LILLI' MARLEN
NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
UNO STRUGGENTE RESPIRO D'AMORE
PIOMBO' SU  TUTTI I CAMPI DI BATTAGLIA

 
Teorie elitiste, culto della forza, supremazia della razza, arditi, sigfridi, lupi, volpi, sparvieri, leoni, orsi, tutti colpiti al cuore, nei sentimenti, nelle passioni umane. All'improvviso tutti uniti da....

Lillì

 

TUTTE LE SERE.....TI STAVO AD ASPETTAR...

"chi crede  a un certo punto di aver trasformato l'uomo e l'intera società in un efficiente formicaio che vorrebbe regolare a suo piacimento, fallisce, perché non solo non ha capito l'uomo, ma non conosce nemmeno le formiche".

Scesero in guerra i popoli di oltre 50 nazioni con l'ordine di scannarsi a vicenda; ma irrazionali come sono gli uomini, assediati  e assedianti a un certo punto si misero a cantare tutti la stessa canzone. Sconcertando tutti i vari "capi branco" cosiddetti "razionali".

"Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una razionalità e sono solo guidati dai sentimenti. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni";
E sono del resto queste che ci distinguono dagli animali e spesso anche dal "capo branco" che - lui povero illuso- ci vorrebbe guidare come belanti pecore.
Il corsivo non è di un filosofo, ma del padre della cibernetica: Wiener, paradossalmente proprio lui, lo scienziato che ha studiato l'azione e retroazione dei meccanismi delle macchine intelligenti, i cosiddetti automi.

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 Come in nessun altro secolo, il Novecento non è fatto solo di guerre, rivoluzioni, distruzioni; di tronfi proclami con i vari "Vincere, e vinceremo";  di rintronanti discorsi che promettono la riscossa versando "lacrime di sangue"; o di milioni di cinturoni da una parte come dall'altra con su scritto:
"Dio è con noi"!

Il Novecento è fatto anche di inni e di semplici canzoni, e hanno, i primi come le seconde, uno straordinario  valore di documentazione storica in tutte le tormentate e drammatiche vicende che hanno scandito gli anni di un'epoca e hanno concorso a modificare l'intera società; e se i primi furono costruiti con la nazionalistica retorica per provocare nelle coscienze sentimenti sciovinistici poi rivelatisi devastanti ("Deutschland uber alles, uber alles in der Welt - "Germania sopra tutto, sopra tutto il mondo"), anche le seconde si imbottirono di parole elettrizzanti, nicciane, marinettiane, dannunziane ("Giovinezza, primavera di bellezza" o "radiose giornate di maggio" ecc. ecc).

Entrambi questi  inni e canzoni  conducevano verso una sola direzione, verso il sacrificio umano per degli  ideali  spesso neppure compresi da chi era chiamato a morire per questi. Ma anche - in buona fede - se avevano capito, all'improvviso  si ritrovarono dall'altra parte della barricata, perchè questo a loro a un certo punto fu comandato di fare.
Da chi? ma dai "maestri" di vita, dai "politici saggi", dal "capo branco"! Che decidono per tutti noi! Quando morire, dove morire, e chi deve avere il piacere di spegnere con una fucilata al petto la nostra vita o noi far spegnere la vita di un altro.
Ci trasformano tutti in assassini (legali, con le "armi convenzionali", come l'atomica, "arma tattica"), poi alla fine loro si mettono al tavolo e fanno la conta: quanti ne ho avuti io di ammazzati e quanti e ne hai avuti tu; e poi le spartizioni: questo è tuo perchè ne hai ammazzati pochi, questo è invece tutto mio perchè io ne ho ammazzati più di te.

Alcuni di questi "maestri", questi ideali gonfiandosi il petto li avevano coltivati per venti anni, poi un mattino all'improvviso tutti costoro che prima avevano predicato, scritto o allevato i propri figli ai nuovi "Credo", "Vangelo", "Dottrina", dissero che avevano "capito" che era  tutto una menzogna; e che non bisognava più rivolgere le armi agli invasori, a quelli che bombardavano le città, ma all'improvviso (con un confuso radiomessaggio) di rivolgere le armi a quelli che prima erano alleati, e perfino agli stessi fratelli, o i padri ai propri figli; quegli stessi padri che avevano educato i loro figli a fare le adunate, che avevano applaudito le loro sfilate, che si erano inorgogliti quando partivano per sconosciute terre lontane per "portare - dicevano i maestri, gli intellettuali, i "capi branco" - la civiltà nel mondo".
Tanti "Maestri" miglioratori del mondo, ma incapaci di migliorare se stessi.

Qualche maestro "educatore" alle prime fucilate  era partito anche lui volontario, e quando tornava con il petto pieno di medaglie, sfilava impettito a prendersi l'applauso nelle vie delle città; e nei piccoli paesi diventava subito una autorità, lui il nuovo "principe" del "reame".
E si gonfiava come un rospo, perchè nel petto sotto le "patacche" aveva solo aria. Infatti, dopo, bastarono alcune punture di spillo - delle badogliate - per sgonfiarsi, e le "patacche" subito buttate nelle pattumiere, che in un attimo furono tutte stracolme; illudendosi che bastava fare quel gesto per rinnegare quello spirito instillato nei figli, e loro per tornare immacolati con la propria coscienza "usa e getta".

Che tutto questo fu un grande e sofferto dramma, soprattutto nei giovani che procurò loro una lacerazione delle coscienze, più che trovarne la testimonianza nei fatti d'armi riportati in altre pagine, o nei comunicati stampa del tempo o nei spezzoni di filmati o nelle registrazioni dei bollettini radio... 

(e tutti questi non sono interpretazioni, ma sono proprio questi documenti che crearono allora una falsa cultura epica, spesso su uomini semplici, convinti questi di fare onestamente il "proprio dovere": cioè quello che i "grandi" gli avevano insegnato fin dalla culla, in famiglia, poi a scuola, e su i libri dei "grandi maestri". Appena grandicelli, li avevano perfino fatti giurare, poi, proprio loro diventati spergiuri, pretesero dagli stessi un altro giuramento). 

...troviamo questa rappresentazione molto umana e tragica (ed è una testimonianza anche questa) nella storia di una semplice canzone, che è andata molto al di là di un ingenuo e romantico messaggio sentimentale da inviare al proprio uomo in guerra. Solo per questo motivo era del resto nata la canzone; non per esaltare, ma nemmeno per avvilire, era solo una metaforica carezza di una donna al suo uomo lontano.

Invece, quante cose accaddero!

Questa è la breve storia della canzone
 LILLI' MARLEN

Molte canzoni - si afferma- hanno rappresentato un epoca, ma nessuna l'ha rappresentata con quell'impatto e quel nitore struggente che fu per l'immaginario collettivo l'astratta Lillì Marlen
LEI non esisteva, era uscita dalla penna di uno sconosciuto poeta tanti anni prima, eppure all'improvviso divenne una creatura viva, reale, che amava tutti ed era amata da tutti. ERA UNA DONNA !!
Era una immaginaria ragazza dal volto ignoto, irreale, ma che all'improvviso, con quel nome così dolce come una carezza, assunse per ogni "guerriero" le sembianze della propria donna lontana, che ogni uomo aveva lasciato a casa, che aspettava il suo ritorno, e lui sui campi di battaglia, pieno di speranza  si illudeva che il ritorno sarebbe avvenuto presto. "Aspetta mia bambina il nostro giorno / vado, vinco e torno", cantavano andando in Russia i 230.000 italiani. 
Invece non vinsero e una buona metà di loro non tornarono nemmeno.


Il testo di Lillì Marlen era nato nel lontanissimo 1914, da un certo Hans Leip. Solo più tardi un certo Norbert Schulze, compositore tedesco (è morto 91enne il 16 ottobre del 2002), lo musicò in un modo molto singolare, con quell'aria marziale di marcia. Ma il brano rimase del tutto sconosciuto.
Venne poi riscoperto per la prima volta nel 1938 da una certa Lale Andersen (pseudonimo di Eulalia Lieselotte Bunnenberg, nata nel 1905 a Bremerhaven e morta nel 1972 a Vienna) per ampliare il suo repertorio in un cabaret dove lei cantava.

Forse per qualche applauso ricevuto più del solito, la convinsero a inciderla per farne un disco. Ma si rivelò un vero fiasco. Delle 5000 copie prodotte, se ne vendettero 700. Questa edizione l'aveva appoggiata lo staff di Radio Vienna, e proprio nelle cantine di questa emittente andarono a finire tutte le copie invendute.

Scoppia la guerra. Siamo nella fatidica data quando Hitler dopo il ritardo in Iugoslavia ha sferrato il 22 giugno 1941 l'attacco alla Russia, ma si è già impantanato a novembre nella rasputina  e a dicembre è bloccato dal micidiale gelo russo.
Per la prima volta - e lo confida in una lettera a Mussolini- Hitler ammette di essere in difficoltà.  ("I combattimenti che ora hanno luogo qui appartengono ai piu' gravi che le truppe tedesche hanno dovuto sostenere sinora").
C'è lo stallo. Gli ufficiali tedeschi quasi davanti alle porte di una Mosca abbandonata e in fiamme, vanno ai ricordi di scuola. La terribile disfatta di Napoleone si aggira in mezzo a loro come un lugubre fantasma. ("I Russi hanno tirato fuori una sorpresa di cui noi purtroppo non avevamo alcuna idea", "I Russi combattono col fanatismo piu' stolto, indifferenti ai sacrifici, con la brutalita' primitiva di un'animale" - Scrive sempre Hitler nella stessa lettera). E se già proprio lui, Hitler,  inizia a sentirsi insicuro, commettendo con l'ira tanti madornali errori, gli uomini delle sue armate provano per la prima volta le prime delusioni e si rendono conto che non sono invulnerabili come gli è stato detto. I sacrifici, la lontananza e l'ostile ambiente (40 gradi sottozero) suscitano i primi avvilimenti; si sentono spogliati da quell'immagine invincibile nibelungica che mezza Europa ha già conosciuto dalla Polonia fino in Francia.

Nella Belgrado conquistata nella primavera del '41, la emittente radio locale è stata trasformata in un avamposto per diffondere le epiche musiche wagneriane, tanto care a Hitler,  per accompagnare le "cavalcate" dei panzer con le famose note della "Walchiria". Per un certo periodo fu questa la sigla di apertura della radio dei bollettini di guerra germanici. Più che una musica il suo ascolto fa l'effetto di una iniezione di adrenalina. Galoppa anche chi non ha il cavallo.
 
A Belgrado la stazione radio la allestisce un ufficiale tedesco, Richard Kistenmacher, un musicologo, proveniente proprio da Radio Vienna. Qui, prima di partire, non ha preso solo i dischi del suo omonimo più famoso Richard, ma scoperte in cantina varie casse di dischi di musica leggera si porta dietro anche quelle; sono dischi di valzer, di mazurche, canzoni allegre e canzoni languide d'amore;  lui ha caricato tutto su un camion con destinazione l'emittente di Belgrado.
Qui in una "fase critica" del Reich (col fantasma di Napoleone che si aggirava su Mosca) riceve un invito-ordine dal Comando e dall'Ufficio Propaganda, di "risollevare alla sera  il morale dei tedeschi che sono in difficoltà sul fronte nelle lontanissime steppe russe".

(Per dare un'idea di questa fase "critica", a fine gennaio '42, il gen. Halder riepilogherà le perdite tedesche: 1.500.636 uomini (il 31% degli effettivi), di cui 202.257 morti, 725.642 feriti, 112.617 gravemente congelati, 46.511 dispersi. I rimanenti 413.609 caduti prigionieri del nemico)

Alle ore 22.00 del 10 Febbraio 1942, a Radio Belgrado questo anonimo ufficiale  pesca nel mucchio  dei tanti dischi, e uno di questi ha un etichetta con un nome molto gradevole e simpatico, gli sembra proprio quello che ci vuole;  Kistenmacher irradia per la prima volta nell'etere Lillì Marlen. 

L'emittente il giorno dopo, dal fronte, fu sommersa da richieste  di rimandare in onda la canzone; sempre alle dieci di sera. Un'ora che diventa per molti  giorni - con sempre in aumento un'altra valanga di richieste - un appuntamento serale fisso. Poi la si voleva ad ogni ora del giorno, infine non occorreva nemmeno più la radio, ormai la si cantava ovunque e... a un certo punto la cantavano tutti.

Lala Anderson  (Lillì non esiste ma Lillì è lei)  riceve migliaia di lettere dai campi di battaglia; si sono tutti innamorati non di lei - che nemmeno conoscono e che non è una grande bellezza - ma della sua voce, e del pathos che lei ha messo nel cantare quello che era ormai diventato un "inno all'amore". - "Quella voce - scriverà Guido Gerosa- diventò una timida poesia erotica, curiosa per l'epoca, una inconsueta dolcezza nella descrizione dell'amore".

Il testo non era nulla di trascendentale, ma il tono della voce lo era di sicuro. 

"Vor del kaserme/ vor dem grossren Tor/ stand eine Lanterne/ und stehet sie noch davor..." (Davanti alla caserma/ davanti al grande portone/ c'è una lanterna/ e sta ancora lì/ e io anche stasera sono qui/ sempre ad aspettar... - (il suo soldatino, il suo amore).  Fu poi italianizzata in "Tutte le sere/ sotto quel fanal/ io/  ti stavo ad aspettar../ anche stasera ti aspetterò/ non me ne andrò/ se non con te,/ Lillì Marlen."
Ma più che le parole e la musica, più che una voce, quel canto era un fuggevole e struggente respiro d'amore, un atto di fede, un patto di fiduciosa tenerezza rivolto all'immaginario o reale fidanzato, marito, compagno, ora lontano, che ha lasciato a casa un'anima in pena, che langue nell'angoscia dell'attesa.
E questa pena viene espressa non solo dai versi, così semplici, ma dal tono della voce. 

Quella roca voce della Andersen che si diffonde nell'etere,  che nella canzone esprime tutto il rimpianto di un amore lontano, avvince tutti, fa dimenticare i proclami, i combattivi slogan, le ambizioni, la sete di conquiste;  prostra invece il morale con la sua languida nostalgia.
Diventano anacronistici i ricordi dei passi marziali dei tempi non lontani,  in mezzo alle folle in delirio, e diventa pure inopportuno richiamare alla mente  le spavalde imprese fatte di giorno anche qui in Russia. Alla sera, dopo le epiche battaglie, sono tutti raccolti attorno a una radio, seduti per terra, in silenzio, tutti attendono Lei, il sospiro d'amore di Lillì Marlen.

Sembra perfino una contraddizione, quello star seduti, quello star raccolti  in un introverso silenzio, perchè il tempo della canzone non è uno svenevole e avvolgente valzer lento, ma è una marcia! Ha un ritmo che sollecita il movimento, il ritornello di sei sillabe (con-tè---li-lì-mar---lèeen) contiene perfino la cadenza dell'  un-due, un-due, pas-sòo. E invece... appena inizia la musica e quel canto rauco ...tutti si fermano.

E quando tace la radio, si ripete ancora il prodigio dell'incantesimo. Circondato da un alone mistico questa canzone sembra appartenere alla liturgia di una funzione religiosa. Assomiglia a una tristissima preghiera funerea, tanto sono impercettibili le voci di questi improvvisati coristi che cantano quasi a bocca chiusa, come a voler nascondere, ognuno, all'amico che gli sta accanto, la propria anima in pena.
(chi qui scrive, ha vissuto da ragazzino per un intero anno dentro un alto comando tedesco, ma anche qui, alla sera, i più inossidabili ufficiali, che poco prima avevano eseguito con delle rappresaglie, delle fucilazioni, andavano in deliquio alle prime note. E se mi trovavo vicino a loro, alcuni nel più assoluto silenzio, mi prendevano e mi strigevano al petto, accarezzandomi, come se fossero tanti miei papà)

La canzone invece di sollecitare lo spirito marziale del guerriero, si trasformò in un boomerang micidiale. La commozione attanagliò i novelli Sigfrido, la Lillì era il volto che dava un significato alla malinconia di milioni di soldati nostalgici. E questi, nel momento più critico e più vulnerabile della loro esistenza, sono fermi, avviliti dalla sconfitta, dalla fatica, dai disagi fino allora mai provati dopo i vittoriosi blitz sull'Europa. Per la prima volta si sentono vulnerabili.

Quella voce dolente li spogliava dell'immagine di Superuomini e li riconduceva fiaccandone il morale alla loro misera dimensione umana. Quelle non erano più solo note musicali,  ma erano luminose immagini di un amore lontano,  sempre velate da una struggente malinconia.
Tutte le loro fidanzate  o mogli all'improvviso si chiamarono tutte Lillì. Tutti avevano a casa una loro Lillì. "Al mio paese la "mia Lillì" mi aspetta!" e tirando fuori dalla tasca la foto della propria amata, mostrandola all'amico vicino, dicevano "Ecco, vedi ...questa è la mia Lillì".

Fu allarme, preoccupazione. Intervennero prima i comandanti di reparto, poi di persona Goebbels, il responsabile della propaganda tedesca. Trovando biasimevole questo atteggiamento malinconico e femmineo i capi nazisti proibirono la canzone, non la fecero più andare in onda, e perseguitarono perfino la sua interprete - Lale Anderson - nei vari teatri o nei concerti dove lei si esibiva dal vivo.  Ma inutilmente. La musica e quella voce diafana era ormai sulla bocca di milioni di soldati tedeschi, e cosa strana....su ogni fronte.

Non solo, ma dopo pochi giorni si scopre che quella canzone è la canzone di una umanità intera, l'inno della malinconia, dell'inquietudine,  ma nello stesso tempo l'inno d'amore e di speranza di milioni di uomini di ogni razza e di ogni lingua.
La cantano sommessamente, quasi sussurrata,  in un intimo silenzio, gli italiani, i giapponesi, i russi, gli inglesi, gli americani, i francesi e altri ancora ... fu irradiata dalla radio in 42 lingue!
Nelle sabbie infuocate del Sahara o nelle gelide steppe russe, nelle trincee o sui mezzi da sbarco, sui monti e sui mari, in cielo e in terra. Ovunque Lillì Marlen è la "fedele compagna" che a casa aspetta non il suo impavido guerriero, ma il suo semplice uomo e basta, lo aspetta ogni sera con gli occhi umidi, e alcune "Lillì" gli occhi li avevano grondanti di lacrime, quando i silenzi erano.... lunghi, troppo.... troppo.... lunghi.

Al "Fronte" questa canzone  diventa un  sogno d'amore e di vita  sia quando è quasi urlata dopo una epica vittoria, oppure quando è appena sussurrata dopo una cocente sconfitta; fra bombe e granate, tra i lamenti dei feriti o quando alla sera mancano sia agli uni che agli altri gli amici, caduti, resi muti e sordi dalla morte.

Lala Andersen è perfino preoccupata, anche se è tempestata di richieste di concerti, che si svolgono sempre in un clima affliggente, che allarmano sempre di più gli alti comandi tedeschi. Lala è la prima a rendersi conto che sta devastando le coscienze; nelle sale dove canta vede sempre tante lacrime, tanti visi tristi, e non riceve applausi quando sta per terminare la canzone, ma ci sono invece tanti religiosi silenzi.
E lei, come a non voler turbare queste surreali atmosfere, canta con una voce sempre di più fievole, sempre di più con l'anima. Quando termina l'ultima strofa, la parola finale Marlen è solo più un sospiro rauco in regressione, pieno di tensione, quasi uno spasimo, al confine tra l'erotico e il drammatico, sembra esserci dentro l' orgasmo di un atto d'amore e nello stesso tempo è un grido di dolore, una maledizione per la guerra, pieno di disgusto, disfattistico.

Lala per queste interpretazioni avvolte di pathos, viene infatti da alcuni biasimata, rimproverata, vituperata, ostacolata, perseguitata; fino al punto che teme perfino per la sua vita. E i timori non sono infondati. Mentre è in Italia per un concerto, piuttosto allarmata, approfitta della situazione, non rientra in Germania, ma prende un treno per la Svizzera.
Ma la Gestapo che la controllava non se la fa sfuggire, viene arrestata prima della fuga. La portano a Berlino sotto scorta. Lala è messa in cella, teme ormai di finire rinchiusa nel campo di concentramento di Buchenwald; lì vanno a finire tutti i disfattisti del Reich;  nello sconforto Lala tenta il suicidio avvelenandosi, lasciando scritto "La lanterna si spegne, ma io non sono disperata perchè ho vissuto con gioia. Non mi pento di nulla.".

La salvano in extremis. La esiliano nei mari del Nord. La guerra per fortuna poi termina, viene liberata, ritorna in Germania. Ma il destino si accanisce ancora su Lala Anderson. Nel famoso processo di Norimberga contro i capi nazisti, viene paradossalmente anche lei chiamata sul banco degli imputati, accusata di aver fatto con quella canzone della propaganda nazista. Finisce così un'altra volta dietro le sbarre, dentro in una cella, come una criminale. Che impietoso destino!

Questa volta a salvarla in extremis da questa immotivata responsabilità è il maresciallo inglese Montgomery con una sorprendente dichiarazione alla corte giudicante: "Propaganda nazista quella di Lala  Anderson?  Ma scherziamo? Ma se io e i miei soldati nel deserto quando davamo la caccia a Rommel, dopo le fatiche, le battaglie, con la fame la sete e il sole, alla sera avevano soltanto il conforto di quella voce, di quella canzone, e di Lala-Lillì!".

Lala fu assolta. Venne poi invitata a cantare a Londra proprio dai reduci di Al Alamein. Altrettanto fecero gli ex di Rommel in Germania. E sia i "topi del deserto" che le "volpi del deserto", a quell'incontro con la "compagna fedele" che "aveva aspettato  sotto quella lanterna tutte le sere" non trattennero le lacrime.
Finiva veramente un incubo, ricominciava la vita, tante Lillì Marlen  senza distinzione di lingua non aspettavano altro che di essere nuovamente riabbracciate dal loro amante.

Nelle radio dei cinque continenti, Lillì Marlen, fu trasmessa 600.000 volte, la cantarono 200 milioni di soldati di ogni razza, amici o nemici; fu tradotta in 42 lingue, e si calcola che è stata ascoltata nel corso degli anni, almeno una volta da 9 miliardi di persone, appartenenti a cinque generazioni.
Per gli anziani di allora fu un flash di romanticismo negli ultimi anni della loro vita, per i maturi diventò un drammatico frammento della loro vita, e per i giovani entrò a far parte della loro gioventù.

Per quelli che vennero dopo, almeno una volta l'hanno ascoltata, ma come una delle tante canzoni del passato, senza coglierne il profondo significato, non conoscendo questa storia; che è anche Storia.
Hitler non riuscì a conquistare il mondo, ma Lillì Marlen ci riuscì. 

Verso la fine della guerra, la canzone fece anche la fortuna di una attrice statunitense sulla cresta dell'onda (del suo film "Angelo Azzurro"), Marlene Dietrich (in realtà si chiamava Magdalena von Losch; ed era tedesca nata a Berlino nel 1902). Tornò nella sua ex patria per gli spettacoli d'intrattenimento delle truppe americane in Germania; si mise a cantare anche lei la Lillì Marlen, ne fece il suo cavallo di battaglia, e con gli stessi toni della voce quasi rauchi della Anderson per renderla drammatica.
Ma inutile dire che - per quanto valida - era una imitazione. Quella della Anderson, era pathos vero, dolore provato - come abbiamo visto sopra, nella carne e nell'anima. Ed era lei, solo lei, Lillì.

Il mondo amò Lillì Marlen come nessun altra canzone.
Nel dopoguerra, pur avendola adorata perdutamente, molti, questa Lillì la ricacciarono in fondo all'anima, per dimenticare i sacrifici e le tante sofferenze che erano associate a questa canzone. Ma bastava poi una sola nota per farli nuovamente sobbalzare, riemergeva subito viva Lillì Marlen, e con lei i mille e mille ricordi; quelli che non volevano più richiamare alla mente. Ed erano tanti;  gli uomini, e anche i brutti ricordi.

Nietzsche scrisse che "spesso gli uomini, quando creano qualcosa, anche se loro non lo sanno, quel qualcosa va al di là di se stessi". Scomodiamo la citazione del grande filosofo anche per questo semplice episodio:  cioè il destino riservato a questa "canzonetta".

 Lo sconosciuto autore, Hans Leip in quel lontano 1914 non avrebbe mai immaginato il destino riservato al suo testo; così Norbert Schulze che la musicò; la quasi sconosciuta Lala Anderson quando la incise nemmeno; e neppure quell'ufficiale Richard che alle ore 22 del 10 febbraio 1942 scelse quasi a caso quel disco.

Nessuno dei quattro immaginava che quella canzone con nulla di epico, avrebbe rappresentato invece proprio un'epoca; unendo razze, etnie e uomini di lingue, culture e storie diverse.
Diverse? No! Un unica Storia! Gli uomini  sul pianeta ne hanno una sola! 

Se ne fanno tante di storie, si tenta di separare il banale dallo straordinario, ma poi il banale che ha con sé i limpidi sentimenti umani, sconvolge tutti i piani strategici, le ideologie, le filosofie della forza.
Bastò la voce di una DONNA, per mettere a soqquadro tutti i campi di battaglia.

Ogni tanto gli uomini dovrebbero ripetersi un verso di Dante:
"Uomini siate, e non pecore!"

Nell'immagine di apertura.
La copertina del disco in due versioni inglese di Lillì Marlen

IL TESTO

Tutte le sere, sotto quel fanal
presso la caserma ti stavo ad aspettar.
Anche stasera aspetterò
e tutto il mondo scorderò.
Con te, Lillì Marleen,
con te, Lillì Marleen.

Tu trombettiere stasera non suonar
una volta ancora la voglio salutar.
Addio piccina dolce amor,
ti porterò sempre in cuor
con me, Lillì Marleen,
con te, Lillì Marleen.

Dammi una rosa da tener sul cuor
legala col filo dei tuoi capelli d'or.
Forse domani piangerai
ma dopo tu sorriderai.
A chi, Lillì Marleen,
a chi, Lillì Marleen.

Quando nel fango debbo camminar
sotto il mio fardello mi sento vacillar.
Che cosa mai sarà di me? (*)
Ma poi sorrido e penso a te.
A chi, Lillì Marleen,
a chi, Lillì Marleen.

Se chiudo gli occhi il viso tuo m' appar
come quella volta nel cerchio del fanal.
Tutte le notti sogno allor
di ritornar, di riposar.
Con te, Lillì Marleen,
con te, Lillì Marleen.

(*) Viene qui da pensare agli 80.000 italiani
che si trascinarono nel fango e nella neve
e ci rimasero sepolti, durante la ritirata
in Russia. Non rividero più la loro Lillì.

 

in TEDESCO (e così che divenne famosa, le uniche parole di tedesco
che Inglesi, Francesi, Italiani, Russi, impararono)

Vor der Kaserme, vor dem grossen Tor
stand eine Laterne, und steht sie noch davor

So wolln uns da wiedersehn
bei der laterne wolln wir sthen
wie einst Lillì Marleen

Unsrer beider Schatten sah wie einer aus
Dass wir so lieb uns hatten, das sah man gleich daraus

Und alle Leute solln es sehn,
wenn wir bei der Laterne stehn
wie einst Lillì Marlen

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