LUISA SANFELICE MOLINO
e
ELEONORA FONSECA PIMENTEL
entrambe sul patibolo per la libertà


Napoli era tutta piena di sangue. La Giunta di Stato faceva salire ogni giorno molti onesti cittadini al patibolo. I più atroci in questa opera infame si mostravano i giudici Guidobaldi e Speciale. Guidobaldi era un miserabile, elevatosi con le viltà e con le più schifose brutture.
Speciale era assetato di sangue, «Si dilettava, scrive Vincenzo Cuoco, passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare e opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora. Se aveva il rapporto di qualche infelice morto di disagio o d'infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasi accatastati, questo rapporto era per lui l'annunzio di un incomodo di meno. Un soldato uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato ad una finestra del suo carcere a respirare un'aria meno infetta; gli altri della Giunta volevano chiedere conto di questo fatto. «Che fate voi ? disse Speciale: costui non ha fatto altro che toglierci I' incomodo di una sentenza ».

Speciale insultava con modi osceni le donne che portavano nella sua prigione o che andavano a chieder pietà per i prigionieri, insultava con viltà
le vittime che gli stavano davanti. Onde nacque in tutti disperazione e ardente desiderio di vendetta contro questo orrido mostro.
Un infelice andò a morte per essere di simpatie repubblicane, Francesco Lomonaco narra che, mentre stava per morire sul patibolo, alcuni stipendiati di Carolina gli si gettarono addosso, lo fecero a pezzi, gli strapparono il cuore e lo portarono in trionfo per la città.

NICCOLA CARLOMAGNO, di Lauria, avvocato e già Commissario della Repubblica, catturato e condannato amorte, appena salito sulla scala della forca parlò alle turbe dicendo queste parole: "Popolo stupido, tu godi adesso della mia morte. Verrà un giorno e tu mi piangerai: il mio sangue già cade sul vostro capo, e se voi avrete la fortuna di non esser vivi, cadrà sul capo dei vostri figli.

Tutto il fiore della sapienza e delle virtù di Napoli e delle province perì sulla forca.
Gli esiliati giunsero per lo meno al numero di 4.000. Fra essi vi erano uomini dottissimi, come Vincenzo Cuoco, Pietro Napoli Signorelli (1), Melchiorre Deifico (2), Domenico Grimaldi (3), Francesco Salfi (4), sottrattisi in vari modi alla repressione e alla morte.
(1) Letterato e critico, visse 18 anni in Ispagna, insegnò poi a Milano e a Bologna. (1731-1815).
(2) Economista, giureconsulto e letterato. Dal 1799 al 1806 fu esule a S. Marino. (1744-1835).
(3) Fu chiaro botanico, economista e letterato. (1735-1805).
(4) Segretario generale del Governo, durante il dominio francese a Napoli, nel 1801 professore a Milano, e dal '14, esule a Parigi. Continuò l'Histoire littéraire de l'Italie del Ginguené (1759-1832).

Vi era Francesco Lomonaco, vi era Guglielmo Pepe allora giovinetto, che andava al suo primo esilio. Ma lo spettacolo più compassionevole lo davano due donne, le duchesse di Cassano e di Popoli. Erano sorelle, che splendevano per singolare bellezza e più ancora per altezza di animo e rara virtù.

Queste due donne nel tempo della rivoluzione, per lenire la pubblica miseria, aprirono la sottoscrizione dei doni patriottici, andarono di casa in casa a raccogliere cibo, vesti e denari, eccitarono a far questo anche altre donne pietose, e per questa nobile carità ebbero il titolo glorioso di madri della patria.
All'arrivo dei Sanfedisti del cardinal Ruffo furono spietatamente trascinate nelle prigioni della Vicaria, in mezzo agli insulti di plebe furiosa.

DOMENICO CIMAROSA (1754-1801), autore delle soavi melodie, che destavano le meraviglie del mondo, aveva musicato anche un inno repubblicano. Per questo delitto i sicarii del Ruffo gli saccheggiarono la casa, gettarono dalle finestre il suo clavicembalo, e lui trascinato in carcere, ove aspettava la morte, quando, e malgrado il Governo di Napoli, fu liberato dai Russi alleati del re Ferdinando, i quali lo lasciarono andare a morire a Venezia, ove l'11 gennaio del 1801 finì, secondo la pubblica voce d'allora, in conseguenza degli strazi patiti nel carcere, ed ebbe là onoranze solenni.

Infine due donne, che qui narriamo...

LUISA SANFELICE MOLINO

La Giunta di Stato continuò per più mesi a insanguinare le città e le province. In ogni parte dei Regno furono spediti commissari regii col nome di visitatori, i quali punissero i rei, tenendo in mira di purgare il Regno dai nemici dell'altare e del trono.
E questi, a difesa dell'altare e del trono, spargevano il sangue più puro, incrudelivano con le confische, con gli imprigionamenti e con le torture, e lasciavano le famiglie povere e desolate. Tutti piangevano o dei figli o dei parenti fuggiti, morti o esiliati. I fuggiaschi furono colpiti di anatema, e dichiarati nemici di Dio e dello Stato: chiunque che li sterminasse si prometteva larga premi nell' "al dilà", e se ne sterminava tanti una patente di "santo" (!!).

Tutta la storia di questi infelicissimi anni é storia dei delitti dei principi, e martirologio dei popoli. E con tutta ragione i contemporanei, testimoni di tante sciagure, poterono dire di quella età ciò che Tacito affermò di Roma sotto Domiziano: cioè che i popoli dettero un esempio solenne di pazienza tollerando il colmo della servitù a cui la tirannide li aveva condotti.

Non solo furono usati tutti i flagelli dei più turpi e più inumani tiranni antichi, ma a strazio della creatura umana furono inventati tormenti nuovi. Francesco Lomonaco narra che un giovine Acconciagioco, accusato di aver preso parte ad una congiura, fu oggetto di orribile scempio. Soffrì con ammirabile costanza il fuoco nella sua mano in presenza dei biechi ministri. E mentre dall'estremità del dito indice fino al pollice gli passavano un ferro rovente, egli conservò il silenzio col più fiero e dignitoso contegno. La tradizione narra caso orribile dì una nobile donna. Nei giorni della rivoluzione ella intervenne a una festa di ballo in casa di un generale francese. Per questo solo fatto fu catturata e fu trascinata con gli uncini da macellaio per le strade della città dai "ministri boia" di re Ferdinando.


Di altre donne insultate dalla plebe e dai giudici stessi già abbiamo parlato. Ora chiudiamo la serie dei martiri della Repubblica Partenopea con lo strazio di un'altra misera donna, non rea di altro che di un affetto che la indusse a scoprire una congiura , e a salvare la città da una strage.
Quando ardeva nelle province l' incendio della guerra civile eccitato dal Ruffo, che portava in una mano la croce e nell'altra il pugnale; quando per ogni città le forche sorgevano accanto al profanato vessillo della redenzione cristiana, a Napoli l'empia fazione ordiva macchinazioni infernali.

Fra tutte le congiure contro la Repubblica, più terribile era quella di un Backer, svizzero, imparentato con famiglie devote ai Borboni, e loro amico egli stesso. Si intendeva coi lazzari, e con gl' Inglesi che correvano i mari vicini ; per un giorno di festa, quando le strade sarebbero state ingombre di popolo, aveva stabilito di eccitare un tumulto, e con quel pretesto, mettersi in mezzo a quello e uccidere tutti i Repubblicani ed incendiarne le case.
Si tennero nefandi concili, si dette ai congiurati l' intesa, si notarono con segni determinati le case che bisognava salvare o distruggere. Quanto alle persone, fu stabilito che andrebbero salve dalla strage solamente quelle che avevano un certo salvacondotto che assicurava che appartenevano alla fazione dei regi.

Uno di questi cartelli venne per avventura alle mani di una giovane donna chiamata LUISA SANFELICE.

Era giovane, bella, figlia di un generale borbonico, nata a Napoli nel 1764, poi moglie del napoletano Andrea Sanfelice un nobile napoletano, anche lui borbonico.
Borboni loro due, ma non lo era quella figlia e quella moglie.
Luisa era di idee repubblicane, e tali simpatie erano con le malelingue giunte fino a corte, e non erano di certo gradite a Ferdinando. Fino al punto che nel 1794 decise proprio la Corte di separare i due coniugi, con lei dentro in un monastero.
Nel 1799 con l'invasione francese ci fu la costituzione della Repubblica Partenopea.
Llibera e a esultare fu Luisa Sanfelice, mentre i Borboni esuli in Sicilia, iniziarono a tentare di riprendere il potere con i famosi Eserciti della Croce, i Sanfedisti. Organizzarono quelli a Napoli perfino una congiura, infiltrandosi fra quelli che stavano appoggiando i francesi.


Purtroppo la Repubblica che era sorta durò poco, quando entrarono a Napoli i Sanfedisti, segnò la sua fine. Ma iniziava la terribile repressione nei riguardi di chi stava esultando o appoggiando i francesi.
Un ricco banchiere, borbonico, perdutamente innamorato della Sanfelice (seppur non ricambiato) volendo accattivarsela, tentò di proteggerla dalle conseguenze della congiura consegnandole un salvacondotto.

Ma a sua volta a Napoli era sorta anche un'altra congiura dei repubblicani nei confronti di quei Borbonici rimasti in città.
Forse la Sanfelice si sbilanciò un po' troppo nelle confidenze col banchiere, mentre la repubblica era alla fine e aveva le ore contate.

Cos'era accaduto alla Sanfelice. Avendo saputo le scellerate repressioni che si preparavano, lei, più sollecita per gli altri che di sé, dette il salvandotto del banchiere al suo amico e amante, il giovane Ferdinando Ferri, questi ufficiale nelle milizie civili e pur seguace delle parti repubblicane, era certamente tra le vittime segnate dai congiurati borbonici, eppure - forse per salvarsi lui - la denunciò.
La donna dopo la denuncia fu chiamata in giudizio, e nell'atto stesso che disse tutto ciò che sapeva, rifiutò di manifestare il nome di colui che gli avea dato il salvacondotto, protestando energicamente che vorrebbe morire anziché accusare chi avea avuto il pietoso pensiero di salvarle la vita.
La vita la salvò in questa giudizio, ma quello che già si sapeva bastò a scoprire la trama e ad impedirne gli effetti. Furono scoperti i capi, arrestati, finiti o in galera o sul patibolo.

Ma non era finita. Il re Ferdinando non perdonò alla Sanfelice di aver collaborato coi repubblicani e una volta tornato al potere iniziò a perseguitarla.

Infatti appena ristabilito il dispotismo, la Sanfelice fu arrestata e rinchiusa in orrido carcere, per la legge che diceva rei di morte tutti coloro che in modo decisivo avevano dimostrata colaborazione con la sedicente Repubblica, fu condannata a morire.

A questo terribile annunzio, ella disse di essere incinta; e trovato ciò vero, fu sospeso il supplizio. Il re ne mosse aspro rimprovero ai giudici, dicendo essere la gravidanza una favola inventata per sottrarsi alla pena.
Nonostante un nuovo esame, che dette ai medici la certezza del fatto, il re, non contento, ordinò che la sventurata fosse condotta in Sicilia per essere visitata dai medici di quella corte. Anche questi accertarono la gravidanza; e la Sanfelice fu chiusa in prigione a Palermo per aspettare il parto, e dopo quello salire al patibolo.

Il triste momento giunse alla fine: ella partorì, e non valsero neppure le preghiere della reale famiglia a piegare l'animo feroce del re a favore della misera donna. Mentre essa gemeva nel carcere attendendo la morte, la reggia era rallegrata dalla nascita di un erede del trono partorito dalla principessa Maria Clementina.
Questa donna, cui l'usanza della severa corte non aveva tolto dall'animo la pietà naturale alle donne, dalle allegrie della reggia si volse con pio affetto agli orrori del carcere in cui gemeva un'altra donna, anch'essa madre di un bimbo, e desiderò salvarla.

Sapendo che era costume della reggia napoletana di concedere alla regale partoriente di domandare tre grazie, la principessa Maria Clementina, per meglio avere successo, restrinse le tre grazie in una sola e domandò la liberazione della infelice Sanfelice.
Un foglio contenente la sua supplica e le preghiere della principessa fu posto tra le fasce del reale infante, così che il re nel momento in cui gli si presentava l'erede, lo vedesse: e infatti, quando egli andò a visitare la nuora ed allegro e ridente teneva sulle braccia il bambino, lodandone la beltà e la robustezza, vide il foglio e domandò cosa fosse. "È la grazia, disse la nuora, che io chiedo: ed è una sola grazia, non tre, tanto desidero di ottenerla dal cuore benigno di vostra maestà".

Ed egli, sorridendo sempre: "Per chi pregate?" - "Per la misera Sanfeiice......" , poi troncò la voce dal piglio austero e, mirandola biecamente, depose, e quasi con furia gettò l' infante su le coltri materne e, senza dir altro, uscì dalla stanza, nè per molti giorni vi ritornò. La severità di lui, la pietà disprezzata, il caso così penoso fecero inumidire gli occhi della principessa di dolorose lacrime.

Intanto la misera Sanfelice, ridotta piuttosto male, fu mandata a Napoli. Portata nella piazza del mercato ebbe il capo reciso dal carnefice il giorno 11 settembre 1800, quando già, fin dal 30 maggio, quel tipo di supplizio dagli stessi Borboni era stato già sospeso.
Il boia, spaventato da un colpo di fucile sparato per caso da un soldato, fa cadere malamente la scure e le fracassa una spalla, la folla incomincia a rumoreggiare, il boia innervosito la finisce con il coltello da caccia, scannandola.

Morì così barbaramente davanti al popolo tra la commiserazione generale, impietosito dalla triste vicenda, e anche perchè era una bella e giovane donna. L'accanimento reale nel volere a tutti i costi quella esecuzione apparve una vendetta a freddo. Lei solcata in viso dalla tristezza e dagli stenti, era solo rea di amore e moriva per amore. (Colletta, Storia del Reame di Napoli).

Queste sono le azioni scellerate di Ferdinando Borbone, maledetto da migliaia di vittime, figurato sotto le sembianze di Minerva da Antonio Canova.
Un sovrano - dissero - "restituito per la divina Provvidenza nel Regno", nel quale lo vedremo più avanti tradire le promesse giurate sui santi Evangeli, e ferocemente fece flagellare gli uomini della nuova generazione, i figliuoli dei loro padri uccisi per essersi affidati a quei trattati che i sovrani chiamavano sempre "sacri".

Alessandro Dumas, ne fece un romanzo: "La Sanfelice". Se ne fece anche un film, che per alcuni risulta più romanzato dello stesso romanzo di Dumas.

VENIAMO AD UN ALTRA EROINA

ELEONORA FONSECA PIMENTEL


La persecuzione dei despoti napoletani che superò in crudeltà quelle di tutti i più feroci tiranni, mentre contaminava la città col sangue degli uomini più venerandi, non risparmiò - come abbiamo visto sopra - neppure le donne.
L'aver mostrato un senso di umanità; l'avere legami di parentela o di amicizia con un fautore di Repubblica esponeva le più nobili e virtuose donne agli strazi del popolo furibondo, alle ire della corte, alle vendette di Carolina.

Le mogli, le madri, le sorelle dei Repubblicani furono barbaramente trattate. Fra esse si ricordano la madre e le sorelle del conte di Ruvo, e le duchesse di Cassano e di Popoli, colpevoli della sottoscrizione patriottica, trascinate alle prigioni della Vicaria in mezzo a feroci grida di plebe; e una Proto, una Fasulo. Alcune furono ingiuriate e martoriate: altre tenute lungo tempo in prigione e poi mandate in esilio. Nè mancarono le condanne di morte: anche il sangue femminile tinse le mannaie del re Ferdinando Borbone.

ELEONORA FONSECA PIMENTEL lasciò il nobile capo sul palco infame. Splendeva di tutte le qualità che più si lodano in donna; era bella, gentile, graziosa, adorna di santi costumi; e di più aveva quello che molte donne non hanno, sensi virili ed energico cuore: rassomigliava alle antiche donne più celebrate per altezza di animo.
Era nata poco dopo la metà del secolo XVIII
(Nacque il 20 agosto 1748, in Roma, durante l'esilio di suo padre in questa città ) di una delle più note famiglie di Napoli.

Della bellezza del corpo, che era singolarissima in lei e che la rese ammirata tra tutte le donne dell'età sua, non trasse argomento di vanità. Non contenta a questi volgari trionfi, rivolse tutto il pensiero a procacciarsi più nobile e più durevole gloria. Si dette agli studi, e mostrò profondo e rapido ingegno. Per i suoi primi Saggi poetici ebbe grandi conforti onorevoli dal Metastasio, che quei versi disse degnissimi di "somma lode, considerati unicamente in sè stessi e simili a portento", avuto riguardo all'età della gentile donzella : e fu detta nuova Saffo e decima musa da Filippo Martino di Benevento (Nel suo poema Hirpini poétae), e regina delle Muse dal Campolongo (Napoletano, vissuto dal 1733 al 1801 e successo a G. B. Vico nella cattedra universitaria): e per la sua dottrina nella storia naturale nelle scienze più ardue fu ammirata dallo scienziato Lazzaro Spallanzani.

La chiamarono in corte, ma colla sua anima pura e sdegnosa di ogni bassezza non poteva rimanere tra le turpi tristizie di Carolina, e tra le stupidezze del re Ferdinando, e scomparve da quell'antro di crudeltà e di lussuria.

Piena di amore per tutte le belle e nobili cose, messe in cima ad ogni pensiero la sua bella patria, accolse con entusiasmo le nuove idee di libertà venute dalla Senna al Sebeto, e giurò odio ai tiranni, che menavano a osceno e crudelissimo strazio la più lieta regione d'Italia.

All'avvicinar dei Francesi, adoprò tutto il credito che le davano la fortuna e l' ingegno per aprir loro le porte. E quando l'esercito, condotto dal generale Championnet, sovrastava la città, e nell' interno di essa il furore plebeo minacciava sterminio a tutti gli amatori del viver libero, ella mostrò quanta intrepidezza avesse nel cuore, e a questa intrepidezza dovette la propria salute.

Avvisata che correva pericolo, ella raccolse intorno a sè tutte le donne più ardimentose della sua parte, le armò, e ponendosi a capo di esse, attraversò le vie di Napoli piene di popolo inferocito, e riuscì con le compagne a giungere illesa in Sant' Elmo.


Divenuti vittoriosi i partigiani di libertà e proclamata la Repubblica, la generosa donna, a gara coN i cittadini migliori, volse tutto l' ingegno a mostrare la bontà e la bellezza dei nuovi ordini, creduti apportatori di felicità universale ; e a questo effetto diede vita al MONITORE NAPOLETANO, nel quale trasfuse tutta la sua anima ardente, studiandosi di rendere impossibile il ritorno della tirannide con l'accendere in tutti l'amore di libertà che sentiva in sè stessa.

Nè solo con gli scritti si adoperava per la Repubblica: parlava, eccitava, usava ogni arte per tirare i cittadini a sacrificare le sostanze e la vita alla patria. La casa sua era il convegno dei Repubblicani più generosi. Vi facevano capo tutti gli uomini più dotti e più virtuosi, e per le esortazioni, per l'eloquenza e per l'esempio di essa a maggior virtù s' infiammavano.

In un tempo in cui un sol pensiero e un solo affetto di patria bastavano per l'estrema condanna, non è da domandare quale fosse la sentenza che di questa eroica donna pronunziò la giunta di Stato. Condannata alla forca per avere scritto il Monitore Napoletano, ascoltò la sentenza con fermo animo, e prima di avviarsi al patibolo chiese e bevve caffè, e pronunziò queste parole: "Forsan et haec olim meminisse iuvabit
(Cuoco, Saggio storico).

Le forche furono piantate sulla piazza del Mercato, nel luogo stesso ove già perì Corradino di Svevia (Nipote di Federico II di Svevia, nato in Germania nel 1252. Venne a 14 anni in Italia, chiamato dai Ghibellini, e mosso da Roma per riconquistare il Regno di Napoli agli Svevi, perduto da Manfredi a Benevento, fu sconfitto da Carlo d'Angiò e da questi fatto decapitare a Napoli il 29 ottobre 1268, nella piazza del mercato).

Eleonora percorse lo spazio dalla prigione alla piazza in sembiante di donna maggiore della disgrazia. La folla che l'attorniava era immensa, e gridava a lei (avendo già cambiato colore col ritorno dei Borbonici) che prima di morire facesse un applauso al re Ferdinando.
Essa, con mano e con voce, chiese un istante di silenzio alle turbe feroci per dire le sue ultime estreme parole, che sarebbero state degne di quella grande anima.
Stava cominciando a parlare, ma gli uomini con la patente di "uomini santi",
intuendo cosa avrebbe detto, e temendo il ritorno di un tumulto, la sospinsero subito sul ceppo e le troncarono con la mannaia la parola e la vita.
Era il giorno 20 agosto del 1799. Anche questo un giorno di "uomini bestie".

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