeva.

Perdonatemi, o grandi poeti, che ora siete soltanto un po' di cenere e che riposate sotterra ! Voi siete dei semidei, ed io non sono che un giovane che soffre. Ma scrivendo tutto questo, non posso trattenermi dal maledirvi. Perché non cantaste il profumo dei fiori, le voci della natura, la speranza e l'amore, la vigna e il sole, l'azzurro e la bellezza ?
Senza dubbio, voi la conoscevate la vita, e certo, voi avevate sofferto; il mondo crollava intorno a voi e voi piangevate sulle sue rovine, disperando; le vostre amanti vi avevano tradito, i vostri amici calunniato, i vostri connazionali dimenticato; aveste il vuoto nel cuore, la morte davanti agli occhi e foste i colossi del dolore.
Ma ditemi, o nobile Goethe, non suonava più alcuna voce di consolazione nel mormorio religioso delle vostre vecchie foreste di Germania? Se per voi la bella poesia era sorella della scienza, non potevano entrambe trovare nella natura immortale una pianta salutare per il cuore del loro favorito?
Voi eravate un panteista, un poeta antico di Grecia, un amante delle sacre forme; e non potevate voi mettere un po' di miele nei bei vasi che sapevate fare, voi, a cui bastava sorridere e lasciare che le api venissero alle vostre labbra ?

E tu, anche tu, o Byron, non avevi presso Ravenna, sotto gli aranceti d'Italia, sotto il bel cielo veneziano, vicino al tuo caro Adriatico, non avevi tu la tua innamorata?
Dio mio, io che ti parlo non sono che un semplice ragazzo, ed ho conosciuto forse mali che tu non hai sofferti; tuttavia credo alla speranza e benedico Iddio. Quando le idee inglesi e tedesche passarono a quel modo per le nostre teste, fu come un disgusto triste e silenzioso, seguito da una tremenda convulsione. Perché formulare idee generali, é come cambiare il salnitro in polvere; e il cervello omerico del grande Goethe aveva succhiato, come un alambicco, tutto il succo del frutto proibito. Chi allora non lo lesse credette di non saperne niente. Povere creature! L'esplosione li spazzò via, come grani di polvere nell'abisso del dubbio universale.

Fu come una negazione di tutte le cose del cielo e della terra, che si può chiamare delusione, o se preferite, disperazione; come se l'umanità in letargo fosse stata creduta morta da coloro stessi che le tastavano il polso.
Come quel soldato, a cui una volta si domandò : « A chi credi, tu ? » e per il primo rispose « A me », così la gioventù di Francia, a quella domanda rispose per la prima: « A niente ».

Da allora, come due campi si formarono: da una parte gli spiriti esaltati e sofferenti, tutte le anime aperte che hanno bisogno dell' infinito, piegarono la testa nel pianto, si avvolsero in sogni morbosi, e non si videro che esili canneti in un oceano di amarezza. Dall'altra parte, gli uomini di carne restarono eretti, inflessibili, in mezzo ai piaceri positivi, non avendo altro pensiero che quello di contare il denaro che possedevano. Non fu che un singhiozzo e uno scoppio di riso; l'uno che veniva dall'anima, l'altro dal corpo. Ed ecco che cosa diceva l'anima:
« Ahimè ! la religione se ne va; le nuvole cadono in pioggia; non abbiamo più né speranza né attesa, neanche due modesti pezzi di legno nero in croce a cui tendere le mani. La stella dell'avvenire si alza appena, non può sorgere sull'orizzonte, resta velata dalle nubi, e come il sole d'inverno, il suo disco sembra rosso di quel sangue che ha conservato dal '93. Non esiste più amore, non esiste più gloria. Quali tenebre sulla terra ! E quando si farà giorno, noi saremo morti ».

E il corpo diceva:
« L'uomo é quaggiù per servirsi dei sensi ha più o meno di quel metallo giallo o bianco, col quale si acquista più o meno il diritto alla stima altrui. Mangiare, bere e dormire; questo é vivere. Quanto ai legami fra gli uomini, l'amicizia consiste nel prestar denaro; ma é raro avere un amico che si ami per questo. Le parentele servono per l'eredità; l'amore é un esercizio fisico; unico godimento intellettuale é la vanità ».

Simile alla peste asiatica esalata dai vapori del Gange, l'orrenda disperazione varcava a gran passi la terra.
Già Chateaubriand, il principe della poesia, avvolgendo l'orribile idolo col mantello di pellegrino, l'aveva posto su un piedistallo di marmo, in mezzo ai profumi dei sacri incensi. Già pieni di un'energia ormai inutile, i figli del secolo tendevano le mani oziose e bevevano nella loro sterile coppa il filtro avvelenato.
Già tutto si sprofondava, quando gli sciacalli uscirono dalla terra. Una letteratura cadaverica e infetta, che non aveva se non la forma, ma una forma ripugnante, cominciò a innaffiare di un fetido sangue tutte le mostruosità della natura.

Chi oserà raccontare quel che avveniva allora nei convitti? Gli uomini dubitarono di tutto: i giovani negarono tutto. I poeti cantarono la disperazione: i giovani uscirono dalle scuole con la fronte serena, il viso fresco e roseo e la bestemmia sulla bocca.
D'altra parte, predominando sempre il carattere francese, gaio e aperto per sua natura, i cervelli si riempirono facilmente delle idee francesi e tedesche; ma i cuori, troppo leggeri per lottare e per soffrire, si avvizzirono come fiori spezzati.
Così il principio della morte scese freddamente e senza scosse dalla testa alle viscere. Invece di aver l'entusiasmo del male, avemmo la rinunzia al bene; invece della disperazione, la insensibilità. Ragazzi di quindici anni, seduti indolentemente sotto arbusti in fiore, tenevano per passatempo discorsi che avrebbero fatto fremere di orrore le siepi immobili di Versailles.
La Comunione di Cristo, l'Ostia, simbolo eterno dell'amore celeste, si usava a sigillare le lettere; i ragazzi sputavano il Pane di Dio.
Fortunati coloro che sfuggirono ai tempi! Fortunati coloro che passarono sopra gli abissi, guardando il Cielo! Certo ve ne furono, e ci compiangeranno.
Purtroppo é vero che la bestemmia é uno sfogo che dà sollievo alla piena del cuore.

Quando uno qualsiasi, traendo di tasca l'orologio, dava a Dio un quarto d'ora di tempo per fulminarlo, si procurava certamente un quarto d'ora di collera e di gioia atroce. Era il parossismo della disperazione, un appello innominabile a tutte le potenze celesti : una povera creatura miserabile si contorceva sotto il piede che la schiacciava; era un alto grido di dolore. E chi sa mai ? agli occhi di Colui che tutto vede, era forse una preghiera.
Così i giovani trovavano un impiego della loro forza inattiva nell'attaccamento alla disperazione. Ridersi della religione, della gloria, dell'amore, di tutto è una grande consolazione per chi non sa che cosa fare; con ciò satireggiano sé stessi, e si danno ragione da sé, facendosi il sermone. E poi, è piacevole credersi infelici, quando non si é che vuoti e annoiati. Inoltre, la dissolutezza, prima conclusione delle massime mortali, é un terribile compressore, quando si è sulla via di snervarsi.

Mentre i ricchi dicevano fra sé :
« Di vero non c'è che la ricchezza, tutto il resto é sogno; godiamo e moriamo»,
la gente di mediocre fortuna diceva:
« Di vero non c' é che l'oblio, il resto é sogno; dimentichiamo e moriamo »
.
E i poveri :
« Di vero non c' é che la sventura ; il resto é sogno. Bestemmiamo e moriamo ».

Il quadro é troppo nero? Forse é esagerato? Che ne pensate? Sono un misantropo? Mi si permetta una riflessione.
Leggendo la storia dell' Impero Romano é impossibile non accorgersi del mare che i cristiani, così ammirevoli nel deserto, fecero allo Stato quando ebbero il potere. «Quando penso, dice il Montesquieu, all' ignoranza profonda nella quale il clero greco gettò i laici, non posso far a meno di paragonarlo a quegli Sciti di cui parla Erodoto, che accecavano i loro schiavi perché nulla potesse disturbarli e impedir loro di agitare il latte. Nessun affare di Stato, nessuna pace, o guerra, o tregua, o negoziato, o matrimonio si faceva se non per tramite dei monaci. Ed é impossibile credere quanto fu il male che ne risultò ».

Montesquieu avrebbe potuto aggiungere: «II Cristianesimo perdette gli imperatori, ma salvò i popoli. Aprì ai barbari i palazzi di Costantinopori, ma aprì le porte delle capanne agli angeli consolatori di Cristo ».
Si trattava pure dei grandi della terra ! Come sono interessanti gli ultimi rantoli di un impero corrotto fino al midollo delle ossa, e il tetro galvanismo per mezzo del quale lo scheletro della tirannide si agitava ancora sulla tomba di Eriogabalo e di Caracalla!
Bella cosa da conservare la mummia di Roma imbalsamata dai profumi di Nerone e avviluppata nella coltre di Tiberio ! O signori politicanti, si trattava di andare dai poveri e di dir loro di star tranquilli; si trattava di lasciar bensì i vermi e le talpe corrodere i monumenti d'infamia, ma anche di trarre dai fianchi della mummia una vergine bella come la Madre del Redentore, la speranza, l'amica degli oppressi.

Ecco che cosa fece il Cristianesimo; ed ora, dopo tanti anni, che cosa hanno fatto quelli che lo hanno distrutto?
Hanno visto che il povero si lasciava opprimere dal ricco, il debole dal forte perché l'uno e l'altro dicevano fra sé : « Il ricco e il forte mi opprimeranno sulla terra ; ma quando vorranno entrare in Paradiso, io sarò alla porta e li accuserò al tribunale di Dio ». Così, purtroppo, avevano pazienza.

Gli antagonisti di Cristo hanno detto, dunque, al povero : «Tu sarai paziente fino al giorno della giustizia: non esiste giustizia. Tu aspetti la vita eterna per reclamare la tua vendetta; non esiste vita eterna. Tu accumuli le tue lacrime e quelle della tua famiglia, le grida dei tuoi figli e i pianti della tua donna per portarli ai piedi di Dio nell'ora della morte: ma Dio non c' é ».

È ben certo, allora, che il povero ha asciugato le sue lacrime, ha detto alla sua donna di tacere, ai suoi figli dì andar con lui; egli si é sollevato sulla sua gleba con la forza di un toro e ha detto al ricco : « Tu che mi opprimi, non sei che un uomo ». E al prete : « Tu che mi consoli, non sei che un uomo ».
Era proprio quello che gli antagonisti del Cristo volevano. Credevano forse di fare a quel modo la felicità degli uomini, spingendo il povero alla conquista della libertà.
Ma se il povero, avendo finalmente capito che i sacerdoti lo ingannano e i ricchi lo derubano, che tutti gli uomini hanno i medesimi diritti, che tutti i beni sono in questo mondo e che la sua miseria è un'empietà; se il povero, non credendo che in sè e nel suo braccio, sua unica fede, si è detto un bel giorno : « Guerra al ricco! Anche a me i piaceri di questo mondo, poiché altro non c'è! a me la terra, poiché il cielo é vuoto! a me a tutti, poiché tutti sono uguali ! »,

....o sublimi ragionatori che l'avete condotto a questo punto, che gli direte voi, se egli sarà vinto ?
Siete, senza dubbio, dei filantropi; senza dubbio avrete ragione nell'avvenire, e verrà il giorno in cui sarete benedetti; ma davvero non possiamo benedirvi ancora. In altri tempi, quando l'oppressore diceva: « A me la terra!», l'oppresso rispondeva : « A me il cielo ! ». Ma ora, che cosa risponderà ?

Tutto il malessere di questo secolo proviene da due cause; il popolo, passato attraverso il 1793 e il 1814, porta nel cuore due ferite. Tutto quello che prima esisteva, ora non é più; tutto quello che sarà, non esiste ancora. Non cercate altrove il segreto dei nostri mali.
Guardate un uomo, la cui casa cade in rovina; egli I' ha demolita per fabbricarsene un'altra. Le macerie sono sparse sul suo campo, ed aspetta nuove pietre per il nuovo edificio. Mentre si appresta a squadrare i suoi conci e a fare il cemento - in maniche di camicia e la zappa in mano - si viene a dirgli che le pietre mancano, gli si consiglia di rimettere a nuovo le vecchie pietre per la nuova fabbrica. Che volete che faccia, se non vuol saperne delle vecchie pietre per il suo nido ? Ma la cava é profonda e gli strumenti son troppo deboli per estrarne le pietre nuove. « Pazienza, gli si dice, le caveremo a poco a poco : sperate, lavorate, andate avanti, poi indietro.... ». Che cosa non gli si dice? E frattanto, costui che non ha più la sua vecchia casa e non ha ancora la nuova, non sa come ripararsi dalla pioggia, né come preparare il pasto della sera, ne dove lavorare, né dove riposare, né dove vivere, né dove morire; ed ha i bambini appena nati.

O mi sbaglio in modo strano, o noi somigliamo a quell'uomo. Popoli dei futuri secoli, quando in una calda giornata d'estate sarete curvi sui vostri aratri nei verdeggianti campi della patria; quando vedrete, sotto il sole puro e senza macchia, la terra, madre feconda, sorridere nella sua veste mattutina al lavoratore, suo figlio prediletto; quando, asciugato sulla fronte tranquilla il santo battesimo del sudore, volgerete il vostro sguardo intorno all' immenso orizzonte, dove non vi sarà più una spiga più alta dell'altra fra la messi umana, ma solo fiordalisi e margherite in mezzo alle spighe verdeggianti, o uomini liberi, allora, quando ringrazierete Iddio di essere nati per quella raccolta, pensate a noi che non saremo più; riconoscete che noi abbiamo pagato ben caro il riposo che voi godete; compiangete noi più di tutti i vostri padri, perché noi soffriamo molto di quei mali che li rendevano degni dì compianto e abbiamo perduto tutto ciò che li consolava.

FINE

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