CAPITOLO 2


LA CARRIERA AMMINISTRATIVA
(da pag. 11 a pag. 29)

Entro al Ministero di Grazia e Giustizia - La mia prima caricatura - La morte di mia madre e il mio matrimonio - Mia opera per il riordinamento della riscossione delle imposte - La figura e l'opera di Sella e di Lanza - Entro segretario generale alla Corte dei Conti - Sono nominato consigliere di Stato - La mia candidatura e l'elezione a deputato.

Così, a poco più di diciotto anni, avevo compiuti tutti i miei studi, ed ero fornito di laurea per entrare nella vita pratica. Ma per l'avvocatura, a cui avrei dovuto avviarmi, non avevo alcuna simpatia; feci un po' di pratica nello studio dell'avvocato Marini, che allora era uno dei più rinomati avvocati di Torino, ed all'Ufficio dell'avvocatura dei poveri; ma per poco tempo, poichè ai primi di febbraio del 1862 fui chiamato, con niente meno che il grado altissimo di «aspirante al volontariato» nel Ministero di Grazia e Giustizia dall'allora ministro Miglietti, principale autore del nuovo Codice Civile. Egli mi applicò al suo Gabinetto. Poi passai, per esame, volontario e uditore in magistratura. Al Miglietti successe poco dopo Raffaele Conforti. Eravamo nell'anno 1862, e si doveva nominare tutta la nuova magistratura napoletana dopo l'annessione. Il Conforti, che era napoletano, domandò per procedere a questo compito delicato e pieno di possibili insidie, che gli si desse un impiegato che non solo non fosse napoletano, ma non conoscesse nessun napoletano; e gli fui indicato io, appunto per la mia giovinezza; ed in quel posto mi passarono per le mani tutti i rapporti riservati e le informazioni più gelose.
Successero poi al Conforti il Pisanelli, il Vacca, il Cortese, il De Falco, tutti napoletani; poi il Borgatti, di Cento di Ferrara, che mi fece suo segretario particolare. Ricordo che Segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia era allora l'Eula, sotto i cui ordini io lavoravo; e poi circa trent'anni dopo l'Eula, che era diventato Presidente della Cassassione di Roma, accettò di entrare quale Ministro di Grazia e Giustizia nel mio primo Ministero, avendo prima rifiutato l'offerta di quel dicastero da parte di altri uomini politici.

Nei cinque anni che passai al Ministero di Grazia e Giustizia ed al Gabinetto del Ministro, oltre il lavoro ordinario, io fui occupato più specialmente a raccogliere elementi e materiali per la grande Commissione, nominata da Miglietti, che preparava la compilazione del Codice Civile. Avevo a mia disposizione la biblioteca, con tutti i principali autori italiani e forestieri; e quel lavoro e quello studio mi servirono molto per formarmi una cultura giuridica, che mi fu poi sempre di grande aiuto. Il Governo era in quegli anni passato a Firenze, ed io l'avevo seguito, essendo sempre addetto alla Segreteria Generale, tenuta ancora dal Borgatti, e lavorando in una stanza accanto alla sua. Il Borgatti era uomo di molto valore, ma assai modesto. Ora nel '66, quando scoppio la guerra e La Marmora dovette partire per il campo, Ricasoli, assumendo la Presidenza, avvertì il Borgatti di avere bisogno d'un Ministro di Grazia e Giustizia, e l'incarico di trovarglielo. La cosa dovette esser risaputa, e parecchi aspiranti vennero a cercare il Borgatti ed a raccomandarglisi, facendo valere i loro titoli e benemerenze. Il Borgatti, molto coscienziosamente, fece una terna di nomi e la presentò al Ricasoli, il quale gli rispose: - Ma come: non avete ancora capito che il Ministro dovete essere voi? - Così avvenne che quando qualcuno degli aspiranti si ripresentò, Borgatti non potè a meno di avvertirlo che non sarebbe stato incluso nel ministero; ed io ricordo di avere sentito dalla mia camera attigua, uno di essi scoppiare in singhiozzi alla notizia dolorosa. Tanta era, già allora, la passione di ornarsi del nome di Ministro.
Intanto, mia madre che era venuta con me a Firenze era caduta malata e desiderava tornare a Torino dove aveva i fratelli e le sorelle ; ed io, avendo già preso da tempo l'esame di Magistratura, e avendo titolo per la nomina a sostituto Procuratore del Re, chiesi di essere destinato a Torino. L'istanza fu accolta ed io vi andai quale sostituto Procuratore del Re a quel Tribunale. Ero allora sui ventiquattro anni, ed avevo la disgrazia di parere ancora più giovane; e la mia giovane età e quella apparenza dettero occasione alla mia prima caricatura, stampata nel Fischietto, che mi raffigurava nella veste di Magistrato, con la toga e col tocco, fra le braccia della balia. Allora a Torino c'era un foro molto rumoroso; ed io venivo mandato in Tribunale a fronteggiare gli avvocati più battaglieri, nei processi più agitati, come i processi di stampa.

La salute di mia madre si era intanto andata aggravando, tanto che essa morì nell'agosto 1867. Due anni dopo morì mio zio medico Plochiù. Mio zio generale morì più tardi assai, nel gennaio 1888, ad ottantadue anni; mio zio Luigi magistrato morì pure nel febbraio di quell'anno, avendo compiuti gli ottantasei anni; e mio zio Melchiorre morì poi a settantasette anni, nel 1894.

Nel febbraio del 1869 il Senatore Pallieri, Presidente della Commissione centrale delle Imposte dirette, mi chiese se fossi disposto a ritornare a Firenze, come membro e segretario capo di quella Commissione. Dopo la morte di mia madre nessuna ragione particolare mi tratteneva a Torino, dove ero tornato solo per cagione sua; così io accettai volontieri, e prima di partire per Firenze, il 31 marzo del 1869 presi moglie. Mia moglie, Rosa, era di una famiglia Sobrero. Suo padre era stato sostituto Procuratore Generale della Cassazione di Torino, ma era morto da molti anni in giovane età; egli era fratello di Ascanio Sobrero, il celebre chimico che inventò la nitroglicerina. Un altro fratello di suo padre era generale del Genio ed era stato il disegnatore e costruttore della fortezza di Alessandria. Io vidi per la prima volta quella che fu poi mia moglie, l'8 gennaio 1869 e ci sposammo il 31 marzo dello stesso anno.
Ritornai così a Firenze, dove fui subito occupato da quel nuovo lavoro che era di grande importanza per l'ordinamento dello Stato, e che richiedeva da parte mia tutta una nuova preparazione. Sulla fine di quell'anno la mia posizione cambiò ancora, mettendomi a contatto con un uomo di grande valore, a cui devo molto per la mia cultura amministrativa; Quintino Sella. Questi, avendo assunto, in una crisi ministeriale, il dicastero delle Finanze, a cui intendeva dedicare tutto il suo studio e la sua opera, chiese al Senatore Pallieri se nella Commissione da lui presieduta ci fosse qualcuno che avesse speciale conoscenza di cose legali. Il Pallieri gli fece il mio nome, e mi mandò dal Sella, che mi incaricò subito di un certo lavoro, che io finii e portai subito l'indomani. Me ne diede un altro, che fu subito compiuto; e di lì a qualche giorno il Sella mi richiamò ancora offrendomi il posto di Capo sezione alle Finanze. Accettai, e lavorai con lui, come segretario particolare, tutto il '70 e il '71. La capitale essendosi trasferita a Roma, il Sella venne pure a Roma; ma il Ministero rimase a Firenze, attendendosi la costruzione del palazzo, che fu finito solo nel '76.

Poco dopo, all'inizio del '72 il Sella pensò di porre mano a riordinare la Direzione generale delle imposte, che si trovava in grave stato di disordine, affidandola al deputato Giuseppe Giacomelli, di Udine, che si era già occupato, quale membro di una Commissione, di studi finanziari in quel Ministero stesso. Il Giacomelli, col quale io mi trovavo già in contatto, si dichiarò disposto ad assumersi quell'incarico, col patto pero che io andassi con lui. Col consenso del Ministro, io accettai. Il Sella attribuiva a quel riordinamento una primaria importanza, specie per l'applicazione della nuova legge generale per la riscossione delle imposte. Eravamo ancora nel periodo costruttivo del nuovo Stato; e per la riscossione delle imposte vigevano sette sistemi diversi, ereditati dagli Stati scomparsi. Eccetto che nel Lombardo-Veneto, dove il sistema austriaco era affine al nuovo nostro, vi era tutto da mutare; in alcune regioni si riscuoteva direttamente, in altre per appalti; in Toscana la riscossione della parte erariale era fatta a mezzo dei Comuni, i quali si erano trattenuti trenta milioni, dovuti allo Stato. Ne seguiva una grande confusione, con effetti rovinosi per l'entità stessa delle riscossioni, che avevano dietro una grande massa di arretrati. Occorreva compiere dunque una duplice opera: ricuperare questi arretrati, che sommavano alla cifra, stupenda per quei tempi, di duecento milioni, impiantando ad un tempo il nuovo sistema di riscossione, efficace ed uniforme per tutto il paese. E questa opera doveva compiersi contro l'opposizione e l'ostilità degli interessati, i quali non volevano saperne di pagare gli arretrati ed ostacolavano l'impianto del nuovo sistema che non avrebbe permessi più gli antichi abusi. A Messina e altrove furono uccisi degli esattori; i Comuni stessi che dovevano dare gli appalti vi si rifiutavano, e bisognava fare le aste d'ufficio, a mezzo dei prefetti. Vi era anche il lato comico; siccome in alcune province gli antichi regolamenti per la riscossione delle imposte davano facoltà alla direzione delle imposte di sospendere il versamento, da parte degli esattori, delle quote dovute dai contribuenti irreperibili, così gran numero di questi, anche fra i maggiori, erano fatti apparire irreperibili.
Ricordo che fra gli irreperibili apparvero alti funzionari; irreperibili si dichiararono perfino degli stessi percettori delle imposte; e come irreperibile fu classificato perfino il municipio di Catania.

L'impianto del nuovo sistema, fronteggiando tutte queste difficoltà, fu un lavoro diabolico. Per condurlo a termine mi erano stati assegnati quattro funzionari, due dei quali erano ispettori superiori, e due caposezioni di prima classe; così che io, che dovevo comandarli, ero un funzionario di grado inferiore, essendo solo caposezione di seconda classe. Prevedendo le difficoltà che potevano risultare da questa curiosa situazione, posi per condizione che mi fossero dati i poteri necessari; e poi chiamati i miei collaboratori designati tenni loro un breve discorso, avvertendoli che bisognava lavorare sul serio, e che chi mancasse al proprio dovere sarebbe stato licenziato. Non ebbi poi che a lodarmi della loro collaborazione, e diventammo buoni amici.
Al principio dell'anno in cui avevo dato inizio a quel lavoro, il presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Lanza, al quale dovevo spesso rivolgermi perchè il collocamento delle esattorie si faceva per mezzo delle prefetture, un giorno mi aveva detto che, se alla fine dell'anno medesimo, delle cinquemila esattorie che si dovevano impiantare, ne rimanessero ancora vacanti cinquecento, il governo avrebbe potuto considerarsi soddisfatto. E l'ultimo giorno dell'anno io gli potei dare la notizia che non ne restava vacante che una sola, e anche questa solamente perchè l'assuntore era morto in quei giorni.

Quella mia lunga collaborazione con Quintino Sella, oltre che giovare grandemente alla mia educazione amministrativa, mi pose sotto gli occhi l'esempio di una capacità ed attività politica superiore. Il Sella infatti era indubbiamente un uomo di primo ordine, e che ha reso all'Italia, con un lavoro duro e continuo, servizi maggiori che non gli siano generalmente riconosciuti. Intelligentissimo e coltissimo, era soprattutto dotato di una sorprendente prontezza ad afferrare qualunque questione gli fosse presentata.
Era poi un grande lavoratore; ricordo che quando io mi recavo da lui al mattino lo trovavo che era
già da qualche ora al suo lavoro, perchè si alzava e vi si metteva regolarmente alle cinque. Di studio
e professione era ingegnere delle miniere, e la sua opera in questo campo ha avuto per l'Italia una
importanza classica ; ma poi si era assimilato altre materie, e specie nel campo finanziario, nel quale
aveva già fatta esperienza come ministro nel 1862 e nel 1864. La sua benemerenza capitale nella costituzione del nuovo Stato italiano, fu appunto la rigidezza e la fermezza con cui ne amministrò le finanze nei primi, difficilissimi tempi.
Era fermissimo di carattere sempre, ma in special modo quando si trattava di difendere l'erario dello Stato. Ricordo in proposito un curioso episodio. Era allora in funzione la Commissione per la perequazione dell'imposta fondiaria presieduta dal Menabrea, la quale, volendo affrettare l'adempimento del compito ad essa affidato, prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i commissari si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei commissari, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio esclamo: - Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio, verrò a lavorare con due candele in tasca. - Bravo ! - gli rispose il Sella, - così mi risparmi anche il petrolio! - E rifiutò la piccola concessione.

Altra grande benemerenza del Sella, fu la sua insistenza, che valse moltissimo, perchè si andasse a Roma. L'opinione in proposito non era unanime nel Ministero; alcuni degli uomini più autorevoli della Destra, specie quelli di origine neoguelfa, erano titubanti; fra gli altri Cesare Correnti, contro il quale Sella si scaldava, qualificandolo «quel benedetto canonico!» La sua energia vinse le incertezze, e fu fortuna; perchè se non si coglieva quel momento chi sa quali altre difficoltà nell'interno e dall'estero si sarebbero sollevate.
Col nome del Sella si accoppia quello del Lanza, che era Presidente del Consiglio del Ministero in cui il Sella teneva le Finanze. E i due uomini si rassomigliavano molto, per la semplicità ed austerità della vita; per la grande onestà, e pel carattere dell'intelligenza. Il Lanza era meno vivo e meno ricco di pensiero e di cultura del Sella; per me egli rimane il tipo perfetto dell'uomo di buon senso, fermissimo e rettissimo. La modestia della sua vita famigliare è rimasta proverbiale; ed in questo egli era grandemente coadiuvato dalla moglie, la quale attendeva agli affari della loro piccola proprietà campagnola, mentre il marito occupava il primo posto al governo. Quando il Lanza morì il Re volle offrire alla vedova una pensione come collaressa dell'Annunziata, al cui ordine il Lanza apparteneva. Ma essa rifiutò dicendo: - "Se con quello che avevamo abbiamo vissuto in due, posso tanto meglio vivere io, ora che sono sola".


Poco dopo fui nominato capo divisione. Si ebbe una crisi ministeriale (luglio 1873); il Sella cadde e gli successe Minghetti, il quale con la Presidenza prese le Finanze. Il Giacomelli, che aveva accettata
la Direzione generale delle imposte dirette solo per deferenza al Sella, si dimise. Nel frattempo Desambrois, di Oulx, che era stato nel 1848 uno dei firmatari dello Statuto e poi Presidente del Senato, e che teneva il posto di Primo Presidente del Consiglio di Stato, senza che io l'avessi mai conosciuto mi mandò a chiamare, e mi chiese se avrei accettato il posto di referendario al Consiglio di Stato; posto che veniva lasciato da Angelo Fava, lo scrittore, che andava a riposo. Io avevo accettato; ma nel frattempo il Minghetti, dopo le dimissioni del Giacomelli, aveva offerto il posto lasciato da costui ad Enrico Pacini, il quale da prima rifiutò, rincrescendogli di allontanarsi da Firenze, ma poi finì per cedere, mettendo la condizione che io fossi Ispettore generale con lui, e Minghetti gli rispose annunciandogli di avere già mandato alla firma il decreto suo ed il mio.

Rimasi con Minghetti per tutta la durata al suo ministero, che andò dal 10 luglio del '73 al 18 marzo '76, e fu l'ultimo ministero di Destra. Ebbi quindi occasione di apprezzare l'uomo, che per molti rispetti meritava tutta la stima che gli fu tributata, e della quale rimane ancora il ricordo. Le sue qualità precipue erano una eccezionale facilità a capire subito qualunque problema, ed una straordinaria facoltà di assimilazione. Ricordo in proposito che, quando egli era alla Camera, io dovevo stare in una tribuna per essere pronto a fornirgli le informazioni e gli elementi di cui avesse immediato bisogno nella discussione parlamentare, che era allora molto vivace, ma anche concreta. Era fra noi convenuto un segnale; egli alzava un foglio rosso, ed io allora discendevo e l'incontravo nel suo Gabinetto di Presidente, e gli fornivo gli elementi tecnici che servivano per la sua risposta; e su quei dati, comunicatigli in fretta, egli svolgeva subito, e con signorile facilità, un bel discorso. Era signorile in tutto, nei modi e nella cultura, e questa sua qualità era molta parte del fascino che egli esercitava su tutti.

Aveva poi certi suoi espedienti, affatto particolari. Eccone un caso. Si stava studiando la perequazione della imposta fondiaria, ed una Commissione di venticinque Senatori e Deputati, presieduta dal Menabrea, dopo lunghi studi aveva presentato un progetto di nientemeno che centosessanta articoli. Il Minghetti mi chiamò e mi disse: - Non mi è possibile di presentare un progetto talmente farraginoso; vuole esaminarlo lei procurando di abbreviarlo e semplificarlo? - Quando poi, qualche settimana dopo, gli annunciai che il mio lavoro era compiuto, egli mi fissò un giorno ed un'ora per portarglielo. Quando mi recai all'udienza, nell'anticamera del Ministro trovai il Caneva, capogiunta del censimento a Milano, e il Baravelli, ispettore generale delle Finanze; ed allora io appresi, o meglio tutti e tre apprendemmo che lo stesso incarico era stato dato ad ognuno di noi, ad insaputa gli uni degli altri. Quando fummo ricevuti da Minghetti, il Caneva annunziò, con la sicurezza di avere compiuto un tour de force, che gli era riuscito di ridurre il progetto, dai centosessanta articoli originari a soli sessanta. Il Baravelli presentò allora il progetto suo che la vinceva su quello del collega, gli articoli essendovi ridotti a quarantacinque. - E il suo? - chiese Minghetti a me. Glie lo presentai; io avevo ridotti gli articoli a tredici in tutto. Minghetti prese il progetto mio per base, e mi incaricò di compilare la relazione per la Camera, che condussi a termine di lì a sei settimane.

Quando, con quella che fu chiamata la rivoluzione parlamentare del 1876, venne al potere la Sinistra, e Minghetti cadde, Depretis, formando il primo Ministero di Sinistra, prese il portafogli delle Finanze; segno che gli uomini più ponderati della Sinistra si rendevano anch'essi conto della preponderanza del problema finanziario, che aveva tanto preoccupata la Destra. La Direzione delle Finanze, essendo ormai finito il palazzo di sua sede, si trasferì allora da Firenze a Roma; e siccome il Pacini non volle lasciare Firenze, così io nel settembre del 1876, venendo a Roma, fui da Depretis incaricato di continuare a reggere quella Direzione. Vi rimasi circa un anno. Depretis aveva con se, quale Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri, senza però la facoltà, che fu data poi, di parlare e rispondere alla Camera ed al Senato a nome del Governo), il deputato Sesmit Doda, che gli era stato imposto dagli elementi estremi del partito.

Il Sesmit Doda era un brav'uomo, ma alquanto fantasioso «furioso» come lo chiamava Depretis; non aveva pratica di amministrazione e aveva chiamati al suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge, che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì, ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che nel dicastero «si congiurava». Io capii l'allusione, e gli risposi che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo, del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò - Dica, dica. - Allora io dissi: - Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà.... - Depretis scoppiò in una risata, e Sesmit Doda, furioso, prese il cappello e se ne andò. Io allora osservai al Depretis che in quelle condizioni di malinteso, di contrasto e di sospetto col Segretario generale non sarei rimasto, e gli presentai le dimissioni ; accettando solo, su sua richiesta, di rimanere provvisoriamente.

Pochi giorni dopo, ebbi dal Presidente della Corte dei Conti, il senatore Duchoquet, l'offerta di andarvi come Segretario generale; posto che era di nomina della Corte stessa. Depretis acconsentì, col patto che quando avesse bisogno di me mi avrebbe chiamato, come fece effettivamente molte volte, e ricordo in specie per farmi esaminare i progetti delle Convenzioni ferroviarie.
Alla Corte dei Conti rimasi cinque anni, con l'intervallo di sei mesi nel '79, quando ebbi dal Depretis l'incarico di Regio Commissario delle Opere Pie di San Paolo in Torino, la cui amministrazione era stata sciolta. Trovai allora che molti milioni erano impiegati in azioni di banche fortemente impegnate in speculazioni edilizie. Prevedendo che sarebbero finite male, come avvenne infatti pochi anni dopo, vendei tutte quelle azioni investendo il prezzo in obbligazioni ferroviarie garantite dallo Stato. E non contento di ciò feci inserire in un nuovo statuto da me proposto un articolo che proibiva l'acquisto di azioni speculative nel futuro. A mio avviso quella importante Opera Pia doveva soprattutto avere di mira la sicurezza dell'impiego, ed infatti seguendo quel sistema non ebbe mai alcun danno.

Avevo da poco tempo condotta a termine quella mia missione, quando, nel settembre del 1879 mi colpì una terribile disgrazia, la tragica morte del mio figlio primogenito, Lorenzo, di sette anni, un bimbo intelligentissimo. La mia famiglia si trovava a Chiomonte, in Val di Susa, a villeggiarvi, ed io ero andato per due giorni a Cavour. Mio figlio, giocando con altri ragazzi, al primo piano di una casa rustica, posta di fronte alla mia abitazione, non vide una botola aperta nel pavimento, e precipito nel piano di sotto, battendo la testa, e rimase morto sul colpo. Mia moglie accorse subito, lo trovò e lo raccolse cadavere ; poi mi telegrafo che il ragazzo era malato, e quando alla sera arrivai ella ebbe la forza di animo di venirmi incontro a darmi essa stessa la triste notizia e a confortarmi.
Voglio qui ricordare che per tutta la sua vita mia moglie fu per me, oltre che compagna affettuosa, un grande aiuto morale. Era dotata d'intelligenza vivissima e s'interessava assai della mia opera politica, e nelle discussioni con famigliari ed amici aveva osservazioni e motti pronti e geniali; ma nello stesso tempo manteneva il più assoluto riserbo, non cercando in alcun modo di mescolarsi nella mia azione pubblica. Preferiva che io non fossi occupato nelle responsabilità politiche e mi riposassi nella vita privata; ma ogni qual volta una responsabilità precisa si affacciava, era essa stessa la prima ad incoraggiarmi ad affrontarla ed a compiere, come uomo pubblico, tutto il mio dovere.

Alla Corte mi occupai particolarmente del controllo, esaminando i decreti che venivano dai vari Ministeri e riferendone al Presidente. Intervenivo come segretario alle sezioni del controllo e alle sezioni riunite; e in questioni di controllo stendevo io le decisioni motivate. Quel lungo lavoro, col controllo di tutti i decreti, è stato per me una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso.
Nel luglio dell'82 il Depretis mi offerse il posto di Consigliere di Stato, che accettai volentieri. La prima volta che intervenni al Consiglio, parecchi Consiglieri mancavano, ed io chiesi al Presidente che mi desse da lavorare. L'indomani ricevetti un pacco, poi ogni giorno un altro; più di un'ottantina di grossi affari. Mi misi all'opera giorno e notte, e quando dopo una settimana gli riportai l'intero lavoro finito, il Presidente della mia sezione non poteva crederlo, ed esclamava: - Ma quello era l'arretrato di tre mesi ! - Il senatore Ghivizzani che reggeva la Presidenza del Consiglio mi chiamò poi, e mi fece un elogio, aggiungendo però : - Ma per carità non lo dica, che non si venga ;a sapere che si può sbrigare in una settimana l'arretrato di tre mesi!


Poco dopo entrai nella vita politica. Già alcuni anni avanti, nel 1877, mi era stata offerta la candidatura nel collegio di Pinerolo, che allora avevo rifiutato, non volendo abbandonare la carriera. Come Consigliere di Stato ora ero eleggibile; ed essendosi aperta la campagna elettorale col nuovo scrutinio di lista, mi fu offerta la candidatura nel collegio di Cuneo, che comprendeva i tre collegi di Cuneo, Dronero e Borgo San Dalmazzo. I tre deputati uscenti, Riberi Antonio, Riberi Spirito e Ranco si ritiravano, i due ultimi andando al Senato; e Riberi Antonio scrisse una lettera agli elettori in cui, dichiarando di non presentarsi più, proponeva la mia candidatura. Era un mio vecchio amico, figlio di un bizzarro spirito, un montanaro all'antica, Martino Riberi, che faceva il mulattiere, ed era ostinato che suo figlio seguisse lo stesso mestiere, quantunque avesse un fratello distinto chirurgo, professore, senatore, medico capo nell'esercito, assai arricchito, che gli proponeva di farlo studiare a sue spese, e di lasciargli la sua fortuna; così che il figlio aveva dovuto seguire il padre nel suo mestiere, e non aveva potuto mettersi agli studi che dopo la sua morte.

Il Riberi avena agito di per se stesso, senza dirmi niente; così che la notizia della mia candidatura l'ebbi io pure da una copia stampata della sua lettera circolare, che mi fu mandata. Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano; ma non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale. Il Sindaco di Cuneo, che era il capoluogo, insistè che facessi almeno una visita al collegio; ed io gli risposi che per cortesia avrei fatto una visita a lui; partii per Cuneo, arrivando alle undici di sera; feci la mia visita alle dieci del mattino appresso e ripartii alle undici, lasciando il mio indirizzo solo a tre persone: al Procuratore del Re, antico amico; al Sindaco di Cuneo, ed al Sindaco di Dronero, mio cugino.
C'erano tre liste, ero portato in tutte e tre e riuscii capolista. Ricordo un curioso episodio; a Peveragno ebbi l'unanimità dei voti. Non capivo come fosse avvenuto, ma una mia zia, che ricordava le vecchie storie della famiglia, me ne trovò la spiegazione. A San Damiano mio nonno, che era uomo popolarissimo, teneva la sua casa aperta a tutti, e la gente di passaggio vi prendeva alloggio. Il padre del Sindaco di Peveragno vi aveva pernottato una notte con la moglie incinta, che era stata presa dai dolori e vi aveva partorito, rimanendo poi ospite oltre un mese, sino a quando si era rimessa. Il Sindaco si era ricordato d'esser nato nella casa della mia famiglia, ed aveva voluto compensarmi della antica ospitalità facendomi dare l'unanimità dei voti.

FINE DEL SECONDO CAPITOLO

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