RIVOLUZIONE FRANCESE

1797

LA REPUBBLICA CISALPINA - IL TRICOLORE - IL TRATTATO DI CAMPOFORMIO -
GLI AUSTRIACI A VENEZIA


Il giuramento di fedeltà alla Repubblica Cisalpina, il 9 luglio 1797

Già il 7 gennaio alle ore 11 si era aperto un Congresso a Reggio Emilia alla presenza di 100 deputati. Giuseppe Compagnoni, l’infaticabile lughese, vi domina con la sua intelligenza, il suo impegno e la sua preparazione. Egli propone via via una serie di provvedimenti che vengono tutti e subito approvati .
Dal verbale della Sessione XIV del Congresso Cispadano
"Reggio Emilia, 7 gennaio 1797, ore 11. Sala Patriottica.
Gli intervenuti sono 100, deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
Giuseppe Compagnoni di Lugo fa mozione che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. "Viene decretato."
E’ l’atto di nascita del TRICOLORE.

Sempre nel verbale si legge: "Compagnoni fa mozione che lo Stemma della Repubblica sia innalzato in tutti quei Luoghi, nei quali è solito, che si tenga lo Stemma della Sovranità". Decretato.
"Fà un'altra mozione, che alla testa di tutti gli atti pubblici si ponga L’intestatura - Repubblica Cispadana una ed indivisibile -. Si decreta pure questo".
Altra mozione di Compagnoni dopo qualche discussione, "si decreta che L’Era della Repubblica Cispadana incominci dal primo giorno di gennaio del corrente anno 1797, e che questo si chiami Anno I° della Repubblica Cispadana da segnarsi in tutti gli atti pubblici, aggiungendo, se si vuole, l’anno dell’Era volgare. "
( * ) Il Tricolore aveva però già fatto la sua apparizione sul suolo italiano nel settembre 1796. Fu lo stesso Napoleone Bonaparte a darne l'annuncio al Direttorio in una lettera nella quale è scritto che la Legione Lombarda, appena costituita, aveva scelto come propria bandiera "nazionale" il Tricolore bianco, rosso e verde. Adottato come simbolo nazionale anche dalla Repubblica Italica e successivamente dal Regno d'Italia, il Tricolore seguì le fortune napoleoniche ma con la Restaurazione scomparve dall'Italia. I vecchi regimi ripresero le loro tradizionali bandiere, mentre la Carboneria adottò come proprio simbolo un drappo dai colori rosso, blu e nero: gli stessi della Repubblica Partenopea.
La bandiera bianca, rossa e verde apparirà di nuovo in Italia nel 1831, con la costituzione della Giovine Italia. Il suo fondatore, Giuseppe Mazzini, farà di essa il simbolo della libertà e della volontà di rinnovamento e di unità nazionale del popolo italiano. Il Tricolore della Giovine Italia recava, da una parte, la scritta: "Libertà, Uguaglianza, Umanità"; e dall'altra: "Unità, Indipendenza".
Da questo momento l'idea dell'unità e dell'indipendenza nazionale e il Tricolore vengono strettamente associati nella mente degli italiani. Dalla spedizione di Savoia del 1834, non c'è moto o sollevazione popolare che non avvenga all'insegna del Tricolore. Nel marzo 1848 i milanesi insorgono contro gli austriaci agitando il Tricolore e cantando l'Inno di Mameli. Ciò, probabilmente, spinse Carlo Alberto ad assicurare al Governo provvisorio lombardo che le sue truppe avrebbero varcato il Ticino sotto le insegne del Tricolore (con lo scudo sabaudo al centro), nonostante lo Statuto concesso pochi giorni prima avesse solennemente proclamato, all'art. 77, che "Lo Stato conserva la sua Bandiera [croce bianca in campo rosso, n.d.r.]: e la coccarda azzurra è la sola nazionale".
Il Tricolore, adottato perfino dalle milizie borboniche e papali in un primo tempo inviate in soccorso dei Lombardi, sarà anche la Bandiera di Venezia e dal Governo insurrezionale della Sicilia e sventolerà in tutti i vecchi Stati italiani. Uno dei primi decreti della Repubblica Romana dichiarerà, il 12 febbraio 1849, il Tricolore Bandiera nazionale.
Pur mancando un'esplicita sanzione normativa, il Tricolore è ormai diventata la bandiera nazionale italiana: la materia riguardante la bandiera verrà, infatti, organicamente disciplinata dopo la Grande Guerra con il regio decreto-legge 24 settembre 1923, n. 2072, convertito nella legge 24 dicembre 1923, n. 2264. E nel 1947 il Tricolore, ovviamente privo del simbolo della dinastia sabauda, viene introdotto nella Costituzione repubblicana, che all'art. 12 così recita: "La Bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Il 26 aprile del 1797 si riunivano a Bologna i Consigli del Corpo Legislativo della Repubblica Cispadana e nominavano Direttori IGNAZIO MAGNANI, LUDOVICO RICCI e G. B. GUASTAVILLANI. Il Bonaparte, credendo che gli eletti fossero dei sostenitori del partito dei preti, non si mostrò soddisfatto e il 19 maggio ordinò che alla Cispadana si unissero le Romagne e che se ne staccassero Modena, Reggio, Massa e Carrara per aggregarsi alla Transpadana, che doveva prendere il nome di REPUBBLICA CISALPINA.

Questa fu inaugurata a Milano il 9 luglio e in quell'occasione fu promulgata la nuova costituzione, la quale - "cito il Fianchetti" - "…non fu se non una copia di quella francese, ed ebbe anche una durata minore di quella..".
"..Si apriva con la dichiarazione dei diritti d'uomo e di cittadino; poneva il duplice suffragio a fondamento d'ogni autorità; tutti i domiciliati in un distretto nominavano i giudici di pace, e gli elettori del dipartimento a ragione di uno ogni duecento. Questi alla loro volta eleggevano i membri del corpo legislativo, e tutti i magistrati giudiziari e gli amministratori.
Il corpo legislativo si componeva di un Consiglio di "seniori", in numero non minore di quaranta né maggiore di sessanta, e di un Consiglio di "juniori" (o gran Consiglio) tra gli ottanta e i centoventi; il secondo doveva proporre, il primo approvare le leggi, e, occorrendo, promuovere la revisione dello Statuto; ad ambedue spettava determinare i tributi annui e scegliere un Direttorio di cinque, investito della potestà esecutrice. Si creava inoltre un Tribunale di Cassazione, elettivo anch'esso, e un Istituto nazionale; infine si adottava negli atti pubblici il calendario e l'era francese (che iniziò retroattivamente, come in Francia, con corrispondente giorno 22 di settembre del 1792)…"

"…Splendide furono le feste dell'inaugurazione, che avvennero nel Lazzeretto, fuori di Porta Orientale, battezzato (come a Parigi) col nome di "Campo di Marte", ornato di festoni e di corone, di bassorilievi rappresentanti i fatti di Catone, di Scevola, di Curzio e della Lega Lombarda, d'archi di trionfo e di dodici alberi della libertà. Alla presenza del Bonaparte, del Direttorio, dei ministri cisalpini, dei deputati dei municipi e delle guardie nazionali dei dipartimenti, dei rappresentanti della Cispadana e di una folla immensa, l'arcivescovo di Milano celebrò la Messa e benedisse le bandiere tricolori delle legioni cisalpine e pronunciarono discorsi i cittadini SERBELLONI e RANGONE; quindi trecento giovinetti del battaglione della "Speranza" distribuirono copie della costituzione, e trentamila soldati francesi e cisalpini sfilarono davanti al Bonaparte mentre suonavano le musiche e si levavano fragorosi gli applausi. Lo stesso giorno al Palazzo nazionale vi fu un banchetto di trecento convitati e una corsa di fantini da Loreto al palazzo Serbelloni; la sera ci fu illuminazione con dodicimila lampade al campo della federazione…."

La nuova repubblica fu sollecitamente riconosciuta dalle corti di Sardegna, di Toscana, di Parma, delle Due Sicilie e dalle repubbliche Ligure e Veneta. L'ultimo a riconoscerla fu il Papa, il quale vi fu costretto dalla minaccia di una nuova guerra. Nell'ottobre dello stesso anno la Cisalpina aumentò il suo territorio annettendo la Valtellina che con l'aiuto del Bonaparte si era sottratta al giogo elvetico dei Grigioni.

Il 17 di quello stesso mese, dopo molte tergiversazioni dall'una e dall'altra parte, era firmato tra la Francia e l'Austria quella "spiacevole" carta (alcuni la bollarono "infame") che porta l'infausto nome di TRATTATO DI CAMPOFORMIO. (o Campoformido nella dizione veneta)
Una conseguenza di questo trattato fu la fine della Repubblica di Venezia.
Lo stato veneto, insieme all'Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro, le isolette venete dell'Adriatico, e ovviamente la stessa città di Venezia veniva ceduto all'Arciducato d'Austria.

La ex Serenissima, comprendeva ora, oltre a Venezia con le lagune, quella parte di terra ferma compresa tra i confini austriaci ed una linea che, partendo dal Trentino, attraversava il lago di Garda fino a Lazise, giungeva a S. Giacomo e, seguendo il corso dell'Adige, del Tartaro, del canale di Polisella e del Po, terminava al mare.
Tutte le terre venete a occidente di questi confini erano assegnate alla Cisalpina che riceveva così anche il riconoscimento austriaco.

Mentre Venezia veniva venduta, nello stesso momento un congresso di deputati della terraferma faceva voti per l'unione con la Cisalpina e tali voti comunicava al Bonaparte per mezzo del DANDOLO, al quale il generalissimo però comunicava notizia dell'avvenuto trattato e della mostruosa cessione fatta all'Austria.
Con l'animo angosciato il Dandolo corse a Venezia a dare il doloroso annuncio (27 ottobre) e in una pubblica sessione, in cui parecchi oratori pronunziarono accesi discorsi, propose che il popolo veneziano decidesse del proprio destino votando o per il giogo straniero o per l'indipendenza.
La votazione avvenne nelle parrocchie il giorno dopo e, sebbene per equivoco moltissimi voti fossero contrari, ebbero la prevalenza i suffragi di coloro che volevano rimaner liberi.

Lo SPADA e il DANDOLO furono incaricati di portare non a Napoleone ma direttamente a Parigi l'esito della votazione, ma per ordine del generalissimo, prima che attraversassero il confine piemontese, i due furono arrestati e condotti a Milano, dove al Bonaparte che li rimproverava di averlo scavalcato, il Dandolo parlò con tanta eloquenza dello strazio della sua patria da commuoverlo fino alle lacrime.

Ma quello di Napoleone era il pianto del coccodrillo. II triste destino dell'infelice Venezia si era già compiuto.
II 9 novembre la municipalità si sciolse affidando le redini del governo ad una magistratura provvisoria, e i Francesi, poiché dovevano abbandonarla posero mano alle ultime spogliazioni.

Si estorse quanto fu possibile: il Barbarigo, il Gabrieli e il Corner, arrestati come si è detto per ordine del Bonaparte, dovettero comprare la loro libertà per 131.250 lire; il ceto mercantile fu obbligato ad acquistare per centocinquantamila ducati una certa quantità di biscotti e di sale; furono venduti i capolavori d'arte della scuola dei mercanti alla Madonna dell'Orto; si finirono di spogliare gli archivi, le pinacoteche e le chiese; furono mandati a Parigi i quattro cavalli di bronzo che ornavano la Basilica di S. Marco; furono presi sei vascelli ed altrettante fregate che erano a Corfù; si vuotò l'arsenale, si affondarono del tutto le navi in riparazione, quelle mal messe furono sfasciate; e si arse a S. Giorgio il BUCINTORO per toglierne le dorature e solo quando non ci fu più nulla da "prelevare", il generale SERRURIER - non prima di aver fucilato un oste veneziano e un contadino mestrino rei di aver attaccato una banale lite per una questione di pochi soldi- abbandonò la città agli Austriaci, che vi entrarono il 18 gennaio del 1798, come dei fantasmi, in una città irreale, spogliata, in ginocchio, e dall'umiliazione stordita e ancora incredula.

Più in basso di così Venezia non era mai andata nella sua storia, nemmeno quando ad Aquileia e ad Altino era passato Attila; la Serenissima era sprofondata dall'umiliazione nel fango della sua laguna, e con essa, i nobili inetti, gli aristocratici apatici, i patrizi impigriti in attesa dei "nuovi padroni" , gli Asburgo, che da cinque secoli non attendevano altro che questo: di metterci il tallone.
Altrettanto crudele destino per le città, le campagne, le attività della Terraferma.

Ma più di ogni altro luogo, fu Venezia, durante tutto il periodo austriaco a sprofondare nella decadenza, per la prevalenza marittima di Trieste, per l'incuria dei suoi stupendi palazzi che cadevano in rovina con i padroni che non riuscivano più a restaurare per indigenza sopravvenuta. Alcuni furono demoliti per ricavarne pietre e marmi da vendere ai costruttori, e quasi stavano per demolire il palazzo dei dogi per farci un palazzo reale. I pochi arredi (quadri, statue, mobili) che erano rimasti nelle chiese o nei palazzi dei nobili, finirono in mano agli antiquari speculatori senza scrupoli e alle aste. Gli archivi secolari della Serenissima finirono al macero o venduti ai salumieri per incartarci le loro cose.

Nel 1811 "cessarono di esistere tutte le librerie" (erano 845); le biblioteche dei frati e dei monaci (alcune monumentali) furono disperse, comprese le scaffalature; come quella dei Camaldolesi di Murano che possedeva 40.000 volumi; dei Somaschi alla Salute, 30.000; dei Domenicani alle Zattere altrettanti volumi; quella dei Minori conventuali ai Frari con 6000 volumi in fogli grandi in finissima pergamena che finirono -perché adatti all'incarto- al mercato del pesce; così ai Benedettini di San Giorgio, a San Francesco della Vigna, ai Dominicani di San Giovanni e Paolo.
E se alla biblioteca di Alessandria d'Egitto - quando la distrussero i Romani- andarono persi migliaia di importanti codici dell'antichità, danno maggiore fu quello di Venezia, perché alcuni di quei codici erano ancora gelosamente custoditi, oltre quelli dei successivi 1850 anni; soprattutto quelle edizioni delle prime e numerose tipografie che erano sorte all'inizio del '500 a Venezia (Manuzio, Remondini, ecc.)

In quanto ai quadri, sembra che 25.000 siano "volati" per il mondo a riempire pinacoteche e residenze reali e meno reali, o qualche salotto di nobili di passaggio, che li acquistavano al puro valore della tela. Tutti, viceré, ministri, funzionari, o anonimi accompagnatori dopo avervi soggiornato, se ne tornavano a casa con fardelli di cose preziosissime di Venezia. Di Venezia? No, un patrimonio dell'Umanità, che Venezia custodiva soltanto, da secoli e secoli. Ancora da quando i veneziani abitavano ad Aquileia o ad Altino, cioè nel 300, 400, 500, 700, avanti Cristo. Cioè 27 secoli prima!

Un documentatissimo inventario - di questo scempio- è quello compilato da ALVISE ZORZI nella sua "Venezia scomparsa".

Quando lo stesso Napoleone dopo le sue clamorose imprese tornò a Venezia nel 1807, provò dolore nel vedere come era ridotta Venezia; voleva fare qualcosa, correre ai ripari, emise decreti e decreti paradossalmente anche per rilanciare il commercio mise la Camera, quando il commercio a Venezia non esisteva già più. Scrive lo Scaldaletti, "Per commerciare che?".
Allargò il giardino pubblico ma solo perché già un terzo dei veneziani andati in miseria l'avevano scelto come dormitorio; e allargò pure il cimitero, ma solo perché un altro terzo dei veneziani lì era già finito.

E se lo Zorzi ci ha lasciato un inventario delle cose sottratte, il Lauriston inviando nel 1811 una relazione all'imperatore Francese fotografava impietosamente la decadenza della città; e non era molto diversa la relazione del Viceré Ranieri fatta poi nel 1819 al suo imperatore Austriaco che soddisfatto si cullava nella nuova opulenta città sulle sponde del Danubio.

E non finiva qui. La storia di Venezia riserverà ai veneziani anche dopo il 1800 altri infiniti dolori. Che troveremo in altre pagine di questa lunga storia (che alcuni dicono di "civiltà"). Come la Rivoluzione del 1848, che per un anno intero cercò di resistere agli austriaci, guidati da Manin.
Torniamo alla Repubblica Cisalpina,
al Novembre di questo stesso anno 1797
Circa un mese dopo il trattato di Campoformio, Napoleone Bonaparte lasciò l'Italia, accomiatandosi dalla popolazione della Repubblica Cisalpina con un manifesto del Direttorio Esecutivo, recante la data dell'11 novembre.
Nel manifesto-proclama il generalissimo diceva:


"…Siete il primo esempio nella storia, di una gente fatta libera senza fazioni, senza rivoluzione, senza stragi. Vi abbiamo dato la libertà; sappiate conservarla..".
E continuava esortando quelli che erano al governo a fare buone leggi e la popolazione ad eseguirle, a rispettare la religione, a formare un esercito nazionale e ad aver consapevolezza della propria forza e della dignità che si addice agli uomini liberi.
Notare i due motti iniziali "Eguaglianza" e " Libertà".

Ma che libertà fosse "quella" di cui dovevano godere, i popoli della Cisalpina la conobbero quando furono note le norme che a Parigi il Bonaparte aveva dettato per il trattato d'alleanza da stipularsi tra la Nuova Repubblica Cisalpina e la Francia.
Questa, infatti, riservandosi l'esercizio dell'alta polizia e il diritto di tener presidii nelle piazzeforti, s'impegnava a garantire l'integrità territoriale della Cisalpina a patto che fornisse l'alloggio e pagasse le spese per venticinquemila soldati francesi; fortificasse varie città e castelli; armasse trentamila uomini e seguisse la repubblica madre in ogni impresa militare.

Invano i dirigenti del governo cisalpino cercarono di indurre il Direttorio di Parigi a mitigare quelle condizioni; riuscirono soltanto a farsi apportare modifiche formali e il trattato d'alleanza sostanzialmente lasciò invariati i patti con i contenuti consigliati dal Bonaparte.
Per salvare la dignità della Cisalpina si finse che questa avesse chiesto alla Francia un presidio di venticinquemila uomini per il cui mantenimento si obbligava a sborsare diciotto milioni l'anno; dal canto suo la Francia si impegnava a garantire e difendere la libertà e l'indipendenza del nuovo stato e a comprenderlo in tutti gli accordi.
Contemporaneamente fu sottoscritto a Parigi un trattato di commercio in cui le due potenze stabilivano che le loro merci non potevano esser colpite da proibizioni o da dazio superiore al sei per cento sul valore.

Il 4 marzo del 1798 i Direttori della Cisalpina presentarono i trattati per la ratifica al Consiglio dei "Giuniori", di cui era presidente ANTONIO ALDINI. Il Consiglio avrebbe voluto non ratificare il trattato d'alleanza considerandolo a ragione umiliante, ma, sollecitato minacciosamente dal generale BERTHIER, che era stato lasciato dal Bonaparte al supremo comando dell'esercito francese in Italia, dopo alcuni giorni di titubanza, lo approvò il 14 marzo.

Il Consiglio dei "Seniori", invece, di cui era presidente il bolognese VINCENZO BRUNETTI, ratificò il solo trattato di commercio. Quanto all'altro dichiarò che, pur manifestando sensi di gratitudine e devozione verso la Francia, non poteva approvarlo perché la Cisalpina non era in grado di eseguire tutti i patti nel trattato contenuti.

Grande fu l'indignazione del Direttorio parigino e del generale LE CLERK che sostituiva il BERTHIER assente. Il primo, accusando d'illegalità la deliberazione dei Seniori, consigliò i Giuniori ad annullarla, e pronunciò gravi minacce contro la Cisalpina, affermando che rischiava di perdere l'indipendenza se i Seniori persistevano nel loro atteggiamento; il secondo minacciò a sua volta di porre sotto il governo militare tutte le piazzeforti della repubblica adducendo come pretesto che nel Consiglio dei Seniori sarebbero stati pronunciati discorsi tendenti a fare insorgere il popolo contro i Francesi.

I Seniori non si lasciarono intimorire dalle minacce, ma vollero dissipare gli equivoci precisando il proprio punto di vista e la loro condotta. Pertanto, il 16 marzo dichiararono che con la loro deliberazione non avevano inteso di respingere l'alleanza e l'amicizia della Francia, ma solo alcune "clausole onerose" del trattato e sottoscrissero un solenne giuramento in cui attestavano di non aver mai pronunziate parole contro la repubblica francese.

Pronunciate o no parole tendenziose, i Seniori tuttavia non avevano torto quando affermavano che le forze del nuovo stato non erano tali da sostenere gli oneri imposti dal trattato, specialmente la spesa dei diciotto milioni per il mantenimento del presidio francese.
La cosiddetta repubblica Cisalpina era esausta: nonostante si fosse il 14 novembre del 1797 stabilito tra il conte MELZI e il commissario HALLER che non ci sarebbero state più requisizioni militari, queste non erano finite e la sola Mantova aveva dovuto dare al generale MIOLLIS l'11 febbraio del 1798 quattrocentomila lire, cinquemila camicie e seimila paia di scarpe; venti milioni annui oltre le spese previste erano stati assegnati al nuovo esercito cisalpino; tasse del sei per cento erano state imposte sugli utili del commercio e del sei sui capitali a mutuo e ciò nonostante si era dovuto imporre un prestito forzoso su coloro che godevano una rendita non minore alle duemila lire per colmare il deficit di trentasei milioni; inoltre delle grosse somme costava l'amministrazione statale e ne fanno fede i lauti stipendi di seimila lire che erano assegnati ai Giuniori e quelli di cinquantamila e di venticinquemila dati rispettivamente ai ministri e ai segretari. (insomma per "qualche italiano" la cosa andava più che bene).

Ma la Francia non voleva sentire ragioni. Il BERTHIER fu sostituito con il generale BRUNE e questi trattò la Cisalpina come paese di conquista, come una colonia. Anzitutto impose un tributo per il mantenimento delle sue truppe, poi tolse dal loro ufficio quei "Seniori" che più degli altri avevano contrastato o solo criticato o semplicemente discusso alcune clausole il trattato fra cui l' ALDINI il MARLIANI e il BUCALOSSI; poi proscrisse tre "Giuniori" e parecchi cittadini, fra i quali MELCHIORRE GIOIA, infine riorganizzò il Direttorio, lasciandovi il COSTABILI come presidente, il SAVOLDI e l'ALESSANDRI e sostituendo il conte PARADISI e il dottor MOSCATI con GIACOMO LAMBERTI e CARLO TESTI., più ubbidienti e servili.

"Così una medesima condanna colpì alla pari gli oppositori e i sostenitori del trattato; così tra gli ordini emanati da Parigi e gli arbitrii militareschi di chi doveva eseguirli era malmenata e conculcata la giovane Repubblica: della quale in simile forma.... - parlava il Melzi scrivendo al Marescalchi: Da Milano .... nulla d'importante; qui calma simile a quella della tomba; più i "rimossi" che i "promossi" contenti; somma l'angustia pecuniaria; nessuna l'attività dei compensi; impossibile la durata simultanea di un potere militare illimitato nei bisogni come nelle voglie, e di un potere civile, per paralisi confermata, a carico solo e gravissimo, non a difesa e protezione ".

Lo stesso Bonaparte (il quale, abbandonato il suo primo disegno d'invadere l'Inghilterra, stava allora preparandosi per la sua impresa d'Egitto, fu turbato da quell'avventato procedere del Direttorio: e dal "Foglio universale" francese essendosi sparsa la notizia, smentita poi, che molti membri dei due Consigli erano stati incarcerati o banditi e che le stesse misure minacciavano il Moscati e il Paradisi, scrisse al Direttorio il 17 marzo 1798 per difendere l'onore di quei due suoi amici, e concluse dicendo: "…L'avvilimento del governo cisalpino fin dalla sua origine e la perdita dei migliori cittadini sarebbero una vera sciagura per la Francia, un argomento di trionfo per l'Imperatore e per i suoi seguaci..".
Saggia sentenza; la quale serve peraltro di giusta condanna non solo al contegno del governo francese ma anche per i moltissimi atti che aveva già compiuto e che poi doveva compiere in Italia colui che li dettava.." (Franchetti) ".

Sul finire di maggio, il Consiglio dei Seniori fu costretto a cedere ed approvò il trattato d'alleanza. Inoltre fu stabilito di comprare e donare alla Francia un palazzo, di murarvi una lapide e di dare alla via in cui sorgeva, il nome significativo di "Contrada della Riconoscenza".
Lo scambio delle ratifiche, infine, che avvennero l'8 giugno del 1798, diede occasione alle solite feste con cui si voleva dimostrare che la concordia e l'affetto - e non era vero - erano tornati a regnare tra le due repubbliche.
Una "concordia" non esisterà mai se uno ordina con delle intimazioni e l'altro è costretto a ubbidire.

SOLLEVAZIONI NELLA CISALPINA IN DIFESA DELLA COSTITUZIONE
IMPOSIZIONE DI UNA NUOVA COSTITUZIONE - IL FOUCHÉ -
IL COMMISSARIO RIVAUD E IL GENERALE JOUBERT
CONDIZIONI ECONOMICHE DELLA CISALPINA
Il malcontento serpeggiava nella Repubblica Cisalpina quando da Parigi fu mandato a Milano, nel giugno del 1798, il TROUVÉ, in qualità di ambasciatore e con l'incarico di riformare lo statuto della Cisalpina coadiuvato dal FAYPOULT, già ministro francese a Genova.

La notizia che il Trouvé era venuto per mutare la costituzione provocò un grave fermento fra i patrioti milanesi ma anche fra gli agnostici. La mattina del 26 luglio, in piazza dei Mercanti, ai piedi della statua di Filippo II, alla cui testa l'anno prima era stata sostituita quella di Marco Bruto, furono trovate molte copie di un rovente manifesto che terminava con queste parole: "…Stringiamo il ferro di Bruto nostro antico proconsole e stiamo pronti a scannare qualunque Cisalpino che ardisse fare il minimo insulto alla Costituzione..".

A quel punto nel piccolo assembramento che si era formato attorno alla statua, tutta l'ira da qualche tempo repressa, salì in crescendo, poi scoppiò e si ebbero i primi tumulti. A Milano, nelle strade si iniziò a gridare e a inveire contro il Trouvé e gli aristocratici, la plebe si accanì contro le statue nelle piazze, gli stemmi dei nobili palazzi, e perfino contro i dipinti sacri; dalle province giunsero numerose petizioni al Gran Consiglio perché non lasciasse toccare la costituzione; per persuadere il Direttorio francese a revocare l'ordine di riformare lo statuto furono inviati a Parigi il generale LAHOZ e il luogotenente generale TEULLIÉ dell'esercito cisalpino.

Il 15 agosto il Gran Consiglio invitò il Direttorio ad "..assicurare il popolo che la Rappresentanza nazionale e tutte le primarie autorità costituite, fedeli al proprio giuramento, conservarono inviolabile quel sacro deposito..".
Essendo nel frattempo tornato da Parigi il generale BRUNE, i Milanesi furono quasi sicuri che fosse venuto per opporsi ai disegni del Trouvé. Il 18 agosto gli tributarono una calorosa dimostrazione che però in breve -cadute le speranze- si mutarono in una manifestazione ostile all'ambasciatore, con una pronta risposta di repressione e di severi provvedimenti.
Furono chiusi i circoli e i ritrovi politici, furono imprigionate alcune diecine di scalmanati e infine fu messo lo stato d'assedio alla città.

Il Gran Consiglio, riunitosi la mattina del 30 agosto, inviò un'interpellanza al Direttorio, in cui gli si chiedevano precisi e pronti ragguagli intorno alle gravi notizie che correvano. Il Direttorio esecutivo rispose che la chiusura dei circoli e la perquisizione di alcune case erano state, per desiderio del Brune, ordinate dal Ministro di Polizia, ed erano giustificate dal sospetto di una congiura ordita dai fuorusciti francesi da qualche tempo in Italia. In quanto alle altre notizie che correvano non aveva elementi sufficienti per fornire informazioni o delle spiegazioni.

Mentre continuava la seduta giunsero settantotto lettere, sottoscritte dal TROUVÈ e dal BRUNE, con le quali s'invitavano altrettanti Giuniori a recarsi quella stessa sera al Palazzo Castiglioni, sede dell'ambasciatore francese. Trentotto uguali inviti erano stati mandati ai Seniori. Dei centonovantuno membri dei due Consigli soltanto centosedici ricevettero dunque l'invito, ma -diffidando- solo due terzi circa degli invitati si presentarono all'adunanza.

Questa era presieduta dal Trouvé, che aveva accanto il generale Brune e il Faypoult. L'ambasciatore, dopo avere enumerato i mali che affliggevano la repubblica, affermò che occorreva una nuova costituzione. Lui, insieme con il FAYPOULT, con il DUMONT, con il GARAT e con il GINGUENÉ, n'aveva già preparata una e comunicò all'assemblea il contenuto, quindi dichiarò che i presenti dovevano sancirla e promulgarla ed eleggere inoltre una "Commissione di Salute Pubblica" e un nuovo "Direttorio".

Nonostante i rappresentanti adunati fossero uomini devoti alla Francia, ma piuttosto timidi - e appunto per questo motivo il Trouvé aveva invitato soltanto loro e non gli altri - non mancarono le proteste. Il MAZZUCHELLI affermò che avendo giurata una costituzione non poteva accettarne un'altra, e che se si voleva proporre, non imporre, una riforma, era illegale escludere gli altri settantacinque membri dei due Consigli.
Su per giù le medesime cose dissero i deputati VERTEMATI FRANCHI, LUPI, CONTI, MAZZINI e POLFRANCESCHI.

Il Trouvé e il Faypoult parlarono difendendo quanto avevano disposto e circa il giuramento assicurarono che il Direttorio francese, autore della prima costituzione, li scioglieva dal medesimo. Finalmente si giunse alla votazione, che -però- non fu segreta, e la proposta dell'ambasciatore ebbe così sessantadue voti favorevoli e ventitré contrari.

Il giorno dopo nelle sale dei due Consigli si riunirono in assemblea costituente i Giuniori e i Seniori che avevano votato in favore della proposta: quelli che avevano dato il voto contrario e quelli che non erano stati invitati alla riunione della sera precedente o non si presentarono o non furono fatti entrare dai soldati francesi messi di sentinella alle porte.
Fu letta una lunga lettera del Trouvé, quindi fu costituito il nuovo Direttorio, che, secondo la lista già preparata dall'ambasciatore, fu formato dall'ADELASIO, dal LAMBERTI, dal LUOSI, e dal SOPRANSI.

Inoltre la costituente decretò di ridurre ad undici i dipartimenti, di mettere per un anno sotto la vigilanza della polizia, la stampa e le tipografie e di chiudere quei circoli politici che professavano opinioni contrarie alle leggi. E della nuova costituzione si diede annuncio al popolo con un manifesto, preparato in precedenza, in cui si affermava che la Cisalpina era stata salvata dal pericolo di ".. ricadere sotto il giogo degli stranieri o di perire vittima del furore anarchico ..".
Si temeva che sorgessero tumulti; ma nessuno si mosse. Soltanto il RANZA volle protestare e lo fece in una maniera che aveva del carnevalesco: vestitosi a lutto, percorse la città con un esemplare della prima costituzione sotto il braccio, che, piangendo e seguito da uno stuolo di curiosi, andò a seppellire al Campo di Marte, dove un anno prima era stata solennemente inaugurata. La sua protesta gli costò il bando che colpì anche il GIOJA, il GALDI, il LATTANZI e il REINA; i perfino generali LAHOZ e TEULLIÉ furono destituiti. Anche tra francesi non correva buon sangue.

Qualche mese dopo, il TROUVÉ, che anche lui non andava d'accordo col BRUNE, fu richiamato e al suo posto fu inviato il FOUCHÉ. (una discreta biografia di questo singolare e ambiguo personaggio, onnipresente a tutti gli eventi, sempre a galla, prima, durante e dopo la Rivoluzione, oltre che prima, durante e dopo il periodo napoleonico, la trovate QUI > > ).

FOUCHÉ, accordatosi con il BRUNE, dichiarò guerra ai partigiani del suo predecessore TROUVÉ: Al SOPRANSI, all'ADELASIO e al LUOSI furono sostituiti con il BRUNETTI, il SABBATI e lo SMANCINI, una quarantina di deputati furono privati del loro ufficio e sostituiti con quelli che erano stati vittime del Trouvé, infine si riaprirono i circoli e si convocarono le assemblee primarie che approvarono i nuovi ordinamenti.

L'operato del Fouché e del Brune fu però sconfessato (25 ottobre) dal Direttorio francese, che li rimosse dai loro uffici, sostituendoli col commissario RIVAUD e col generalissimo JOUBERT.
Il Rivaud giunse a Milano il 6 dicembre e subito rimise le cose nei termini in cui le aveva lasciate il Trouvé: furono chiusi ancora i circoli politici, i deputati riammessi dal Fouché furono ricacciati, furono soppressi alcuni giornali, fra cui il "Termometro", carcerate alcune persone e ricomposto il Direttorio con l'ADELASIO, il BUOSI, il LAMBERTI e il SOPRANSI, cui fu aggiunto il MARESCALCHI; quindi fu promulgata la nuova costituzione (gennaio del 1793) e gli impiegati furono obbligati a giurare: "..odio alla monarchia, all'aristocrazia ed all'anarchia, fedeltà ed attaccamento alla Repubblica ed alla Costituzione Cisalpina .."


"…Fra tanti e sì contrari arbitri, - scrive il più volte citato Franchetti - una sola parte rimaneva invariabile nel contegno dei Capi francesi, cioè l'imperiosa richiesta del pubblico danaro. Nel giro di sedici mesi (dal settembre del 1797 al dicembre del 1798) il debito della Cisalpina "figlia" verso la Repubblica "madre", era montato a 52 milioni e 650.258 lire, così ripartiti: 31 milioni in forza del trattato d'alleanza, 18 milioni per le successive convenzioni del 29 settembre e del 5 ottobre 1798, 1.438.304 per l'approvvigionamento d'assedio e 3.211.911 per l'aumento ai soldati; e alla fine del 1798 rimaneva tuttavia debitrice di 14 milioni e 820,612 lire.
Dissanguato da tali spese e ridotto anche a peggior partito dalla sregolata amministrazione, il bilancio dell'anno VI repubblicano, che si chiudeva il 21 di settembre del 1798, aveva lasciato un disavanzo di 33 milioni e 326.722; per provvedere al quale si dovette imporre un nuovo prestito forzoso di 30 milioni, diviso in azioni di mille lire, garantite sui beni nazionali: andavano sotto questo nome i patrimoni dei Capitoli, delle Collegiate, delle Confraternite, dei Conventi e degli altri enti morali aboliti; e vi si aggiunsero ancora quelli delle mense vescovili (giugno 1798).

Quando poi a causa della guerra fu necessario trovare altre maggiori entrate, sia per lo Stato sia per la Repubblica madre (poiché il Commissario Amelot esigeva, con la minaccia di saccheggio, ventisei milioni che furono ridotti ad otto dal Rivaud), si misero in vendita 15 milioni di beni nazionali e s'impose una contribuzione di 22 denari e 1/4 per ogni scudo di stima catastale, un testatico di 7 lire e mezza per ogni mille lire di vendita (7x1000) che però cresceva progressivamente, fino a 3 mila lire per una vendita di 50 mila (6 X 100), ed una tassa di una lira per ogni finestra sulla strada; si chiesero pure anticipatamente dei tributi futuri, ed un nuovo prestito forzoso di sei milioni (gennaio e marzo 1799).

Tormentati da questi "straordinari" e molteplici aggravi non desta meraviglia se la maggior parte degli abbienti inizierà ad esprimere odio contro i francesi, contro i progressisti e le istituzioni repubblicane, le quali non garantivano né la quiete pubblica, né l'indipendenza dello Stato chiamato "libero", ma che più schiavo di così non poteva essere.

Accusavano inoltre il Direttorio di aver dilapidato molta parte delle pubbliche sostanze e di non aver dato conto (come prescriveva la Costituzione) di oltre 238 milioni che il corpo legislativo aveva messo a sua disposizione dal 19 settembre 1797 al dicembre del 1798, non compresi i 16 milioni versati per le "straordinarie" tasse di guerre.

Infuriato e con cifre dettagliate in mano, il Rappresentante POZZI in un'energica relazione (scritta per lui da MELCHIORRE GIOIA) affermava che di 91 milioni soltanto, sopra quei 238, era giustificata l'erogazione e chiedeva fossero arrestati i Commissari del Tesoro, i quali già avevano presentato le proprie dimissioni.
Inoltre, ricchi e poveri (ormai tutti dentro nella stessa pentola) erano angosciosamente colpiti, sebbene in diversa misura, da un'altra specie di tributo al quale non erano abituati dal tempo dei romani, vale a dire la leva forzata che (difettando i volontari) era stata decretata nel gennaio del 1799, per arruolare novemila giovani dai 18 ai 27 anni, sopra 3 milioni e 584.343 abitanti che contava allora la Cisalpina.

In vari luoghi nacquero ribellioni che furono soffocati con la forza. Non bastavano di certo a rinfocolare l'ardore repubblicano i pomposi e violenti manifesti e le pubbliche festose celebrazioni ordinate dall'autorità (francesi), ultima delle quali fu la festa del 21 gennaio del 1799, anniversario del supplizio di Luigi XVI, la quale si celebrò con la rappresentazione delle due tragedie "Bruto e Virginia" nel "Teatro Patriottico" e con il canto di un inno del MONTI, messo in musica dal maestro MINOIA, al Teatro della Scala, sfarzosamente illuminato..".

Una Repubblica, quella Cisalpina che, dopo quella manifestazione, aveva le ore contate. Crollò con il ritorno della reazione Austro-Russa il 24 aprile dello stesso anno, quando gli austriaci sconfissero il generale Moureau a Cassano d'Adda ed entrarono a Milano.
Dopo Marengo, furono però nuovamente cacciati; la Repubblica Cisalpina fu ripristinata, ma nel 1802 fu trasformata in Repubblica Italiana, poi il 26 maggio 1805 in "REGNO D'ITALIA", quando Napoleone "si" incoronò a Milano.


Bibliografia:
ADOLPH THIERS - Storia della Rivoluzione Francese - 10 Volumi
R.CIAMPINI, Napoleone, Utet, 1941
EMIL LUDWIG Napoleone, Mondadori, 1929
NAPOLEONE, Memoriale di Sant'Elena (prima edizione (originale) italiana 1844)
Storiologia ha realizzato un CD con l'intero MEMORIALE - vedi presentazione qui )
E un grazie al sig. Kolimo dalla Francia - http://www.alateus.it/rfind.html
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