DONNE -  SOCIETÀ 
E ATTIVITÀ INTELLETTUALI
E DI CONCETTO



Fin dall'antichità il ruolo delle donne nella società intellettuale è stato rappresentato da una ritenuta inferiorità rispetto agli uomini e di una subalternità nei confronti di questi ultimi.

Nella società greca e poi anche in quella romana le donne, oltre che a non godere di nessun diritto politico o civile, erano anche ritenute incapaci di produrre lavoro intellettuale. La stessa figura del precettore dei giovani di buona famiglia aristocratica era riservata a uomini, schiavi provenienti dall'oriente acculturati, ma pur sempre uomini.
Non che la produzione culturale classica sia mancata di grandi donne, ma esse sono state apprezzate più dai posteri che dai loro contemporanei. Nessuno può negare l'importanza IPAZIA la filosofa, o la bellezza delle composizioni di Saffo, poetessa di grande valore e di stupenda poesia, ma si tratta di casi isolati.

Ciò che non era isolato era il mestiere che Saffo esercitava: l'educatrice. Infatti erano spesso le donne ad occuparsi di educare le giovani fanciulle a riguardo della loro futura attività di moglie. La formazione delle giovani interessava molto alle famiglie, ma era finalizzata al ricoprire un ruolo sociale ben determinato, quello della moglie colta, raffinata, ma sempre subalterna al marito. Non si trattava affatto di un processo che avesse come il fine ultimo l'autosoddisfazione o l'autorealizzazione delle donne: tutto avveniva in funzione di una precisa strategia ben inquadrata nella cornice esistente generate dalla struttura gerarchia e dalla mentalità dominante.

Ci sembra lecito affermare che l'attività delle educatrici e delle prime tenutarie di strutture che si ponevano come obiettivo quello della formazione delle giovani, non era affatto quello di migliorare le condizioni di vita e di stato sociale delle ragazze, ma quello di insegnare loro come comportarsi. 
Tale comportamento doveva rispondere ai canoni di comportamento voluto dagli uomini e dalla elites dominate. Quindi, in breve, i primi esperimenti sulla educazione femminile fatti da donne non furono volti all'emancipazione delle medesime, ma al mantenimento della realtà vigente.
Nel medioevo la condizione delle donne muta sensibilmente. La diffusione del cristianesimo e del cattolicesimo fa si che si abbia una maggiore attenzione verso il sesso femminile di cui si sottolinea non tanto l'uguaglianza con gli uomini, ma soprattutto la dolcezza e il ruolo materno.

È in questi anni che l'idea della donna come essere buono e incapace di fare del male si diffonde e si afferma. Proprio in questi fatti è riposta la spiegazione del perché le punizioni e le pene per le donne siano state, fino a tempi molto recenti molto diverse rispetto a quelle degli uomini. Diverse non vuole affatto dire minori o più miti, ma semplicemente, ad esempio, che al posto del carcere vi era la reclusione nei conventi.
Si deve tenere presente che fino a tempi recenti alle donne non veniva riconosciuta una responsabilità giuridica.

Ma le donne, come gli uomini, possono essere anche criminali e, seguendo la linea prima tracciata, bisognava spiegare l'origine di tali fenomeni senza riconoscerne l'uguaglianza con il cosiddetto "sesso forte". (a proposito si veda, R Porter, Storia sociale della follia, Garzanti, Torino 1991)

Vi era poi il problema di tutte quelle persone di sesso femminile che avevano o assumevano comportamenti differenti dalle modi imperanti e le cui discrepanze nel modo di vita entravano in urto con il sistema intellettuale dominante.
(abbiamo già letto al primo capitolo cosa scrivevano nel 1821 (..."Che insegnino li madri alle figliuole a filare, a cucire e ad occuparsi di esercizi donneschi. In quanto a leggere, al massimo insegnino loro quanto basta per leggere i libri delle preci"
Ma anche nell'Italia Unita del 1897 non si scherzava: "
Non devono pensare, altrimenti sono guai!" )

Per tutte queste persone, a cui si assoggettarono anche le donne che soffrivano di disturbi mentali, venne creata ad hoc una nuova categoria che, richiamandosi ad antichi miti e vecchie paure ancestrali dell'umanità, servì da strumento di controllo (e di soppressione) per ogni forma di devianza. Nacquero così le streghe e la caccia, una vera a propria persecuzione, a tutte quelle che venivano ritenute, anche con prove banali e stupide, tali.




Fino alla Rivoluzione francese (1789) la caccia alla strega con tutte le conseguenze del caso (da processi per stregoneria al rogo per le povere vittime, senza, ovviamente, dimenticarsi dell'uso della tortura!) fu diffusa in tutti i paesi e in tutti gli stati, senza differenza di credo religioso o di sistema politico in uso. La caccia alla strega, come ben documentato in più pubblicazioni da Levach era l'attività preferita in tutti i borghi e in tutte le piccole città d'Europa: una specie di spettacolo per il fine settimana a cui la popolazione assisteva con un misto di soddisfazione o paura. Contrariamente a quanto molti pensano la sistematica eliminazione delle streghe (pardon delle presunte streghe!) la caccia alla strega proseguì fino ai primi decenni del XVIII secolo quando America latina venne messa al rogo l'ultima donna. 

Molti anni dopo le barricate di Parigi, in cui sulle note della Marsigliese si era affermata l'ideale di fraternità, eguaglianza e libertà e pochi decenni prima della nascita dei movimenti socialisti e operai che, sulle note dell'Internazionale, predicavano la giustizia sociale e l'umana redenzione, per l'ennesima volta si era ripetuto un antico e barbaro rito che prevedeva la morte di una giovane innocente la cui unica colpa era quella di essere estranea (per scelta o per malattia) alla società in cui era nata. Anzi, come tante altre donne uccise nei secoli passati la sua unica colpa (se di colpa si può parlare!) era quella di essere nata nel secolo sbagliato! (vedi Charlotte Cordey > > )

Il ruolo intellettuale delle donne nel medioevo, però, era stato caratterizzato da un grande numero di filosofe che, attraverso lo studio della mistica religiosa, erano riuscite a penetrare nel campo della filosofia fino ad allora ritenuto un luogo solo e prettamente maschile. Fu questo il caso della famosa Eloisa.
Nell'età moderna in molti paesi delle donne furono chiamate a ricoprire ruoli primari alla guida dello stato in qualità di sovrane o più semplicemente di sole reggenti.

Nessuno può ignorare il gran numero di regine inglesi o scandinave o la famosa Isabella di Castiglia, regina di Spagna, o, da ultima, la sanguinaria Caterina de' Medici, reggente di Francia ai tempi della strage degli Ugonotti durante la notte di San Bartolomeo.
Per onestà intellettuale va sottolineato come tali designazioni avvenissero poiché le donne in questione o erano le vedove dei sovrani regnati o le ultime eredi della casa regnate.

Ma quello che ancora mancava al sesso femminile era la possibilità di esprimersi e di attivarsi nel campo dell'attività intellettuale e culturale.
Neanche l'Illuminismo permise ciò in maniera maggiore di quanto era avvenuta nei secoli passati. Anzi uno dei limiti del secolo dei lumi e dei suoi protagonisti fu quello di non avere appreso a pieno la necessità di affrontare la questione femminile senza i pregiudizi del passato.

La donna continuò, anche per tutto il XVIII secolo ad essere individuata come capace solo di occuparsi di beneficenza o attività caritatevoli. Non solo le erano precluse le attività intellettuali come l'insegnamento o la carriera nelle magistrature, ma si continuava a ritenere impossibile la presenza femminile nel campo della politica sia attiva, sia passiva.
Ma molte organizzazioni femminili, soprattutto nella liberale Inghilterra e nei paesi nordici (non a caso a maggioranza protestante e quindi più avanzati su alcune questioni come quelle di cui ci stiamo occupando e dotati su di una larga idea diffusa dell'importanza della responsabilità individuale), cominciarono a richiedere anche per le donne il più elementare dei diritti politici, quello di voto.
(la Nuova Zelanda fu la prima a riconoscere alle donne il diritto di voto nel 1893. In Finlandia nel 1907, in Russia nel 1917, alle donne statunitensi fu concesso il voto nel 1920, in Francia nel 1944, in Italia solo nel 1946 assieme al Guatemala, Senegal e Togo).

La lotta di queste donne fu intrinsecamente legato alle vicende del movimento operai e socialista: il progresso delle donne e quello del proletariato andarono di pari passo anche se, ad un certo punto, gli operai uomini videro nelle donne delle possibile avversarie e reagirono corporativamente per opporsi all'avvento delle donne in posti direzionali.

Gli strumenti di lotta delle prime femministe furono molto simili a quelli degli operai: giornali di parte e militanti che procedevano alla diffusione delle nuove idee e all'educazione delle militanti. Vi erano anche sit-in e manifestazioni, ciò che mancava (o avveniva in maniera minima) erano gli scioperi: le donne non erano impiegate in massa e quindi i loro scioperi non potevano raggiungere i livelli di quelle dei colleghi maschi.

A opporsi al suffragio elettorale femminile non furono solo i circoli conservatori e legati alla restaurazione post-napoleonica, ma anche molti illuministi tra cui lo stesso padre dell'Illuminismo francese Voltaire.
Il filosofo francese fece ciò in nome di ideali progressisti e riformatori: riteneva infatti che una partecipazione delle donne alle elezioni avrebbe avvantaggiato i candidati e le idee più retrograde in quanto le donne erano viste come maggiormente controllabili e influenzabili dalle strutture conservatrici dominanti, in primis dalla Chiesa e dalla monarchia.

Questo atteggiamento ha caratterizzato molta parte della sinistra fino al '900 inoltrato.
Alla prova dei fatti si può vedere come empiricamente Voltaire avesse ragione: le donne, soprattutto la prima volta che si recano alle urne, se prive di una accurata preparazione politica, finiscono con l'appoggiare i movimenti politici più conservatori.
È noto come la maggior parte dell'elettorato femminile italiano si sia espresso il 2 giugno 1946 nel referendum istituzionale a favore della Monarchia e, nel voto per l'elezione dell'Assemblea costituente, a favore della Democrazia Cristiana. Anche in seguito l'elettorato femminile votò più per il partito democristiano (che noi indichiamo in questa sede come una formazione moderata anche se una reale collocazione politica del partito dello scudocrociato richiederebbe un'analisi molto approfondita per via delle numerose posizioni, a volte a dir poco antitetiche, esistenti nel partito di Piazza de Gesù).

Una inversione di tendenza la si ebbe nel referendum sul divorzio del 1975: le donne votarono (anche nella conservatrice e tradizionalmente dc Sicilia) per il mantenimento della legge. Questo fu un fatto che suscitò scalpore e stupore nella classe politica. Infatti tutti i leader di partito avevano scommesso sul tradizionale voto conservatrice delle donne. Il leader degli antidivorzisti, il segretario della Dc, sen. Amintore Fanfani aveva girato in lungo e in largo l'Italia cercando di terrorizzare le donne all'insegna dello slogan "Con il divorzio vostro marito potrà lasciarvi e fuggire con la cameriera!."
Nel campo opposto l'on. Enrico Berlinguer, segretario del Pci e quindi a favore del mantenimento della legge Fortuna-Baslini, aveva cercato di evitare il referendum perché temeva il voto femminile.

Ciò non avvenne (Ma siamo già negli anni 1971-1974) soprattutto grazie alla maturità (e maturazione?) dell'elettorato femminile anche a seguito dell'attività di propaganda fatto dalle sezioni femminili dei partiti laici e di sinistra e, in modo particolare, da quella dello stesso Partito Comunista di cui non si può non ricordare l'attività di personaggi come l'on. Nilde Iotti e la sen. Giglia Tedesco.

Ma quanto proposto dall'illuminista francese non poteva essere certo la soluzione al problema rappresentato dalla questione femminile: non si può combattere in nome dell'uguaglianza usando discriminazione nei confronti di oltre metà del mondo.
A capire che le donne andavano politicamente educate furono i movimenti politici socialisti che agirono in tutta Europa fin dalla seconda metà del XIX secolo. Le donne cominciarono, all'alba del XX secolo, (1907) a veder riconosciuto nei paesi scandinavi il proprio diritto di votare e di essere elette, ma anche in quei paesi in cui perdurava l'ostracismo elettorale nei loro confronti, si cominciarono ad organizzare in strutture permanenti con lo scopo di vedere riconosciuti alcuni propri diritti.
Il primo di questi, in una società dove ancora la figura femminile veniva assimilata alla sola attività di carità o di assistenza infermieristica o simile, fu quello di voler svolgere le stesse attività dei loro compagni maschi.

Non più quindi lavori per soli uomini e attività (secondarie) per sole donne. Si poneva, inoltre un altro grave problema: le donne chiedevano di essere retribuite, a parità di prestazioni date, come gli uomini e questo, in molti casi, non è stato raggiunto neanche oggi. Infatti in molti paesi (come ad esempio la Polonia) i contratti di lavoro prevedono, a parità di ore di lavoro e di attività svolta, una retribuzione inferiore per le impiegate donne rispetto ai lavoratori uomini.

A cavallo fra il XIX e il XX secolo in molti paesi del mondo occidentale, invece, la forza d'urto rappresentata dai primi timidi tentativi di emancipazione femminile fu dirompente e riuscì a fare breccia negli ambienti conservatori e maschilisti imperanti.
Ovviamente non ovunque ciò avvenne allo stesso modo e con lo stesso ritmo. I tempi e i modi furono molto diversi, ma, una volta giunti in una fase di progressiva affermazione dell'uguaglianza, i risultati sono stati universalmente positivi.

Il miglioramento del ruolo sociale della donna è stato ovunque un avvenimento accaduto in parallelo con il miglioramento dello standard di vita della società, una costante maggior democratizzazione della medesima con un aumento del tasso di civiltà della realtà sociale.
Cosa ha spinto le donne, prime quelle di classe borghese e poi quelle di origine proletaria, a voler svolgere attività intellettuali? 

Questa domanda avrebbe molte risposte, ma, per necessità di sintesi, ci limiteremo a citare solo quelle due principali: da un lato la necessità (e il diritto) a voler essere considerate al pari degli uomini e l'altra, ben documentata nei testi storici e nei documenti d'epoca, dalla volontà di non vedere recedere la propria posizione sociale, ma anzi di vedere migliorata la propria autonomia economica e culturale.
Infatti da poco più di un secolo, precisamente dalla prima rivoluzione industriale di inizio ottocento, le donne avevano ottenuto e conquistato il diritto di lavorare nelle fabbriche e negli opifici. Ma la costante industrializzazione delle tecniche di lavoro aveva portato all'introduzione di nuovi macchinari capaci di svolgere molte delle mansioni svolte dagli operai.

Il maggior impiego di macchine utensili aveva costituito la necessità di ridurre il numero degli operai impiegati nelle fabbriche e le prime a vedere messe in discussione il proprio posto di lavoro furono proprio le donne.
Esse si trovarono di fronte al problema per cui la via della fabbrica e della subalternità come strada per introdursi direttamente nel mondo del lavoro era loro preclusa dai cambiamenti di cui abbiamo accennato in precedenza. Avevano di fronte a se due sole opzioni o rinunciare al processo di emancipazione e rientrare fra le mura domestiche o sfidare gli uomini nelle loro attività intellettuali più tradizionali, dall'avvocatura alla medicina passando per l'insegnamento.

Per fare ciò era necessaria la nascita di specifiche scuole femminili che preparassero le giovani a svolgere l più moderne e innovative attività.
Anche per continuare a svolgere attività lavorativa nelle fabbriche occorreva una maggiore specializzazione che doveva essere loro impartita da strutture apposite.
In Scandinavia (soprattutto in Svezia), nei territori tedeschi non ancora unificati ed in Olanda nacquero molte scuole professionali femminili con i fondi e l'aiuto finanziario sia dello Stato, sia dei privati.
Questo fu un sistema attivo per cercare di realizzare una uguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale. Si insegnavano non solo l'uso delle macchine industriale, anche le moderne tecniche di scrittura stenografica e l'uso dei primi mezzi di informazione di massa (telegrafi e telefoni).

Nell'Europa meridionale (quindi anche in Italia) però, vi furono molti ritardi su questa via e ancora fino dopo il secondo conflitto mondiale le donne furono pressoché escluse dai processi di formazione professionale.
Una delle principali attività femminile fu, nel Sud come nel Nord del Vecchio Continente, quello dell'insegnamento nei livelli più bassi del sistema educativo.

Potevano essere maestre elementari, ma non docenti universitarie; però queste giovani donne che dall'unificazione iniziarono a insegnare nella prima grande scuola di massa italiana contribuirono a togliere dall'ignoranza in cui si trovavano intere generazioni di giovani italiani.
Come ha ricordato di recente il Ministro della Pubblica Istruzione prof. Tullio De Mauro, gli insegnanti nel loro complesso non erano ben considerati dalle elites liberal-conservatrici dominanti nell'Italia umbertina. Le donne erano ritenute tutte alla stregua di "cocotte", mentre gli uomini erano considerati tutti come "socialisti" (cosa molto peggiore e più insultante dell'epiteto riferito alle signore maestre).
Ma, finalmente uniti e uguali (seppur nel disprezzo!) uomini e donne seppero avviare un processo di emancipazione e di istruzione di ampi settori della popolazione italiana che fa loro onore. Come si può ben vedere da questo fatto la crescita civile e democratica di una società va avanti di pari passo con l'emancipazione e l'inserimento delle donne nella società medesima.

Cerchiamo ora di vedere quali sono state 
le principali tappe dell'emancipazione femminile.

LE PRINCIPALI TAPPE DELL'EMANCIPAZIONE > >

 

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