CINQUANTATREESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTATREESIMO

LA FUGA DA CAPRERA - MONTE ROTONDO
Garibaldi a Firenze. - Una gita nel Veneto. - Il congresso della pace. -
L' arresto a di Garibaldi a Sinalunga. - Prigioniero in Alessandria. - A Caprera.
- La fuga. - Episodio di Monte Giovanni. - I fratelli Cairoli. - La vittoria di Monte Rotondo.


Eccolo, a sessant'anni, solo, in mezzo al mare, di notte, entro un guscio, che un nonnulla, il minimo frangente di un' onda può capovolgere; e va ad atterrare il papato.
Egli guizza a destra e a manca, secondo che lo consiglia la ragione della nota onda, ora veloce e ora lenta, e secondo che lo muove il fino senso delle cose marinare e il luogo delle navi indicatogli dai fanali e delle minori e agili imbarcazioni indicatogli dall'eco della remata o dal suo solco fosforescente per miriadi di meduse. E se talora s'accosta a qualche vascello di udire le voci dal ponte, deve anche, deviando ad angolo retto dalla perpendicolare prefissa, prendere il largo ove le acque più mosse, moltiplicano il pericolo del naufragio. È questa la sublimissima ora della sua vita gloriosa. Vanno, vengono i lancioni esploratori e tagliano il passo per ogni verso, ed egli li sente e li schiva ora da lontano ora da vicino, e nessuno scorge il piccolo oggetto natante o se ne accorge, con sì illustre e carezzevol mano gli fende l'acque con la spatola!
ALBERTO MARIO.

Una bella mattina di primavera, nel 1867, fummo dolcemente sorpresi di vedere Garibaldi scendere di carrozza alla nostra casa in piazza di Bellosguardo fuori di Firenze, richiedendoci con allegra voce colazione e bagno. Era venuto con Basso e con l'ordinanza Maurizio.
"Contai sulla vostra ospitalità - disse - perché dobbiamo parlare di molte cose."

Queste molte cose erano due: una gita da farsi nella Venezia e un romanzo intitolato CLELIA: IL GOVERNO DEI PRETI, da tradurre in inglese. (vedi su questo stesso sito di "Cronologia" l'intero romanzo). Per la gita in Venezia, potevamo assicurare il Generale che i veneti erano malve, malvoni, ancora nella luna piena di miele, che si beavano ogni mattina, nell'aprire gli occhi, alla vista del tricolore, divertendosi a gridare: Viva il Re!
"Tanto meglio - disse il Generale - saranno tanto più desiderosi di far sventolare il tricolore dal Campidoglio."

Quanto al tradurre il romanzo, accettammo senza esitazione. Lo stile di Garibaldi nel racconto dei fatti é così grafico, nitido e semplice, come pure l'attestano le sue memorie e gli schizzi biografici dei suoi compagni d' armi, che accettammo di buon grado di trovargli un editore inglese.
Quanto al giro per la Venezia, lasciammo la cosa in sospeso sapendo per esperienza che se Garibaldi aveva prestabilita una cosa l' avrebbe fatta senza darsi pensiero delle disapprovazioni.

Ricasoli aveva sciolto la Camera che gli diede un voto di sfiducia per aver violato il diritto di pubblica riunione, e il manifesto dell'opposizione parlamentare esprimeva il malcontento, oltre il dispetto che serpeggiava in seno della nazione. Parlava di una umiliazione, che amareggiava gli animi, alludendo a Custoza e a Lissa, della spontanea genuflessione del governo italiano davanti al papato che fulmina la civiltà e contende all' Italia la sua capitale. Ma nulla accennava che nell'animo dei capi liberali e tanto meno delle moltitudini, fermentasse l'idea di nuovi tentativi immediati per rivendicare Roma.

Garibaldi, tastato il polso dei suoi ufficiali, allora quasi tutti deputati, non si diede per inteso dei loro contrari timori. Cattaneo, cedendo a quello che egli chiamava il giudizio o il pregiudizio degli amici, era venuto fino a Firenze, senza risolversi mai a varcare la soglia di Palazzo Vecchio. Un giorno con Giuseppe Ferrari, Bertani, e il noto scrittore T. A. Trollope e altri vecchi amici, venne a pranzare con Garibaldi a casa nostra.
Carlo Cattaneo amava Garibaldi con l'affetto di una donna, si beava del suo sorriso, non finiva mai di fissarlo con gli occhi.
Quel giorno i brindisi furono molti e diversi; quello di Ferrari espose un vero trattato di federalismo. Tutto ad un tratto Cattaneo, seduto di fronte a Garibaldi gli disse: "Come si fa a non volervi bene, con quella bella faccia?"
(Mio Dio, non so proprio quale di quelle due teste fosse la più bella).

"Dunque venite con me a fare una gita a Venezia ?" disse Garibaldi poco dopo.
"Perché no" rispose Alberto, e corse a preparare gli alloggi nella materna città di Lendinara, la quale dietro sua proposta aveva eletto Garibaldi deputato al Parlamento e dove ebbe, come in ogni città e villaggio che visitò nella Venezia, tale accoglienza, che fece dire a noi d'esserci ingannati sullo spirito politico dei veneti.

A Venezia, dove non credo che nessuno di noi toccasse terra dal vagone alla "peota" preparata sul Canal Grande, il popolo sembrava delirante. La densità della folla raccolta nella piazza di San Marco si può immaginare dal fatto, che uno dei candelabri di bronco a gas nella piazza dalla ressa fu spezzato nella base, ma non cadde a terra solo perché sostenuto dalla folla così compatta.
Vecchi ed infermi quasi in fin di vita vollero essere trasportati in piazza, pur di guardare in faccia il grande liberatore. Ad uno di essi, che letteralmente recitò il Niunc dimitte, appena abbracciato il Generale, non fu negata questa gioia.
Gli incidenti caratteristici di quel viaggetto riempirebbero un volume. Al ritorno, passando il ponte sulla laguna, Garibaldi ci raccontò con visibile commozione i suoi vani sforzi di arrivarci nel 1849, e Acerbi con vera eloquenza narrò la morte di quell'eroe che fu Rossaroll, nelle braccia di Cosenz. Al che Garibaldi, che in vita sua non aveva mai sentito tanto discorrere il taciturno guerriero, sorrise, dicendo: "Il destino ci ha risparmiati per entrare a Roma insieme".

Tacque Acerbi, che, come tutti quanti, giudicava inopportuna l'ora di tentare un moto di sollevazione, ma si vedeva dalla sua faccia che non aveva il coraggio di opporvisi. Una volta, dopo uno splendido ricevimento a Chioggia, la barca di Garibaldi fu circondata di numerosi bragozzi ove le magnifiche donne di Sotto-Marina remavano mentre gli uomini, gaiamente vestiti, portando orecchini e anelli massicci, essi stavano seduti. Il loro capo recitò una specie di canzone enumerando tutti i pesci che sono nell'Adriatico.
Finito il recitativo, l'improvvisatore volle toccare la mano a Garibaldi, ma questi la ritirò bruscamente, dicendo: "In mano prendete i remi ... ed additando gli orecchini e gli anelli, soggiunse - e date quella chincaglieria alle donne".

Garibaldi, ingannato dall' entusiasmo verso la sua persona, credette di avere sulle ginocchia gli eventi, e stese una lista di candidati radicali per i 60 collegi del Veneto, arringando il popolo nelle varie città, invitandolo a prepararsi per "cacciare dal trono la bestia di molte brame di Roma", e inveendo contro "le bestie nere" e gli uomini ligi all'assassino del 2 Dicembre.
Ma come se lo aspettavano tutti quanti conoscevano il Veneto di allora, con un diritto elettorale ristrettissimo, i membri scelti furono tutti moderati, deliberati a sostenere il governo sia con Ricasoli, sia con Minghetti. Unici eccezione, il collegio di Lendinara (paese natale di Alberto Mario - Ndr.); di modo che optando Garibaldi per il vecchio collegio di Ozieri, vi si elesse in luogo suo l'Acerbi.
Alla notizia che il suo carissimo amico G.B. Cuneo non era riuscito a Legnago, se ne mostrò sorpreso e sdegnato; indi con espressione faceta disse: "Bene, bene, vedo che fare l'agente elettorale non é il mio mestiere", e abbandonò immediatamente il Veneto.

Nel frattempo tenne costante corrispondenza con i patrioti dentro Roma che sempre rimproverava di non essere insorti appena i francesi avevano abbandonato la loro città; non volle riconoscere la distinzione fra Comitato d'azione e Comitato nazionale, li volle uniti in un solo fascio, e apparentemente ottenne l' intento.
Fin dall' aprile il Rattazzi era alla testa del governo, e molti della sinistra, principalmente Crispi, erano convinti che quello intendesse alla liberazione di Roma. Passarono le settimane e i mesi, e Garibaldi s' impazientiva; e dava alle stampe un proclama che infliggeva il marchio del tradimento alla Convenzione di settembre e dichiarava unica base nazionale e legittima i plebisciti che avevano decretato l'Italia una e indivisibile, "....però con Roma per capitale!"

Al partito d'azione garbava pochissimo questo metodo per andare a Roma. Tuttavia andava ricordando a Garibaldi la qualità di generale della Repubblica romana; a cui egli rispose: "E lo ridiventerò, se é necessario."

Quel partito non si impensieriva tanto della questione di monarchia o repubblica, quanto del fatto che andandovi a Roma con il beneplacito della Francia, il Papa sarebbe rimasto l' eterno nemico dell'Italia. Difatti verso la fine di luglio, dopo un lungo consulto con gli amici più ardenti, Acerbi e Mario si risolsero di andare a Vinci, dove c'era in quel momento il Generale, per convincerlo dell'inopportunità di insistere sulla spedizione.

Il Generale li accolse lietamente. Con Mario, che cominciò a mettere in chiaro li situazione, egli tagliò corto dicendo: "Penseremo a tutto ciò quando saremo a Roma" ; poi volgendosi ad Acerbi: "Generale, voi prenderete il comando dei volontari. Viterbo sarà il punto di convegno: — se gli amici vogliono accordarsi con Rattazzi, dò loro ancora un mese di tempo."
Acerbi non fiatò. Quando si trattava di guerra, Garibaldi era onnipotente con i suoi.
"Andiamo un po' al congresso della pace a Ginevra - ci disse in settembre - quello darà tempo ai nostri diplomatici di sapere a che gioco gioca Ratazzi";

E il 9 di settembre entrando nel magnifico salone della Banca Svizzera che dà sul lago di Ginevra, trovammo il Generale che stava mettendo fermi punti sulle risoluzioni che si proponeva di presentare alla prima seduta del Congresso.

"Chi ritorna con me dev'essere pronto per il 16, mercoledì
- egli disse.
"Pronto per che cosa?" domandai io.
"Per andare a Roma" rispose.
"Ma non siamo a Ginevra per ascoltare le prediche in favore della pace?"
Egli mise il dito sulla sesta risoluzione: "i soli schiavi hanno il diritto di fare la guerra contro i loro oppressori".

Il Congresso di Ginevra fu brillante; la grande semplicità della sala elettorale, rallegrata da fontane e fiori, il motto "uno per tutti e tutti per uno" sulle pareti, la presenza dei più eminenti pensatori del secolo, Edgardo Quinet, Pierre Leroux, Buchner, Bakunin, Stefano Arago, fecero sì che per un istante fosse lecita l'illusione che verrebbe il giorno in cui la pace e la buona volontà avrebbero unite in una sola tutte le famiglie umane.

La comparsa di Garibaldi suscitò una tempesta di applausi; ma il suo discorso che dichiarava decaduto il Papato, fu accolto in vario senso. Comunque fosse, il mercoledì seguente egli partì da Ginevra, e scendendo in casa Cairoli a Belgirate, fece uno dei suoi violenti discorsi contro la "razza nera" e intorno alla necessità di "andare a Roma per snidare quel covo di vipere, per farci il sapone, la lisciva, e cancellare la traccia nera del serpente".
"A Roma! a Roma! - ripeté - sono vecchio, forse voi giungerete prima di me, ma a Roma c'incontreremo anche prendendo diverse vie.... ".

Nessuno, credo, riuscirà mai a districare la matassa di ordini, di contrordini, di cospirazioni e di controcospirazioni di quel mese di settembre. Non c' é bisogno di cercare il tradimento: tutto si spiega con la natura indecisa e vacillante del Rattazzi, che voleva troppe cose alla volta: l'insurrezione a priori dei Romani, che era impossibile senza un poderoso incoraggiamento e molte armi; la promessa di Napoleone di non intervenire se l'anticipata rivoluzione scoppiasse in Roma; la promessa di Vittorio Emanuele dell'invio dell'esercito regolare, appena l' insurrezione fosse incominciata e i volontari avessero passata la frontiera.
- Ora a Napoleone "forse" non sarebbe tanto dispiaciuto, se avvenendo una vera e immediata rivoluzione in Roma, assecondata ma non iniziata dai volontari, l'esercito piemontese avesse varcato la frontiera per ristabilire l'ordine e garantire l'indipendenza spirituale del Papa; ma altro è subire, altro è assecondare o anche acconsentire. D'altra parte il Re, alle cui labbra il fare guerra al capo della cristianità era un amaro calice, si ricusò sempre di favorire un moto senza la certezza della neutralità della Francia.

E mentre Rattazzi si perdeva in preghiere, Garibaldi organizzava i suoi volontari accorrenti da tutte le parti, assegnava ad Acerbi l'ala destra con la presa di Viterbo, la sinistra a Nicotera mirando Velletri, a Menotti il centro per muovere su Monterotondo, e additava Roma punto di concentrazione.

Un avvertimento nella Gazzetta Ufficiale del 21 settembre non lo turbò affatto.
Il 22 c'invitava ad una passeggiata, e giunto in Arezzo l'intera popolazione lo acclamò. Il giorno dopo pranzammo a Santa Maria sul Monte degli Ulivi, ove lui si era già accampato nel 1849 con quattromila soldati con i quali era uscito da Roma per andare a Venezia, e qui egli ascoltò con viva soddisfazione un nuovo inno di guerra di sua composizione adattato alla musica di Donizetti.
La sera volle dormire a Sinalunga per passare il giorno sul lago Trasimeno. Noi cercammo di dissuaderlo, convinti che il governo l'avrebbe fatto arrestare.

"Che mai ! -rispose - siamo a 50 miglia dalla frontiera! - Sentite come rispondo ai volontari: - "Quando i Romani ci chiameranno noi ci andremo". - Del resto, se il governo vuole arrestarmi lo farà tanto in un posto quanto in un altro."

Inutile discutere, come al solito; ma l'errore era palese. Infatti, il prefetto di Arezzo aveva già l'ordine d'arresto in tasca; ma non osò metterlo in esecuzione, visto l' entusiasmo del popolo. Tuttavia il giorno dopo, all'alba, Garibaldi fu arrestato quand'era ancora a letto e condotto rapidamente dai carabinieri e dal 37° di linea con treno speciale verso Firenze.
Io volai all' ufficio telegrafico e spedii due telegrammi in termini convenzionali, uno in America, l'altro a Dolfi in Firenze; poi i carabinieri s'impossessarono di tutti gli uffici telegrafici, e per 24 ore nemmeno a Milano si seppe dell'arresto di Garibaldi.
Potei trovare Maurizio con i bagagli e il bagno portatile del Generale, e mi riuscì alla mattina dopo di raggiungerlo nella fortezza di Alessandria. Egli abitava in un'orribile stanzuccia, aveva passata la notte senza spogliarsi, era ravvolto in un panno da viaggio, ed era inferocito contro Rattazzi.
La vista di Maurizio col bagno lo rasserenò alquanto; intanto il governatore d'Alessandria mi fece vedere preparata la nuova camera, ed egli, quando ritornai, disse
"Avete vista la mia nuova gabbia?"
"Sì - risposi - é ariosa, pulita e senza odori."
"Ma sempre una gabbia" soggiunse.

Notai il contegno della guarnigione, dei soldati stessi, e tutti gli esprimevano la volontà di andare a Roma.
"Già - disse - il cuore dell'esercito é il cuore del popolo, ma non é ancora tempo di avvalersene. L'esercito regolare deve rimanere intatto, compatto; a noi l'ufficio di pionieri."
Poi mi sollecitò di tornarmene a Firenze, di dire agli amici di non avere pensieri per lui, ma di rispondere alla minima chiamata dei romani, e poi mi diede tre lettere con l'ordine di consegnarle personalmente, una all'ambasciatore inglese, una all' ambasciatore americano, una al console di Buenos-Ayres.
A tutti egli richiedeva "protezione" come cittadino dei loro rispettivi paesi, e soggiunse con fiero cipiglio
"Dite a quei signori che rinuncio di essere cittadino di un paese ove i ministri sono i primi a violare le leggi."

Garibaldi era inoltre membro del Parlamento italiano. Io molto turbata di questo secondo ufficio ritornai a Firenze, che trovai in uno stato d'agitazione indescrivibile; il popolo tumultuava. Rattazzi fu salvato con fatica, e senza l'ammirabile condotta della truppa, le tragedie di Torino si sarebbero ripetute. Gli amici tutti erano dolenti della rinunzia alla cittadinanza italiana, ma io non potei non presentare le lettere prima di ottenere un contrordine dal Generale, che in quel frattempo fu persuaso dagli amici di ritornare a Caprera libero e senza condizioni.
Nuove complicazioni queste, perché una parte degli amici, con Crispi, credendo alla buona fede del governo nell'assecondare una insurrezione in Roma, volevano si sospendesse la spedizione dei volontari; e d' altra parte Acerbi, Nicotera, Menotti, muniti di mandato imperativo dal Generale, sostenevano che ad ogni costo si doveva sguainare la spada.

Sorse la questione intorno al capitano. Garibaldi aveva scelto Acerbi, ma gli altri in assenza del padre gli anteposero il figlio. Altra questione: Nessuno poteva sbarcare a Caprera perché, imperversando il colera a Genova e Livorno, l'arrivo di qualcuno obbligava a mettere in quarantena anche l'isola.

Pregata di trovare i mezzi per arrivare presso il Generale, anzi di avvertirlo che gli amici sotto le armi consideravano il suo ritiro a Caprera essenziale alla rivoluzione di Roma, pensai di avvalermi delle lettere agli ambasciatori, sapendo che questo passo feriva profondamente il Rattazzi; ed ottenni il permesso di andarvi, coll'avvertenza però che dovevo fare il viaggio in una barca aperta, causa sempre la quarantena.
Acconsentii; fui l'unico passeggero a bordo della "Toscana"; e sapendo che tutti i capitani della Società Rubattino, di questo principe degli armatori, avevano l' ordine di assecondare ogni desiderio di Garibaldi, combinai col capitano sul dove e come ricevere il Generale nel caso questi avesse deciso di ripartire.

Giunta all'Ufficio Sanitario dell'isola della Maddalena, seppi che all'arrivo di Garibaldi l'isola era stata messa in quarantena. Basso venne a prendermi da Caprera, ma per quanto dicessi non mi riusciva di persuadere il Generale che egli era prigioniero.
- "Io venni qui - rispose - libero e senza condizioni e con la promessa di un vapore a mia disposizione ogniqualvolta volessi recarmi sul continente."
Ed io: "Ciò sta bene, Generale, nel caso che l'insurrezione avvenga in Roma e Rattazzi persuada il Re di lasciar passare prima i volontari, poi i regolari. Altrimenti no".
- "Rattazzi non c'entra - replicò - Io ho la parola degli amici, e voi direte loro di mandarmi subito un vapore !"

Per quel giorno non tornai più sull'argomento, divertendomi con i bellissimi figli della Teresita e con la Clelia, lattante di un anno, ultima figlia del Generale.
Stavamo allegramente pranzando con questi bimbi, Mameli, Lincoln, Anzani, Anita, John Brown (tutti nomi scelti dal Generale); quando entrò il comandante dell' "Esploratore", il primo napoletano che riconobbe la dittatura di Garibaldi nel 1860. Il Generale lo invitò a pranzo, ma lui rifiutò: aveva l'aria molto imbarazzata.
Dopo il pranzo io avvertii il Generale che il capitano del "Toscana" acconsentiva di condurlo di nascosto sul continente.
"Sono libero - rispose - mi manderete gli amici col vapore."

Il giorno seguente scendendo di buon' ora trovai il Generale sulla terrazza, col cannocchiale in mano, che fissava quattro bastimenti da guerra e due vapori; La "Sesia", il "Principe Umberto", l' "Esploratore" e il "Gualnara", più il "Washington" e il "Tukery".
"Capisco che sono un grand'uomo - fece scherzando - Vi ricordate della data?"

Era il 10 di ottobre!
Sette anni prima il liberatore di 10 milioni d'italiani telegrafava dal Volturno:
"Vittoria su tutta la linea!".

Passò il giorno nello scrivere il suo famoso proclama ai Romani, nel preparare istruzioni per suo figlio Menotti che per richiesta degli amici aveva acconsentito mettersi a capo durante l'assenza del padre. Scrisse istruzioni anche per gli altri capi, poi mi disse:
"Non mi conviene partire di nascosto, la "Gazzetta Ufficiale" mi ha dichiarato libero: é bene che l'Italia sappia come il suo governo mantiene la parola data. Voi partite prima; dite al capitano della "Toscana" di aspettarmi alla solita punta di S. Maria; se sarò impedito stampate il proclama.
Dite agli amici che aspetto il vapore promesso; se vedete che questi girano nel manico, pensate allora a liberarmi".

Mi diede un revolverino per proteggere le sue carte che conservo tuttora, ma giammai me ne sarei servita!
Salita con Basso a bordo della "Toscana", si riseppe per ordini telegrafici della proibizione a chicchessia di sbarcare a Caprera senza permesso speciale del Governo.
Alle 5 pomeridiane uscimmo dal porto della Maddalena, procedendo lentamente verso l'isola di S. Maria, l'isola stessa che Garibaldi doveva toccare per raggiungerci.
Arrivati al nord di quest'isola, si scorse il fumo di un vapore.
"E' la posta da Cagliari" - disse il capitano.
"È un vapore francese" disse il secondo.
"E' la "Sesia" - io soggiunsi - e quello è Garibaldi sul ponte."

Difatti il vapore da guerra aveva tirato contro la sua barchetta e lo aveva preso a bordo. Garibaldi si tolse di dosso il poncho per rendere più visibile la camicia rossa.
Dolente ma non sorpresa, proseguii per Livorno, ove tutta la popolazione era raccolta, aspettando non si sa in virtù di quale divinazione, l'arrivo dì Garibaldi. Giunta a Firenze, consegnai a Crispi la lettera di Garibaldi, domandando immediatamente il promesso vapore, ma per pura forma, giacché oramai era impossibile che il Governo lo lasciasse avvicinare.

Crispi era dolentissimo; già antivedeva che Rattazzi si sarebbe dimesso, e che Garibaldi sarebbe rimasto prigioniero. La persona che prima mi suggerì Garibaldi per liberarlo era già andata a Roma con un carico di armi. Menotti aveva passato le frontiera, Acerbi era ad Acquapendente, Nicotera arruolava apertamente sulla frontiera napoletana.
Peggio che una pazzia, sembrava un delitto la prosecuzione di tale spedizione quando l'unico uomo che poteva condurla a buon porto era tenuto prigioniero. Trovai Canzio a cui esposi il dilemma. Egli era inquieto, sapendo intercettate le sue lettere dirette a Caprera, ma disse:
"Ci penso io a liberare il Generale".

Incaricò Andrea Sgarallino, ferito a S. Maria sul Volturno, di trovargli una paranzella veloce, comandata da un capitano di polso, e fissò l'occhio sopra un bravo marinaio della Maddalena, Antonio Vigiani, per essergli compagno nell'impresa. Poteva disporre del "S. Francesco", barca adatta, ma era necessaria una garanzia di quattromila lire. Si corse allora dove correvano tutti quando si aveva bisogno di denaro per la patria. Così aveva fatto Mazzini dai primi anni di esilio per tutti i tentativi e le spedizioni; così aveva fatto Ripari per le 30.000 lire quando dopo Sarnico si trattava di andare in Sicilia; e così si fece anche adesso per quell'azione che doveva portare a Mentana.
Si fece cioè ricorso all'insigne patriota Adriano Lemmi, che ha sempre dato per qualsiasi opera utile alla patria; allora per le cospirazioni e per le spedizioni, adesso per la stampa e per i miseri! E non possiamo nemmeno darne il ritratto perché non se n'é mai fatto fare uno.

Lemmi dunque non solo diede le quattromila lire, ma combinò con Canzio che egli li avrebbe aspettati a Livorno per condurre il Generale ovunque desiderasse. Frattanto in casa di Dolfi si teneva un consiglio di guerra e si comunicava a Canzio un altro disegno dimostrando Rattazzi pronto ad aiutare vigorosamente l'insurrezione dentro Roma, ma assolutamente contrario all'azione dal di fuori; e perciò si era pensato di mandare due amici a Caprera, per pregare il Generale di indugiare un po'. " Padronissimi, - rispose Canzio - gli amici di fare quel che credono da parte loro, ed io padronissimo di fare altrettanto da parte mia".

Ebbe luogo un'altra adunata, presenti Fabrizi, Cairoli, Guastalla, Lemmi, che in quel momento aveva ricevuto lettera da Roma, poco incoraggiante per l'insurrezione nella città. La scriveva Cucchi e con la sua lettera annunziava inoltre che le armi spedite da Livorno, non sbarcate sul Tevere per il cattivo tempo, si erano dovute lasciare a Civitavecchia, ed erano probabilmente perdute; d'onde il necessario invio di altro denaro e di nuove armi.
Tutto ciò dava apparenti ragioni per l'indugio; ma Canzio rimase fermo sul disegno della partenza, e col denaro consegnatogli dal Lemmi, partì per Livorno, mentre Fabrizi e Guastalla si recavano a Caprera sul vapore di guerra il "Messaggero", con l'intendimento di esporre lealmente al Generale lo stato delle cose, di portargli anche la lettera di Canzio e di rendergli noto il loro progetto.

Il giorno 7, la partenza di Canzio fu impedita dal tempo, e così pure la mattina dell'8; e solo verso la sera si poté salpare. Pioggia, tempesta, venti contrari imperversavano contro questi due audaci; ma la sera del 10 essi sbarcarono a S. Maria, ove alcuni pastori li avvertirono caduti in contravvenzione con la quarantena. E a causa dell' inaudito rigore nella sorveglianza dell'isola, quelli temevano impossibile la riuscita dell'impresa. Prepararono tuttavia due barchette e veleggiarono al nord della Maddalena in vista di Caprera, ma sbagliata via, dovettero retrocedere, e furono fermati da una grossa barcaccia. di crociera. Alla domanda dove andavano, essi risposero in dialetto sardo di essere pescatori che ritornavano a casa alla Maddalena, e l' ufficiale li fece scortare fino al punto ove dissero di volere sbarcare.

Evidente era l'inutilità di un tentativo di sbarco a Caprera; tale era il pensiero di Canzio e lo espresse alla signora inglese Collins , allorché capitando a casa sua la trovò col marito che prendeva il caffé. Questi si offrì di andare a Caprera e riuscì a portare al Generale la notizia.
Già il comandante del "Principe Umberto" aveva scritto al Rattazzi: "Con due soli metodi voi potete avere prigioniero Garibaldi, o facendogli dare la sua parola di non uscire da Caprera, o dando a me l' ordine di arrestarlo, condurlo a bordo, e veleggiare per ignoto destino. In questo caso ci vogliono 100.000 lire per il carbone ed altre spese. Facendo diversamente nemmeno con tutta l'armata italiana voi terrete Garibaldi prigioniero a Caprera."

Ma né Garibaldi voleva dare la sua parola d'onore, né osava il ministro sequestrarlo in quel modo. Garibaldi, che finalmente si seppe prigioniero, rifiutò di ricevere chicchessia. Passeggiava ravvolto nel poncho sul terrazzo e immaginando che la piccola flottiglia dell'isola sarebbe stata sequestrata, nascose un piccolo battello, detto il "Beccaccino", per ogni occorrenza.
Avvertito dunque dell'arrivo di Canzio, mandò la Teresita e Basso ad avvisarlo che lo aspettava a Prandicchio. Il "Principe Umberto" fece fuoco sulla Teresita, degna figlia di Anita, la quale disse a quelli parole che bruciarono più che a lei le palle; gli disse precisamente che volevano vendicarsi sulle donne la perduta battaglia di Lissa. Fu lasciata passare.

Il Generale ordinò a Basso e a Maurizio di portarsi come meglio potevano sul luogo dell'appuntamento. Verso le 11 di sera uscì dal porto di Stagnarello, mise in mare il suo "Beccaccino", non si ravvolse nel poncho, ma lo stese in barca per essere - se scoperto - più libero di gettarsi a nuoto, e spinse lo scafo per lo stretto che conduce alla Maddalena.
La squadra nemica si stendeva in linea orizzontale tra lui e la sua meta, e le distanze fra i vapori erano riempite dai barconi-crociera o da barche sequestrate ai pescatori; tuttavia Garibaldi al buio guizzò in mezzo a loro silenzioso ma veloce come il sea gull, e, passata la gran linea, respirò, benché percepisse ancora i discorsi dal ponte delle navi; e sapeva inoltre che sarebbe bastato un soffio di vento per mandare a fondo la sua piccola e fragile barchetta.

Finalmente giunse al Capo della Moneta alla casa ospitale della Collina. Mandò ad avvertire Canzio, che per la gioia di saperlo salvo gli era corso incontro, mentre il Generale per prudenza aveva presa un'altra strada. Questi dovette attraversare a cavallo l'isola, e di là in una barca toccò la Sardegna, dormì in una grotta fino all'alba e partì a piedi, arrivando a Porta S. Paolo due ore prima che Canzio vi facesse ritorno.
Era affranto dalla fatica, ma con un po' di buon vino toscano e di pesce si ristorò subito, e alle tre e mezza del 17 si pose alla vela con il vento favorevole e navigò tutto il giorno 18 senza che ci fosse alcun segno da far supporre che qualcuno avesse scoperta la fuga.
Il 19 all'alba, nel canale di Piombino, in vista dell'isola d'Elba, Garibaldi decise di tentare lo sbarco a Vada. Approda, discende, e nell'oscurità procede con mezza gamba nell'acqua fino alla spiaggia; i marinai prendono il Generale in braccio e lo portano in mezzo alla piazza. Due biroccini sono subito preparati: il Generale, che come ai tempi dell'esilio a Marsiglia si chiamava il Signor Pane, entra nel primo con Canzio; Maurizio Vigiani e Basso montarono nel secondo.

In questo modo giungono a Livorno nella casa di Andrea Sgarallino. Canzio corre da Lemmi che lo aspettava con tanta ansietà. Lemmi prende subito una carrozza, conduce il Generale e Canzio ad Empoli, ove si cambiano i cavalli, e verso il mezzodì del 19 li fa discendere a casa sua a Firenze.

Intanto si parlava nuovamente dell'incarico dato a Cialdini di formare il ministero; Garibaldi fu invitato a colloquio da Cialdini, il quale persuaso che nulla gli avrebbe impedito di raggiungere i suoi sul suolo romano, rinunziava alla formazione del suo Ministero di resistenza, ciò che gli fa onore.
Ogni giorno il comandante della squadra telegrafava: "nulla di nuovo, il Generale tiene il broncio in casa", oppure: "Cammina come al solito sul terrazzo". Toccò al governo telegrafare: "Bravissimo! il Generale a quest'ora é partito per Roma."

Infatti, chi non seppe mandargli il vapore promesso riuscì a preparargli in fretta e furia un treno speciale per la frontiera.
Avvertito il Generale che il treno era pronto, mentre il popolo aspettava la sua ricomparsa sul balcone, egli guizzò dalla porta di dietro, dalla casa alla stazione, salutò gli amici, e un minuto dopo la macchina fischiando divorava la via ferrata.
Vennero a dirci addio Bertani e Mario.
"Arrivederci - rispose Garibaldi, e dopo soggiunse - sarà bello fare una campagna senza i puritani".

Eravamo in pochi nel vagone del Generale, non altri che Canzio, Basso, Maurizio, ed io. La partenza era alla una e un quarto; si passava per Arezzo, Perugia, Foligno. Immensa la curiosità alle stazioni: "Chi é?" "Chi non é?" - "E' lui, o non é lui?". Nessuna risposta; solamente al passaggio di un treno, che trasportava dei volontari, fu riconosciuta l'amata faccia e l'entusiasmo divenne delirio.
Giunti a Terni, si pernottò in casa di Faustino Tanara, quell'eroe modesto di tutte le campagne; la strada di là era rotta. A Rieti, che Garibaldi tentò di passare a galoppo, il popolo staccò i cavalli e portò la carrozza con le braccia; fu giocoforza, fermarci per la colazione. Venne tutta l'ufficialità, colonnelli e maggiori, fra cui uno dei bersaglieri, e la guardia nazionale con la banda: "A Roma! a Roma!" urlarono tutti, e il Generale: "Sì, a Roma! Unione, obbedienza, disciplina, popolo armato, volontari, andremo a Roma insieme."

Al momento di ripartire, venne un garibaldino a portare la notizia che a Roma era scoppiata l'insurrezione, che si erano barricate le porte e che si combatteva per le strade, fra transteverini e papalini; che i primi erano trionfanti, e si era già proclamato il Governo provvisorio. "Facciamo voti che la decima parte di queste notizie sia vera" disse il Generale.

Prima di giungere al confine incontrammo i carabinieri genovesi con Mosto e Burlando ma po' più in là, il Generale fermò la carrozza.
" Menotti !"
"Papà ! "
Fu un momento indescrivibile. Garibaldi narrava degli ordini dati, e domandò:• "Ho fatto bene? "
"Benone, papà! "
"Allora vado avanti a Corese?"
"E noi seguiremo."

A Passo Corese ci pigiammo tutti in una piccola osteria, che il colonnello delle truppe italiane, già alla frontiera, cedette al Generale. Un po' di pane e formaggio formò la cena.
A mezzanotte, quando il Generale già dormiva, giunse un dispaccio di Crispi:
"Passate subito la frontiera, ordine per l'arresto del Generale già spiccato. I carabinieri giungono."
Svegliammo Garibaldi ed il resto di quella cruda notte la passammo in carrozza ridendo all'idea che... dovevamo fuggire dalla terra amica... per rifugiarci sulla terra nemica.
Si attende l'alba riparati in una stalla. Nel frattempo il Generale parte per Monte Maggiore, non essendo affatto tranquillo sulle posizioni prese dai suoi. Ed era vero!

Tutto era in disordine, come si avesse voluto provare che con lui solo le cose potevano procedere bene. Duecento emigrati romani avevano mandato a male il disegno combinato fra i vari capi, gettandosi nel territorio pontificio e invadendo Acquapendente, ove s'impadronirono di armi, di munizioni e di cavalli e fecero qualche prigioniero. Assunse qui il comando il maggiore Ravini, che li condusse a Bagnorea, ove misero in fuga i papalini, facendone prigionieri un centinaio; aveva deciso di condurli a Viterbo per congiungersi con Acerbi, ma fu costretto a sostenere una fazione campale in tutta regola contro 1200 papalini condotti dal colonnello Azzanese.

Il prode manipolo si batté con disperato valore; furono uccisi o feriti duecento nemici, contro cinquanta garibaldini posti fuori combattimento, e si fece un centinaio di prigionieri; ma Ravini non potè aprirsi la strada per Viterbo; e nonostante la bella prova di valore, questa scorreria riuscì di danno, avendo messo in allerta i pontifici.
Acerbi fu costretto ad abbandonare Viterbo, e a stabilire il suo quartier generale a Torre Alfina, luogo adatto alla difesa e utile per la vicina frontiera da dove potevano ricevere armi e viveri, conservando un buon punto di concentramento per la lotta.
Menotti si gettò su Nerola; indi con 600 uomini occupò Montelibretti, ove il nemico lo sorprese: qui s'impegnò un combattimento sanguinoso che finì con la vittoria di Menotti, costretto nondimeno a tornarsene a Nerola, indi a Scandriglia, perchè la sua gente mancava di armi, di panni e soprattutto di scarpe.

Non si può qui tacere della famosa "legione romana", comandata dal maggiore Ghirelli che obbediva agli ordini di Rattazzi. Quanto non si é detto e scritto dei guai dovuti a questa legione, specialmente per la rottura della ferrovia ad Orte! Ma questo sembra essere indubitabile, che i capi di essa, raccogliendo sotto di sé non altro che emigrati romani, eseguivano un piano di Rattazzi, per il quale, ad evitare la violazione della Convenzione di settembre, i soli volontari romani passassero la frontiera, fin quando che la rivoluzione non fosse scoppiata in Roma e nelle province romane.
Forse il pensiero era buono, ma la perplessità di Rattazzi e l'inettitudine del Ghirelli fecero di questa spedizione un danno, anziché un aiuto. Basti dire che il maggiore Ghirelli, entrato a Orte, con arroganza prese il titolo di Commissario straordinario, mandò fuori proclami "in nome del Popolo Romano, regnando S. M. Vittorio Emanuele II, per la divina Provvidenza o volontà nazionale Re d'Italia"; ed impose una tassa di 25.000 lire sul capitolo di Orte.

Poi il generale Fabrizi, che stava organizzando le spedizioni a Terni, invitò il Ghirelli ad abbandonare Orte ed unirsi a Nerola con il corpo di Menotti. Si ebbero invece il rifiuto e le dimissioni del maggiore e la legione in parte si disperse, in parte si aggiunse alla colonna Frigesy, accrescendo più tardi i morti e i feriti di Monte Rotondo e di Mentana.
Intanto Nicotera, con non più di 300 uomini, tentò l'entrata nel territorio pontificio, ma fallita la prova, si rifece con un manipolo di 700. Prese Monte S. Giovanni, lo abbandonò, poi di nuovo, il 15 ottobre, mandò il battaglione di Raffaele De Benedetto per riprenderlo. Partì questi per Castelluccio con il secondo battaglione della colonna Nicotera, e una compagnia di volontari di Artina, credendo il paese sgombro di nemici.
Sentendo le acclamazioni "Viva Vittorio Emanuele ! Viva Garibaldi !" si avvicinò senza precauzioni di sorta; ma appena a tiro di fucile risuonò il grido di "Viva Pio IX!" e migliaia di palle fulminarono da vari distaccamenti di truppa papalina i garibaldini.

La inaspettata aggressione scompigliò buona parte della colonna; ma il maggiore Paradisi, perseverando nel proposito di dare l'assalto a Monte S. Giovanni, spinse avanti la quarta compagnia sotto il comando di Giuseppe Bernardi a destra, facendola sostenere dalla sesta e dalla settima per altra via. Ma ben pochi soldati seguirono e prestarono ascolto ai loro ufficiali. Caddero morti Domenico Vetri di Salerno, ragazzo di 18 anni, Giorgio Gigli e Carlo Casertelli crivellati di ferite.
Giuseppe Bernardi rimase in tal modo isolato con la sua compagnia, e fu poi raggiunto dal maggiore De Benedetto, dal tenente Parisi e da altri ufficiali che erano stati abbandonati dai soldati. "Se gli altri si ritirano, io vado avanti" disse il Bernardi impugnando il revolver; "e se occorre mi brucierò le cervella."
Le eroiche parole furono da tutti i presenti acclamate, e tutti furono sulle orme del Bernardi che, segnando col dito una casetta davanti: non perse tempo nell' occuparla, dicendo: "Qui dentro si deve morire, piuttosto che arrendersi."

Parole che fecero dire al De Benedetto, senza che il dolce sorriso si dileguasse dal suo labbro: "Io cedo il comando al bravo capitano Bernardi , e starò sotto i suoi ordini come un semplice soldato."
La casa fu circondata dagli zuavi e dai borghesi armati, che formavano la squadriglia detta di S. Francesco. Questi ultimi (forse credendo di essere ancora ai tempi dei falò dell'inquisizione) raccolta legna e paglia, diedero fuoco alla casa circondandola con un cerchio di fiamme.

I garibaldini non si perdono d'animo, incoraggiati dall'esempio e dalla voce del loro prode capitano, tirando dalle finestre, fanno una strage di nemici:
"Silenzio ed obbedite, torneremo ancora al campo!"
Erano saliti all' ultimo piano della casa, e aspettavano che diventasse notte per poi balzare dalle finestre sopra una tettoia a cui l'orda selvaggia degli assalitori non aveva potuto appiccare il fuoco. Bernardi sperava di gettarsi
a questo modo in mezzo al nemico, e facendo fuoco in massa, di prendere poi la via destra che portava a Castelluccio.
Non uno era deciso a cedere, udendo fuori gridare: "Volontari, arrendetevi - gettate i fucili dalle finestre - non morite tra le fiamme."
E le fiamme si facevano sempre più minacciose bruciando la porta, ed ingombrando di fumo lo stanze.
Il Bernardi e il De Benedetto vollero essere gli ultimi a scendere; primo fu Lamberto Couture, secondo Carlo Primerano, terzo Enrico Vaccaro, quarto Parisi.
Per ingannare il nemico gridano tutti: "Avanti, usciamo dalla porta." Così i primi cinque scendono illesi; ma purtroppo il sesto, Vincenzo del Cogliano, cadde ucciso. Lo sgomento si diffonde sugli altri, De Benedetto spicca un salto per rinfrancarli; ma una palla lo colpisce alla testa mentre è sulla tettoia. Tutti lo avevano seguito e una parte della tettoia sprofondava sotto il loro peso portando Primerano proprio in mezzo agli zuavi, che a quella improvvisa vista fuggirono spaventati.
Primerano si alza incolume: "A me, compagni - grida - gli zuavi fuggono" e tutti con un salto sono a terra. "Strada a destra, avanti, figlioli, avanti!" grida Bernardi e rimane ultimo mentre il fuoco irrompe da tutti i lati.

Però gli zuavi che erano fuggiti, si erano nascosti dietro delle grandi querce, e da lì uccidevano a tutto spiano gli audaci.
Due ore dopo, 22 volontari dal casino Valentini giungevano al campo Castelluccio, ma il loro capo, il valoroso Bernardi , non era più con loro. Più tardi si conobbe quale era stata la sua fine. Rimasto ultimo al suo posto, per assicurarsi che tutti i compagni erano salvi, e per tentare di condur con se un ferito, fu avvinghiato da un maresciallo dei gendarmi, contro il quale sparò il suo revolver, ma il gendarme papalino esplose il proprio in mezzo al petto dell'eroe, che cadde fulminato all'istante.

Questo splendido episodio, che nessun fatto d' armi superò in grandezza, è così poco noto, che non sappiamo astenerci dal riferire a piè pagina in una Nota (*) tutti i nomi di coloro che vi presero parte, avendoli trovati registrati in un opuscoletto poi scritto dai reduci a Napoli.
Palermo va giustamente superba di Raffaele De Benedetto, il cui busto in marmo fu regalato dal Comitato di Firenze al Municipio nativo. E sarebbe colpa lasciar nell'obblio l'eroe senese, Giuseppe Bernardi , prode ventisettenne, a cui a lui si deve la frase "tutto é perduto fuorché l'onore".

(*) NOTA - Nomi dei difensori del casino Valentini presso Monte S. Giovanni il 26 ottobre 1867: Raffaele De Benedetto di Palermo, maggiore, morto ; Giuseppe Bernardi di Siena, capitano della 5a compagnia, morto; Raffaele Parisi di Napoli, tenente della 5a compagnia ; Lamberto Couture di Firenze , tenente della 7a compagnia; Enrico Vaccaro di Napoli, sottotenente della 7a compagnia; Carlo Primerano di Napoli, sottotenente della 7a compagnia; Giuseppe Nuhagues di Genova, furiere della 5a compagnia, morto fucilato; Giacomo De Zanchi di Zara (Dalmazia), sergente della 5a compagnia; Giacomo Amoretti di Parma, della 5a compagnia; Giuseppe Gialanella di Napoli, della 5a compagnia; Ugo Savazzini di Parma, caporale foriere della 5a compagnia; Angelo Cortonese di Roma, caporale della 5' compagnia, ferito; Carlo Giulio Cherubini di Roma, della 5a compagnia, ferito; Luciano Vito di Napoli, volontario della 5a compagnia, ferito; Santino Bonomi di Gallarate (Lombardia), della 5a compagnia, ferito; Francesco Cirillo (anni 15) di Napoli, della 5a compagnia, ferito; Nicola Mesolella (anni 60) di Terra di Lavoro, della 5a compagnia ; Auania Polzoni di Ancona , della 5a compagnia; Giuseppe Meoli di Napoli, della 5a compagnia; Vincenzo Sorentino di Napoli, della 5° compagnia; Pasquale Coccorese (anni 16) di Napoli, della 5a compagnia; Nicandro Grossi di Isernia, della 5°, compagnia; Paoncini di Ancona, volontario della 6a compagnia; Carlo Silvestroni di Castellamare di Stabia, sergente della 7a compagnia; Vincenzo Del Cagliano (anni 17) di Napoli , volontario della 7a compagnia, morto; Conte Ottavio Vulcano di Napoli, della 7a compagnia; Matteo Peretti di Torino, della 7a compagnia; Isidoro Aleotti di Modena, della 7a compagnia; Michele Sartaglione di Napoli, della 7a compagnia.
I tre morti prima di entrare nella casina furono: Domenico Vieri (anni 18) di Salerno, caporale maggiore del 2° battaglione; Giorgio Gigli di Forlì, volontario della 7a compagnia; Paolo Casertelli dell'Emilia, della 7a compagnia.
I feriti prima di entrare nella casina, furono: Ascanio Gugnoni di Ravenna, volontario della 5a compagnia, rimasto prigioniero; Vincenzo Landolfi di Napoli, volontario della 7a compagnia; Carlo Casertelli dell'Emilia, della 7a compagnia. Inoltre vi furono pure altri due feriti della 5° compagnia, dei quali non abbiamo potuto raccogliere i nomi.
Di 37 uomini, 17 fra morti e feriti.

Ma un altro fatto, non meno glorioso e reso sacro dalla stessa sventura, si concludeva nello stesso tempo a due passi da Roma.

Fra coloro che più sentirono la necessità dell'insurrezione interna, erano i due fratelli Cairoli: Enrico, soldato per istinto e per esperienza acquistata nelle quattro campagne del 1859, del 1860 (nella quale ultima a Calatafimi ricevette una palla quasi in fronte), del 1862 e del 1866; e Giovanni, capitano nei pontieri dell'esercito regolare; dissimili nell'indole (i loro ritratti Byron inconsapevolmente li delineò nei suoi "prigionieri di Chillon") perchè l'uno impetuoso, ardito, nato per la lotta; l'altro, dolce, gentile, soldato della patria per forte volere più che per animo guerriero.
Laureato l'uno in medicina, l'altro in matematica, viaggiavano per istruzione l'Europa, quando venne da loro udita la chiamata di Garibaldi, e si precipitarono da Parigi direttamente a Roma. Ne furono espulsi, ma dopo avere avuto tempo di convincere che ai romani non mancavano che armi e capi per ripetere i prodigi del 1849.
Deliberarono quindi di provvedere a tali bisogni, e sapendo che la tartana, carica di 700 fucili, rivoltelle e munizioni per Roma, era stata scoperta, combinarono con l' instancabile generale Fabrizi a Terni di introdurvi altre armi tramite la via ferrata e attraverso il Tevere.

I due fratelli, consci che in tal sorta di spedizioni si vuole tenere a calcolo la qualità e non il numero degli uomini, scelsero ad uno ad uno i loro compagni, li vagliarono e rivagliarono finchè ottennero il miglior fiore della gioventù; li raggrupparono intorno a capi che essi conoscevano e stimavano, e proprio il giorno in cui Garibaldi ricomparve a Firenze partirono da Terni alle 4 antimeridiane per Cantalupo e Repasto. Affascinati dallo splendido panorama che si apre intorno alla magnifica pianura circondata di monti, la storia di ognuno dei quali li incitò a fare cose degne degli antenati, con il Soracte (S. Oreste) a sinistra, per monti e per valli, arrivarono a Cantalupo dopo un cammino di 22 miglia, rallegrati dall' incontro con Cucchi, reduce da Roma, il quale li assicurò che l'insurrezione sarebbe scoppiata la sera del 22, e che il loro arrivo avrebbe fatto divampare l' incendio. E con lui combinarono il modo di sbarcare le armi a Roma alla Ripetta. Enrico, scelto come comandante, ordinò per filo e per segno le esili sue forze, con arte veramente garibaldina e con ammirabile prudenza.

Trascrivo qui le istruzioni lasciateci dal povero Giovanni, che fra la ferita mortale e la sua morte poi seguitane, ebbe tempo di illustrare i fatti compiuti sotto la direzione del suo diletto Enrico.
"La banda divisa in tre sezioni di venticinque individui, ed ogni sezione in cinque
squadre; per cui la minima frazione risultava composta di quattro uomini ed un capo; un aiutante maggiore ed un foriere maggiore.
Una sezione di avanguardia disposta a marciare con tutte le precauzioni di un corpo isolato, oltre a quella di mantenere salda comunicazione col centro della banda, disposta cioè con una squadriglia all'avanguardia, due a fiancheggiare, un'altra a retroguardia, precisamente destinata a mantenere la comunicazione col centro della banda; la quinta squadra al centro con il vigile capo, a tenere ben fermo il nucleo del corpo d'avanguardia. Una sezione di retroguardia pure circondata da tutte le cautele di marcia d' un corpo isolato, oltre a quella di stare in comunicazione con il corpo del centro; essa pure dunque disposta con una squadra di retroguardia, due di fiancheggiatori; un'altra di avanguardia destinata a mantenere le comunicazioni col corpo del centro, e con l'ultima al centro sotto il diretto comando del capo-sezione a formare il nucleo del piccolo corpo di retroguardia. La rimanente sezione, infine, a mantenere fortemente il nucleo della banda, per conseguenza disposta a marciare nel modo più compatto".

Il capo-banda e i capi-sezione con segnali semplici e chiaramente stabiliti, dati con fischietti, di cui ognuno doveva essere munito, avrebbero comunicati gli ordini e dati gli avvisi necessari, a seconda delle circostanze.
L'ordine del giorno fu semplice come quelli, del capo supremo
"22 ottobre.
Siamo vicini al momento in cui dobbiamo provare di saper fare. Per riuscire è indispenabile organizzarci, metterci cioè nella condizione in cui sia possibile la maggior concentrazione delle nostre forze conciliabile con la massima divisione di esse, e ciò per il terreno che dovremo oltrepassare".

Con altre 13 miglia da percorrersi, per strade disastrose o sotto dirotta pioggia, Enrico condusse egregiamente la banda a Ponte Sfrondato, dove si arrestò presso una osteria sulla stradale. L'osteria era occupata da un distaccamento di cavalleria dell'esercito italiano; ma gli ufficiali gentilmente la fecero sgombrare, e così gli stanchi e affamati garibaldini poterono riprendere le loro forze con vivande e con alcune ore di riposo.
Enrico, Giovanni e Tabacchi procedettero a Passo Corese, senza avere ricevuto la lieta novella che Garibaldi, era libero, mentre in quel momento lui già dormiva nel letto di Re Enrico quando era sceso a Terni.
Né la ricevettero mai la lieta novella. Invece seppero che lo scoppio dell'insurrezione in Roma era rinviata ancora di un giorno, a quel punto Enrico disse: "Tanto meglio ! maggiore probabilità di arrivare a tempo col nostro aiuto".

Le barche e le armi per la banda e duecento fucili per i fratelli di Roma furono pronti sulla riva, vicino ad un'osteria al di là della frontiera, e all'alba del 22 la banda si mosse, a cinque minuti d'intervallo l'una dall'altra squadra; e giunte tutte all'osteria, nessuna precauzione fu presa che impedisse una sorpresa su quella terra nemica. Fu spedito a Roma un messo per combinare i segnali sulla sinistra del Tevere, vicino alla foce dell'Aniene, ma anche per indicare se l'insurrezione era scoppiata, protratta, o soppressa; e per concertare lo sbarco a Ripetta, fra le otto pomeridiane e la mezzanotte.

In quanto alla navigazione sul Tevere, Enrico formò due forti squadre e le affidò a Stragliati, incaricato di assalire un posto di marinai pontifici, custodi, alla foce dell'Aniene, dei due fiumi, ed impadronirsene senza chiasso e senza un tiro.
Al momento dell'assalto, due delle quattro barche mancarono. Fu necessario, dopo aver perduto tempo prezioso in inutili ricerche, di imbarcare tutti e tutto sopra un barcone e due altre piccole barche e di partire con l'anima tormentata dal sospetto che qualche spione si fosse staccato dalla riva per precederli a Roma con una denunzia.

Di conseguenza non salparono che alle 3 pomeridiane, raggiungendo le barche che si erano messe a poca distanza dalla riva del fiume.
Dissipati i timori e imposto da Enrico il più rigoroso silenzio, ognuno stette assorto nei propri pensieri, e nel cuore di ognuno tumultuavano i ricordi delle persone più dilette, dileguatisi soltanto con la speranza di arrivare quella sera stessa a Roma. L'ora, il luogo, le montagne e i colli circostanti ispiravano questi solenni pensieri.
Da Corese (l'antica Cure, un dì la più grande delle città sabine d'onde Numa Pompilio, il pontefice-re, mosse verso Roma, però Romani e Sabini presero il nome comune di Quirites) il fiume corre velocemente nella vasta e deserta campagna, la cui monotonia è interrotta solamente dalle capanne coniche dei pastori e da qualche cascina isolata, mentre le numerose vacche pascolano nella campagna e i poderosi bufali lungo la riva tirano le barche a ritroso del fiume.

Oltrepassata la stazione di Scorano, fino al presentarsi della torre quadra di Monte Rotondo, le montagne si affacciano da lontano, uniche sentinelle in quella solitudine: e proprie quando il sole, illuminando le loro cime di porpora, fu vicino al tramonto, l'ultimo suo raggio fece scintillare le baionette di una pattuglia papalina in perlustrazione.
Uno "zitto" perentorio di Enrico frenò l'immediato insorgere dei volontari, ai quali sembrò venuta l'ora desiderata di misurarsi con il nemico, e le barche passarono inosservate, mentre gli ultimi raggi del sole preannunciavano il crepuscolo; troppo breve per le genti del settentrione, ma per gli italiani, che visitano la campagna di Roma, incantevole per la sua durata.

All'occhio di quei pionieri la torre di Monte Rotondo poteva raffigurare le guerre fratricide degli Orsini e dei Colonna; ma nessuno di loro avrebbe sognato che il proprio sangue sparso, prima di un altro tramonto, sarebbe stato qui vendicato, quando era ancora tiepido.
E i destinati a sopravvivere al fiero cimento nello scorgere più lontano il castello di Mentana potevano rammentare le antiche glorie di Nomentum, ma non immaginarsi che ai piedi di quei ruderi torrioni crollanti, alcuni di loro avrebbero trovato la tomba, là dove Marziale fece la punta ai suoi epigrammi e Seneca provocò l'oblio alla propria coscienza e il riposo alla mente.

Il silenzio rigoroso fu interrotto dal comandante stesso.
Era giunto il segnale. "Color bianco - mormorò - Stragliati è riuscito." E passati di pochi metri lo sbocco dell'Aniene, dirigendo la prua alla riva sinistra, videro nella barca di Stragliati quattro prigionieri armati di stupende carabine che facevano un sensibile contrasto con i catenacci, solita e predestinata arma dei volontari. La contentezza per la riuscita di Stragliati fu però turbata dalla mancanza del segnale convenuto, e che doveva annunziare le cose che accadevano in Roma.

Enrico ordinò lo sbarco delle armi e della metà degli uomini; mandò a Roma il romano Candido per notizie e tutti in ansiosa insonnia passarono la notte durante la quale, pur nelle tenebre, i capi esplorarono alla meglio la riva paludosa. L'alba spuntò fredda e mesta e le colonne grigie che si vedevano sul fiume, potevano essere o le colonne di nebbia, o spettri dell'altro mondo venuti per ghermire le anime perdute.
Il comandante fece nuove esplorazioni, ordinò a Giovanni di abbattere una siepe che circondava un ampio canneto, creduto adatto a nascondere, fino alla comparsa del sole, i soldati ad occhi importuni.
Spedì poi anche Muratti a Roma, poi riconosciuta l'insufficienza del canneto come nascondiglio, ordinò a Giovanni di salire sulla vetta del monte, ultimo sperone della catena dei Parioli. Giunto lassù Giovanni si trovò a sovrastare un altopiano di folta vegetazione, vide una villa signorile appartentemente disabitata e decise di avvalersene; incontrò e trattenne un contadino armato di carabina, che disse essere il vignauolo del signor Glori, padrone della villa, il quale lo supplicava di non ucciderlo.

Giovanni gli diede venti lire, promise di pagare tutte le provviste che avrebbe potuto fornire e lo seguì alla fattoria per prendere le chiavi della villa ed inviando subito un messo ad Enrico.
Dalle finestre dell'ultimo piano si affacciava Roma, il Colosseo, il Campidoglio, sfolgoranti dai primi raggi del sole; e mentre con lo sguardo cercava di indovinare qualche insolito movimento, accanto gli apparve la faccia di Enrico avvolto negli stessi raggi che illuminarono per lui l'ultima veduta della città dell'anima sua.

Alla Villa si tenne un consiglio di guerra. Si deve tentare di ricongiungersi a Menotti ? O si deve aspettare i messi con le notizie di Roma? Oppure si deve penetrare nella città eterna alla spicciolata?
La decisione presa fu quella di aspettare; poi a qualunque costo tentare l'entrata e nel frattenpo occupare la fattoria e la villa. La fattoria, perchè era un eccellente posto di osservazione, presidiata da due squadre di Giovanni, armate solamente di rivoltelle, le altre tre pronte di fuori con i fucili; la villa perché più nascosta e più vicina alla falda del monte a ridosso del fiume, e perché ottima posizione di difesa e di ritirata.

Però, disseminate bene le sentinelle e stabilite le vie di comunicazione, arrestati i contadini che passavano, preparate le razioni, verso mezzogiorno fu visto sopraggiungere un bello e intelligente fanciullo di 9 anni con un biglietto di Muratti, il quale annunciava scoppiata la insurrezione nella notte precedente e per molte cause soffocata, principalmente per la mancanza di armi. Il Muratti aggiungeva di non avere ancora trovato Cucchi e Guerzoni, altro capo; ma che ad ogni modo durante il giorno li avrebbe informati entrambi della situazione precaria degli amici. Il ragazzo, fiero e quasi si direbbe conscio dell'alto ufficio suo, rifiutò qualunque ricompensa e ritornò con la seguente lettera di Enrico:
"Stanotte saremmo entrati, se il moto fallito e la mancanza della guida non ce lo avessero impedito. Abbiamo preso posizione di per sé forte, ma con forze esili come le nostre (avendo radunati qui in tutto 75 arditi giovani), non possiamo in caso di attacco rispondere che con una risoluta anche se breve difesa. Dateci ordini, ma precisi, determinati; se ci comandate un colpo ardito per la notte e ci mandate una guida, lo tenteremo ad ogni costo.
Fermandoci qui, domani forse non possiamo rispondere di noi, perché siamo in pochi, e miracoli non se ne fanno. Scrivete chiaro: il messo é sicuro".

Trascorsero altre due ore in ricognizioni con le massime cautele per mantenere le comunicazioni interrotte. Ad ogni istante un senso indefinibile di essere spiati turbava i due fratelli. Verso l'alba una sentinella richiamò l'attenzione di Giovanni sopra una figura immobile, difficile a distinguere se uomo o statua, sulla loggia di un vasto casale a tre quarti di chilometro dalla fattoria appartenente alla proprietà.
A intervalli egli la fissava con il cannocchiale; essa era sempre là ritta ed immobile. E si finì col non pensarci più di tanto; quando a tre ore Stragliati dalla fattoria mandò avviso che una pattuglia nemica era lì vicino. Giovanni corse col cannocchiale alla finestra. La loggia era vuota; scomparsa la figura immobile. Riconobbe la pattuglia, e disse: fra un paio d'ore saranno qui. Tutti allora si accinsero filosoficamente a divorare le razioni di carne e pane e a bersi l'eccellente vino che Stragliati aveva fatto portare dai contadini.
Giunto Enrico, si discusse sulle probabilità della situazione. Ritenevano quasi certo l'assalto nella stessa sera. Considerata la ripidissima erta dello sperone del monte sovrastante il Tevere, giudicarono più verosimile l'offesa dal lato opposto, ove, vicino alla fattoria, c'é la minor pendenza; e giacché le due case sono situate ai lati opposti del piano che forma tutta la sommità del monte, il perimetro descritto dal ciglio essendo all'incirca due chilometri, fu ovvia prudenza attendere il primo urto alla fattoria, tenendo la riserva fra essa e la villa.

Se mai, disse Enrico, l'attacco non avviene questa sera, è necessario sloggiare di qui e scegliere un altro luogo più opportuno per l' attesa. Con ciò egli ritornò al maggior gruppo della banda, e un quarto d'ora dopo la sentinella avanzata gridò "all' armi".
I papalini dalla strada forzarono il cancello ed entrarono. La sezione fu sparsa in catena sul ciglio del monte e ritirata anche la squadra dalle finestre della casa. Ma purtroppo ebbero a ricevere la rapida fulminante scarica delle efficienti carabine rigate - pare che fossero Chassepots - ma senza rispondere, in attesa che gli assalitori si avvicinassero fino a 300 metri. A quella distanza purtroppo molti dei catenacci non fecero fuoco. I volontari piuttosto agitati obbedirono subito al comando di tagliare una siepe che pur li proteggeva; tanto erano smaniosi che "adoperarono i fucili con innescata la baionetta come se dovessero infilzare manichini!". L'operazione la eseguirono in pochi secondi. Volarono inoffensive le prime le palle, forse mal mirate; ma poi cadde Morruzzi e poi Castagnini, ambedue di Pavia; né si poté bene effettuare la carica per la natura del terreno coperto di vigneti, sostenuti da canne e con i tralci in terra.

Giunse Enrico ed ordinò che con la fronte rivolta al nemico indietreggiassero verso il grosso della banda, per resistere in massa, salendo in compatta schiera il monte. Avevano appena fatta la mezza strada che separa la fattoria dalla villa, stesa a catena la maggior parte della banda, e preso posto a sinistra, quando alla vista dei primi nemici affacciatisi alla strada, Enrico gridando: "alla baionetta" si slanciò tanto avanti che con difficoltà i suoi gli andarono dietro.

Qui, oltre gli ostacoli dei vigneti, lo eran anche i campi, che fiancheggiano la strada che è incassata e sono più alti della stessa di alcuni metri; da un' altra parte non si poterono concentrare tutte le forze, bisognando inoltre munire le finestre per l' ultima difesa e proteggere l'ala destra per impedire che il nemico la aggirasse e la tagliasse dalla villa.

Sicché pochi riuscirono a eseguire la carica in ordine di battaglia. Però questi con tale slancio si avventarono sui papalini che li misero in rotta; ed Enrico via via come un baleno a inseguirli. Lui precedeva sempre di 30 passi la schiera, né sostò davanti all'amata voce di Giovanni; il quale gli gridava correndo: "Fermato, Enrico; andiamo insieme."
In un attimo il fratello, Bassini e pochi altri gli furono accanto, e insieme si arrampicavano sulla scarpata sinistra per meglio inseguire i fuggiaschi che correvano sulla strada incassata. Così si trovarono in campo aperto e senza paura corsero verso un nuovo gruppo di papalini che erano rimasti perplessi sul da farsi e da che parte fuggire e scaricarono loro addosso le rivoltelle.

Qui accadde una serie di duelli; con la differenza che i papalini erano dieci contro uno. Giovanni Cairoli cadde per primo con una palla che gli aveva ferito la testa, e cadendo vide Enrico circondato da quattro o cinque. E un momento dopo, anche lui cadde mentre aiutava con una mano suo fratello. Ebbe una palla alla testa e una al polmone. Caddero a poca distanza Bassini e altri due; ma tale era stato l'impeto dell'attacco che i papalini fuggirono; ognuno però sulla via della fuga si voltava a colpire i feriti a terra con la baionetta.
"Francesi vigliacchi !" esclamò Enrico, avendo ancora il
supremo conforto di riconoscere che i "vigliacchi" non erano italiani, nè si erano dati alla fuga.
Poi gli occhi si chiusero e mormorò: "Muoio, sai! saluta la mamma, Benedetto, gli amici.
Il problema é sciolto"

E il giovane veterano giaceva cadavere sul petto del fratello che versò su di lui lacrime di sangue. E Giovanni, torturato dal dolore e dalla sete, straziato dal vano grido dei suoi compagni: "Aiuto ai feriti!" depose il cadavere di Enrico sul suolo insanguinato; indi lui e Bassini si trascinarono alla fattoria, dove trovarono Morruzzi fra gli spasimi, e gli adagiarono la gamba ferita. Giovanni andò in cerca dei contadini, alla fine li scovò e li condusse alla fattoria. E mentre questi lo dissetavano e gli fasciavano la ferita che grondava, li supplicava di andare in soccorso dei feriti e di riportare il cadavere di Enrico. Poi disteso su un letto di paglia, passò una notte di febbre, di angosce e di delirio, però senza perdere la coscienza dell'infinita sventura, implorando sempre che si cercasse Enrico.

All' alba, costrinse un contadino a condurlo sul luogo del combattimento. Trovò il luogo dove il fratello era morto, e baciando la terra, la bagnò di nuove lacrime.
Ritornato faticosamente alla villa, vi trovò il cadavere di Enrico accanto a quello dell'amico Mantovani, e di altri feriti raccolti e amorevolmente assistiti da tre nobili cuori che rischiavano di nuovo vita e libertà; e furono i commilitoni Campari, Fiorini e Colombi.
Nella sera accertatisi che solo gli impotenti alla lotta erano rimasti nel campo, i feroci pontifici ritornarono e li portarono tutti a Roma, distribuendoli per le carceri, gli ospedali e il cimitero.

Garibaldi la mattina del 24 passò in rassegna le truppe di Mosto e di Frigesy, e già aveva dato istruzioni per la marcia, su Monte Rotondo, quando venne il fatale annuncio che i due fratelli Cairoli erano periti sotto le mura di Roma. Tremarono le labbra al Generale, e con la faccia severa domandò ai messaggeri, compagni dei caduti: "E voi come siete sopravvissuti?" a cui aggiunse, unico commento: "Li vendicheremo e presto!"

Nessun episodio delle campagne precedenti colmò d'entusiasmo come questo. La famosa carica della brigata leggera a Balaclava fu un bell'esempio del coraggio muto e passivo di soldati inglesi posti fra la mitraglia dei nemici obbedendo, e la fucilazione dei propri amici disobbedendo.
Nemmeno la gloriosa difesa di Bronzetti a Castel Morrone supera l' episodio dei monte Parioli, perché quella era avvenuta in tempo di vittoria, e sotto l'influsso onnipotente del nome di Garibaldi ispiratore dell'eroica lotta.

Invece ai monti Parioli si ebbe lo spettacolo della calma e intelligente accettazione di un dovere, riconosciuto come tale, eseguito risolutamente, senza riserva di sorta, e fra ostacoli inauditi; dovere che anche se coronato dal successo avrebbe fruttato poca gloria! Fu il non volere sottrarsi al compito assunto nonostante le occasioni offertesi (nessuno poteva biasimarli se, mancati i segnali alla foce dell'Aniene, e tanto più quando seppero abortita l'insurrezione in Roma, fossero ritornati sui loro passi); fu l'abnegazione senza limiti, l'assenza di vanità e di ogni ambizione personale dimostrata da quelle vittime consacrate, da quei cuori devoti alla morte, che li innalzano ora sopra coloro che muoiono sul campo di battaglia, e li collocano a fianco dei primi eroi moderni, fra Pietro Micca e i Bandiera, fra Pisacane e John Brown.

Questo era lo stato delle cose quando Garibaldi finalmente giunse fra i suoi. Chi avrebbe dubitato delle sorti finali della lotta? Vedendo raccolti sotto i suoi ordini dentro e fuori Roma tanti animosi, non sostenuti, é vero, ma nemmeno osteggiati, come accadde ai volontari del 1860, si poteva stare certi che lui sarebbe entrato in Roma prima che i francesi avessero potuto allestire una nuova spedizione.
Eppoi, Garibaldi dentro le mura sacre dell'eterna città, e l' acclamazione in Campidoglio di Re Vittorio Emanuele, non avrebbero costretto l'imperatore ed anche l'imperatrice ad accettare i fatti compiuti?

Ma l'impresa fu oltre ogni dire sfortunata. Contrarietà di ogni maniera impedirono che i vari corpi potessero essere radunati; nemmeno una volta si poté farli andare d'accordo; e per colmo dei guai, mentre lui arrivava a Passo Corese, il bastimento da guerra francese, il "Passepartout", approdava con le prime truppe d'invasione al porto di Civitavecchia. Pur tuttavia la vittoria non poté negare un fugace sorriso al suo beniamino di altri giorni, e la sconfitta non poteva essere per lui che l'ora triste di un prode.

Il giorno 24 egli passò in rivista le colonne di Valzania, di Frigesy e di Mosto. Ricondottele a Monte Maggiore, incaricò Caldesi e Valzania di fare un colpo di mano sopra Monte Rotondo. Ma come tante volte ebbe a succedere, scomparvero durante la notte le guide che avrebbero dovuto dirigere le colonne da Monte Maggiore a Terraccia; e così smarritisi i volontari tra i monti, dovettero riprendere la strada maestra e camminare direttamente per Monte Rotondo ove furono ben presto attaccati, poiché la città era occupata da papalini, da antiboini, da dragoni e da carabinieri che avevano fortificato saldamente il palazzo del principe di Piombino, asserragliate le porte, appuntati i cannoni e guarnite le mura della città.

Garibaldi giunse alle sei del mattino in vista di Monte Rotondo, e trovò il battaglione di Mosto, che occupava le posizioni dominanti, attaccato dal lato di porta Romana. La colonna di Frigesy, a passo di corsa, circondò ed occupò il convento dei cappuccini scalando l'altissimo muro; poi le colonne Caldesi, Valzania e Salamone sopraggiunte anch'esse, l'attacco divenne generale. Il battaglione Mosto, tentando di investire porta S. Rocco chiusa e barricata, occupò le case intorno ed il convento di S. Maria, ove noi stabilimmo l'ambulanza. Il bravo dottor Pastore bastava a tutto, benché tutto mancasse; e il dottor Riboli pensò bene, per maggior sicurezza dei feriti, di ritornare fino a Passo Corese con la mia carrozza per prendervi una bella cassa di strumenti per le amputazione, lasciata da me alle falde del monte per salire con Basso più presto sul luogo.

Garibaldi dirigeva personalmente le mosse con Canzio, Menotti e Ricciotti. Cadevano i feriti da ogni parte: il maggior Mosto ebbe squarciato orribilmente il piede, Uziel mortalmente ferito. Tutti erano stesi sulla paglia senza cibo e senza ghiaccio, ma contenti e sicuri perché avevano visto Garibaldi e non dubitavano della vittoria.
Io scesi fra i combattenti per persuadere qualche studente di chirurgia a darci aiuto in qualità di operatore; nessuno voleva cambiare il fucile del soldato con il coltello del chirurgo.
A pochi passi dalla porta strinsi la mano a Vigiani che Canzio non finì mai di lodare in seguito per il brillante contegno tenuto durante i quindici giorni della miracolosa liberazione di Garibaldi: "Il Generale si espone troppo..." disse facendo segno a lui colla mano e mostrandolo ritto in piedi dove più fitte cadevano le palle. "... Aspetti almeno di morire a Roma."

Queste furono le ultime parole di quel valoroso; cadde mortalmente ferito da una palla alla testa; morì felice di essere riuscito a liberare Garibaldi che lo aveva nominato luogotenente del suo quartier generale.
L'assalto alla porta S. Rocco durò tutto il giorno, perché questo lato era il più munito e il più difficile. Dopo tredici ore Garibaldi esclamò: "Oh! insomma bisogna vincere! " e diede ordine, e insegnò egli stesso il modo come preparare barricate volanti con legna, barili vuoti e zolfo. Voleva farli sloggiare preparando a loro sulla porta un bel fuoco,
Nell'attesa, fatti spegnere tutti i lumi nel convento di S. Maria, venne a sedersi per qualche momento su una panchina di marmo fuori all'aperto, gustando, come se fosse stato un cibo succulento, una scodella di grani di frumento bollito e condito con un po' di lardo che trovammo nel convento abbandonato dai monaci. Egli aveva rifiutato di toccare un pollo, sapendo che questa specie di provvigioni scarseggiava e non voleva privarne i feriti.

In quel momento (8 di sera) la porta S. Rocco cominciava ad ardere, benché il nemico dalle finestre a sinistra facesse ogni sforzo per spegnere l'incendio. Il Generale ordinò allora che si tentasse di entrare in città scalando le mura, ma il tentativo non riuscì, ma due piccoli cannoni che aveva con se Valzania finirono per abbattere la porta. Il momento era solenne. Tutti gli ufficiali con Garibaldi e i suoi figli contavano i minuti per lanciarsi attraverso di essa. Alle palle nessuno più badava.
Cencio Caldesi con la sua faccia melanconica, ma la voce allegrona, provocava frequenti risate. Ricciotti ardeva di distinguersi sotto gli occhi del padre, il principe di Piombino voleva far gli onori del suo castello. Bezzi e Cella, sempre presenti e sempre feriti in ogni scontro, non avevano indugi.

Maser, zoppicante ancora per la ferita del 1866, il professore Ceneri e molti altri reduci facevano corona intorno al Generale, e tutte quelle facce animose, quelle persone che vestivano tanti panni diversi, dal taglio elegante del damerino alla veste sdrucita del pezzente e alla divisa rossa, illuminati dalle fiamme della porta di san Rocco, componevano un quadro degno di Gherardo delle Notti.
I feriti dormivano quel primo sonno che prende nome di sonno del dolore, e noi contavamo gli istanti per portar via i rimasti dalle case vicine alla porta, un posto, in quel momento, troppo pericoloso.
Canzio mi diede l'ordine per iscritto di prendere biancheria e materassi dagli abitanti di Monte Rotondo, non senza avvertire la pioggia di palle, e ciò gli richiamava a mente il vecchio motto: Fare i conti senza l' oste.

Chi in quella notte dubitava che fra brevi giorni noi saremmo entrati in Roma? Infatti, caduta a mezzanotte la porta, vi entrò precipitosa un'ondata di garibaldini con lo stesso Garibaldi, calpestando i pezzi di legno ardente, prendendo subito posizione sulle strade ed occupando le case.
All'alba l'attacco é ripreso, si circonda il palazzo Piombino, si prepara ogni cosa per incendiarlo; quando alle otto il comandante De Cortes fa sventolare la bandiera bianca e Garibaldi manda a lui Canzio con le condizioni di capitolazione già pronte.

Nel frattempo i Garibaldini, inferociti dal fuoco di palle che i papalini all'alba avevano aperto dal palazzo, assalirono un gruppo di dispersi in Via Grande; e ne ammazzarono uno a colpi di revolver. Garibaldi balza in mezzo ad essi, protegge gli altri e accompagnato dal suo stato maggiore, essendosi arresa tutta la guarnigione di 500 uomini, con due pezzi d'artiglieria, cinquanta cavalli, armi e munizioni, li conduce in salvo fin oltre Monte Rotondo, e non potendo provvederli di pane perché la città ne era vuota, regala loro denaro e ritorna a Monte Rotondo.

Non si poté mai comprendere perché da Roma il nemico non ricevesse più soccorsi; solamente nel pomeriggio si fece avanti una compagnia di papalini e più tardi una colonna di zuavi con due pezzi di artiglieria.
Furono questi vigliacchi che alla stazione di Monte Rotondo, ove erano stati portati i primi feriti della colonna di Valzania, li ammazzarono tutti o credettero di averli ammazzati perché li lasciarono sul suolo boccheggianti, chi con 17, chi con 22 colpi di baionetta.

Garibaldi annunciò la vittoria con le seguenti parole
"Anche in questa campagna di Roma, i volontari hanno compiuto il loro glorioso Catalafimi. Contrarietà di stagione, deficienza di panni, mancanza di vettovaglie, privazioni incredibili non valsero a scemare il loro brillante contegno. Essi assaltarono una città murata con uno slancio, di cui l'Italia può andare superba."

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Ma l' "avventura" non era finita
l'aspettava non solo lo "scoglio" di Mentana, ma anche la delusione
e un nuovo suo arresto

CINQUANTAQUATTRESIMO CAPITOLO >

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