IL CLIMA POLITICO ALL'INIZIO DEL 1900

siamo nel periodo 1901-1903

MINISTERO ZANARDELLI
SCIOPERI
E LA "QUESTIONE MERIDIONALE"



IL MINISTERO ZANARDELLI; SUO PROGRAMMA - IL MINISTRO WOLLEMBORG - GLI SCIOPERI DISCUSSI AL SENATO - DIBATTITI ALLA CAMERA SULLA POLITICA INTERNA - LA POLITICA ANTICLERICALE DI ZANARDELLI - L'ANNUNCIO DI UN DISEGNO DI LEGGE SUL DIVORZIO E LE PROTESTE DEL PONTEFICE - LE DIMISSIONI DEL MINISTERO RESPINTE DAL SOVRANO - LA MILITARIZZAZIONE DEI FERROVIERI - GIOLITTI DIFENDE LA SUA POLITICA - II SESTO CONGRESSO SOCIALISTA FORMULA I PROGRAMMI MASSIMO E MINIMO - LA MORTE DI FRANCESCO CRISPI - GIUDIZIO DI ALFREDO ORIANI SULLO STATISTA SICILIANO
IL SETTIMO CONGRESSO SOCIALISTA E LA VITTORIA DELLA TENDENZA RIFORMISTA SULLA RIVOLUZIONARIA
LA DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA "QUESTIONE MERIDIONALE" - LA CENSURA ALL'ON. FERRI - I DISEGNI DI LEGGE PER LA DIRETTISSIMA ROMA-NAPOLI E PER L'ACQUEDOTTO PUGLIESE - LE CONDIZIONI DELLA BASILICATA ESPOSTE ALLA CAMERA - IL VIAGGIO DI GIUSEPPE ZANARDELLI IN BASILICATA

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IL MINISTERO ZANARDELLI - SUO PROGRAMMA

Gli ultimi giorni del 1900, li avevamo chiusi con la polemica sorta per la chiusura della Camera del Lavoro a Genova (il 18 dicembre) in previsione di uno sciopero dei portuali. La condotta del Governo con quell'ordine del dato al prefetto di Genova, fu non solo aspramente rimproverata da "tutti" i partiti, ma aveva fatto estendere lo sciopero su tutta la regione della Liguria (fu infatti il primo grande sciopero generale di un'intera regione).
Il 21 dicembre SARACCO capo del governo, preoccupato dei danni che la continuazione dello sciopero avrebbe portato al commercio e all'industria della nazione, ma anche per le pressioni della stessa maggioranza, revocò l'ordine e permise la completa ricostituzione della Camera del Lavoro.

Il 4 febbraio, alla Camera, provocata da una mozione dell'on. DANEO sul contegno tenuto dal Governo nello sciopero genovese, iniziò un'accesa discussione sulla politica generale del Ministero. Quasi tutti gli oratori furono concordi nel deplorarla; e gli anarchici ancora di più, perché irritati per un disegno di legge contro di loro presentato al Senato.
Gli onorevoli FULCI e MASSINI presentarono un emendamento alla mozione DANEO con il quale "non si approvava l'azione del Governo nei fatti di Genova", e il 6 febbraio del 1901 l'emendamento fu approvato dalla Camera con uno "tonfo" del Governo Saracco: 318 voti contro 102.

Saracco non gli rimase altro da fare che dare le dimissioni.
Da notare che con i contrari a Saracco, oltre la destra e il centro, vi era la sinistra giolittiana e zanardelliana.

Prima del voto sulla fiducia, era intervenuto anche GIOLITTI, che oltre deplorare quell'ordine dato a Genova, aveva affermato il diritto d'associazione sindacale finalizzata alla conquista di miglioramenti economici e, ripetendo ciò che aveva scritto su "La Stampa", accennò alla possibilità di un coinvolgimento dei socialisti in un prossimo governo al fine di legarli alle scelte riformistiche per garantire la stabilità delle istituzioni, ma anche per togliere vigore alle opposizioni spontanee e potenzialmente sovversive provenienti da quei gruppi non inquadrati.


Sulle necessità delle riforme economiche anche SONNINO era stato con uno scritto, sulla stessa lunghezza d'onda giolittiana, ma che erano un po' troppo generiche.

Caduto poi SARACCO, l'incarico di costituire il nuovo ministero fu dato all'on. ZANARDELLI, che lo compose il 15 febbraio, prendendo la presidenza del Consiglio e affidando l'Interno a GIOVANNI GIOLITTI; gli Esteri al conte GIULIO PRINETTI; le Finanze al banchiere LEONE WOLLEMBORG; il Tesoro ad ERNESTO DI BROGLIO; i Lavori Pubblici a GIROLAMO GIUSSO; le Poste e i Telegrafi a TANCREDI GALIMBERTI; la Grazia a Giustizia a FRANCESCO COCCO-ARTU: la Pubblica Istituzione a NUNZIO NASI; l'Agricoltura, Industria e Commercio a GUIDO BACCELI; alla guerra fu confermato PONZA di SAN MARTINO e alla Marina ENRICO MORIN.

(Da notare i due moderati Venosta e Prinetti; i zanardelliani Ortu e Nasi; mentre pur avendo preso contatti con Zanardelli, sono esclusi i radicali Martora e Sacchi (questi sono invisi dal re per aver chiesto una diminuzione delle spese militari)

Il 7 marzo ZANARDELLI presentò il suo Gabinetto al Parlamento ed espose il programma di Governo. Dopo aver dichiarato che guida del Ministero sarebbe stato il rispetto alla libertà ed alle istituzioni, disse che avrebbe con opportune riforme cercato di garantire l'indipendenza e il prestigio della magistratura, di ripartire più equamente le imposte, e di migliorare le condizioni materiali e morali delle classi basse sollecitando l'approvazione dei disegni di legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e sulla Cassa Nazionale di previdenza per gli operai. Quindi accennò alla riforma della scuola e all'interesse che aveva l'Italia di esser fedele ai trattati e di mantenere cordiali rapporti con tutte le potenze: poi concluse:

"A far opera di governo elevata e feconda, noi ripudiando ogni spirito esclusivo, facciamo appello a tutte le attività intelligenti, a tutte le devozioni patriottiche; facciamo appello a quanti chiedono un regime di libertà nella legge, di progressive ed efficaci riforme, di ordinata democrazia, regime che è nei nostri propositi fermamente attuare, certi di essere in tal modo interpreti dei voti e delle speranze della Nazione".

IL MINISTERO WOLLEMBORG GLI SCIOPERI E UNA DISCUSSIONE AL SENATO -
DIBATTITO ALLA CAMERA SULLA POLITICA INTERNA


Uno dei primi interventi fu quello dell'on. Wollemborg, ministro delle Finanze, che presentò alla Camera un disegno di legge, con cui proponeva di abolire il dazio consumo sulle farine, sul pane e sulle paste in gran parte nei comuni di terza e quarta categoria. I milioni che quest'abolizione avrebbe fatto perdere all'erario sarebbero stati ricuperati con i proventi di un'imposta progressiva sulle successioni e di alcuni disegni di legge che procuravano denaro in un altro modo.
Ma la commissione parlamentare, eletta ad esaminare il disegno Wollemborg, lo respinse perché dissestava le finanze comunali, approvava eccessivamente i contributi diretti e danneggiava l'erario. Il Wollemborg ritirò il progetto e ne presentò un altro al Consiglio dei Ministri. Non essendo neppure questo approvato, si dimise e, il 3 agosto al suo posto fu messo l'on. PAOLO CARCANO.

Intanto l'Italia era travagliata dagli scioperi, attuati da ogni classe di lavoratori; scioperi che crescevano di numero e di intensità con il crescere delle leghe e dell'organizzazione dei proletari. Specialmente nel Mantovano, dove i lavori di bonifica avevano fatto concentrare molte migliaia di lavoratori; erano frequenti gli scioperi ed era potente l'organizzazione delle classi lavoratici, tanto frequenti quelli e tanto potente questa da indurre alcuni senatori a presentare in proposito una interpellanza alla Camera Alta.
Nella tornata dal 29 Aprile del 1901 infatti il senatore ARRIVABENE svolse al Senato una interpellanza per sapere dal ministro dell'Interno se era convinto che nessuna "azione preventiva" del Governo dovesse esercitarsi nella provincia di Mantova per far cessare il conflitto esistente tra lavoratori e conduttori di fondi, che minacciava di danneggiare la produzione agricola e di turbare l'ordine pubblico.

L'oratore parlò della potente organizzazione delle Leghe dei lavoratori, dell'attivissima propaganda socialista nella provincia di Mantova ed esortò il Governo a metter da parte la politica dell'inerzia e ad agire nell'interesse delle istituzioni e dell'Italia.
Al Senatore ARRIVABENE e ad altri oratori rispose il ministro dell'Interno GIOVANNI GIOLITTI, il quale dichiarò che non poteva sciogliere le leghe, essendo riconosciuto dalle leggi il diritto di associazione. Il Governo aveva solo il dovere di tutelare la libertà di lavoro e l'ordine pubblico.

Parlò quindi il senatore VITELLESCHI, che dimostrò che non era vero che gli scioperi dovessero sempre portare all'aumento del salario, affermò che le eccessive pretese spesso si risolvevano in un grave danno degli stessi lavoratori e avrebbe finito con il produrre gli odi e i conflitti di classe o la rovina delle proprietà e dell'industria e concluse dicendo che gli scioperi in Italia non erano "semplicemente il prodotto di alcuni bisogni e un semplice conflitto fra il capitale e il lavoro", ma rappresentavano "puramente e semplicemente una preparazione alla rivoluzione sociale", e affermando che ogni ente aveva "prima di tutto il diritto di esistere; e un Governo, uno Stato che non sa esistere, che non si sa difendere, è uno Stato che non è degno di figurare fra le nazioni civili d'Europa".

Ad unanimità il Senato approvò l'ordine del giorno dell'on. SERENA in cui era affermata la "necessità dell'azione preventiva del Governo per garantire la libertà del lavoro contro l'opera dei partiti sovversivi".

Su questa singolare opinione pochi giorni dopo intervenne il "foglio unico" "Primo Maggio" > >
che riportiamo integralmente, su queste pagine con i tre maggiori articoli....


Una discussione ancor più vivace sulla politica interna del Ministero si svolse alla Camera nel giugno del 1901, dove la politica di neutralità del Giolitti nel conflitto sociale fu difesa da VITTORIO EMANUELE ORLANDO, ma aspramente criticata dagli onorevoli DI SAN GIULIANO, CHIMIENTI, GAVAZZI, TURBIGLIO, SONNINO e altri.
L'on. SONNINO, parlando degli scioperi, disse fra l'altro:

"Come italiani non si può non provare una stretta al cuore nel vedere come, dopo le secolari lotte e i martiri occorsi per unificare l'Italia in un solo sentimento di nazionale fratellanza, si torni oggi a soffiare nello spirito settario, così facile ad accendersi presso di noi e che è stato sempre la nostra maledizione, per dividere l'intera popolazione in due schiere nemiche, sempre armate l'una contro l'altra". E concluse: "A noi sembra che il Governo non sia abbastanza consapevole delle sue responsabilità e dei suoi doveri, e che invece prepari tempi tristi per la patria, asservito com'è ai gruppi sovversivi... Il Parlamento si sente depresso nella sua coscienza, avvilito dinnanzi al Paese. Esso non desidera alcuna reazione; non vuole che si esca mai dalla legge; vuole rispettare tutte le libertà; vuole tutelati i diritti di tutti a qualunque classe appartengano; ma vuole pure sincerità di governo e lealtà di fede di fronte alla monarchia e alle istituzioni; vuole che non sia dato incoraggiamento ed appoggio all'organizzazione sia aperta, sia subdola, della rivoluzione nel Paese; vuole che non siano messe leggermente a repentaglio, con la passiva indifferenza del Governo, le stesse basi di tutto l'edificio di libertà, di civiltà, e di unità che i nostri vecchi innalzarono con tanta virtù, a prezzo di tanti sacrifici, dopo secoli di tenebre e di vergogna".

GIOVANNI GIOLITTI difese la sua politica di neutralità nella lotta fra capitale e lavoro sostenendo essere opera saggia di Governo osservare e fare osservare la legge, evitare qualsiasi atto di forza, che avrebbe provocato gravissimi disordini, e cercare, invece, di "richiamate l'affetto delle classi popolari verso le nostre istituzioni ...., dimostrare non con le parole, ma con i fatti, al popolo, che con le nostre istituzioni tutti i progressi e tutte le libertà sono possibili".

Dopo di aver detto che soltanto sul terreno della libertà era possibile combattere il socialismo, concluse: "Alla fine del secolo decimottavo si tentò di sbarrare la strada al terzo stato con la forza, e la storia registra le conseguenze dolorose di quella resistenza e registra pure i trionfi del terzo stato nel secolo seguente. Sarebbe cecità, sarebbe mancanza di doveri che abbiamo verso le nostre istituzioni, il tentare di sbarrare la via ad un movimento che nessuna forza riuscirà ad arrestare".

Il 15 giugno anche i socialisti votano a favore del bilancio del ministero degli interni, e il 22 giugno approveranno anche il bilancio del ministero degli interni.
All'interno del partito socialista si parla tanto di "ministerialismo". E a precisarne l'idea, è FILIPPO TURATI, che in un articolo sulla "Critica Sociale" del 16 luglio, afferma la scelta di sostenere la politica liberale del governo ed è fautore della linea riformista del partito. Questa puntualizzazione, lo fa entrare in contrasto (ed è messo in minoranza) con la federazione socialista di Milano guidata da COSTANTINO LUZZATI, che provocherà una scissione che durerà quasi un anno.

 

LA POLITICA ANTICLERICALE DI ZANARDELLI
L'ANNUNZIO DI UN DISEGNO DE LEGGE SUL DIVORZIO
LA PROTESTA DEL PONTEFICE

A render più grave la situazione interna del paese si aggiunse alla politica di neutralità del Giolitti nel conflitto sociale quella anticlericale dello Zanardelli che pensò d'introdurre la riforma del divorzio, provocando le dimissioni da ministro dei Lavori Pubblici dell'on. GEROLAMO GIUSSO che si sentì offeso nei suoi sentimenti di cattolico e che più tardi fu sostituito dall'on. BALENZANO.

Il 20 febbraio del 1902, due giorni dopo, cioè, le dimissioni di Giusso, inaugurando la seconda sessione della XXI Legislatura, il Re, VITTORIO EMANUELE III, fece un accenno alla riforma dell'istituto matrimoniale:

"Il mio Governo - egli disse - vi proporrà di temperare, in armonia con il diritto comune delle altre nazioni, l'ideale principio dell'indissolubilità del matrimonio civile e di riformare con eque norme i divieti che contendono alla prole illegittima il diritto al nome e alla vita. Nelle relazioni fra lo Stato e la Chiesa il mio Governo intende mantenere strettamente la separazione dell'ordine civile dall'ordine spirituale; onorare il clero, ma contenerlo nei limiti del Santuario; portare alla religione e alla libertà di coscienza il più illimitato rispetto, ma serbare inflessibilmente incolumi le prerogative della potestà civile, i diritti della Sovranità nazionale".

La notizia della presentazione della legge sul divorzio turbò profondamente i cattolici. L'Osservatore Romano si scagliò contro i ministri che chiamò "strumenti di una setta malvagia", e il Pontefice, ricevendo 400 pellegrini lombardi, disse loro di avere provato grande dolore nel sapere che si cercava di attentare all'indissolubilità del matrimonio.

La riforma del divorzio non fu attuata, ma la presentazione del disegno nacque al governo e fece crescere l'opposizione al Ministero, la quale, a causa degli scioperi che imperversavano in Italia, fra cui quelli del Mantovano, quello di Torino, quello dei ferrovieri delle secondarie, preludio di uno sciopero dei ferrovieri della rete mediterranea, si faceva sempre più grossa e minacciosa.
Il malcontento della Camera si manifestò il 21 febbraio. Quel giorno, eleggendosi a Presidente della Camera, l'on. TOMMASO VILLA, candidato ministeriale, ebbe, in ballottaggio, 135 voti contro 25 dati all'On. Costa e 142 schede bianche.

 

LE DIMISSIONI DEL MINISTERO RESPINTE DAL SOVRANO

Il risultato della votazione indusse il Ministero a presentare le dimissioni, che però il re non accettò.
A poco a poco le agitazioni operaie si erano calmate e Zanardelli poteva credere e far credere che tutto il merito era della politica liberale. Ma nei primi mesi del 1902 le agitazioni ricominciarono più minacciose di prima e quel che tutti temevano, lo sciopero dei ferrovieri, parve che dovesse fatalmente verificarsi. Di fronte alla minaccia di questo sciopero, che dai dirigenti era stato fissato per il 4 marzo, il Ministero non esitò a prender le misure necessarie: il 24 febbraio i ferrovieri furono militarizzati e contemporaneamente fu richiamata alle armi la classe del 1878.

GIOLITTI sulla Gazzetta Ufficiale del giorno dopo (25 gennaio) fa pubblicare le sanzioni previste dal codice penale per quelli che ora sono "dipendenti pubblici" che abbandonano il loro servizio.
Nello stesso giorno esce il quindicinale "Il Socialismo", diretto da ENRICO FERRI, e come collaboratore di spicco ENRICO LEONE della corrente rivoluzionaria del PSI in contrasto con i "riformisti".
Ma anche lo stesso PSI, il 21 dopo una riunione della direzione del partito con il gruppo parlamentare socialista, decide a maggioranza di passare all'opposizione in conseguenza della "militarizzazione" dei ferrovieri e della chiamata alle armi.

LA MILITARIZZAZIONE DEI FERROVIERI
Il contegno dei richiamati fu deplorevole e fece costatare come fosse stata efficace l'opera disgregatrice di alcuni gruppi formatisi nel paese. Infatti alcuni gruppi di richiamati inneggiavano alla rivoluzione e al socialismo e davanti agli uomini delle forze dell'ordine a mo' di sfida, cantavano l'inno dei lavoratori.

Il ministro della Guerra DI SAN MARTINO dovette dimettersi e fu sostituito dal generale OTTOLENGHI. Quanto ai ferrovieri, non scioperarono, come si è detto, ma il Governo dovette impegnarsi; in successive trattative, a migliorare, con grave dispendio dello Stato, le loro condizioni.

Contemporaneamente avvengono vari tentativi di scioperi di braccianti e mezzadri nel Mantovano, Ferrarese, Vercellese, Polesine. Sono appoggiati dalle varie Camere del lavoro, che però denotano debolezza e mancanza d'organizzazione.

Con questo "clima", il 10 marzo, riapertasi la Camera, fu eletto presidente l'on. BIANCHERI il quale aveva dichiarato di accettare se la sua candidatura fosse stata di tutti e non di un partito; il giorno dopo l'on. Zanardelli comunicò che il sovrano non aveva accettato le dimissioni del Ministero.
Questo perciò rimaneva in ufficio, ma chiedeva ed aspettava il giudizio della Camera.
Su queste dichiarazioni del Governo avvenne un'ampia discussione. L'on. GAVAZZI criticò la remissività del Governo di fronte alle prepotenze socialiste; l'on. RICCIO affermò essere stata nulla l'azione del Ministero e ne rimproverò la debolezza a proposito delle concessioni fatte ai ferrovieri. "È - disse - spettacolo doloroso quello di uno Stato, il quale si lascia strappare i benefici, anche se giusti e dovuti, con la violenza".

L'on. SONNINO toccò lo stesso argomento, lamentò le spese straordinarie per le chiamate alle armi e per i milioni sottratti all'erario con i miglioramenti ai ferrovieri ed affermò che questi costituivano "un pericoloso precedente come incitamento generale a nuove agitazioni. In tutto il paese - egli disse - "si è diffusa e domina ogni giorno di più per il continuato contegno del Ministero, una sola convinzione: che l'unico, ma infallibile mezzo per ottenere dallo Stato qualsiasi cosa, giusta o ingiusta che sia, consiste nella violenza, nella minaccia del disordine, nella prepotenza".

L'on. PRAMPOLINI dichiarò che avrebbe votato per il Ministero Zanardelli per impedire l'avvento al potere del Sonnino, il quale, "con una politica reazionaria, avrebbe certamente provocato disordini e tumulti". Anche gli onorevoli Marcora e Sacchi, in nome del gruppo radicale, dichiararono che questo avrebbe votato la fiducia al Governo.

 

GIOLITTI DIFENDE LA SUA POLITICA

SU GIOLITTI vedi "MEMORIE DELLA MIA VITA
la sua autobiografia di 980 pagine >>>>>

Nella tornata del 14 marzo, il ministro GIOLITTI difese la propria politica. Pur riconoscendo il diritto allo sciopero, egli dichiarò che tale diritto era escluso nei pubblici servizi. "Chi accetta un pubblico ufficio ne assume tutti indistintamente i doveri. Ora i doveri del pubblico ufficiale sono determinati dal regolamento, che ne dichiara gli obblighi e i diritti; e come nessuno può violare i diritti del pubblico ufficiale senza che trovi rimedio nella giustizia amministrativa, così il pubblico ufficiale non può mancare ai suoi doveri senza incorrere nelle sanzioni della legge penale".

Parlando della condotta del Governo riguardo ai ferrovieri, disse: "Noi ci troviamo di fronte ad una necessità superiore di Stato, che si impone a qualunque altra considerazione. Uno sciopero dei ferrovieri! immaginate voi che razza di disastro costituirebbe per il commercio, per l'industria, per gli operai, per tutte le classi di cittadini, per le città, dove mancherebbe il mezzo di vivere? D'altra parte aggiungo che mentre alcuni oratori hanno voluto trovare una contraddizione fra la militarizzazione e il trattare con i ferrovieri, io debbo dichiarare che sono due provvedimenti strettamente connessi fra di loro; e lo Stato, per la sua dignità, doveva avere in mano il mezzo d'impedire un disastro pubblico, e doveva d'altra parte trattare con la massima benevolenza verso i ferrovieri, perché aveva riconosciuto che essi avevano ragione".

Il 15 marzo 1902, con 250 voti contro 158 e 45 astenuti, la Camera approvò l'ordine del giorno dell'on. Gorio che prendeva atto delle dichiarazioni del Governo. Lo Stato si assume parte dell'onere finanziario e come provvedimento sarà sancito con la legge del 27 luglio successivo.

IL SESTO CONGRESSO SOCIALISTA
FORMULA I PROGRAMMI: "MASSIMO" E "MINIMO"

Torniamo indietro di qualche mese. Dall'8 all'11 settembre del 1900 si tenne a Roma il VI congresso del partito socialista (era il primo dopo le persecuzioni, la chiusura dell'Avanti, gli arresti ecc.), presieduto da ANDREA COSTA con la presenza di FILIPPO TURATI, LEONIDA BISSOLATI, ANNA KULISCIOFF (dell'ala riformista), e il gruppo di ENRICO FERRI (guppo intransigente). In questo congresso furono approvati il programma massimo e il programma minimo del partito.

Il primo diceva: "Considerando che nel presente ordinamento della società gli uomini sono costretti a vivere in due classi; da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali; che i salariati d'ambo i sessi, di ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica, il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d'inferiorità e d'oppressione; che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e a mantenere i benefizi della vita sociale, hanno lo stesso diritto di codesti benefizi, primo dei quali la sicurezza sociale dell'esistenza; riconoscendo che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice; che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non grazie alla socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione; ritenuto che tale scopo finale non può raggiungersi che mediante l'azione del proletariato, organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicatosi sotto il doppio aspetto: 1°della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati dalla vita operaia (orari, salari, regolamenti, di fabbrica ecc.), lotta devoluta alla Camera del lavoro ed alle altre associazioni di arti e mestieri; 2° di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Opere Pie, Amministrazioni, ecc.) per trasformarli da strumenti d'oppressione in uno strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante; i lavoratori che s'ispirano ai principi su esposti si costituiscono in Partito Socialista Italiano".

Il programma minimo - diceva la relazione di Filippo Turati, Claudio Treves e Carlo Sambuco - deve contenere tutto ciò che serve ad organizzare e educare economicamente, politicamente ed amministrativamente il proletariato, e preparare, assumere e mantenere la gestione della società collettivizzata.

E quindi deve accogliere: 1° Tutte le riforme e tutte le istituzioni che giovano ad infondere nel proletariato il senso e la coscienza di classe e ad abilitarlo alla libera ed efficace espressione politica dei suoi interessi; 2° tutte le riforme e tutte le istituzioni, che, ponendo un argine allo sfruttamento capitalistico, elevano le condizioni economiche; 3° tutte le riforme e tutte le istituzioni che, ponendo un argine allo sfruttamento capitalistico, elevano le condizioni economiche e morali del proletariato e lo iniziano all'amministrazione ad al governo della cosa pubblica, secondo leggi che siano emanazioni della sua classe; 4° tutti i provvedimenti, infine, che anche per altre vie innalzano il valore e le condizioni del proletariato come classe, nei rapporti della capacità intellettuale e del vigore morale e fisico, o che provvedono i mezzi finanziari, necessari alle riforme, che più direttamente lo interessano".

Le riforme, che il Partito socialista voleva conseguire, erano: il suffragio universale, la libertà di ogni opinione e manifestazione, la neutralità dello stato nei conflitti tra capitale e lavoro, l'eguaglianza giuridica e politica dei due sessi, lo Stato laico, il decentramento politico e amministrativo, la tutela e limitazione del lavoro delle donne, il miglioramento della legge sugli infortuni del lavoro, la libertà e la difesa dell'emigrazione proletaria, l'espropriazione delle terre incolte, l'istruzione obbligatoria laica e gratuita fino alla quinta classe elementare, la trasformazione delle Opere Pie, l'abolizione del dazio consumo, l'imposta unica, progressiva e globale sui redditi e sulle successioni, l'abolizione del lotto, la riduzione degli interessi del debito pubblico, la riduzione o soppressione delle spese improduttive per l'esercito ecc."

Il successivo congresso, il VII si svolse dal 6 al 9 settembre del 1902, e si tenne a Imola.

 

LA MORTE DI FRANCESCO CRISPI
GIUDIZIO DI ALFREDO ORIANI SULLO STATISTA SICILIANO
IL SETTIMO CONGRESSO SOCIALISTA
E LA VITTORIA DELLA TENDENZA RIFORMISTA SULLA RIVOLUZIONARIA

Tra il sesto e il settimo congresso, l'11 agosto del 1901, a Napoli cessava di vivere FRANCESCO CRISPI. Era l'ultimo dei grandi rivoluzionari, cospiratore, dittatore, ministro, diplomatico, giurista, oratore, capace di reggere qualunque ministero, di fronteggiare ogni situazione.

La sua prima virtù era nell'orgoglio di patria, che lo sollevava, magari isolandolo, al disopra dei partiti; forse il suo carattere non ebbe la stessa purezza aristocratica del Ricasoli, la scabra onestà del Lanza, la socratica limpidezza di Sella, la borghese perfezione del Minghetti, l'insondabile profondità del Rattazzi, la duttile resistenza di Depretis, ma superò tutti nella potenza del comando e nella passione per la grandezza d'Italia. Lui ministro, nessuno poteva prevalere contro la sua autorità, costringendolo a quelle transazioni, che abbassano un governo salvando un ministero. Quindi il paese lo amò ingenuamente, anche recalcitrando sotto la sua mano pesante, e non lo dimenticò con la tranquillità della solita ingratitudine neppure nell'ultima tragica caduta. La sua morte non fu una tragedia ma quasi. Adesso ogni sguardo sarebbe irriverente volendo penetrarvi troppo oltre; il forte vecchio vilipeso, calunniato, abbandonato da tutti non si lagnò; il suo silenzio fu l'estrema lezione data alla patria, la sua morte ne sarà un lutto profondo, appunto perché quasi segreto. Tutto un secolo si chiude dietro di lui, dopo di lui la rivoluzione d'Italia non avrà più una voce che possa rivelarne ancora la grandezza; gli eroi se ne sono andati. È l'ora degli epigoni". Così scriveva del grande precursore, nel settembre del 1901, sulla Rivista d'Italico, un altro grande: ALFREDO ORIANI.

Nel settimo congresso socialista si ebbe una lotta accanita tra le due tendenze che si erano venute formando nel partito socialista: la tendenza riformista, capitanata da TURATI, per non citare che alcuni nomi, da TREVES a BISSOLATI, PRAMPOLINI, CICCOTTI, BONOMI, BADALONI, GRAZIADEI e dal CASALINI, e la tendenza rivoluzionaria che era capitanata da ENRICO FERRI e seguita da ARTURO LABRIOLA, COSTANTINO LAZZARI, SAVERIO MERLINO e altri.


Delle due tendenze così annotava i caratteri peculiari BONOMI nella "sua relazione" (lui era relatore della prima tendenza e ROMEO SOLDI per la seconda) presentata al Congresso:
"La tendenza rivoluzionaria astrae quanto più è possibile delle varie, mutevoli condizioni dell'oggi per predicare instancabilmente le conquiste definitive del domani; la tendenza riformista si preoccupa invece di agire nelle condizioni odierne per farne una preparazione delle vittorie future".

Parlarono in favore della tendenza rivoluzionaria RINALDO RIGOLA, ENRICO FERRI ed ARTURO LABRIOLA; per la tendenza riformista parlarono PIETRO CHIESA, CLAUDIO TREVES, FILIPPO TURATI. Il Congresso, a grande maggioranza, respinse l'ordine del giorno dei rivoluzionari ed approvò quello dei riformisti, presentato dal BONOMI, nel quale si dichiarava incompatibile l'esistenza di due tendenze distinte, basate su differenze sostanziali, si approvava l'azione del gruppo parlamentare, che fino allora aveva appoggiato il Ministero Zanardelli, e si vedeva nella riaffermata unità del partito "l'inizio di un'era nuova più feconda per la propaganda e l'organizzazione socialista".


Proprio come negli altri stati europei il Psi era diviso in due correnti. Quelle due correnti affermatesi per la prima volta in Germania ad opera di Berstain (riformisti) e Kausty (massimalisti).
Essenzialmente i primi volevano arrivare a modificare la società in maniera graduale, anche attraverso l'accordo con le forze più avanzate della borghesia liberale. In una qualche maniera si rifacevano ancora a Marx, quel Marx che nel "Manifesto" affermava che mai i proletari avrebbero dovuto separarsi dai democratici. In Italia il leader del riformismo fu decisamente FILIPPO TURATIi che, per oltre un quindicennio, giocò di sponda con il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Un dialogo
però (purtroppo) non divenne mai collaborazione di governo in un esecutivo di coalizione.

I massimalisti, invece, chiedevano che, subito, si arrivasse al massimo delle riforme. Non è tanto nella diversità degli strumenti usati (entrambi, sia i massimalisti, sia i riformisti riconoscevano l'importanza della lotta politica democratica e parlamentare e a avevano ormai da tempo accettato il confronto nelle aule dei Parlamenti dei rispettivi Paesi) che si giocava la differenza fra i due schieramenti. Tale differenza stava nei "gradi" di socialismo che si volevano raggiungere. Tutto e subito i massimalisti, ciò che è possibile e gradualmente invece i riformisti.



Col trionfo della tendenza riformista fu riconfermato BISSOLATI come direttore dell'Avanti!, organo del Partito Socialista Italiano. Principali collaboratori ARCANGELO CABRINI, TOMMASO MONICELLI, PAOLO ORANO, GUIDO PODRECCA. Diresse poi il quotidiano tra il 1904 e il 1908 ENRICO FERRI (più rivoluzionario e antimonarchico); CLAUDIO TREVES (riformista, contrario all'impresa libica, assieme a Mussolini) fino al 1912, e quindi dopo una breve parentisi di GIOVANNI BACCI, il foglio socialista divenne più aggressivo ed estremistico con BENITO MUSSOLINI, che però... clamorosamente, nell'ottobre 1914 si dimise per l'inconciliabilità tra la linea pacifista del PSI e le "nuove vedute" "interventiste" del futuro fondatore del Fascismo.

( Ne riparleremo ancora nel prossimo capitolo, e ovviamente nei successivi)

 

LA DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA
"QUESTIONE MERIDIONALE"

Sulla "QUESTIONE MERIDIONALE"
VEDI l'intera storia >> (storica - vista da entrambi le parti ) >>>

 

In seguito ad uno scandalo, suscitato dalle pubblicazioni del giornale socialista "La Propaganda", che provocarono un processo, le dimissioni dell'amministrazione comunale di Napoli e l'"Inchiesta Saredo" (rese pubbliche le ruberie e la connivenza con la camorra di alcuni sindaci) tornò, durante il Ministro Zanardelli, sul tappeto la questione meridionale, che fu oggetto di molti studi e discussa sia in Parlamento sia sulla stampa.

Un interessante dibattito sulla questione meridionale si era già avuta alla Camera nella prima quindicina del dicembre del 1901. Il 9 di quel mese, l'on. LUIGI LUZZATTI, svolgendo una sua mozione affermò che le sorti della Nazione erano strettamente legate a quelle del Mezzogiorno e, parlando particolarmente di Napoli, affermò che "per risorgere economicamente, quella città aveva bisogno di diventare un centro industriale".

I DISEGNI DI LEGGE PER LA DIRETTISSIMA ROMA-NAPOLI
E PER L'ACQUEDOTTO PUGLIESE


Svolgendo un'altra mozione, con la quale il Governo era invitato a presentare disegni di legge per i provvedimenti economici a favore di Napoli, per l'acquedotto pugliese, per i lavori pubblici, per la produzione, il traffico e le esportazioni dell'Italia meridionale e insulare, l'on. SALANDRA disse:
"Gli Italiani si persuadono essere giunto ormai il tempo di soddisfare le legittime aspirazioni del Mezzogiorno; è giunto il tempo di rispondere a queste aspettative con impegni precisi, con provvedimenti a sicura scadenza, con promesse e con fatti, anche se promesse e fatti dovessero costare notevoli sacrifici comuni per l'interesse di quelle province, che è pure interesse della patria comune, della patria, il cui cuore batte tanto sui valichi alpini, attraversati da novelle vie apportatrici di ricchezza, quanto sulle desolate pendici dell'Appennino meridionale, dalle quali esulano a migliaia i lavoratori della terra, che dalla terra non ritraggono più il pane quotidiano".

Interessanti furono i discorsi pronunciati sulla questione meridionale degli onorevoli COLAJANNI, DE FELICE, CHIMIENTI, LA CAVA, RICCIO ed altri. Il 13 dicembre parlò il presidente del Consiglio ZANARDELLI, che annunciò prossimo il provvedimento dell'abolizione del dazio sui farinacei e due disegni di legge sulla direttissima Roma-Napoli e sull'acquedotto pugliese, quindi, applauditissimo, inneggiò alla concordia nazionale concludendo con queste parole il suo discorso:
"Io ringrazio l'on. Salandra, il quale dichiarò che non faceva questione politica innanzi a questo grande atto di concordia, nazionale. In ciò io credo che possiamo trovare un felice un fausto augurio per l'avvenire. Giacché la prosperità non solo, ma la potenza, la grandezza, la gloria, sono riposte nell'armonia nella coesione dei sentimenti di un popolo, nella unione delle varie regioni di una nazione, nella solidarietà intimamente sentita dei propri destini. Questi sentimenti di solidarietà, questa unità morale delle varie regioni d'Italia furono i felici fattori della nazionale risurrezione. Fu una gara di sacrificio di tutte le parti d'Italia, settentrione e centro e mezzodì, una gara di sacrifici per cui baldo moriva Rossarol sul ponte della Laguna da lui con immortale eroismo difeso e Pisacane aveva lungamente vegliato sul mio Garda al minacciato confine, e Montanelli era ferito a Curtatone e prima ancora della Venezia andarono, precursori e martiri, ad immolarsi nel piano di Cosenza i Bandiera, e poi nel fatidico 1860, a Calatafimi, a Milazzo, al Volturno, si fuse e confuse, nel battesimo del fuoco, la gioventù italica di ogni regione. Occorre continuare quest'opera di unità morale, di fraterna cooperazione. Quella stessa emula gara di sacrifici con i quali l'Italia poté divenire libera ed una, valga a dare ad essa floridezza e potenza, a rendere degna del suo passato, degna del posto che il suo genio, il suo cielo e le virtù del suo popolo le assegnano fra le nazioni".

LA CENSURA ALL'ON. FERRI
Nella tornata del 14 dicembre, l'on. ENRICO FERRI, confutando un'osservazione dell'on. COLAIANNI, disse:
"Nell'Italia settentrionale ci sono dei delitti, ci sono delle malversazioni, ci sono dei fraudolenti, ma sono malattie isolate; nell'Italia meridionale invece la malattia ha forma infettiva, epidemica. Nell'Italia settentrionale sono oasi di eccezione i centri di criminalità, nell'Italia meridionale sono oasi di eccezione, tanto più mirabili per questo, i centri di onestà".

Questa stupida e gratuita asserzione del deputato socialista suscitò rumori e risposte vivaci. Da più parti si gridò contro il Ferri, chiamandolo, insolente, cantastorie, guascone buffone; anche il presidente lo invitò a spiegare meglio le sue parole, e poiché molti reclamavano che le ritirasse, e lui faceva silenzio, sciolse la seduta.

Nella tornata seguente FERRI chiese la parola, ma fu invitato ancora dal presidente VILLA a ritirare le espressioni offensive pronunziate contro il mezzogiorno. Egli si rifiutò una seconda volta, ma aggiungendo: "Le forche caudine sono per altri, non per noi". Allora Villa propose la censura per il deputato socialista e la Camera l'approvò subito.
Il 17 dicembre gli onorevoli PANTANO, COSTA, e GIRARDINI proposero la revoca della censura, ma la Camera la riconfermò. FERRI, protestò in modo teppistico rompendo il vetro di una porta, sporgendo il capo dalla quale, urlò nell'aula: "Continua la camorra parlamentare !". Il gruppo socialista non volendo dispiacere a Giolitti e a Zanardelli, si affrettò a dichiarare individuale e del tutto personale la protesta e le parole offensive del compagno Ferri.

Nello stesso mese di dicembre 1901, essendo ministro delle Finanze PAOLO CARCANO, fu abolito il dazio-consumo sul pane e sulla pasta, abolizione che fu di molto sollievo per le province meridionali; poi nei mesi seguenti si deliberò l'esecuzione della direttissima Roma-Napoli (era così veloce che ci vollero per finirla 27 anni; solo nel 1927 fu terminata); fu approvato un disegno di legge, con il quale lo Stato si obbligava a contribuire totalmente alla spesa occorrente per la costruzione del grande acquedotto pugliese; fu nominata una commissione per studiare il problema di Roma e Napoli industriale.

Per Napoli, la commissione ascoltò la tesi dell'economista SAVERIO NITTI favorevole ad un polo di grandi industrie; questa idea anche se fu respinta da altri membri della commissione che erano invece favorevoli a potenziare le piccole industrie, il commercio marittimo e a puntare sullo sviluppo del turismo, non fu accettata. Le forti pressioni dei grandi gruppi del Nord non volevano né concorrenti, né (a loro discapito) la dispersione di aiuti del Governo nel Sud.

Il 28 aprile del 1902, l'on. ETTORE CICCOTTI presentò alla Camera un'interpellanza sulla Basilicata, che forse era la regione d'Italia più povera, e quindi la più bisognosa degli aiuti dello Stato.

 

LE CONDIZIONI DELLA BASILICATA ESPOSTE ALLA CAMERA
IL VIAGGIO DI G. ZANARDELLI IN BASILICATA

Delle condizioni della Basilicata parlarono alla Camera, nella tornata del 20 giugno, gli onorevoli LACAVA e TORRACA, che dipinsero un quadro impressionante di quella regione, dove la popolazione a causa dell'emigrazione, si assottigliava sempre di più, la malaria, infieriva, gli abitati crollavano, le terre erano lasciate incolte, i fiumi e i torrenti trascurati producevano inondazioni e devastazioni, le imposte erano insopportabili e la miseria era grandissima.
Il Torraca, dopo avere ricordato che era stato un basilicatese, FRANCESCO LOMONACO invocare per il primo l'unità d'Italia, che la Basilicata era stata la prima, nel 1860, ad insorgere e che lo Zanardelli, inaugurando in Basilicata il monumento a Mario Pagano, aveva promesso che si sarebbe interessato delle sorti di quella regione, concluse, rivolgendosi al presidente del Consiglio:
"Spero che dal vostro labbro uscirà una parola che affidi le sconfortate popolazioni nostre. Queste popolazioni sono state e sono devotissime alle istituzioni; sono state e sono devote all'unità d'Italia; ma volge in un'ora di grande sconforto; e a voi tocca di dire una parola che risollevi, che prometta un sicuro adempimento di ciò che domandano, non per il lusso, nemmeno, per l'utile; ma per le necessità estreme della vita, per l'esistenza. Ed io confido che voi, Governo, non la negherete, e confido anche, onorevoli colleghi, che non la negherete voi, in un sentimento di fraterna e patriottica cooperazione".

ZANARDELLI rispose che avrebbe fatto per la Basilicata quello che aveva fatto (cioè promesso) per Napoli e per le Puglie, e nel settembre di quell'anno, per rendersi conto dei bisogni di quella regione, nonostante settantasei anni pesassero sulle sue spalle, volle visitarla e per ben tredici giorni si sobbarcò a fatiche e a disagi non lievi. Il viaggio fu duro, ma trionfale. La presenza del presidente dei Ministri fece fiorire molte speranze nei cuori lucani. Il 29 settembre 1902, a Potenza, tenne un discorso significativo; ricordò le benemerenze della Basilicata, nelle arti, nelle scienze, nella secolare lotta per l'indipendenza e l'unità della patria, disse quanto aveva visto, dichiarò che bisognava provvedere alla viabilità, al rimboschimento, all'acqua potabile a regolare il corso dei fiumi, alla perequazione fondiaria, alla revisione dell'imposta sui fabbricati, a combattere l'analfabetismo e ad agevolare il credito, e si augurò di uscire vittorioso dalla grande battaglia che a favore della generosa terra lucana si preparava a combattere. GIUSEPPE ZANARDELLI forse non promise invano, ma la morte non gli permise di veder pubblicata la legge speciale per la Basilicata da lui promossa.

Questo viaggio, secondo lo storico Gaetano Salvemini fu compiuto nel tentativo di ottenere l'appoggio dei deputati meridionali, e avrà una certa influenza sulla decisione di Sidney Sonnino di elaborare un progetto legislativo a favore del mezzogiorno. Tenne, infatti, un discorso poi a Napoli il 9 novembre (e lo riprenderà il 4 dicembre alla Camera) esponendo il suo progetto a favore del mezzogiorno, teso a favorire da un lato i proprietari meridionali, con la riduzione dell'imposta fondiaria e dall'altro i contadini con una vantaggiosa riforma dei contratti agrari.

Ad intervenire su questo problema meridionale ci furono gruppi d'intellettuali meridionali molto attenti ai problemi sociali ed economici, ritenendo gli stessi essere di portata nazionale. Anche la stampa socialista ebbe una parte di primo piano nel denunciare le misere condizioni del mezzogiorno. Dall'altra c'era invece un gruppo d'intellettuali antigiolittiani di credo liberista che ovviamente si divisero nel vivace dibattito sull'analisi delle cause del divario tra Nord e Sud, e sulle proposte dei possibili rimedi. Ciò che venne fuori, furono solo tante chiacchiere, con abbondante uso della dialettica per tirare l'acqua (le risorse statali) al proprio mulino settentrionale.
Prima di chiudere l'anno 1902, dobbiamo ritornare sui problemi di politica estera, che dall'assassinio del re, e dall'inizio del nuovo ministero Zanardelli, abbiamo tralasciato di accennare

... la "POLITICA ESTERA DEL GOVERNO ZANARDELLI"

è appunto il prossimo capitolo.

POLITICA ESTERA ZANARDELLIANA: "I GIRI DI VALZER"

LA POLITICA ESTERA DEL MINISTERO ZANARDELLI - IL RIAVVICINAMENTO TRA L'ITALIA E LA FRANCIA - LA CONVENZIONE FRANCO-BRITANNICA DEL 21 MARZO 1899 - GLI ACCORDI ITALO-FRANCESI PER I POSSEDIMENTI NEL MAR ROSSO E PER LE QUESTIONI MEDITERRANEE - LA SQUADRA NAVALE DEL DUCA DI GENOVA A TOLONE - DICHIARAZIONI DEL BULOW SUI RAPPORTI FRANCO-ITALIANI - GLI ACCORDI DEFINITIVI ITALO-FRANCESI DEL 1903 - I RAPPORTI ITALO-INGLESI - L' ITALIA E L'AUSTRIA - IL RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA - VITTORIO EMANUELE III A PIETROBURGO E A BERLINO - DIMISSIONI DI PRINETTI - GUGLIELMO II IN ITALIA - LA VISITA DELLO ZAR IN ITALIA SOSPESA PER IL CONTEGNO DEI SOCIALISTI
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LA POLITICA ESTERA DEL MINISTERO ZANARDELLI

La politica estera del ministero Zanardelli, fu quella di guardare ai "cinque cantoni"; mirò al mantenimento della Triplice Alleanza (Austria e Germania); all'amicizia dell'Inghilterra; ad un maggiore riavvicinamento dell'Italia alla Francia; ed infine con in casa la russa-slavofila regina consorte del Re, furono fatti molti passi in Russia, preoccupando non poco (anzi allarmando) le altre quattro potenze (e i socialisti in italia) quando lo zar Nicola II accennò di voler fare una visita in Italia; per timore di disordini la evitò, ma poi nel 1909 fece visita ai sovrani d'Italia e non a Roma ma stranamente nella ex residenza sabauda di Torino, a Racconigi.
(E avevano ragione di allarmarsi, perché nel castello reale di Racconigi, dove fu ricevuto, in 24 ottobre di quell'anno, fu sottoscritto un accordo segreto del Re con lo Zar, per il mantenimento nella penisola balcanica di uno status quo, e nel contempo di andare incontro alle ambizioni d'autonomia nazionale dei popoli della regione (e a palese danno dell'Impero Austro-Ungarico che aveva intenzione di invaderla quella regione). Accordo segreto questo, che fu stipulato appena quattro giorni dopo (20 ottobre) l'avvenuta ufficiale riconferma dell'Italia all'Austria, dell'art.7 della Triplice; che era poi quello che impegnava i due Stati di consultarsi reciprocamente prima di un intervento dell'Austria sui Balcani ed era pure, ovviamente, implicitamente riconfermato il patto difensivo che legava l''Italia agli imperi centrali.

Potrebbe destare stupore questo "doppio gioco" a Racconigi, ma del resto come leggeremo più avanti, Vittorio Emanuele III, fin da quando era salito al trono aveva colto più di un'occasione per manifestare il suo scarso compiacimento nei confronti di quell'eredità lasciatagli dal padre; o forse -come abbiamo visto nella sua fanciullezza- qualcuno (Orio) gli aveva fatto odiare i Prussiani fin dai suoi primi passi. Da notare che il re, una delle prime visite (dopo quella in Inghilterra) l'aveva dedicata alla Francia Repubblicana e antitedesca, e fin dal primo momento la politica dei suoi governi guardava ai cugini latini con molta benevolenza. Era del resto finita l'anglo-fobia e la franco-fobia crispina).

Il riavvicinamento con la Francia era iniziato fin dal settembre del 1896 (subito dopo la caduta di Crispi) con le convenzioni per la Tunisia e continuato con l'accordo commerciale del 21 novembre 1898.
I mutati rapporti italo-francesi avevano corso il rischio di ritornare molto tesi con la convenzione del 21 marzo 1899 tra l'Inghilterra e la Francia. Le due potenze con quel patto avevano delimitate le rispettive sfere d'influenza nell'Africa settentrionale, riconoscendo la prima alla seconda il diritto di esercitare la propria influenza sull'alto hinterland tripolino e riconoscendo questa a quella i diritti sulle regioni del Bahr-el-Ghazal e sul Darfur. Ma il pericolo era stato scongiurato e molti mesi dopo, anzi, i rapporti italo-francesi si erano fatti più cordiali.
Infatti, poco dopo, il 24 gennaio del 1900, il ministro degli Esteri VISCONTI VENOSTA e l'ambasciatore francese a Roma CAMILLO BARRÈRE avevano con un protocollo delimitato il confine tra la Somalia francese e il protettorato italiano di Raheita e il 14 e il 16 dicembre dello stesso anno avevano proceduto allo scambio di note relative alla Tripolitania e al Marocco; note che qui è interessante riferire:

La prima nota, del BARRÈRE al Visconti-Venosta: affermava: "In seguito alla conclusione della convenzione del 21 marzo 1899 tra la Francia e la Gran Bretagna, il mio governo, rispondendo al vostro onorevole predecessore (Canevaro), ebbe occasione di dargli a mezzo mio, schiarimenti tali da dissipare qualsiasi equivoco sulla portata di quel documento. Da allora V. E. ha espresso l'opinione che queste assicurazioni, ripetute in una maniera più esplicita, avrebbero contribuito a rafforzare i buoni rapporti fra i nostri due paesi. Io sono stato quindi autorizzato dal ministro degli Affari Esteri a far conoscere a V. E., a motivo delle relazioni amichevoli che si sono stabilite tra la Francia e l'Italia e nella convinzione che questa spiegazione avrà per effetto di migliorarle ancora, che la convenzione del 21 marzo 1899, escludendo dalla ripartizione d'influenza, che essa sanziona, il vilayet di Tripoli, segna per la sfera d'influenza francese, in rapporto alla Tripolitania-Cirenaica, un limite che il Governo della Repubblica, non ha l'intenzione di sorpassare, e che non è nei suoi progetti di intercettare le comunicazioni commerciali stabilite per le vie carovaniere di Tripoli verso le regioni contemplate nella suddetta convenzione. Queste spiegazioni, che abbiamo convenuto di tenere segrete, contribuiranno a consolidare, io non ne dubito, su questo punto come su altri, le relazioni amichevoli tra i nostri due paesi"

La seconda nota del VISCONTI-VENOSTA al Barrère, affermava: "La situazione attuale del Mediterraneo e le eventualità che ne potrebbero derivare hanno formato oggetto di uno scambio amichevole d'idee tra noi, essendo i nostri due governi ugualmente animati dal desiderio di eliminare, anche a questo riguardo, tutto ciò che potrebbe essere suscettibile di compromettere nel presente e nell'avvenire la mutua buona intesa. Per quanto concerne più particolarmente il Marocco, dai nostri colloqui è risultato che l'azione della Francia ha per scopo di esercitare e di salvaguardare i diritti che le derivano dalla vicinanza del suo territorio con quell'impero. Io ho riconosciuto che, così definita, una tale azione non è ai nostri occhi di natura tale da danneggiare gli interessi dell'Italia come potenza mediterranea. Siamo pure rimasti intesi che, qualora ne dovesse risultare una modifica delle condizioni politiche o territoriali del Marocco, l'Italia si riserverebbe, per misure di reciprocità, il diritto di sviluppare eventualmente la sua influenza nei rapporti della Tripolitania-Cirenaica".

Assunta la presidenza del Consiglio ZANARDELLI e il portafoglio degli Esteri PRINETTI, i rapporti tra l'Italia e la Francia si fecero più cordiali. Nell'aprile del 1901 una squadra navale italiana, comandata dal Duca di Genova, si recò a Tolone dove ebbe calorose accoglienze. TOMMASO di Savoia consegnò il Collare dell'Annunziata ad EMILIO LOUBET, presidente della Repubblica, e questi, il 10 aprile, in un banchetto in onore del duca di Genova, disse di nutrire la speranza di vedere i rapporti italo-francesi farsi ancor più stretti.

Questi segni esteriori di cordialità fecero sospettare che qualche accordo era intervenuto fra le due nazioni. E il sospetto divenne certezza quando, nella seduta del 14 dicembre 1901, il ministro PINETTI, rispondendo ad un'interrogazione dell'on. GUICCIARDINI sulla situazione in Tripolitania, notificò che la Francia aveva dato assicurazione all'Italia che avrebbe rispettato il villayet di Tripoli e non avrebbe intercettato le vie carovaniere conducenti al centro dell'Africa e quando, il 1° gennaio del 1902, in un suo discorso, l'ambasciatore BARRÈRE dichiarò che i rapporti tra l'Italia e la Francia si erano definitivamente sviluppati e consolidati e, regolata la questione delle capitolazioni tunisine, ristabiliti i rapporti commerciali, fissate le frontiere dei possedimenti nel Mar Rosso; insomma che le due nazioni avevano eliminato ogni causa di malintesi nel bacino del Mediterraneo.

Qualche giorno dopo, in un'intervista accordata da DELCASSÉ, ministro degli Esteri francese, ad un corrispondente del "Giornale d'Italia", si parlò apertamente dell'avvenuto accordo tra l'Italia e la Francia per la Tripolitania e si accennò alla cordialità di rapporti tra l'Italia e la Russia, anzi il Delcassé affermò che la Russia avrebbe assecondata la politica italiana nella penisola balcanica (l'influenza delle regina Elena non era di certo estranea).

Naturalmente la notizia dell'accordo italo-francese mise in allarme la parte più sensibile dell'opinione pubblica degli Imperi centrali, dove si temette che l'Italia fosso lì per lì per abbandonare la Triplice; ma BULOW, l'8 gennaio del 1902, in un discorso al Reichstag, calmò le inquietudini, sostenendo che la Triplice Alleanza era in ottima salute, che gli accordi franco-italiani intorno a certe questioni mediterranee non erano in contrasto con gli interessi della Triplice e che l'Italia non aveva tradito gli alleati, ma aveva fatto un innocente "giro di valzer" con un'altra potenza.

E così realmente era. L'Italia, accordandosi con la Francia, non aveva né l'intenzione, né l'interesse di tradire la Triplice, ma intendeva tutelare la propria sicurezza nel Mediterraneo, sicurezza che la Germania e l'Austria-Ungheria non le davano, tant'è vero che, dopo la convenzione franco-inglese del 21 marzo 1899, all'Italia, che in base all'art. 9 della Triplice chiedeva contro questa convenzione l'appoggio della Germania, questa aveva risposto così evasivamente da far capire al nostro Governo che vana sarebbe stata la speranza di un intervento tedesco nel Mediterraneo a favore dell'Italia.

Le relazioni italo-francesi, seppur cordiali, erano offuscate da una nube: dal sospetto cioè, nutrito dai francesi, che lo scopo della Triplice fosse ostile alla Repubblica e che esistessero convenzioni addizionali rivolte contro la Francia. A dissipare questa nube valse una dichiarazione che, il 4 giugno del 1902, per mezzo dell'ambasciatore conte TORNIELLI, il PRINETTI inviò al DELCASSÉ. Nella dichiarazione era detto:

"Nel rinnovamento della Triplice Alleanza, non c' è nulla che sia, direttamente o indirettamente aggressivo, avverso la Francia, né alcun impegno che possa obbligare l'Italia in qualsiasi eventualità a prendere parte ad un'aggressione contro la Francia, né infine alcuna stipulazione che minacci la sicurezza e la tranquillità della Francia".

Questa dichiarazione rassicurante fu il preludio di trattative tra l'Italia e la Francia per precisare gli accordi mediterranei di due anni prima. In seguito a tali trattative, il 10 novembre del 1902, PRINETTI inviò a BARRÈRE la nota seguente:

"In seguito alle conversazioni che abbiamo avute, circa la situazione reciproca dell'Italia e della Francia nel bacino del Mediterraneo, e toccanti più specialmente gli interessi reciproci delle due nazioni in Tripolitania-Cirenaica e in Marocco, ci è parso opportuno di precisare gli impegni che risultano dalle lettere scambiate a questo proposito fra Vostra Eccellenza ed il Marchese Visconti-Venosta, il 14 e 16 dicembre del 1900, nel senso che ciascuna delle due potenze potrà liberamente sviluppare la propria sfera d'influenza nelle regioni summenzionate al momento che giudicherà opportuno e senza che l'azione di una di loro sia necessariamente subordinata a quella dell'altra.

" In occasione di queste trattative, e per eliminare in modo definitivo tutti i malintesi possibili fra i nostri due paesi, io non esito, per precisare i loro rapporti generali, a fare spontaneamente a Vostra Eccellenza, in nome del Governo di Sua Maestà il Re, le seguenti dichiarazioni: Nel caso che la Francia fosse oggetto di un'aggressione diretta o indiretta di una o più potenze, l'Italia osserverà una stretta neutralità. Lo stesso avverrà se la Francia, in seguito ad una provocazione diretta, si trovasse ridotta a prendere, per la difesa del suo onore e della sua sicurezza, l'iniziativa di una dichiarazione di guerra.

"In questa eventualità il Governo della Repubblica dovrà comunicare preventivamente la sua intenzione al Governo Reale, mettendolo così in grado di costatare che si tratta veramente di un caso di provocazione diretta. - Per restare fedeli allo spirito d'amicizia che ha ispirato le presenti dichiarazioni io sono autorizzato inoltre a confermarle che non esiste da parte dell'Italia, e che non sarà concluso da essa alcun protocollo o disposizione militare d'ordine contrattuale internazionale che fosse in disaccordo con le presenti dichiarazioni".

Quel giorno stesso BARRÈRE scrisse a PINETTI di avere avuto dal proprio Governo l'autorizzazione di assumere con l'Italia i medesimi impegni assunti da questa con la Francia.

Ma perché l'Italia fosse completamente sicura nel Mediterraneo occorreva l'amicizia dell'Inghilterra, la quale, nonostante i tradizionali cordiali rapporti, fin dal principio del 1896 si era staccata dalla politica della Triplice, accostandosi all'Intesa e rifiutando di prolungare gli accordi del 1887 relativi al Mediterraneo e all'Oriente, e nel marzo del 1899 non solo aveva stipulato con la Francia la famosa convenzione, di cui abbiamo parlato, ma aveva cercato (dissero dopo "in buona fede") di sopprimere nei tribunali e nelle scuole di Malta la lingua italiana.

I RAPPORTI ITALO-INGLESI
A ripristinare i buoni rapporti con l'Inghilterra, un po' intiepiditi per l'affare della lingua, giovarono la resistenza dei Maltesi e l'azione della "Dante Alighieri", che indussero il ministro inglese delle colonie, CHAMBERLAIN, a fare le seguenti dichiarazioni alla Camera dei Comuni:
"L'amicizia dell'Italia e dell'Inghilterra è un vero tesoro nazionale per i due popoli. Noi simpatizzammo per l'Italia nella grande lotta per la sua unità e negli splendidi sforzi che l'hanno mantenuta attraverso tante vicende. Gli interessi dei due paesi, specie nel Mediterraneo, sono mutui.
Un deplorevole malinteso non deve diminuire la simpatia che esiste e spero si manterrà a lungo fra le due nazioni... Io non desidero che il malinteso permanga in Italia; quindi se l'adozione di un compromesso potrà estinguere i sentimenti eccitati nei nostri buoni alleati e, contemporaneamente, soddisfare le classi maltesi, a cui la lingua italiana sta a cuore, non esito a dichiarare che sono pronto a ritirare il proclama. Sono pronto a ritirarlo subito, senza restrizioni e senza condizioni".
PRINETTI, spinto dalle buone disposizioni del Governo britannico, cercò di indurre l'Inghilterra a rinnovare gli accordi del 1887, ma riuscì solo a far sì che la Gran Bretagna dichiarasse che non aveva mire ambiziose sulla Tripolitania e che, in caso di mutamento dello status quo nel Mediterraneo, si sarebbe adoperata perché gl'interessi italiani non fossero danneggiati. Fu vaga.

Tuttavia i rapporti fra le due potenze si fecero ancor più cordiali quando, nell'aprile del 1903, re EDOARDO VII si recò a Roma a visitare il sovrano d'Italia VITTORIO EMANUELE III, il quale restituì la visita nel novembre dello stesso anno.

 

SI RINNOVA LA TRIPLICE ALLEANZA CON L'AUSTRIA

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