CAPITOLO 5


LA STORIA DEL PLICO
(da pag. 99 a pag. 129)

L'incarico a Zanardelli e il suo fallimento - Crispi inizia l'azione reazionariae dittatoriale - Minacce contro di me perchè ero passato all'opposizione - Le scandalose assoluzioni nel processo della Banca Romana - Come nacque l'accusa di sottrazione di documenti e con quali scopi - Pressioni sulla Magistratura e irregolarità processuali - Perché e come presentai il plico - La relazione della Commissione dei cinque e un voto sfavorevole al Governo - La proroga della Camera ed un mandato di comparizione - Tentata violazione delle prerogative statutarie annullata dalla Cassazione - Le elezioni - Come fu sepolta la questione morale.

Come ho già detto, dopo la relazione del Comitato dei Sette, presentata alla Camera nel novembre del '93, io detti le dimissioni, non volendo, ove occorresse, difendere il mio operato dal Banco dei Ministri, ma come semplice deputato; ritenendo che un'ampia discussione si sarebbe aperta sulle conclusioni del Comitato dei Sette, che alcune cose dicevano, ma più ne lasciavano intravedere. Ciò poi non avvenne, ed è stato uno dei fatti più strani di tutta quella faccenda, che un documento, che alla sua presentazione aveva sollevato tanta tempesta ed eccitate tante passioni, fosse poi, dopo la crisi, messo a dormire.
Avvenuta la crisi, il Re chiamo anzitutto, per designazione degli uomini più autorevoli, lo Zanardelli, dandogli l'incarico, che egli accettò, di formare il nuovo Ministero. Devo ricordare che già alcuni mesi avanti, prevedendo che gli scandali della Banca, con l'inquietudine che ne era derivata nel mondo politico e parlamentare, uniti al movimento dei fasci e alle difficoltà finanziarie, avrebbero prima o dopo condotto ad una crisi, io avevo pensato che, considerata la composizione della Camera, dove la Sinistra aveva una notevole maggioranza, lo Zanardelli fosse l'uomo meglio indicato per risolverla. E glie ne avevo già parlato perchè si preparasse, e siccome sapevo che fra lui e il Re c'era una certa freddezza, avevo procurato di ravvicinarli, pregando il Re di parlargli in una occasione che si era presentata all'estate, cioè la inaugurazione di un monumento sul campo di battaglia di San Martino. Lo Zanardelli, nel cui collegio aveva luogo la cerimonia, vi prese naturalmente parte, ed il Re lo aveva chiamato a sè ed erano rimasti insieme in una lunga conversazione appunto sulla terrazza del monumento.
Dopo avuto l'incarico lo Zanardelli, nelle sue conversazioni col Re per la composizione del nuovo Ministero, gli aveva proposti per il dicastero degli esteri tre nomi, e cioè il generale Dal Verme, il generale Morselli e il generale Baratieri; il Re gli aveva risposto, che per i due primi nulla c'era a ridire, ma che per il terzo c'era da pensarci. Ma Zanardelli si ostinò appunto sul nome di Baratieri, che il Re non potè accettare, avendo ricevute, dall'estero informazioni che l'avvento del Baratieri, irredento, alla Consulta avrebbe create delle difficoltà internazionali; Zanardelli allora finì per rinunciare all'incarico.
Allora il Re si rivolse a Crispi, che formò il Ministero, chiamando Blanc agli Esteri, Sonnino al Tesoro con l'interim delle Finanze, Mocenni alla Guerra, Morin alla Marina, Saracco ai Lavori Pubblici, Baccelli alla Istruzione e Boselli all'Agricoltura. Erano degli uomini del Centro e dei tecnici senza chiara distinzione di partito, ciò che dette modo a Crispi di assumere subito un atteggiamento reazionario e dittatoriale.
Egli infatti si presentò con parole magniloquenti, come se si trattasse di salvare l'unità nazionale, mettendo in primissima linea la questione dei Fasci siciliani, ed esagerandone le minacce e i pericoli, per potere fare scomparire dietro di essa tutte le altre questioni e specie la questione morale, sollevata dalle conclusioni del Comitato dei Sette. Chiamò subito sotto le armi una classe; mandò cinquantamila uomini in Sicilia; vi stabilì lo stato d'assedio, sciogliendo i Fasci e insediandovi i Tribunali militari, che condannarono il De Felice, il Barbato, il Verro, il Bosco e gli altri capi dell'agitazione a pene mostruose. Quando io, che nei primi momenti non avevo fatto alcun cenno di opposizione al Ministero, vidi tutto questo, mi avvicinai all'opposizione, intervenendo a riunioni nelle quali si trovavano fra gli altri Cavallotti per l'Estrema Sinistra e Carmine per la Destra. Ricordo in proposito un episodio interessante che spiega parecchio di quanto avvenne poi; venne
cioè da me il deputato Macola, che era un giornalista del contorno di Crispi, ad avvertirmi che se io non mi mettevo con l'opposizione avrei evitato dei guai. Gli risposi che non potevo assolutamente mutare la mia linea di condotta, che del resto era semplicemente di coerenza politica, senza nessun motivo di ostilità personale.

Intanto il processo contro Tanlongo, e contro gli altri imputati della Banca Romana, che era stato nei mesi precedenti trascinato attraverso a lungaggini, fu varato e, con grave scandalo della opinione pubblica, finì con l'assoluzione completa di tutti gli imputati, verso i quali l'inchiesta da me promossa aveva pure provato fatti così gravi e dannosi. Fatto caratteristico, nè io nè il mio sottosegretario di Stato, Rosano, quantunque in quel processo fossero mosse le prime accuse contro di me per la presunta sottrazione di documenti, fummo chiamati, nè a dare chiarimenti, nè a presentare i documenti che pure erano già stati pubblicati.
Nè la colpevole indulgenza si arresta qui, perchè del modo con cui sia andata a finire la liquidazione della Banca, nulla di preciso si è mai saputo, il rendiconto di quella liquidazione, che era stata affidata alla Banca d'Italia, non essendo mai stato pubblicato. Si seppe soltanto che alcuni dei maggiori debitori avevano potuto liquidare la loro posizione con cifre addirittura irrisorie. E peggio ancora, mentre i responsabili e colpevoli venivano assolti, dal loro processo si traevano le fila per la persecuzione e incriminazione degli innocenti, anzi di coloro per la cui opera la scandalosa situazione della Banca era stata scoperta e constatata.

Durante il processo infatti, gli avvocati di Tanlongo e degli altri imputati, prendendo le mosse da affermazioni senza prove fatte dal Tanlongo stesso, avevano architettata la difesa sulla presunzione che il Tanlongo, per lunghi anni, avesse dovuto spendere cospicue somme, specie per incarico del Ministro Magliani, per la difesa della nostra Rendita sui mercati finanziari; e siccome non potevano addurre nessuna prova di questo loro asserto, affermavano che i documenti comprovanti esistevano, ma non si erano più trovati, e che per ciò si doveva supporre che fossero stati sottratti durante le perquisizioni fatte dalla Pubblica Sicurezza.
Partendo da queste premesse fu iniziato un procedimento contro quattro funzionari di pubblica sicurezza che avevano presieduto a quelle perquisizioni; uno dei quali era il Questore di Roma, comm. Felzani, e gli altri gli Ispettori Bo, Rinaldi e Pezzi. Qualche tempo dopo, a cose passate, Tommaso Villa, che era stato uno dei difensori, non del Tanlongo ma del cassiere Lazzaroni, mi confessò apertamente che tutta questa storia delle spese fatte fare dal Magliani, e che dovevano ascendere nientemeno che a diciotto milioni, era stata appunto architettata come espediente di difesa. E c'era un'altra prova che quei pretesi documenti sottratti erano, immaginari, fornita involontariamente dall'accusato principale, il Tanlongo, il quale nel luglio del 1893, scrivendomi dal carcere per scolparsi di avere personalmente fruito dei danari della Banca, e dichiarando di averli spesi dietro inviti di ministri, soggiungeva : - Le cose esposte risultano da documenti, a cominciare dall'incarico ricevuto dal Ministro nel 1881, giusta lettera che potrà essere resa ostensiva alla E. V. e giusta una infinita quantità di inviti direttimi da tutti i ministri. -

Ora, quando si fu al processo, il documento per la spesa di diciotto milioni con la pretesa sigla del Magliani non fu presentato, adducendosi, in contraddizione con quanto dichiarava la lettera del Tanlongo, che fosse stato sottratto. Se io fossi stato chiamato testimone al processo, avrei dunque potuto presentare la prova autentica che nel luglio del 1893, dopo le perquisizioni, non era stata ancora immaginata quella tabella firmata dal Magliani, e così sarebbe caduta una delle affermazioni che più servirono a facilitare l'assoluzione dei colpevoli e ad imbastire il processo per la pretesa sottrazione dei documenti. Si noti del resto che il supporre che un uomo della levatura del Magliani potesse con una semplice sigla autenticare un credito verso il Tesoro di diciotto milioni è cosa strana; ma anche più strano era supporre che io, che avevo combattuto a fondo il Magliani quando era in vita per la sua politica finanziaria, mi fossi poi indotto a fare commettere un reato, come quello della sottrazione di documenti, per difendere la sua memoria.

L'inscenatura del processo contro questi funzionari, per una presunta sottrazione di documenti che non esisteva, mentre che vere sottrazioni avessero avuto luogo avanti il loro arresto per parte degli
imputati stessi era dimostrato dal modo della difesa e da varie pubblicazioni, in realtà mirava a me. Questi funzionari erano intanto stati sospesi e dall'impiego e dal loro stipendio, e nei procedimenti d'istruttoria si insisteva perchè confessassero, cioè dichiarassero il falso, osservando loro che se la sottrazione era stata da essi consumata per esecuzione di un ordine mio, la loro responsabilità cadeva ed essi sarebbero stati liberati da ogni procedimento.

Per compiere una tale enormità e fuorviare la magistratura dalla retta via, si era fatta tutta una preparazione, di cui più tardi il Ministro Guardasigilli, Calenda dei Tavani, si lasciò sfuggire la confessione in piena Camera, rispondendo ad una interrogazione con la frase, rimasta celebre, che egli «aveva dovuto preparare l'ambiente». E come questa preparazione fosse stata condotta, era evidente. Infatti sotto il Ministero da me presieduto, quando si aperse l'istruzione del processo della Banca Romana, non un solo magistrato era stato mutato; e procuratore generale, procuratore del Re, giudice istruttore capo, e giudici istruttori e sostituti procuratori incaricati del processo, rimasero quali io li avevo trovati assumendo il governo, ed erano tutti funzionari chiamati dai precedenti Ministeri; e lo stesso si dica di tutti i funzionari di Pubblica Sicurezza, dal questore agli agenti, incaricati degli arresti e delle perquisizioni.
Per inscenare invece contro di me il processo della pretesa sottrazione di documenti si era ricorso ad ogni mezzo di costrizione ed intimidazione. Il Procuratore generale, il Comm. Venturini, patriota egregio e magistrato da tutti stimato, fu traslocato da Roma, ed al suo posto chiamato un altro magistrato che io non conoscevo, ma che era il solo fra tutti i procuratori generali d'Italia che avesse ragioni di rancore contro di me, perchè ai tempi del mio Ministero, essendo stato traslocato dal suo posto ad un altro dove non aveva voluto andare, era stato messo in aspettativa. Insieme al procuratore del Re erano stati mutati i giudici istruttori; ed era ad un tempo stata ordinata una inchiesta sulla magistratura affidandola a tre persone; e l'anima di questa inchiesta, il relatore, non era un magistrato, ma l'avvocato generale erariale, cioè un funzionario che dipendeva dal governo senza alcuna garanzia d'inamovibilità. Il tentativo di pressione sulla magistratura, inerente a questa inchiesta, era troppo scandaloso e andò fallito, la Commissione consulente per il personale della magistratura, composta di magistrati inamovibili, ed il Tribunale di Roma avendone ad unanimità respinte le conclusioni, dichiarando di non volere applicare nessuna pena ai magistrati censurati, perchè non la meritavano avendo sempre adempiuto al loro dovere. Il tentativo fallì, ma il fatto di quella inchiesta provò che il governo era disposto a ricorrere a mezzi illegali per agire sulla magistratura.
Gli effetti di questi mezzi, e di questa cosiddetta «preparazione dell'ambiente» erano intanto evidenti a tutti. Mentre il Codice penale vieta rigidamente di fare conoscere i risultati d'istruttoria; pare che in quel caso essa fosse condotta davanti agli occhi di tutti, ed ogni sera i giornali riferivano ciò che avveniva nel Gabinetto del giudice istruttore, e gli somministravano incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me più ostile. I funzionari accusati avevano chiesto per mezzo dei propri difensori che al loro processo fossero aggiunti i documenti del processo precedente, perchè la constatazione della mancanza di qualche documento potesse così farsi; ma tale domanda fu respinta dal giudice inquirente non ostante la sua evidente giustizia. Era questa una cosa enorme, ma era anche una evidente conseguenza della consegna secondo la quale nessun occhio profano doveva penetrare nel sacrario dei documenti della Banca Romana.

Gli accusati presentarono pure dichiarazioni giurate di testimoni che riuscivano, stabilendo degli alibi, a smentire le false accuse della loro attività per sottrarre documenti durante le perquisizioni; ma erano passati più di dieci mesi senza che alcuno di questi testimoni fosse stato chiamato dal giudice istruttore. Si ricorse insomma a tutti i mezzi contro quegli egregi funzionari, esercitando. sul loro animo ogni pressione, tenendoli sospesi riguardo alla loro sorte; allo scopo di ottenere da loro l'accusa desiderata contro di me; ma essi resistettero, perseverando a dichiarare che nulla avevano commesso, e si difesero energicamente negando nel modo più reciso ed assoluto di avere avuto mai da me ordine di sottrarre documenti, o di averne mai portati al Ministero dell'Interno.


Mentre così si stava istruendo dal giudice istruttore e dai giornali il processo per la sottrazione dei documenti, io dovetti venire a Roma per accompagnarvi mio figlio. Venne a casa mia l'ex-questore Felzani, il quale mi disse che il principale argomento che si adoperava nell'accusa contro di lui e contro gli altri funzionari di Pubblica Sicurezza, era l'affermazione che delle carte di carattere politico dovevano essere giunte al Ministero, e che non potevano provenire che da sottrazioni operate da ufficiali di Pubblica Sicurezza. Gli risposi: - Potete invocare la mia testimonianza; carte al Ministero ne sono giunte, ma non sono assolutamente state portate, e voi lo sapete meglio di me, nè da voi, nè da alcuno di quei funzionari. - Allora egli mi chiese se avrei avuto difficoltà di rilasciargliene dichiarazione per iscritto.
Per abitudine costante ciò che io dico non ho difficoltà di scriverlo, ed inoltre era chiaro il mio dovere di addurre la mia testimonianza contro false accuse che colpivano degli innocenti. E così, gli rilasciai, con la data del 25 ottobre '94, la lettera seguente:
«Ella mi informa che nel processo per la pretesa sottrazione di documenti alla Banca Romana, si adduce come argomento di accusa la circostanza che documenti relativi alla Banca Romana sarebbero giunti al Ministero dell'Interno. La autorizzo a dire essere perfettamente vero che al Ministero dell'Interno giunsero documenti, che potevano gettare luce non bella sopra qualche uomo politico, ma quei documenti provenivano da tutt'altra parte che dai funzionari di Pubblica Sicurezza; furono portati al Ministero molto tempo dopo che le perquisizioni erano finite, ed erano carte le quali non potevano in alcun modo influire sul processo della Banca Romana. »
Quella lettera la diedi perchè il Felzani la portasse al giudice, come argomento di difesa, per sè e per i suoi compagni. Portata al giudice durante il periodo dell'istruttoria segreta, essa avrebbe dovuto rimanere segreta e servire solamente al giudice, per l'accertamento dei fatti, ciò che egli avrebbe potuto fare anche interrogando me, il mio Sottosegretario di Stato e tutti quelli che potessero informare d'onde quei documenti erano venuti. Invece, non so per opera di chi, ma con la necessaria complicità del giudice, quella lettera due o tre giorni dopo fu pubblicata dai giornali, che ne trassero occasione di una campagna furiosa contro di me, come se io avessi lanciato delle accuse contro tutto il mondo politico italiano, e mi sfidavano a pubblicare ciò che io avevo. Finchè si trattò di insinuazioni di giornali, resistetti e nulla pubblicai. Ma pochi giorni dopo fu aperta la Camera, e Colajanni presentò una interpellanza sulla questione. Compresi allora che non potevo tacere più oltre, perchè la lettera essendo, regolarmente o no, diventata pubblica, vi era ormai di mezzo la dignità parlamentare.

Ma volendo, in materia così delicata procedere con ogni cautela, io credetti mio dovere di non giudicare con il criterio mio, e pregai quindi molli fra gli uomini politici più autorevoli della Camera, di darmi il loro parere; scegliendo a quest'uopo i deputati Cavallotti, Carmine, Coppino, Colombo, Damiani, Di Rudinì, Fortis, Marcora, Zanardelli e Roux, uomini che, oltre la loro autorità personale, rappresentavano tutte le parti della Camera. Il loro verdetto fu unanime, e cioè che nulla doveva restare non pubblicato. Offersi di consegnare loro i documenti perchè ne prendessero visione, ma essi mi dichiararono di non sentirsi autorizzati a questo. Interrogati poi da me personalmente questi uomini e parecchi altri della Camera, perchè mi dicessero quale fosse la forma che credevano più conveniente per eseguire quel verdetto, tutti, nessuno eccettuato, mi consigliarono di consegnare al Presidente della Camera i documenti. E nella stessa seduta in cui il Colajanni doveva svolgere la sua interpellanza, che egli ritirò in seguito alla mia decisione, io feci una breve dichiarazione, concludendo con il portare i documenti al Presidente. Questi rifiutava di riceverli, ed allora io glieli lasciai sul tavolo. Egli dichiarò, fra i rumori, che non li accettava, e che sarebbero stati deposti nella cassaforte della Camera.
Seguì una discussione accanita. Da una parte Imbriani, Cavallotti e Colajanni insistevano perchè il plico fosse aperto seduta stante, e presentarono ordini del giorno in tale senso. Dall'altra parte Crispi sostenne che i documenti dovevano essere respinti a me, e che sopra di me doveva restare la responsabilità della pubblicazione, che altrimenti sarebbe ricaduta sulla Camera. A tale tesi portarono concorso gli amici particolari di Crispi, come il De Nicolò e il Casale; e particolarmente accanito ad opporsi a riceverli fu il Bonghi, non perchè egli fosse compromesso, che anzi non c'entrava per nulla; ma per la forte ostilità politica che una parte della Destra aveva preso contro di me, sentimento a cui non partecipavano il Di Rudinì, il Luzzatti e gli altri elementi più temperati di quella parte.

Alla fine il Coppino presentò una proposta intermedia fra la lettura immediata e la restituzione a me dei documenti, e cioè che fosse eletto un comitato di cinque persone che prendessero visione dei documenti e poi ne riferissero alla Camera. A tale proposta si associarono anche il Cavallotti che ritirò la sua proposta di lettura immediata, ed il Rudinì. Si venne alla votazione; l'ordine del giorno per la restituzione, presentato dal Bonghi ed a cui si era associato il Torraca, ebbe ventisei voti favorevoli contro duecentotrentanove contrari e ventisette astenuti. Il secondo ordine del giorno presentato dal De Nicolò, perchè i documenti fossero rinviati al magistrato incaricato della istruzione del processo per la sottrazione dei documenti, ebbe la stessa sorte, e la proposta della nomina di una Commissione di cinque membri per l'esame fu approvata per alzata e seduta. Si tentò ancora di differire al giorno dopo la nomina della Commissione; ma Cavallotti ed altri si opposero, ed infine i Commissari furono votati e risultarono scelti il Carmine, il Cavallotti, il Chinaglia, il Cibrario, ed il Damiani.
I documenti da me consegnati erano accompagnati da una lettera, in cui dichiaravo brevemente le ragioni per le quali, in seguito alla pubblicazione della lettera da me rilasciata al Felzani, per dovere di coscienza e nell'interesse della verità, nella persuasione che avrebbe servito solo per l'istruttoria segreta del processo in corso, - pubblicazione fatta senza la mia partecipazione ed anzi a mia insaputa - avevo creduto necessario consegnare alla Camera, nell'intento di far cessare sospetti e scandali, le carte in mio possesso.
Tali documenti, e di ciò dette poi notizia la Commissione dei cinque, erano contenuti in sei buste sulle quali io avevo indicato sommariamente per ognuna il contenuto. La prima busta conteneva copie di una ventina di documenti esistenti nel processo della Banca Romana e sequestrati a Lazzaroni; copie che come Ministro degli Interni e Presidente del Consiglio io mi ero fatto dare, avendone diritto ed anzi dovere, per rendermi pienamente conto della gravissima situazione minacciante il credito nazionale, che derivava dalle rivelazioni delle condizioni della Banca e degli abusi consumati. Conteneva pure dieci elenchi di documenti del processo della Banca, che comprendevano ventisette pagine di scrittura. La seconda busta conteneva quattro lettere, che Bernardo Tanlongo mi aveva dirette personalmente in busta chiusa, valendosi della facoltà concessa ai detenuti dai regolamenti carcerari. Due di esse si riferivano a calcoli sulle perdite della Banca Romana per il cambio e le riscontrate. Per le altre due, io avvertivo con una nota la Commissione del modo con cui mi erano pervenute. Ed era questo: il Tanlongo mi aveva fatto chiedere se desideravo informazioni circa i rapporti di uomini politici con la sua Banca, e siccome anche tali informazioni avevano importanza per la conoscenza della situazione, io gli avevo fatto rispondere che le avrei accettate. Egli me le trasmise, a mezzo di due lettere, in piego chiuso, ed io richiamavo l'attenzione della Commissione che a quelle lettere si poteva dare fede in quanto trovassero conferma in altri atti, parendomi esse dettate in gran parte dal suo proposito di far temere scandali se il processo avesse luogo. E ricordavo al riguardo che infatti le accuse mosse in tali lettere ai miei colleghi Grimaldi e Lacava, furono poi smentite dal Tanlongo stesso nel suo interrogatorio davanti al Comitato dei Sette e nello stesso dibattito pubblico del processo, nel quale egli le dichiarò false e da lui stesso inventate per condotta di causa. Quelle due lettere, ad ogni modo, costituivano un elaborato rapporto sulle cause della crisi della Banca, sulle responsabilità di uomini politici e giornalisti in detta crisi, in relazione alle varie leggi sulle Banche d'emissione, e su altre molteplici responsabilità di vario genere.
La terza busta conteneva una lettera direttami, in data 13 maggio '93 dal Direttore generale della Banca Nazionale, Comm. Grillo e copia di un telegramma di Stato, riservato e direttomi da una autorità governativa di Milano quando ero Presidente del Consiglio. La busta quarta conteneva appunti consegnatimi durante l'ispezione delle Banche; e cioè per la Banca Romana una nota, delle cambiali giacenti in sofferenza nella Banca stessa, dal 1889 in poi, consegnatami il 25 febbraio '93 dal Comm. Martuscelli; poi tre fogli, che furono così qualificati dalla Commissione: 1° Cessione Chiara Pietro accettante a favore di Antonio Crispi; 2.° Accettazione Pietro e Nicolò Chiara; 3.° Intestazione a debito di Chiara Pietro e Nicolò, senza firma. La busta quinta conteneva, in quarantatrè fogli, copie di lettere e documenti relativi a trattative, intervenute dall'agosto all'ottobre '92 ad insaputa del Governo, per la fusione della Banca Romana con la Banca Nazionale; ciò che provava che la Banca Nazionale non conosceva le condizioni della Banca Romana. Infine la sesta lettera conteneva otto lettere di Crispi, e centodue lettere di donna Lina Crispi, dirette a persone di servizio di casa Crispi. Queste ultime lettere erano state da me suggellate a parte, con sopra scrittovi che esse erano di carattere privato, e che io avevo creduto di doverle sottrarre alla circolazione; che le depositavo per mio completo discarico, ma non credevo doversi pubblicare; criterio a cui la Commissione aderì senza discussione.

La Commissione, riferendo nella sua relazione questo esame sommario dei documenti, avvertiva poi di essersi posti vari quesiti; e cioè se nelle risoluzioni che si avessero a proporre alla Camera per eventuali pubblicazioni si dovessero escludere i nomi di persone appartenenti al Senato ed i nomi di uomini politici defunti; se essa dovesse esprimere un avviso qualsiasi sul merito dei documenti contenuti nel piego e dichiarati suscettibili d'esame, e se si dovesse procedere ad interrogatori; e che aveva concluso per tutti questi quesiti negativamente, ritenendo essere il proprio mandato limitato alla cernita dei documenti, e di non avere essa perciò veste di Commissione di inchiesta parlamentare, quale l'aveva avuta il Comitato dei Sette. Essa concludeva semplicemente con la proposta della pubblicazione di quei documenti di cui aveva fatta la cernita, e con le esclusioni contemplate nei quesiti sopraccennati. E la proposta, con quelle limitazioni, fu dalla Camera approvata.

La relazione e i documenti scelti furono infatti pubblicati e distribuiti due giorni dopo, il 15 dicembre. L' Imbriani ed il Cavallotti proposero che sulla relazione fosse aperta immediatamente la discussione; il Presidente Biancheri si oppose dichiarando che la discussione non era all' ordine del giorno, e ricordando che il regolamento prescrive che non si possa discutere una proposta che non è all'ordine del giorno, se la discussione non è decisa a scrutinio segreto con la maggioranza dei tre quarti dei votanti. Cavallotti insistè, appoggiato anche dal Di Rudinì, per la discussione immediata; Bonghi si oppose accanitamente; Crispi insorse violentemente contro la relazione. Si venne alla votazione; i tre quarti necessari per il passaggio alla discussione non furono ottenuti, ma la maggioranza risultò per nove voti favorevole alla discussione immediata; il che significava che il Ministero sarebbe stato battuto.
Allora Crispi decise di prorogare la sessione.

Ricordo che alle tre pomeridiane di quel giorno stesso, venne a casa mia un giornalista, corrispondente di giornali americani, ad avvertirmi di sapere che era stata decisa la chiusura della Camera per potere, fra l'altro, farmi arrestare, quando non fossi, per la proroga della sessione, più protetto dalla incolumità parlamentare. Io avevo già promesso a una delle mie figlie, che allora viveva a Berlino, di recarmi a passare le feste con lei; e siccome con la chiusura della Camera non avevo più alcuna ragione di trattenermi a Roma, partii la sera stessa per Berlino. Per strada, e durante tutto il viaggio in Italia, mi accorsi di essere pedinato e sorvegliato da vari agenti di Pubblica Sicurezza, che si scambiavano; ricordo che all'ultima tappa, da Bologna al confine, uno mi si presentò spacciandosi per amico di un mio collega politico, pure grande mio amico; ed a quell'agente chiesi a Verona quale fosse il migliore albergo di Trento, dove infatti andai, e fui da lui seguito. A Berlino fui ospitato da mia figlia, che con suo marito viveva nel sobborgo di Charlottenburg, mio genero essendovi occupato per studi in una grande fabbrica di materiale elettrico, la Siemens. Rimasi a Berlino circa un mese, tenendomi assolutamente in disparte, tanto che essendosi rivolti a me dei giornalisti francesi, per avere interviste presumibilmente contro Crispi, io mi rifiutai di riceverli. Mi occupai solo ad osservare il paese, e ne ebbi l'impressione di un paese molto operoso, tranquillo e disciplinato.

Alla fine di gennaio ricevetti un mandato di comparizione da parte della sezione di accusa di Roma. Infatti, nella mia assenza era stato iniziato procedimento contro di me per ogni sorta di imputazioni, dipendenti dalla presentazione del plico. Il procedimento era parte di azione pubblica, parte a querele di privati. Ritornai immediatamente in Italia, e venuto a Roma, mi presentai alla sezione d'accusa alla quale era stato avocato il processo. Senza entrare in alcuna questione di merito io eccepii l'incompetenza dell'autorità giudiziaria; sia perchè si trattava di accuse fatte a me per presunti reati commessi durante l'esercizio delle mie funzioni di Ministro; sia soprattutto perchè la presentazione del plico era avvenuta alla Camera, e non poteva fare quindi oggetto di procedimento senza il consenso della Camera stessa. Ricordo che i componenti la sezione d'accusa mi dichiararono che codesta questione di competenza l'avevano già esaminata e risolta, e non potevano cambiar parere; io risposi di essere sicuro che le ragioni da me addotte avrebbero finito di persuaderli della incompetenza dell'autorità giudiziaria. Uno dei giudici, per combinare un tranello, forse con il calcolo di fare decorrere i termini, mi disse: - Ella vuol dire che si riserva di ricorrere in Cassazione? - ma io replicai ancora che ero convinto che si sarebbero persuasi, e che probabilmente non avrei avuta occasione di ricorrere in Cassazione.

Le ragioni che io presentai, in una breve memoria al giudice istruttore, sorpassavano la mia questione personale, e toccavano le più alte prerogative costituzionali, la minaccia contro le quali costituiva indubbiamente la cosa più grave di quel periodo di violenza e di arbitrio contro la legge. Io osservavo dunque che quantunque il mio desiderio, quale privato cittadino, potesse essere di provocare il più rapido giudizio, per dissipare colla evidenza dei fatti l'ombra degli addebiti che solo la violenza delle passioni politiche aveva potuto provocare, il mio dovere quale membro del Parlamento ed ex-ministro del Re in regime parlamentare mi imponeva di non venir meno all'obbligo di non lasciare pregiudicare, con una acquiescenza passiva, quelle prerogative parlamentari che esistono in virtù del Patto fondamentale del Regno, e che sono garanzie indispensabili di indipendenza della rappresentanza del paese di fronte all'autorità politica. Riguardo all'accusa di sottrazione di documenti osservavo che lo Statuto prescrivendo che la Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli davanti al Senato costituito in Alta Corte di giustizia, tale diritto si riferisce per consenso unanime degli scrittori di diritto pubblico, e per l'esempio di tutte le costituzioni europee, agli atti ed ai fatti compiuti da una persona, nelle sue qualità di Ministro, tanto se esso è in carica quanto se ha cessato di esserlo; e che tale disposizione statutaria, anche dai trattatisti più contrari a qualunque forma di privilegio in tutto ciò che tocca la pubblica giustizia, era riconosciuta con concorde giudizio indispensabile, come non informata a privilegio, ma a necessità intrinseche delle stesse istituzioni.
Per l'altro gruppo di addebiti, riferentisi alla presentazione del plico, io richiamavo l'articolo 30 della legge sulla stampa, che era una derivazione dell'articolo 51 dello Statuto, il quale dispone che non potranno dare luogo ad azione giudiziaria le pubblicazioni dei discorsi tenuti nel Senato o nella Camera dei Deputati, le relazioni o qualunque altro scritto stampato per ordine delle due Camere. E' infatti evidente che tali manifestazioni, quali emanazioni del Potere legislativo, sono necessariamente sottratte alla cognizione ed alla censura di un altro Potere, quale è il giudiziario, altrimenti sarebbe resa impossibile qualunque libera funzione parlamentare.
Nel caso mio particolare poi, le carte che avevano dato luogo ad azione pubblica ed a querele private, erano state presentate alla Camera da parte mia, nell'esercizio della mia qualità di deputato e sotto la garanzia dell'articolo 51 dello Statuto, perchè richiesto di dare conto alla Camera di fatti compiuti in qualità di Ministro. Io avevo consegnati i documenti in plico chiuso alla Presidenza, ed era stata la Camera stessa, che respingendo la proposta che mi fossero restituiti, e l'altra proposta di trasmetterli all'autorità giudiziaria, aveva deliberato che il plico venisse aperto, e che le carte in esso contenute fossero esaminate da uno speciale Comitato parlamentare e parzialmente pubblicate. Si trattava dunque di atti, non miei personali, ma di essenziale giurisdizione della Camera, e che non potevano in alcun modo cadere sotto il controllo e la censura dell'autorità giudiziaria. La incompetenza della quale veniva anche riconfermata indirettamente dal fatto che essa non aveva potuto ottenere dalla Camera gli scritti sui quali le accuse e tutta l'azione giudiziaria doveva essere fondata. Era dunque evidente, anzi incontrovertibile, che, avendo la Camera riservato a se stessa con formale deliberazione l'esame e la decisione dell'intera materia, e delle questioni e responsabilità tutte ad essa inerenti; qualunque giudizio l'autorità giudiziaria pronunciasse su quei documenti, sulla loro autenticità ed efficacia, sulla fede che potevano meritare, sulla legittimità della loro provenienza e dell'uso che ne era stato fatto, avrebbe pregiudicato il giudizio che la Camera si era riservato, come sola competente, di pronunciare sui Ministri in carica e su quelli cessati, e sarebbe riuscito ad una invasione del potere giudiziario sul potere legislativo, e ad un controllo costituzionalmente inammissibile di fatti politici svoltisi nella Camera dei Deputati. Infine poi, dal punto di vista pratico, il processo per la presentazione di documenti alla Camera, avrebbe dovuto svolgersi intorno a documenti che la Camera aveva già deliberato di non pubblicare integralmente, anzi di tenere segreti; cosicchè l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto ragionare su documenti che non aveva visti; la difesa avrebbe dovuto procedere senza sapere di che veramente si trattasse, ed i giudici giudicare senza avere sott'occhio i documenti che si pretendeva contenere diffamazioni.

Ma la sezione d'accusa, non esitando a colpire ciecamente le più gelose prerogative legislative, ed altre prerogative statutarie senza le quali nessun governo responsabile sarebbe possibile, respinse le mie eccezioni di incompetenza. Allora io ricorsi alla Corte di Cassazione, presieduta allora dal Senatore Canonico, e detti l'incarico della mia difesa all'avvocato Cavaglià di Torino, agli on. Sacchi e Galimberti, ed all'avv. Leonida Busi di Bologna. La Corte di Cassazione annullò senza rinvio tutte indistintamente le decisioni pronunciate dalla sezione di accusa, dichiarando l'incompetenza dell'autorità giudiziaria, per giudicare, sia dell'opera di un Ministro, sia di atti compiuti nelle aule parlamentari. Ricordo che l'avvocato Busi, a cui io chiedevo quale fosse il mio dovere verso di lui per l'opera prestata, mi dichiarava: - Sono compensato abbastanza con l'avere constatato che vi è ancora giustizia in Italia. - E due anni dopo il Senatore Canonico mi diceva che durante quelle deliberazioni, Crispi si era recato personalmente a visitarlo a casa sua, per sollecitare le decisioni della Cassazione.

Intanto si era continuato a mantenere la Camera prorogata; e la proroga durò, cosa senza precedenti, per oltre quattro mesi. Il disegno di Crispi e della gente che l'attorniava, era di riuscire a ottenere una condanna contro di me prima di indire le elezioni generali, per avere il campo libero e per presentarsi agli elettori col prestigio di un tale successo, che nel loro pensiero doveva seppellire la questione morale, rimasta sempre viva, pure fra tanti contrasti e non ostante i diversivi della politica contro i socialisti e dell'inizio della impresa d'Abissinia, nella pubblica coscienza.
Ma dopo il giudizio della Cassazione, che sventava questo disegno, si dovette venire alle elezioni; la Camera fu sciolta l'8 maggio e le elezioni indette per il 26 maggio e 2 giugno del '95.

In queste elezioni il governo tentò in tutti i modi di suscitarmi contro dei concorrenti; ma tre del paese, interpellati perchè accettassero la candidatura, risposero, che non solo non si presenterebbero contro di me, ma mi avrebbero dato il loro voto. A Cuneo in quei giorni era stato mandato un nuovo prefetto perchè si occupasse in special modo delle elezioni; e dopo una quindicina di giorni che aveva preso possesso, si recò a Dronero, il capoluogo del mio collegio. Arrivando trovò alla stazione il Sindaco, l'intero Consiglio comunale e parecchi dei più ragguardevoli cittadini. Il Sindaco, a nome di tutti gli intervenuti, si rivolse al prefetto e gli tenne presso a poco questo discorso: - Se Ella viene come prefetto per visitare i nostri istituti, noi che siamo deferentissimi all'autorità, l'accompagneremo da per tutto; ma se Ella parla di elezioni noi la lasciamo sola, ed Ella non troverà in tutta Dronero nè uno che le parli nè uno che la saluti. - Il prefetto protestò che non intendeva immischiarsi nelle elezioni, ed allora fu festeggiato e condotto a visitare asili ed ospedali. Il risultato della votazione fu che all'unanimità mi mancarono solo tre voti: due dati a Crispi ed uno a Barbato. Dei due voti a Crispi, si seppe poi che erano stati dati da due ricchi del collegio, padre e figlio, che si erano allarmati della idea dell'imposta progressiva, da me proposta. L'indignazione per la lotta violenta e senza scrupoli condotta dal governo contro di me, era così forte in tutto il collegio, che votarono per me anche coloro, pochi invero di numero, che nelle elezioni precedenti avevano votato per un socialista. Il governo tentò pure di agire presso dei miei amici: al Cefaly, Crispi aveva fatto dire che non l'avrebbe combattuto nel suo collegio a condizione s'impegnasse a non ritornare sulla questione morale; al che Cefaly aveva risposto: - Ma la questione morale è appunto l'unica ragione per cui mi ripresento ! -

Il Ministero ebbe pero complessivamente la maggioranza, specie nell'Italia centrale e meridionale, dove l'opinione pubblica era particolarmente infatuata dell'impresa africana e dei vantaggi nazionali che se ne riprometteva. L'opinione e il sentimento erano assai diversi nell'Italia settentrionale, dove la corrente, sia contro la guerra, sia per la questione morale era fortissima nelle classi popolari e nei partiti democratici. Fra gli stessi conservatori le opinioni erano divise; se vi erano alcuni che menavano tutto buono a Crispi per la sua politica interna a loro grata; altri, ed erano la maggioranza, erano assai perplessi riguardo l'impresa africana, per le sue ripercussioni sulle già difficili condizioni economiche e finanziarie dello Stato e del paese, nè erano proclivi ad eccessive indulgenze per la questione morale, anche per non sfigurare di fronte ai loro avversari, i democratici, i quali, a Milano particolarmente, l'avevano posta come la questione allora capitale della vita politica italiana.

La Camera fu aperta dopo le elezioni, il 10 giugno, per pochi giorni, ed il Governo ebbe la maggioranza. Alla riapertura in novembre, furono ripresentati gli atti che riguardavano i processi iniziati contro di me. La Commissione incaricata di esaminarli, composta in grande maggioranza di amici di Crispi, si rifiutò di sentirmi, proponendo l'autorizzazione a procedere; il relatore fu il Cambrai-Digny. Quando la proposta della Commissione venne in discussione io pronunciai un discorso, che fu dalla Camera ascoltato con grande attenzione ed equanimità, nel quale feci una completa esposizione dei fatti e delle cose, e sostenendo che dato il carattere assolutamente politico degli addebiti e delle accuse che mi si facevano, solo nei miei colleghi io potevo avere i miei giudici. E chiedevo che la Camera entrasse finalmente nell'esame di merito perchè, visto che l'autorità giudiziaria, a mezzo del suo organo massimo, la Corte di Cassazione, aveva già dichiarata la propria incompetenza, solamente il Parlamento, e cioè la Camera come accusatrice, e il Senato costituito in Alta Corte come giudice, potevano pronunciarsi. La decisione d'ella Commissione di raccomandare l'autorizzazione a procedere, ciò che equivaleva a rimandare la questione davanti alla giustizia ordinaria che si era già dichiarata incompetente, portava all'assurdo.

Siccome nel mio discorso io avevo richiamata l'attenzione al fatto delle interferenze del Ministro della Giustizia d'allora Calenda dei Tavani, nei procedimenti promossi contro di me, fra l'altro cambiando tutti i giudici, il Ministro chiese la parola, e cominciò a parlare dicendo: - Naturalmente io avevo dovuto preparare l'ambiente. - La frase, che confermava involontariamente le mie accuse, sollevò un putiferio; il Calenda dei Tavani fu investito violentemente, specie dall'Estrema Sinistra, e il Presidente costretto a sospendere la seduta, e i Ministri, fra i quali Crispi non era presente, si ritirarono dall'aula. Quando fu ripresa la seduta, i Ministri rientrarono tutti, tranne quello di Grazia e Giustizia, il che provocò nuovi rumori. Prese poi la parola il deputato Torraca, mio antico avversario, il quale propose un ordine del giorno inteso a dire che della questione non si dovesse parlare più, per non turbare il paese, che aveva bisogno di tutta la sua calma per affrontare tutte le altre questioni, fra le quali vi era la guerra d'Abissinia. I miei amici, fra i quali ricordo particolarmente il Guicciardini, si opposero, sostenendo che si dovesse andare a fondo, per constatare se vi erano dei colpevoli o dei calunniatori. Questo ordine dei giorno fu appoggiato dal Ministero, ed ottenne la maggioranza, per parte mia astenendomi dal voto secondo l'impegno che avevo preso nel mio stesso discorso, col quale mi ero rimesso completamente al giudizio dei miei colleghi. E così la questione fu definitivamente sepolta, senza che io potessi dimostrare, a mezzo di sentenza, che le accuse dirette contro di me erano pure calunnie, e che io ero stato vittima di una sleale persecuzione.
* * *

L'episodio della Banca Romana, che tenne agitato per quasi due anni il Parlamento e l'opinione pubblica, per me ebbe una importanza di primo ordine perchè, rilevando le manchevolezze del nostro ordinamento delle Banche di emissione, e i gravissimi abusi che ne erano derivati, e che minacciavano il credito del paese alle sue stesse fonti, cioè nella sicurezza della moneta, dette modo di porvi rimedio. A ciò appunto io, appena le cose e i fatti vennero alla luce, indirizzai la mia opera politica in modo che riuscì permanentemente efficace. Va ricordato in proposito che, rispondendo alle interrogazioni del Comitato dei Sette, Crispi ammise pienamente di avere conosciuta, quando era Presidente del Consiglio, la relazione Biagini e il marcio della Banca Romana, e che aveva ritenuto si dovesse uscirne al più presto possibile, ma senza chiasso, trattandosi del credito nazionale, che non solo era debole all'interno, ma combattuto all'estero acerbamente, così che ogni atto che lo pregiudicasse maggiormente sarebbe riuscito fatale all'economia nazionale, e che perciò si limitò di fare da sè lo studio della Banca unica. Ma effettivamente non risulta che il Crispi qualche cosa facesse di pratico per rimediare ad uno stato di cose così gravi e che egli dichiarava essere stato a sua conoscenza.

Per quanto riguarda quella che fu chiamata la questione morale, cioè la compromissione di uomini politici in questi tristi affari delle Banche, le cose andarono in modo assai poco soddisfacente; dalla scandalosa assoluzione degli imputati del processo della Banca Romana, alle evasioni delle Commissioni parlamentari incaricate di constatare la responsabilità degli uomini politici; mentre poi, contro la verità e la legge, col pretesto di una sottrazione di documenti che poteva essere dimostrata assolutamente inesistente sino dal principio, se si fossero interrogati i testimoni citati dalla difesa, si condusse per odio politico una lunga persecuzione e si tentò di colpire chi, per ragione del suo ufficio, aveva portato alla rivelazione di quello stato di cose vergognoso e pericoloso.
Per parte mia, per quanto riguardava la responsabilità degli uomini politici, m'ero rimesso pienamente alla Camera, cui competeva di giudicare sul da farsi, dando il mio consenso alla inchiesta proposta. Se poi dovetti intervenire direttamente, con la presentazione dei documenti e degli appunti in mio possesso, a ciò fui costretto dalle circostanze. In primo luogo perchè non potevo consentire che dei funzionari incolpevoli fossero fatti vittime di false accuse, ordite allo scopo di arrivare a colpirmi personalmente; e perchè era mio debito di coscienza fare conoscere in proposito la verità. Ciò feci nel modo più riguardoso, dando ad uno dei funzionari falsamente accusati, il Felzani, una dichiarazione scritta intesa semplicemente a richiamare l'attenzione del giudice istruttore sulla necessità di sentirmi quale testimone. Fu la pubblicazione abusiva di quella lettera, sottratta alla istruttoria segreta a cui apparteneva, che mettendo a rumore il Parlamento e la stampa, mi costrinse poi a consegnare i documenti che erano in mio possesso.
Consegnandoli alla Camera, io intesi di liberarmene definitivamente, tanto che richiesto che cosa ne avrei fatto qualora, secondo le proposte di alcuni, mi fossero restituiti, dichiarai che li avrei bruciati. La Camera, a mezzo della Commissione da essa nominata per la cernita e la pubblicazione, adottò norme che ne limitarono l'uso, per ragioni rispettabili, come quella di nulla pubblicare che si riferisse a persone defunte; ed oggi io, narrando quegli avvenimenti di cui fui parte principale, mi sono attenuto al riserbo che mi ero già imposto, limitandomi ad esporre i fatti, di ragione pubblica la maggior parte, che tini concernevano personalmente e nei quali ero stato direttamente implicato.

FINE DEL QUINTO CAPITOLO

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