CAPITOLO 7


IL RITORNO AL LIBERALISMO

(da pag. 161 a pag. 184)

II ritorno alla costituzione - II Ministero di transizione Saracco - Il Ministero Zanardelli - Il completo esperimento liberale - La mia opera al Ministero degli interni - La lotta fra capitale e lavoro - Le leghe e gli scioperi agrari - La duplice lotta, contro gli estremisti alla Camera e contro i reazionari al Senato - Perchè mi dimisi dal Ministero Zanardelli.


La caduta di Pelloux avvenuta, più che in seguito ad un voto parlamentare, alla solenne manifestazione che il paese, a mezzo delle elezioni, aveva fatta contro la politica reazionaria, apriva finalmente, dopo i torbidi esperimenti reazionari, la strada al ritorno alle tradizioni liberali. Se non che, dopo un così lungo conflitto di interessi e di passioni, appariva opportuno un periodo di transizione durante il quale le passioni sbollissero e si ritornasse gradatamente allo stato normale della vita politica; e la Corona non fu male consigliata a chiamare per allora al potere, in luogo di qualcuno dei capi partito della Camera, che si erano trovati involti nella lotta, un Senatore; e la scelta cadde sul Senatore Saracco, il quale fu infatti accettato da tutti i gruppi del partito liberale nella persuasione che con lui si sarebbe rientrati nell'orbita costituzionale.

Come ho già ricordato, l'opposizione liberale costituzionale, dopo avere assistito con spirito imparziale alla lotta dell'ostruzionismo, aveva dovuto, all'ultimo, sollevarsi contro il tentativo, compiuto con la connivenza del Presidente della Camera, di modificare il regolamento con violazione delle norme statutarie e parlamentari che garantiscono le istituzioni parlamentari, dichiarando illegale, violento e nullo il procedimento che era stato seguito. Era quindi necessario anzitutto, per potere riprendere le discussioni alla Camera, ristabilire per questo verso il rispetto della legge; ed a ciò si provvide con la nomina di una Commissione, composta di sei membri da una parte e di sei dall'altra, con l'incarico di formulare di comune accordo un nuovo regolamento che fosse da tutti accettato; e così fu fatto e la spinosa questione finalmente e pacificamente risolta. Era questa precisamente la transazione che io avevo proposta, prima delle elezioni generali, al Presidente della Camera Colombo, e che questi mi aveva detto essere stata dal Pelloux respinta per consiglio di Sonnino.

Il Saracco aveva preso Visconti-Venosta come ministro degli Esteri; Gianturco alla Giustizia; Carcano all'Agricoltura; Rubini al Tesoro; Branca ai Lavori pubblici e Gallo all'Istruzione; in complesso il nuovo Ministero era liberale, con qualche elemento temperato di Destra, quale il Chimirri; e durò dal 24 giugno del 1900 al 15 febbraio dell'anno dopo. La sua breve vita fu funestata da un orribile delitto: l'assassinio di Re Umberto, consumato a Monza nel luglio del 1900. Io ne ebbi la notizia a Valdieri, dove mi trovavo ai bagni, e dove era pure in quei giorni l'Alfazio, prefetto di Milano. Il doloroso evento non ebbe alcuna influenza a modificare la politica liberale del Ministero, non ispirò nessuna idea o proposito di reazione; anzi da molti era riconosciuto come un effetto su un cervello squilibrato, della politica reazionaria seguita negli anni antecedenti.

Il regicidio colpì, in Re Umberto, un sovrano che aveva avuto vivo ed alto il sentimento del proprio dovere e che si era dedicato con spirito equanime alle cose dello Stato, ed un uomo che era stato costante esempio di bontà e di cortesia. Indubbiamente egli, che quando io l'avevo conosciuto prima come Ministro del Tesoro, poi come Presidente del Consiglio, si era sempre mostrato di spirito molto liberale ed ossequiante alla Costituzione, durante il periodo reazionario risentì l'influenza dei personaggi e dei partiti conservatori, seguendone i consigli; ma bisogna riconoscere che l'impressione di spavento e la preoccupazione per la agitazione delle masse popolari e per la propaganda e il movimento socialista erano allora comuni in tutte le classi dirigenti. Ho ancora vivo il ricordo del mio primo e del mio ultimo incontro con lui. La prima volta venni a contatto con me alla sua assunzione al trono, quando la Corte dei Conti si recò a presentargli in corpo gli omaggi. Io ero allora segretario generale della Corte ed avevo trentasette anni, ma ne dimostravo molto meno, ed il Re si rallegrò con me della mia giovinezza, al che io risposi: - Così spero di potere servire Vostra Maestà per molti anni. - Più tardi, dopo che ero stato Ministro del Tesoro, mi nominò membro del consiglio dell'Ordine Mauriziano, dove fra gli altri consiglieri, tranne il Villa, il più giovane aveva ottant'anni.
L'ultima. volta l'avevo visto dopo gli insuccessi della politica reazionaria, a Savigliano, nell'occasione dell'inaugurazione di un monumento nel suo paese nativo al generale Arimondi, morto in Africa; ed egli si era mostrato con me molto cordiale, trattenendomi a lungo a conversare. Rammento che le ultime parole in quella occasione furono queste: - Si ricordi che le sono amico.

Il Ministero Saracco poco fece, del resto, in qualunque campo, causa anche la sua breve durata; e cadde per avere prima sciolto la Camera del lavoro di Genova, col quale provvedimento si attirò l'opposizione della parte liberale e della Estrema; poi, per aver permesso, allarmato di quella opposizione, che fosse ricostituita, il che gli tirò addosso i conservatori. Nella mia opinione, come io pensavo che l'esperimento liberale dovesse compiersi sino in fondo, e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e toccava, come osservai in un discorso pronunciato durante la grande discussione che seguì a quell'avvenimento, le più alte questioni di diritto e di politica interna, soprattutto nel rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il Governo nei conflitti fra capitale e lavoro; ed a mio parere la pace sociale dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti. Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati, persisteva ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti nelle province, la tendenza a considerare come pericolose tutte le associazioni di lavoratori; tendenza che era l'effetto di scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili, e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà.

Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anzichè benevolo da parte del Governo, il cui compito invece avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini. Un Governo, che non interveniva mai, e non doveva di fatto intervenire, quando i salari erano bassissimi; non aveva alcuna ragione di intervenire, come qualche volta faceva, quando la misura del salario, per la legge economica della domanda e dell'offerta, avesse pure raggiunto una cifra che ai proprietari paresse eccessiva. Questa non era funzione legittima del Governo.
La ragione principale per cui si osteggiavano le Camere del lavoro, era appunto questa: che l'opera loro tendeva a fare aumentare i salari. Ma se tenere i salari bassi poteva essere un interesse degli industriali, nessun interesse poteva avervi lo Stato. Ciò a prescindere dal fatto che è un errore ed un pregiudizio credere che il basso salario giovi ai progressi dell'industria; salari bassi significano cattiva nutrizione, e l'operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, e i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale.
Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri contadini anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non produce.

Ad ogni modo però, a mio avviso, quando il Governo, come allora usava, interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una ingiustizia, e più ancora un errore economico ed un errore politico. Una ingiustizia, perchè mancava al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe in favore di un'altra. Un errore economico, perchè turbava il funzionamento della legge economica della domanda e dell'offerta, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Ed infine un errore politico, pierchè rendeva nemiche dello Stato quelle classi che costituiscono la grande maggioranza del paese. Il solo ufficio equo ed utile dello Stato in queste lotte fra capitale e lavoro è di esercitare un'azione pacificatrice, e talora anche conciliatrice; ed in caso di sciopero esso ha il dovere di intervenire in un solo caso: a tutela cioè della libertà di lavoro, non meno sacra della libertà di sciopero, quando gli scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare.

Ora a me pareva che a questi concetti liberali la condotta del Governo venisse meno osteggiando l'azione delle Camere del lavoro. Le Camere del lavoro non avevano per se stesse nulla di illegittimo; esse erano le rappresentanti degli interessi delle classi operaie, con la legittima funzione di cercare il miglioramento di quelle classi, sia nella limitazione ragionevole delle ore di lavoro, sia nell'aumento dei salari, sia nell'insegnamento che giovasse ad accrescere sempre più il valore della loro opera; ed io consideravo che se bene adoperate dal Governo, esse avrebbero potuto essere intermediarie utilissime fra capitale e lavoro.
E come c'erano le Camere di Commercio regolate per legge, io non vedevo alcuna ragione perchè lo Stato non potesse, anzi non dovesse disciplinare legislativamente le Camere del lavoro, mettendo così allo stesso livello, di fronte alla legge, tanto il capitalista che il lavoratore, ognuna delle due parti con la sua legittima rappresentanza riconosciuta dallo Stato. Si era per molto tempo tentato di impedire le organizzazioni dei lavoratori, temendone l'azione e l'influenza. Per conto mio io credevo assai meno temibili le forze organizzate che non quelle inorganiche, perchè sulle prime l'azione del Governo si può esercitare efficacemente ed utilmente, mentre contro i moti disorganici non vi può essere che l'uso della forza.

Ma ormai, a chi conosceva le condizioni del nostro paese, come pure le tendenze generali del mondo civile, era evidente che ostacolare l'organizzazione dei lavoratori era un compito immane. L'unico effetto di una resistenza inconsulta da parte dello Stato sarebbe stato quello di dare sempre più un fine politico a quelle organizzazioni le quali non dovrebbero avere che un fine economico nell'interesse delle classi lavoratrici.
Per il caso speciale di Genova, i conservatori portavano appunto avanti, come uno scandalo, il fatto che esso avesse assunto anche carattere politico. E questo era una ingenuità, perchè chi conosceva il movimento operaio, quale si era andato svolgendo in quegli anni specialmente nell'Alta Italia, sapeva perfettamente che gli operai avevano compreso il nesso intimo, indissolubile, che esiste fra le questioni economiche e le questioni politiche; ed a farlo loro comprendere, più che la propaganda dei loro organizzatori, aveva giovato l'azione dei Governi reazionari, dimostratasi costantemente alleata agli interessi delle classi capitaliste contro quelli delle classi popolari, sia nelle lotte fra capitale e lavoro, sia nella legislazione tributaria.

Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo. Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano con le quali il Governo doveva fare i conti. Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era moto invincibile, perchè comune a tutti i paesi civili e perchè poggiava sui principi dell'eguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di potere impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere, ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali.
Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari, si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.

Il Ministero Saracco aveva avuto il merito di chiudere la fase della reazione, di uscire dalla strada perigliosa in cui i Governi precedenti da alcuni anni si erano smarriti. Ma esso pareva ormai giunto ad un punto morto, ed episodi come quello dello scioglimento della Camera del lavoro di Genova, mostravano che lo spirito reazionario non era del tutto vinto, e che non era del tutto passato il pericolo che su quella strada noi fossimo ancora respinti; mentre a mio avviso, era ormai giunto il momento di avviarsi risolutamente sulla strada opposta. E la commozione che quei fatti produssero alla Camera, come pure lo svolgimento della susseguente discussione ed il suo esito, confermarono pienamente la giustezza dei miei giudizi, e mostrarono che i concetti da me proclamati entravano ormai nella coscienza generale.

Appena il Parlamento si riunì furono infatti presentate numerose interpellanze; e l'on. Sonnino e i suoi amici, che pure avevano sostenuto con tanto accanimento la politica dell'on. Pelloux, presentarono pure una mozione. Secondo il regolamento alla mozione spettava la precedenza. Ma siccome quella mozione, pure essendo nettamente contro il Governo, non era esplicita nei suoi termini, e perchè a me premeva, secondo i criteri sopra spiegati, che la votazione si facesse sul punto preciso di non approvare lo scioglimento della Camera del lavoro, io feci presentare dal mio amico, deputato Nicola Fulci, un emendamento alla mozione stessa, il quale emendamento, sempre per ragione di regolamento, doveva essere potato avanti la mozione. Il presidente della Camera, on. Villa, molto legato al Sonnino, insisteva nel volere dare la precedenza alla mozione, ed allora noi gli facemmo sapere che, qualora egli fosse così mancato ai doveri della imparzialità presidenziale, avremmo promosso contro di lui un voto di biasimo. Egli allora si piegò, e dopo un mio discorso l'emendamento fu votato, e il Governo ebbe una minoranza di circa duecento voti.

Seguì una curiosa commedia: il Sonnino, comprendendo che dopo quel voto la opposizione avrebbe votato contro alla sua mozione, e avrebbero pure votato contro i ministeriali, lasciandolo isolato con appena una trentina di amici, dichiarò di ritirarla. Ma l'Estrema Sinistra, d'accordo con l'opposizione costituzionale, e ad impedire ambigue interpretazioni del voto, si oppose al ritiro; le mozioni non potendo essere ritirate quando dieci deputati si oppongano. Tutti i partiti liberali dichiararono allora che avrebbero votato contro, e lo stesso fecero i ministeriali; e l'on. Sonnino e i suoi amici, ad evitare un clamoroso insuccesso, dichiararono che essi pure avrebbero votato contro la mozione da essi stessi presentata, giustificando la loro condotta con l'argomento che non ve n'era più bisogno perchè il Ministero era stato già battuto.

Seguì tuttavia la votazione, per appello nominale, con grandi dimostrazioni di ilarità ogni volta che votava contro la mozione uno dei suoi firmatari. Codesta manovra parlamentare, non ostante questa sua conseguenza alquanto comica, aveva però avuta grande importanza, in quanto aveva pienamente chiarita la situazione, dando una indicazione precisa ed assoluta. La chiamata al Governo dei liberali diventava infatti in tal modo inevitabile; e siccome la persona più in pista dei partiti liberali era lo Zanardelli, egli fu unanimemente indicato.

Saracco, attribuendo a me la sua caduta, ne ebbe sempre risentimento. Del resto i nostri rapporti erano rimasti freddi fin dal tempo del mio primo Ministero. Il Saracco tenne allora in Senato un discorso, durato due ore, in cui attaccò la finanza del Governo, criticandone ogni provvedimento. Io gli risposi subito, punto per punto, confutando le sue critiche, tranne su due o tre punti, nei quali mi dichiarai d'accordo con lui nel ritenere che si trattava di provvedimenti non utili; soggiungendo però che dovevo fargli notare che quei provvedimenti erano proprio opera sua, di quando egli era ai Lavori Pubblici. Di questa mia risposta egli fu dolente e dopo d'allora i nostri rapporti furono piuttosto freddi. Egli era del resto un uomo di molto ingegno, ma essenzialmente critico, e critico abilissimo; ma che, come gli spiriti essenzialmente critici, poco produceva per conto suo.
* * *
Appena ricevuto l'incarico, Zanardelli mi chiamò offrendomi subito di andare con lui col portafoglio dell'Interno, e chiedendomi di aiutarlo nella formazione del Ministero. Ricordo che Zanardelli abitava in un alloggetto di un suo parente, che non si prestava bene per le necessarie visite e consultazioni, ed io pregai il suo amico Picardi di mettere a sua disposizione un suo appartamento, ciò che egli fece. Le ostilità contro il Ministero in formazione non erano poche, e Zanardelli dopo tre giorni di lavoro era ormai scoraggiato, mancandogli ancora i Ministeri degli Esteri, del Tesoro e dei Lavori Pubblici, ed era in procinto di rinunciare al mandato. Io osservai che, avendo già rinunciato una volta, si sarebbe politicamente rovinato del tutto se si mostrava incapace di riuscire una seconda; gli dissi che con nove uomini di buona volontà doveva presentarsi al Parlamento per provocare un voto che mettesse in chiaro la situazione.

Il Ministero fu alla fine composto con Prinetti agli Esteri, Giusso ai Lavori Pubblici e Di Broglio al Tesoro, ed ebbe vita abbastanza lunga, durando dal 15 febbraio 1901 al 29 ottobre del 1903.
Quando ci presentammo, in realtà eravamo in minoranza; la parte più conservatrice della Camera non ci vedeva di buon occhio e i sonniniani consideravano che noi avessimo preso il posto a loro dovuto. Un primo accenno di modificazione di tale situazione lo si ebbe con l'annullamento dell'elezione di un collegio di Napoli risultata contraria al mio amico Rosano, che fu annullata per brogli. Il voto per quell'annullamento prese un carattere politico, tanto che si fece la votazione a scrutinio segreto, che dette al Ministero una maggioranza di quaranta voti. Fu poi presentata, secondo antiche convinzioni di Zanardelli, la legge sul divorzio, che provocò le dimissioni di Giusso, che non l'approvava, e che fu sostituito da Balenzano; poi il Wollemborg, ministro delle Finanze, presentò alcuni progetti di legge per modificazione dell'ordinamento tributario, ed il Consiglio dei Ministri non avendoli approvati, si dimise egli pure, sostituito da Carcano. Infine si dimise Picardi per motivi di salute ed il suo posto fu preso da Guido Baccelli.

La situazione più delicata per questo primo Ministero, interamente e francamente liberale, dopo un così lungo periodo di politica reazionaria e di politica indecisa, stava appunto nei metodi della politica interna. Noi tutti come partito, ed in particolar modo io personalmente, avevamo combattuta la politica di restrizione delle libertà, sostenendo la necessità che il paese fosse governato coi metodi liberali; ed a noi ora, venuti al potere, incombeva di fare l'applicazione integrale dei principi che avevamo propugnati.
Le difficoltà in cui il Governo, e soprattutto io, come Ministro degli Interni, ci trovavamo, erano di duplice origine; perchè da una parte i conservatori, alla Camera in parte, ma più specialmente nel Senato, mantenevano ostinatamente le loro posizioni e le loro tesi, e cercavano in ogni muover di fronda la conferma delle loro apprensioni e dei loro vaticini pessimisti; mentre d'altra parte i partiti più avanzati non si mostravano soddisfatti delle larghe concessioni ottenute ed accusavano il Governo di fare dei passi indietro, o per lo meno di non camminare abbastanza arditamente sulla via della libertà.
Avendo noi, ad esempio, riconosciuto pienamente il diritto di riunione, i socialisti e gli altri estremi ci rimproveravano quando il Governo interveniva contro riunioni convocate da scioperanti con lo scopo confessato di impedire con la violenza che lavorassero gli operai volonterosi di lavorare. Noi insomma attraversavamo allora un periodo difficilissimo per il sistema liberale, che si attuava allora in tutta la sua pienezza per la prima volta; e che da una parte urtava contro alcuni interessi delle classi più agiate, mentre dall'altra le classi lavoratrici si erano lasciate andare a speranze molto al di là di ciò che fosse possibile realizzare; e non riconoscevano i limiti dei propri diritti e della propria azione, ricorrendo ad intimidazioni e ad atti assolutamente il legali.

Noi ci trovavamo insomma nella condizione li essere da una parte accusati di lasciare troppo lento il freno e di interpretare troppo largamente le pubbliche libertà, dall'altra di essere considerati come troppo tiepidi amici dei principi liberali. Io dovetti così alla Camera pronunciare discorsi in contraddittorio con gli onorevoli Mazza, Mirabelli, Turati, osservando loro che, quando si trattava di passare da un sistema restrittivo, quale era stato usato fino ad allora in Italia, ad un sistema di uso larghissimo delle pubbliche libertà, era necessario procedere con grande prudenza, e che ciò che talvolta veniva a noi rimproverato come tiepida amicizia per i principi liberali, era invece una amicizia illuminata e sincera, per cui noi ci sobbarcavamo a prenderci certe odiosità, allo scopo di impedire che l'abuso delle libertà potesse comprometterle, e credevamo di rendere un grande servizio al paese con l'abituarlo all'uso pacifico e tranquillo di queste libertà, impedendo quelle violenze che le avrebbero compromesse.

Lo spirito della reazione certo non aveva ancora disarmato, e sarebbe stato fare ingenuamente il suo gioco e preparare per contraccolpo il ritorno alle misure restrittive, se avessimo tollerato che la libertà degenerasse in licenza, fornendo ai reazionari argomenti impressionanti per le loro tesi. Se non si voleva andare incontro al pericolo di dovere fare dei passi indietro, era indispensabile tenere il debito conto del grado di educazione politica a cui erano giunte le varie regioni del nostro paese; educazione che non si può compiere che con un lunghissimo esercizio delle pubbliche libertà. Il progresso compiuto in Italia in questo campo era evidente, ed io potevo augurarmi che esso continuasse così rapido che l'azione di chiunque dovesse poi assumersi la carica di Ministro degli Interni potesse restringersi a qualche circolare per raccomandare l'esecuzione della legge, senza la necessità di prendere ogni giorno delle grandi precauzioni, e senza essere spesso obbligato, come capitava a me, di assumere delle responsabilità che non erano certo piacevoli.

Ma nel frattempo io avevo ragione di ritenere necessaria, a tal fine, una grandissima prudenza nella stessa condotta del Governo, per giungere a tale scopo senza scosse, senza violenze, e senza passi indietro. E tanto più ciò era necessario in quel momento, dopo che alle questioni puramente politiche che prima occupavano l'opinione pubblica, si erano sovrapposte le questioni economiche e sociali, le quali, toccando interessi diretti, vivi, quotidiani, eccitavano le masse popolari assai più che le questioni politiche, con l'evidente pericolo che esse trasmodassero nel fare valere quelli che consideravano i loro diritti. In codeste discussioni i socialisti più intelligenti finivano spesso per riconoscere la validità delle mie ragioni; e ricordo che il Turati ammetteva che il nostro popolo per molti rispetti era ancora bambino, e che egli e i suoi amici erano i più interessati al mantenimento dell'ordine, allo scopo appunto di fare salvi i principi essenziali delle libertà.

I repubblicani che invece avevano scopi più politici, spesso si mostravano malcontenti dei miei metodi; ed una volta il deputato repubblicano Carlo Del Balzo, incominciando un suo discorso, dichiarò che il suo partito temeva più la politica liberale nostra, che quella di un Governo che tendesse a reazione. Ed io colsi l'occasione per rispondergli, sincerità per sincerità, che uno dei fini principali che io mi proponevo con la mia politica interna liberale, era appunto di dimostrare che il partito repubblicano non aveva ragione di essere in Italia.
Al Senato, data la sua composizione e perchè la grande maggioranza dei suoi elementi rispecchiavano necessariamente le idee e i sentimenti di una generazione anteriore, io dovevo fare la parte opposta, e difendere ad ogni momento il Governo dalla critica dei conservatori, che l'accusavano di cedere alla piazza e di non difendere con la dovuta energia i diritti stabiliti.

La verità era che certi gruppi di conservatori confondevano troppo facilmente tali diritti coi particolari interessi delle loro classi, e volevano piegare la interpretazione della legge e la politica del Governo alla difesa ad oltranza di quegli interessi. Ricordo particolarmente una lunga discussione che io dovetti sostenervi, coi senatori Arrivabene, Vitelleschi, Cadenazzi, Guarneri, Faina ed altri, che per la loro posizione sociale e la loro educazione mentale rappresentavano nettamente lo spirito dei grandi proprietari delle campagne contro il movimento delle leghe dei contadini. L'applicazione di una politica liberale ed imparziale, nei conflitti fra gli interessi delle varie classi, venendo dopo un lungo periodo di compressione, aveva inevitabilmente dato un grande impulso alle agitazioni popolari; era lo sfogo naturale di istinti, passioni ed interessi che per un lungo tempo non avevano potuto avere voce.

Queste agitazioni qualche volta passavano i limiti imposti dalla legge e dal diritto degli altri; mentre i propagandisti socialisti cercavano di sfruttare politicamente le rivendicazioni economiche. Si erano avuti, in pochi mesi, in quaranta province oltre centocinquanta scioperi agrari in cui erano stati coinvolti oltre duecentomila contadini; e in quella ampiezza e diffusione del movimento i conservatori volevano vedere soprattutto un disegno ed una organizzazione di carattere politico. Contro queste supposizioni stavano parecchi fatti; e in primissimo luogo la massima parte di questi scioperi, non solo non avevano dato luogo al minimo disordine, ma si erano composti con degli aumenti di pochi centesimi di salario e la diminuzione di qualche mezz'ora nell'orario di lavoro. Le statistiche poi, con le cifre che io raccolsi e portai nella discussione, dimostravano che i salari dei lavoratori agricoli, specie degli obbligati e dei braccianti, nelle regioni dove gli scioperi erano scoppiati e le leghe di resistenza organizzate, erano di gran lunga inferiori a quelli di altre regioni dove nessuna agitazione si era manifestata; e che in molti casi, non ostante il notevole rincaro della vita, essi presentavano diminuzioni in confronto ai salari oltre vent'anni prima constatati dalla inchiesta Jacini, e già deplorati in quella inchiesta come assolutamente insufficienti agli elementari bisogni della vita.

E si era anche potuto constatare che, negli stessi luoghi dove l'agitazione era più grave, e particolarmente nella provincia di Mantova, nella quale le leghe avevano organizzati oltre ventimila contadini; dove il contadino si trovava in diretto rapporto col proprietario le cose si erano potute aggiustare più facilmente, perchè il proprietario si mostrava generalmente assai più arrendevole; mentre le difficoltà e i conflitti si erano inaspriti dove il contadino si trovava a servizio dell'affittuario, il quale, nella sua qualità di speculatore temporaneo, non dubitava di cercare di fare un maggior guadagno abbassando di qualche soldo la mercede. Anche un conservatore di vera intelligenza e cultura economica, quale era il senatore Boccardo, riconosceva che il ribassare il salario oltre misura non costituiva nemmeno una buona speculazione per chi adopera il lavoro del contadino, perchè se questi non ha ciò che è necessario alla propria esistenza, non può dare nemmeno un lavoro utile; ma gli affittuari speculatori del Mantovano e di altre province a salari agrari bassissimi, non erano degli economisti che sapessero e volessero tener conto di queste verità generali e superiori.

E non erano nè economisti ne saggi uomini politici quei conservatori dei Senato che insistevano perchè il Governo risolvesse in loro favore ad ogni modo e con qualunque mezzo quei conflitti economici, e che presentavano particolarmente due domande; cioè che le leghe dei contadini venissero sciolte e in caso di bisogno si usasse l'esercito per fare i raccolti, quando i lavoratori persistessero nello sciopero. Per la prima io ricordai nei miei discorsi al Senato, che l'esperimento della forza aveva già dati pessimi risultati; e che lo Stato la sua forza doveva dimostrarla essenzialmente tenendosi entro i limiti della legge, senza offendere le libertà garantite dallo Statuto egualmente a tutti i cittadini.
L'organizzazione delle leghe di resistenza era legittima; nulla contro la legge potevasi accusare nei loro programmi e nella loro lotta pacifica per i miglioramenti economici; le loro domande erano pure entro i limiti della equità, perchè le misure di salario richieste erano così discrete, che con tali salari in molte parti d'Italia non si sarebbero trovati lavoratori; e se in tali condizioni il Governo fosse intervenuto contro le leghe, ciò avrebbe avuto per solo effetto di condurre le masse dei lavoratori a considerare il Governo come loro nemico, in quanto avrebbe violata la legge a beneficio di una parte contro l'altra, ed arrecando a questa danni economici gravi.

Il Governo non aveva che due doveri: quello di mantenere l'ordine pubblico ad ogni costo, e di garantire nel modo più assoluto la libertà del lavoro; e a questi doveri esso aveva pienamente adempiuto. E in quanto alla domanda, che mi faceva il senatore Faina, se il Governo sarebbe in tervenuto con l'esercito per sostituire gli scioperanti, se questi si rifiutassero di compiere i raccolti, io dichiarai nettamente che non ero disposto a seguire quella via per tre ordini di ragioni: perchè la credevo non legale; perchè la consideravo non politica, ed infine perchè non si trattava di un servizio pubblico, nessuno potendo sostenere che mietere del grano per conto di privati fosse un pubblico servizio.

C'è sempre, veramente, un interesse generale a che i raccolti non siano perduti, al modo che è d'interesse generale che gli affari si svolgano proficuamente, che le industrie procedano regolarmente e che i commerci risultino vantaggiosi, tutto questo contribuendo a formare la ricchezza nazionale. Ma si tratta però sempre di un interesse privato, tanto che se un proprietario dichiarasse di non volere mietere il suo grano o vendemmiare la sua uva, nessuno potrebbe costringerlo. Impolitico, perchè adottando il sistema di sostituire il lavoratore libero con l'esercito, il Governo prenderebbe ingiustamente parte nella lotta fra capitale e lavoro, parteggiando per il capitalista, e la moltitudine dei lavoratori ne riceverebbe l'impressione che l'esercito, che rappresenta l'intera nazione, fosse un loro nemico. Impossibile infine nell'attuazione, perchè se era stato agevole trovare nell'esercito tanti mietitori che potessero compiere quei lavori quando si era trattato dei raccolti di due o tre comuni, sarebbe invece impossibile che l'esercito fornisse tutte le braccia necessarie quando i conflitti agrari si erano estesi per molte province.

Inoltre dare ai proprietari l'illusione che all'ultimo momento essi potrebbero avere a loro disposizione l'esercito, avrebbe avuto l'effetto di farli ancora più restii a concessioni eque e ragionevoli, con l'ultima conseguenza di rendere più difficile la soluzione dei conflitti.

Codesti argomenti, la cui validità cominciava ormai ad essere generalmente riconosciuta nel mondo politico, trovavano ancora molti spiriti chiusi fra gli elementi conservatori che formavano molta parte del Senato. Tale resistenza a riconoscere le nuove necessità dei tempi, si dimostrò nell'atteggiamento preso da questi conservatori per la votazione del bilancio degli Interni. Quando la votazione avvenne io mi trovavo alla Camera, dove fui avvicinato dal mio collega Di Broglio, che ritornava dal Senato e che mi disse: - Devo darti una non buona notizia; il tuo bilancio è passato al Senato con soli tre voti di maggioranza. - Io gli risposi: - Ce ne sono due più del bisogno, - e questo non era un semplice motto di spirito, perchè in realtà le difficoltà che io avevo a fare accettare la mia politica al Senato, servivano a mostrare a quegli elementi della Camera che andavano all'eccesso opposto, l'esistenza di limiti che non potevano essere impunemente sorpassati.
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A parte la linea di politica liberale adottata e lealmente mantenuta, senza restrizioni e concessioni ai reazionari e senza dedizioni e debolezze verso gli estremisti, il Ministero Zanardelli non potè far molto nel campo della legislazione e in quello dell'amministrazione, forse anche per ragione della ormai declinante salute del suo Capo. Alcune riforme furono però condotte in porto; furono così approvate la legge per lo sgravio del dazio sulle farine; quella su gli infortuni sul lavoro e l'altra sul lavoro delle donne e dei fanciulli; fu istituito l'Ufficio del lavoro e presentata una legge per i probiviri nell'agricoltura; si provvide alla cura dei poveri colpiti di malaria o di pellagra, e si rese giustizia ad alcune eque domande dei ferrovieri. Ma le grosse questioni rimanevano sospese: quella dell'esercizio delle ferrovie, perchè le Convenzioni ferroviarie scadevano il 30 giugno del 1905, ed era necessaria una lunga preparazione sia che si volesse rinnovare le Convenzioni, sia che si preferisse addivenire all'esercizio di Stato; e quella dei trattati di commercio, che scadevano al 31 dicembre dei 1903. Vedendo che in tali materie nulla si faceva non ostante le mie sollecitazioni io colsi un'occasione che si presentò nelle discussioni della Camera per dare le dimissioni, il 21 giugno del 1903.

Vi era stata alla Camera un appassionato dibattito per una inchiesta su la marina militare, a cui il Ministero si opponeva. La votazione diede una scarsissima maggioranza ed ottenuta anche col concorso di deputati di opposizione della Destra, che erano pure contrari all'inchiesta, ma che dichiararono di dare il loro voto senza significato di fiducia. Io ritenni che dopo tale votazione il Mini
stero non avesse più l'autorità necessaria per affrontare i gravi problemi d'ordine amministrativo che si dovevano risolvere, e allo Zanardelli dichiarai il mio avviso della convenienza, in tali condizioni, che il Governo si dimettesse. Il mio consiglio non essendo stato seguito, io detti le dimissioni per conto mio. L'occasione era costituzionalmente corretta. Tornato al mio banco di deputato, non volendo fare nulla contrario ai miei antichi colleghi, votai sempre in favore del Governo.
Più tardi doveva venire in Italia lo Czar, per una visita al Re; ma i socialisti sollevarono una agitazione, proponendosi di fargli delle accoglienze ostili. Da Pietroburgo furono mandati in Italia degli agenti speciali, i quali riferirono che la sicurezza dello Czar non era abbastanza garantita, e la visita fu rimandata. Intanto le condizioni di salute dello Zanardelli si erano fatte sempre più gravi, ed egli nell'ottobre si dimise, ritirandosi nella sua villa sul lago di Garda, dove morì pochi mesi dopo.

FINE DEL SETTIMO CAPITOLO

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