CAPITOLO 8


IL MINISTERO DEL 1903
Il problema ferroviario e i trattati di commercio - La questione meridionale
Lo sciopero generale e le elezioni

(da pag. 185 a pag. 227)

La formazione del Ministero: uomini nuovi - L'invito a Turati e il rifiuto dei socialisti - Una campagna di calunnie e la tragica fine di Rosano - Inizio di riforme sociali, economiche e finanziarie - La rinnovazione dei Trattati di commercio - Perchè si addivenne all'esercizio ferroviario di Stato - Lo sciopero dei ferrovieri e la loro militarizzazione - Vasta opera di legislazione e riforme - Epidemia di scioperi; sua ragione ed effetti economici - Lo sciopero generale, come fu affrontato e suo fallimento - Le elezioni e il loro risultato conservatore - L'istituto internazionale d'agricoltura - La visita a Roma di Loubet - Mia visita a Bulow ad Homburg - Una malattia mi obbliga alle dimissioni.

 

Dopo le dimissioni dello Zanardelli (21 ottobre 1903) , e in seguito alle ordinarie consultazioni, io fui chiamato dal Re, che mi offerse l'incarico della formazione del nuovo Ministero, dicendomi che le indicazioni da parte degli uomini parlamentari erano state presso a che unanimi sul mio nome.
Nonostante questa quasi unanimità di designazione, io incontrai non poche difficoltà a compiere l'opera che mi era stata affidata. Anzitutto io dovetti pormi questo problema: - Avevo fatto parte
, sino a tre mesi addietro, del gabinetto Zanardelli nel quale avevo degli amici carissimi; ma v'erano pure dei ministri che non mi parevano assolutamente adatti alla giusta trattazione dei problemi grossi ed urgenti che il nuovo governo era chiamato a risolvere; primissimi fra i quali quelli dell'esercizio ferroviario e della rinnovazione dei trattati di commercio. Non parendomi conveniente scegliere fra coloro che sino a poco tempo prima erano stati miei colleghi, decisi di non prendere alcuno degli uomini che avevano appartenuto al Ministero precedente.
Questa decisione, dettatami dallo scrupolo di evitare qualunque apparenza di giudizio su antichi miei colleghi, suscitò invece non pochi malumori, moltiplicandomi intorno difficoltà, ostilità e guai; i quali pur troppo culminarono in uno degli episodi più tristi che ricordi la vita politica italiana.

Avevo chiamato (3 novembre 1903) alle Finanze un mio antico amico, il deputato Rosano, che era già stato sottosegretario agli Interni nel mio primo Ministero ; e che avevo avuto ragione di apprezzare grandemente, per la sua vivissima intelligenza e la sua grande onestà e delicatezza morale. Appena egli fu nominato, cominciò una campagna di attacchi furibondi da parte di alcuni giornali, specie socialisti e radicali, diretti contro di lui personalmente; ma con l'evidente scopo di combattere il nuovo Ministero alla sua stessa formazione. A pretesto di questi attacchi fu preso il seguente fatto: un certo Bergamaschi, suddito russo che viveva in Italia, era stato denunciato, al tempo delle persecuzioni di Crispi contro il movimento socialista, come rivoluzionario e proposto per il domicilio coatto. Costui si era rivolto al Rosano, come avvocato, per essere difeso; ed il Rosano aveva compilata a sua difesa una lunga memoria legale, estesa su carta bollata, e recante la sua firma; memoria che si trovava ancora negli archivi del Ministero degli Interni. I motivi addotti dal Rosano in favore del suo patrocinato, avevano persuaso il governo, ed il provvedimento minacciato contro il Bergamaschi non era stato eseguito. L'ufficio legale del Rosano aveva, in seguito a questo risultato dell'opera prestata da lui come avvocato, inviata al Bergamaschi una parcella di lire quattromila; e da questo fatto assolutamente legittimo si era preso pretesto alla campagna, accusando il Rosano di essersi fatto pagare, non come avvocato ma come deputato. Il Rosano, che era di una estrema sensibilità, si accorò talmente di questa indegna accusa, reiterata in modo violento da parte della stampa, che in un momento di sconforto si uccise. Prima di uccidersi mi indirizzò la seguente lettera:
«Caro Giolitti. - Ho avuto, devi convenirne, un coraggio superiore sinora, ma ora non resisto più. Cedo, e sono innocente: ho ignorato la lettera, non conosco il telegramma; è falso il fatto della grazia. Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine come di affetto per te!
«Bacio la mano alla tua Signora, sempre per me tanto buona; mi ricordo ai tuoi tutti, e ti stringo per l'ultima volta al cuore con affetto fraterno. Dai tu per me un saluto ai colleghi tutti di otto giorni. -Tuo Pietro Rosano » .
Questa dolorosa lettera trovata sul tavolo nella stanza della sua casa a Napoli, dove il Rosano si era ucciso, mi fu mandata dal Colosimo dopo che mi era già arrivata la notizia della sua morte. Il triste avvenimento fece una penosissima impressione non solo su coloro che avevano conosciuto il Rosano e ne avevano apprezzato sempre l'ingegno e la rettitudine, ma anche sul pubblico generale, provocando una universale indignazione sul malcostume di metodi di lotta politica che furono giustamente qualificati da molta parte della stampa come equivalenti all'assassinio.
Al Ministero degli Esteri io avevo preso il Tittoni, allora prefetto a Napoli. Anche codesta nomina dette luogo a grandi attacchi, perché pareva strano che si affidasse il Ministero degli Esteri a chi fino al momento di assumerlo non aveva avuto pratica di cose diplomatiche. Ma il fatto era che la carriera diplomatica non presentava allora alcuno che, oltre le particolari esperienze della diplomazia, possedesse le qualità necessarie per adempiere le funzioni di ministro e sostenere le discussioni richieste dal regime parlamentare, alle quali il Tittoni si era allenato nella sua carriera di deputato.
Anche contro il Tittoni furono sferrati attacchi furibondi, in base ad accuse delle quali egli, appena il Ministero si presentò alla Camera, seppe difendersi validamente. Che poi non fosse un concetto errato chiamare alle responsabilità della politica estera uomini nuovi alla diplomazia, ma che avessero già dato prova di intelligenza e capacità nel campo politico generale, lo dimostrò il Tittoni stesso, che nelle sue funzioni diplomatiche, sia come ministro sia come ambasciatore, riuscì certamente uno dei più stimati; ed anche l'esperienza susseguente ha dimostrato che, a parte qualche eccezione, riesce meglio ad un uomo parlamentare di valore di diventare un buon diplomatico, che ad un buon diplomatico di acquistare le qualità necessarie nel Parlamento.

Al Tesoro avevo chiamato il Luzzatti, in considerazione sia della sua grande competenza in materia finanziaria, sia della sua preparazione veramente eccezionale in tutto ciò che concerneva i trattati di commercio. E siccome poi la questione delle questioni, che il governo era chiamato a risolvere, era quella dell'esercizio delle ferrovie, in quanto le Convenzioni con le società private scadevano il 30 giugno del 1905, e c'era appena il tempo necessario per la necessaria preparazione, sia che si addivenisse all'esercizio di Stato, come poi accadde, sia che si concordassero Convenzioni nuove; io mi occupai di cercare una persona che avesse nella materia speciale competenza. E così chiamai ai Lavori Pubblici il deputato Francesco Tedesco, che in quel Ministero aveva compiuta la sua carriera, e che fra l'altro era
stato anche segretario della Commissione d'inchiesta sulle condizioni dei personale ferroviario, della quale era Presidente il deputato Gagliardo.

Al Ministero della Istruzione chiamai l'onorevole Orlando, che pure non era stato mai ministro. Anzi l'intero Ministero, con l'eccezione mia e dell'onorevole Luzzatti, riuscì composto di uomini che diventavano allora ministri per la prima volta; - ricordo oltre i nominati, Ronchetti alla Giustizia; Angelo Majorana, che dopo un breve interim del Luzzatti, in seguito al suicidio del povero Rosano, prese la Finanze; Pedotti alla Guerra; Rava all'Agricoltura; Stelluti-Scala alle Poste, e l'ammiraglio Mirabello alla Marina.
Del resto io ho sempre cercato di mettere alla prova del governo uomini nuovi; l'avevo già fatto nel mio primo Ministero e lo feci in tutti i miei Ministeri susseguenti; ubbidendo in ciò al criterio di allargare il più possibile il personale politico atto alla pratica degli affari e sperimentato nella realtà delle cose. Gli uomini che si danno alla carriera politica entrano nel parlamento con un certo bagaglio di idee e di dottrine derivate dai loro studi, e con l'abitudine e la capacità alla discussione critica e polemica; quello che generalmente manca loro, a parte le attitudini naturali, è la pratica del trattamento delle questioni concrete, con la conseguenza di scarsa consapevolezza dei limiti entro i quali quelle idee e quelle dottrine possono avere una ragionevole e benefica applicazione.
Agli uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le responsabilità del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verità ciò che accade, non è che essi le mutino, ma le limitino adattandole alla realtà e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente. Questa educazione degli uomini parlamentari alla pratica del governo, ha inoltre un benefico effetto sulle stesse discussioni parlamentari; ed io ho potuto sempre constatare che una assemblea politica, più contiene uomini pratici e più ha attitudine a trattare sul serio, con criteri positivi, gli affari del paese; evitando le vuote divagazioni dottrinarie.

Questo stesso concetto, di richiamare gli uomini ed i partiti alla realtà ed all'operosità pratica, mi determinò anche ad invitare l'onorevole Turati ad entrare nel mio Ministero. Io pensavo, che siccome il mio intendimento ed il programma del Governo era di continuare, senza riserve e senza deviamenti, in quella politica di libertà a cui il Partito socialista aveva sempre data la sua approvazione, fosse logico che questo Partito partecipasse al Ministero che io stavo formando. Quindi, a mezzo del Prefetto di Milano, senatore Alfazio, invitai l'onorevole Turati a venire a Roma a conferire con me. L'onorevole Turati mi rispose che una sua venuta a Roma in tempo di crisi ministeriale avrebbe provocato una quantità di chiacchiere, e che credeva più conveniente che io parlassi col Bissolati, che si trovava a Roma, e che era in tutto d'accordo con lui. Il Bissolati venne infatti da me, ed avemmo insieme una lunga conversazione nella quale io gli spiegai le mie idee e gli dissi le ragioni per le quali, a mio avviso, il Partito socialista avrebbe ben fatto a collaborare in un Ministero il quale, oltre mantenere l'indirizzo liberale già dato alla condotta del governo, avrebbe fatta anche nel campo economico una politica di aiuto alle classi popolari.

Alle mie ragioni il Bissolati, pure mostrando di apprezzarle per sè stesse, obbiettò che una partecipazione dei socialisti al potere gli pareva prematura, soprattutto perchè essa non sarebbe stata compresa dalle masse, ancora imperfettamente educate alla vita politica; e questa sua obiezione egli mantenne contro le mie insistenze, così che io dovetti rinunciare all'idea di fare entrare i socialisti nell'orbita delle istituzioni e dell'azione positiva di governo.
Io non credo che l'impressione ed il giudizio del Turati e del Bissolati sulla immaturità delle masse popolari alla partecipazione al governo, corrispondesse alla reale condizione delle cose, perchè la mia esperienza è che nelle masse il buon senso domina più che generalmente non si creda. Era però vero che anche in quel momento, come poi, una grossa parte degli agitatori, propagandisti ed organizzatori socialisti, molti dei quali di origine borghese e di cultura dottrinaria, insistevano particolarmente sui giornali e nei comizi, sulle formule rivoluzionarie e sui dogmi estremi del socialismo, ostacolando in ogni modo l'azione di coloro che sentivano l'opportunità di rivolgere le forze del partito e delle masse che ad esso facevano capo, a criteri più moderati e positivi. E ne ebbi una prova anche in quella occasione, in quanto gli agitatori più scalmanati, non solo del partito socialista, ma anche fra i repubblicani e i radicali, si proponevano di iniziare un periodo di violenza all'aprirsi della Camera.
Di questa cosa io mi preoccupai, soprattutto perchè una tale condotta da parte di elementi di Estrema Sinistra avrebbe avuto il solo effetto di giovare ai reazionari, confermando le loro accuse sui pericoli della politica liberale. Io feci quindi avvicinare alcuni degli uomini più autorevoli di quei partiti, quali il Turati, il Marcora e il Romussi, per fare loro presente questo pericolo, invitandoli a procurare che ai propositi di violenza si sostituisse un'azione seria di pensiero e di programma, fosse pure con netta opposizione al mio Ministero; ed ebbi da loro a questo riguardo le più ampie assicurazioni. Vero è che lo spirito di violenza che era diffuso in questi partiti, o per meglio dire, in una parte dei loro capi, si manifestò più tardi, conducendo all'esperimento dello sciopero generale, che fallì del tutto, e provocò anzi una reazione generale che dette pienamente ragione ai miei ammonimenti.
* * *
Presentandomi al Parlamento io riaffermai il proposito di continuare quella politica della più ampia libertà, nei limiti della legge, la cui applicazione in un periodo di tre anni aveva dati i migliori frutti, conducendo ad una larga pacificazione sociale ed apportando nello stesso tempo notevoli benefici ai lavoratori dei campi e delle officine. Ma la libertà, se è indispensabile al progresso di un popolo civile, non è fine a sè stessa; ed io insistevo particolarmente, ora che il consenso della grande maggioranza degli italiani al regime liberale era assicurato, su la necessità di iniziare un periodo di riforme sociali, economiche e finanziarie; poichè le classi meno agiate della nazione attendevano il miglioramento della loro vita da un aumento nella prosperità economica del paese.
Ho già osservato come i due problemi che in quel momento incombevano con maggior urgenza sulla vita del paese, fossero quello delle ferrovie e quello dei trattati di commercio; a questi si dovevano aggiungere l'alleviamento dell'onere del debito pubblico e la cura per il miglioramento delle condizioni economiche delle province meridionali, che più ancora che una necessità politica, dopo tante promesse fatte da successivi governi e scarsamente mantenute, doveva considerarsi come un vero dovere nazionale.

La riduzione dell'onere del debito pubblico non doveva, nel mio pensiero e nel mio programma, considerarsi come una semplice questione di bilancio. Il vantaggio di circa sessanta milioni che ne sarebbe derivato al bilancio dello Stato avrebbe dovuto darci il modo di affrontare una seria riforma tributaria, già dichiarata necessaria da ogni governo, allo scopo di sollevare le condizioni delle classi meno agiate, sia sgravando certe tasse sui consumi, sia introducendo nel sistema tributario un ragionevole criterio di progressività a favore dei piccoli proprietari. Questi concetti ottennero una larga approvazione nel Parlamento e nel Paese; e nonostante l'opposizione formalistica dei socialisti e degli altri elementi di Estrema Sinistra che pure pretendevano di rappresentare quelle masse nel cui interesse erano proposti, poterono subito essere parzialmente tradotti in leggi, con la cordiale collaborazione dei partiti liberali, che veramente seppero rappresentare in quel periodo gli interessi generali e superiori del paese.

Nell'opera più specialmente concreta di governo, la prima questione che dovemmo affrontare fu quella dei trattati di commercio i quali, come ho già detto, scadevano fra due mesi, al 31 dicembre 1903. Non trovammo in proposito la minima preparazione; ricordo anzi che quando ne parlai la prima volta con l'ambasciatore d'Austria, questi mi dichiarò che già dal mese di maggio egli aveva presentato al Ministero degli Esteri, da parte del suo governo, un progetto di trattato; e che solo alla fine di settembre ne aveva avuto notifica di ricevuta, senza alcuna comunicazione in merito. E con tutti gli altri paesi si era nelle medesime condizioni. Di fronte ad un tale stato di cose non ci fu altro da fare che concludere con grandissima fretta degli accordi provvisori, per preparare poi per l'anno dopo la negoziazione e la conclusione dei trattati permanenti.
Il lavoro per i negoziati definitivi fu poi preparato, ed i negoziati stessi condotti in modo veramente ammirevole dal Ministro del Tesoro, onorevole Luzzatti, che in tale opera potè fare valere tutta la sua dottrina e la sua esperienza. Noi ci eravamo proposti, secondo criteri che erano stati largamente discussi ed approvati dal Parlamento, di favorire in questo nuovo assetto commerciale, gli interessi più larghi dell'agricoltura, pure preoccupandoci di mantenere all'industria italiana, ancora giovane, quella ragionevole protezione che valesse ad assicurarne il consolidamento e l'incremento: e questi nostri propositi, grazie all'abilità dei nostri negoziatori furono pienamente adempiuti, procurando al paese un complesso di benefici superiori anche a quanto il governo stesso potesse sperare di ottenere nelle condizioni in cui allora si trovavano quasi tutti i paesi civili, dominati da irresistibili correnti protezioniste.
In meno di un anno noi riuscimmo stipulare i trattati definitivi con la Germania, l'Austria-Ungheria, la Svizzera e il Brasile, e ad avviare alla conclusione quelli con la Russia e gli altri paesi per noi commercialmente più importanti.

Per il problema dell'esercizio ferroviario, io, pure non pronunciandomi ancora definitivamente in favore dell'esercizio di Stato, mi resi conto sino dal principio che quale potesse essere la decisione definitiva, incombeva al governo il dovere assoluto di studiare in tutte le sue parti il sistema dell'esercizio statale, di tracciarne tutte le linee e prepararne i quadri come se ad esso si dovesse in ogni modo addivenire; essendo evidente che senza una tale minuta e precisa preparazione lo Stato, non avendo questa alternativa dell'esercizio direi o, si sarebbe trovato in condizione di assoluta inferiorità nel trattare con le Società e ne avrebbe dovuto subire le condizioni. E mi preoccupai anche di trovare l'uomo adatto ad assumere la responsabilità dell'esercizio statale; anzi ebbi ripetutamente a dichiarare in Consiglio dei ministri che non mi sarei mai assunta la responsabilità dell'esercicio di Stato, se quest'uomo non si fosse trovato. Fra i candidati presi in considerazione, l'uomo che mi parve subito il meglio indicato, sia per capacità tecnica, sia per il suo giudizio equilibrato e sicuro, fu il Comm. Riccardo Bianchi, che teneva allora la Direzione delle ferrovie sicule. E l'opera del Bianchi corrispose in tutto alla mia aspettative; e sotto la sua sapiente direzione le ferrovie italiane, consegnate dalle Società allo Stato in condizioni di deteriorazione gravissima, furono, in volgere di tempo relativamente breve, condotte ad una efficienza tale da non temere il paragone con quelle meglio organizzate degli altri paesi.

Devo anche ricordare ad onore del Bianchi, che noi, per ottenere la sua opera, eravamo disposti a fargli condizioni specialissime; ma egli, interrogato in proposito dal Ministro Tedesco, dichiarò di non richiedere emolumenti superiori a quelli che ricavava dal posto che allora occupava, posto che certamente implicava minore lavoro e minore responsabilità che non la direzione delle Ferrovie dello Stato.

Contro l'attuazione dell'esercizio ferroviario di Stato sono state levate molte ed aspre critiche, specie in questi ultimi tempi, forse per le condizioni in cui questo servizio, sia nell'aspetto tecnico e finanziario, che in quello morale del personale, è caduto dopo la guerra. Ma non è giusto fare risalire al principio ed all'attuazione, per lungo tempo sperimentata ottima, dell'esercizio di Stato, le conseguenze finanziarie e morali che sono derivate dalla guerra non solo in questo, ma presso che in ogni altro campo della vita sociale e nazionale. E bisogna pur ricordare che l'esercizio di Stato delle ferrovie durante la guerra funzionò in modo ammirevole. Nè si può dare un equo giudizio di una deliberazione, prescindendo dalle condizioni speciali in cui essa fu presa.
Il ponderoso problema dell'esercizio delle strade ferrate fu allora studiato dal governo, con la collaborazione di una Commissione parlamentare ottimamente scelta, senza alcun preconcetto, e tenendo conto di tutti i complessi elementi, materiali e morali, di cui era composto. E di due punti particolarmente dovemmo tener conto: delle condizioni tecniche in cui le ferrovie si trovavano, e delle condizioni morali del personale. Per il rispetto tecnico le ferrovie erano ormai state ridotte a condizioni deplorevoli; le Società esercenti avevano seguita quella pratica che nelle campagne toscane si chiama del «lascia-podere», sfruttando le reti e il materiale ferroviario sino agli estremi, e lesinando sino all'inverosimile nelle manutenzioni.

Tale condotta aveva anche essa le sue ragioni, nell'incertezza in cui le Società si trovavano riguardo al rinnovamento o meno delle Convenzioni ferroviarie ed alle condizioni in cui avrebbe potuto avere luogo; ma pertanto l'effetto di tale politica di aspettazione era questo, che nei calcoli più modesti non sarebbe occorso meno di un miliardo per rimettere le ferrovie in assetto tale da corrispondere al crescente sviluppo della vita economica del paese. Questa enorme somma avrebbe dovuto essere spesa dallo Stato; e nessuno può non rendersi conto delle complicazioni e difficoltà che sarebbero risultate dalla coincidenza di questa grossa spesa patrimoniale, spettante allo Stato, con l'esercizio privato delle ferrovie. Nè meno gravi si presentavano le difficoltà e complicazioni che risultavano dallo stato d'animo del personale, ormai irreparabilmente estraneo dalle Società; estranietà del quale la maggiore responsabilità risaliva alle Società stesse, che non avevano trattato con equità i loro dipendenti, come il governo stesso ed il Parlamento avevano già potuto constatare.

Conviene fra l'altro ricordare che le Società, nonostante le replicate istanze del personale, si erano sempre rifiutate di stabilire delle norme generali e precise per le nomine e le promozioni; e la questione aveva dato luogo a conflitti così minacciosi che già i governi precedenti avevano dovuto nominare una Commissione d'inchiesta sulle condizioni fatte dalle Società al loro personale. Questa Commissione presieduta, come ho detto, da un uomo di grande equità e moderazione, quale era il deputato Gagliardo, e di cui era segretario l'on. Tedesco, dovette constatare che in realtà il trattamento fatto al personale delle ferrovie non rispondeva alle elementari norme di equità, e propose una serie di provvedimenti che correggessero le ingiustizie più palesi e stridenti. Ma nulla fu realmente fatto, e i conflitti fra personale e società continuarono inasprendosi sempre più; tanto che io stesso, quando ero Ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli, proposi di chiamare a Roma i rappresentanti del personale, che aveva allora costituito il Fascio ferroviario, per sentire le loro ragioni. Una Commissione di ferrovieri venne e fu ricevuta da me insieme con lo Zanardelli; e dopo un lungo colloquio ne ricevemmo entrambi la chiara impressione che molte delle loro lagnanze fossero pienamente giustificate e che per considerazioni di equità qualche provvedimento fosse richiesto.

Ma le Società resistevano a qualunque concessione, adducendo sempre che il loro contratto stava per scadere, e che esse non potevano assumere impegni se non quando sapessero se le Convenzioni sarebbero state rinnovate, ed a quali condizioni. I conflitti in seguito a questa resistenza si moltiplicarono; ed infine i ferrovieri, lasciandosi trascinare dagli estremisti, a cui la resistenza delle Società faceva buon gioco, minacciarono lo sciopero generale. Pure non disconoscendo che i ferrovieri avevano giuste ragioni di lagnanze, il Governo non poteva permettere che le conseguenze di un conflitto di una particolare categoria si ripercuotessero in un danno generale del paese, quale sarebbe derivato dallo sciopero dei grandi mezzi di trasporto.

Io allora escogitai, per evitarlo, un mezzo che si dimostrò efficacissimo. Considerando che una fortissima percentuale del personale ferroviario aveva ancora l'obbligo militare, io proposi precisamente la militarizzazione dei ferrovieri, la quale assoggettando alla disciplina militare tutti coloro che erano iscritti ai quadri dell'esercito, rendeva lo sciopero impraticabile, ed assicurava il servizio. Di questa mia idea io non parlai che col Presidente del Consiglio, essendo evidente che perchè la cosa potesse riuscire senza provocare disordini, bisogna procedere con la massima segretezza, in modo che il provvedimento giungesse affatto improvviso e inaspettato. Messomi d'accordo con lo Zanardelli, scrissi io stesso i dispacci con cui l'ordine della militarizzazione era comunicato ai Prefetti, facendoli poi cifrare da persona di mia assoluta fiducia, premendomi di ottenere che in tutta Italia, e simultaneamente fosse fatta l'intimazione personale della militarizzazione a tutti i ferrovieri, applicando loro le stellette, simbolo della appartenenza all'esercito.

La cosa riuscì benissimo, tanto che il mio capo di gabinetto e lo stesso Sotto segretario al mio Ministero non ne seppero nulla sino a quando non lessero, affisso alle cantonate, l'ordine della militarizzazione. Prova questa che un segreto è bene mantenuto quando ad averne conoscenza non sono che in due, poichè altrimenti non è più possibile stabilire la responsabilità della divulgazione. Non ostante la novità del provvedimento non si ebbero resistenze e conflitti, tutto procedendo nel modo più tranquillo ed ordinato; ma un provvedimento simile aveva un carattere eccezionale, tale da non doversene abusare. Così, pure essendo sempre mantenuto in riserva, esso non fu più applicato; nemmeno quando, appunto nel 1904, i ferrovieri scioperarono, non trattandosi però di uno sciopero proprio, ma della loro adesione ad uno sciopero generale, al quale io credetti conveniente, per ragioni che dirò più avanti, di lasciare libero sfogo.

Di queste condizioni del momento, tecniche e morali, bisognava tenere conto per la soluzione del problema ferroviario; ed esse tutte concorrevano a rendere assai difficile e forse impossibile la rinnovazione di Convenzioni per l'esercizio privato. Conviene poi aggiungere che quel problema veniva a coincidere con un momento decisivo della vita economica nazionale, la quale, a sicuri segni, si avviava verso un grande incremento. Ora di questo incremento i grandi mezzi di comunicazione erano uno degli strumenti ad un tempo più necessari ed efficaci; ed il Governo sarebbe incorso in una vera responsabilità storica trascurando di considerare il problema ferroviario sotto questo aspetto e in connessione con l'intera economia nazionale. E la nostra principale preoccupazione, adottando il principio dell'esercizio di Stato, fu appunto di dare alle ferrovie un assetto che corrispondesse alle nuove ed aumentate esigenze dell'economia del paese.

L'anno di lavoro parlamentare e legislativo, che intercorse fra la formazione del mio Ministero e lo scioglimento della Camera, fu assai operoso e fecondo. Il programma con cui il mio governo si era presentato, era stato da molti criticato come troppo vasto e contenente troppi impegni e promesse; ma si potè poi constatare che, in meno di un anno, tutti gli impegni e le promesse che dipendevano dall'azione del Governo, furono adempiuti e mantenute, e che anzi per certe parti l'opera legislativa ebbe uno sviluppo ancora più ampio che in quel programma non fosse indicato. In circa sei mesi di lavoro parlamentare, oltre alla regolare approvazione di tutti i bilanci, e di un gran numero di leggi di secondaria importanza, si approvarono le leggi che provvedevano alla trasformazione economica della Basilicata, al risorgimento industriale di Napoli, alla trasformazione dei prestiti del Mezzogiorno continentale ed a rendere possibile la pronta costruzione dell'acquedotto delle Puglie; si approvò la radicale modificazione della legge sulle Opere Pie, intesa ad assicurare una efficace tutela di quel vero patrimonio dei poveri e la sua destinazione ad usi più conformi alle mutate esigenze dei tempi; si rinnovò la legislazione sulla Sanità pubblica, intensificando la cura della malaria e della pellagra ed affermando per la prima volta il dovere dei proprietari di provvedere di sane abitazioni i lavoratori della terra; si provvide alla Scuola primaria ed ai maestri elementari con larghezza ignota a tutte le leggi precedenti, facendovi concorrere lo Stato con otto milioni all'anno; si estese a favore delle Società cooperative, operaie ed agricole il diritto di concorrere agli appalti dei lavori pubblici; si tolse al potere esecutivo, riservandolo al potere legislativo, il diritto di modificare i ruoli organici delle pubbliche amministrazioni; si migliorarono grandemente, con la spesa di molti milioni gli organici delle amministrazioni Postali e Telegrafiche, e di quelle delle Finanze e del Tesoro, dei Lavori Pubblici, della Magistratura, del Ministero degli Affari Esteri, degli ufficiali inferiori dell'esercito, delle biblioteche e della amministrazione carceraria.
Si provvide inoltre a migliorare le condizioni della cassa per la invalidità e vecchiaia degli operai; si istituì quella per gli impiegati dei Comuni; si stabilirono le pensioni per gli operai della manifattura dei tabacchi, e si provvide pure ai veterani della guerra dell'indipendenza.

Si fissò per un quadriennio un razionale piano di lavori pubblici, s'introdusse nella nostra legislazione penale il principio salutare della condanna condizionale, e si iniziò una radicale riforma del sistema carcerario con l'ammettere i condannati al lavoro all'aperto e con la trasformazione dei riformatori per i minorenni da luoghi di pena ad istituti di educazione ed istruzione; oltre a molte cose minori, come il riordinamento della finanza di Roma; i provvedimenti a favore dell'industria enologica ed agrumaria, reprimendo nello stesso tempo e in relazione ai trattati di commercio, la frode nella produzione e nel commercio dei vini; il disciplinamento della navigazione di cabotaggio, il perfezionamento dei sistemi di pesca marittima, con salutare miglioramento delle condizioni dei pescatori; la concessione di notevoli agevolezze alle industrie che usano il sale e lo spirito, e così via.

Questa seria e feconda operosità legislativa, veniva però continuamente turbata da agitazioni nel paese, e da retoriche declamazioni nel Parlamento, provocate dagli estremisti, che comprendevano non solo i socialisti, ma anche elementi radicali. Ma per bene comprendere tale situazione e le sue ripercussioni e conseguenze politiche, è necessario fare anzitutto una distinzione.
La comune e primaria forma di queste agitazioni, erano gli scioperi, i quali, a parte che per se stessi non uscivano affatto dall'ambito della legge, avevano anche, nell'aspetto economico, ragionevoli giustificazioni. Il periodo della politica reazionaria, prolungatosi circa sette o otto anni, con la compressione che esercitava sulle masse operaie ostacolandole nell'esercizio dei diritti di riunione e di associazione, aveva avuto fra l'altro la conseguenza assai grave di turbare il libero gioco delle forze economiche, nella domanda ed offerta di lavoro e di salari. Questo turbamento si era prodotto necessariamente a danno delle classi popolari; ed era quindi naturale e legittimo che queste classi, ricuperando nel regime di libertà il pieno esercizio di quei loro diritti, ne profittassero per ristabilire un più equo equilibrio nei salari. L'arma, per sé stessa legittima assolutamente, a cui queste classi ricorrevano per migliorare le proprie condizioni, era quella dello sciopero.

Ma siccome, sia nel campo industriale sia in quello agricolo, vi era una infinita varietà nelle condizioni dei salari, da industria ad industria, e da regione a regione; si produceva, per così dire una specie di rotazione degli scioperi; gli operai mettendosi in sciopero da provincia a provincia, da comune a comune, da industria ad industria e infine da azienda ad azienda, per ottenere i vantaggi e le concessioni già ottenute dai loro compagni in altre aziende, industrie e province, in forza della legge economica per cui il tenore di vita e la misura dei salari tende a perequarsi. Gli scioperi erano dunque continui; ricordo un momento in cui ce n'erano oltre ottocento ad un tempo. E fin qui nulla vi era di male e di anormale; per quanto queste agitazioni e queste lotte economiche potessero deplorarsi per il danno generale che arrecavano alla produzione, esse rappresentavano una condizione inerente allo stesso sistema economico, ed avrebbero finito per sedarsi, o almeno diminuire assai d'intensità e di frequenza, quando un nuovo assestamento nel regime generale dei salari fosse stato raggiunto. Sfortunatamente su questo fenomeno economico, legittimo e naturale, si era innestato, per opera di una minoranza esigua ma facinorosa, un fenomeno di agitazioni politiche, artificiale e per nulla giustificato. Gli estremisti del partito socialista, insieme ad altri elementi anarchici e rivoluzionari, lavoravano costantemente a spingere gli scioperanti alla violenza, provocando così continuamente l'intervento della forza pubblica, in corrispondenza ai criteri ripetutamente affermati dal Governo; il quale si sentiva egualmente impegnato a riconoscere la libertà di sciopero e la libertà di lavoro, contro la quale specialmente le minacce e le violenze erano dirette.

Assolutamente fermo nel concetto che fosse dovere del Governo di assicurare, nelle lotte per i salari, il libero gioco delle forze economiche, il quale solo può determinarne la misura giusta e compatibile con le condizioni generali dell'economia del paese; io non potevo nè usare della forza pubblica in favore dei padroni contro gli scioperanti, nè permettere che questi ostacolassero e impedissero, con le minacce e le violenze, la libertà del lavoro, perchè l'uno o l'altro abuso avrebbero avuto l'eguale effetto di creare condizioni artificiali, che riuscendo insostenibili avrebbero portato inevitabilmente a nuovi conflitti. Per cui, mentre non ascoltavo i reazionari, i quali, spaventati dalla moltiplicazione degli scioperi avrebbero preteso di ritornare al regime di provvedimenti eccezionali, dall'altra parte usavo delle forze dello Stato per proteggere quei lavoratori che non volevano partecipare agli scioperi, e assicurare i proprietari nei loro diritti contro le violenze degli scioperanti.

Contro codesto intervento regolatore dello Stato insorgevano gli estremisti, i quali avrebbero preteso che la forza pubblica fosse affatto assente nei conflitti fra capitale e lavoro; il che equivaleva a richiedere che fosse lasciato libero corso alla violenza da parte degli scioperanti, quando questi avessero creduto opportuno di usarla; e colla quale, come avviene sempre in tali casi, si sarebbe mescolata quella dei delinquenti comuni. L'assurdità di queste pretese, che confondevano il regime di libertà, a cui il Governo si manteneva fedele senza titubanze e senza riserve, con la pura e semplice anarchia, era evidente a tutti; ma ciò non toglieva che, ogni qual volta l'intervento necessario della forza pubblica, o per meglio dire la violenza degli scioperanti eccitati dagli estremisti, portava a qualche doloroso episodio, sia pure secondario, i deputati socialisti, disconoscendo tutta l'opera compiuta dal Governo per la libertà ed a favore delle classi popolari, recassero in Parlamento continue proteste, sostenendo le pretese degli estremisti contro l'uso della forza pubblica per la protezione dei diritti di ogni parte.

Cosa ancora più curiosa, alle proteste dei socialisti si accodavano anche parecchi deputati radicali, di un partito cioè che poco tempo dopo doveva pure assumersi tutte le responsabilità di governo. Vero è che non erano sinceri in questo loro atteggiamento, nè gli uni nè gli altri. I deputati socialisti, che per il loro formalismo d'opposizione votavano in Parlamento anche contro le leggi presentate a favore delle classi popolari, si lasciavano così rimorchiare dagli agitatori rivoluzionari per timore che questi prendessero il loro posto nell'animo delle folle; mentre poi quei radicali, qualcuno dei quali era mio amico personale e fu poi dopo ministro, nell'assumere tali atteggiamenti ubbidivano soprattutto a preoccupazioni elettorali e rispecchiavano le condizioni di alcune province nelle quali il radicalismo aveva ormai fatto il suo tempo, così che essi vedevano le loro posizioni minate dalla concorrenza dei socialisti, e cercavano di ammansirli.

Questi conflitti economici per se stessi inevitabili e non illegittimi nè pericolosi, per ragione dello sfruttamento politico che cercavano di farne i partiti estremi, mantenevano il paese, e soprattutto le masse popolari, in un perenne stato di irrequietezza. Il governo da una parte non poteva cedere alle intimazioni degli agitatori e dei rivoluzionari e venir meno in qualunque modo al suo dovere di difesa dell'ordine pubblico e dei diritti di ogni categoria di cittadini; dall'altra gli agitatori, non riuscendo nei loro intenti di intimidazione e temendo di perdere il proprio prestigio sulle masse, erano spinti ad esagerare le loro minacce. Le masse, che pure dal regime di libertà avevano tratto, tanto nelle officine che nei campi, larghissimi benefici materiali e morali, non erano però ancora educate a tale regime tanto da rendersi pienamente conto dei limiti che il diritto di ognuno trova nel diritto degli altri, ed a resistere con reale consapevolezza dei loro migliori interessi alle nuove tirannie che sorgevano dal basso; nè alla libertà erano sufficientemente educate le stesse classi agiate, le quali non avevano ancora abbastanza compreso che in un regime di libertà non si può e non si deve attendere ogni cosa dal Governo, ma occorre pure una vigorosa azione di resistenza da parte di tutti i cittadini per la tutela dei legittimi loro interessi.

In tali condizioni di incertezza morale, era evidente che prima o dopo si doveva venire ad un qualche episodio risolutivo; e che, pure senza augurarsene l'avvento, si poteva e doveva attenderlo con calma e fermezza nella fiducia che avrebbe servito di ammaestramento all'una e all'altra parte. Per cui io non mi preoccupai affatto quando gli estremisti si decisero a cogliere un pretesto per provocare quello sciopero generale, la cui minaccia incombeva, con una paurosità per me non giustificata, da parecchi mesi sulla vita del paese. Il pretesto fu trovato in un piccolo conflitto scoppiato fra scioperanti minatori e la forza pubblica in Sardegna. Gli scioperanti avendo aggredito la forza che proteggeva i pozzi delle miniere, questa dovette fare uso delle armi, e ci fu un morto. Come protesta per questo incidente fu proclamato lo sciopero generale. E lo sciopero quella volta fu veramente generale, avendovi aderito anche i ferrovieri; tanto che essendo in quei giorni nato a Racconigi il Principe ereditario, e dovendo io andarvi per l'atto di nascita quale notaio della Corona, fui costretto a viaggiare su un treno speciale, composto di una macchina e di un vagone, e a fare un lungo giro per evitare i punti in cui i ferrovieri, come ad Alessandria ed in altri centri più spiccatamente socialisti e sovversivi, avevano interrotto il passaggio.

Con tutto questo era fermissima in me la persuasione che quel movimento fosse di carattere effimero, e mancasse di base; e in questo senso telegrafai ai prefetti, osservando che trattandosi di una agitazione che non aveva alcuna ragione nè in una grande questione economica nè in una grande questione nazionale, non poteva avere che una brevissima durata, e che quindi lo considerassero con calma e senza soverchie preoccupazioni. Tale mio convincimento reiterai nei dispacci con cui informavo il Re giorno per giorno dello svolgersi degli avvenimenti. Si ebbero qua e là episodi di violenza, ma di carattere secondario, specialmente a Genova, dove io passai la direzione della sicurezza pubblica nelle mani del generale Del Magno, comandante della piazza, mandandovi anche tre navi da guerra; ed a Napoli, dove inviai pure due navi da guerra e due reggimenti di cavalleria. Il Consiglio dei Ministri deliberò pure la chiamata di due classi e la militarizzazione dei ferrovieri, per il caso che la situazione si aggravasse, ed io preparai i due decreti relativi, tenendoli però in riserva.

La mia linea di condotta fu, insomma, che lo Stato fosse preparato a qualunque evento, senza però ostentare prematuramente la sua forza, che doveva essere usata solamente quando apparisse veramente necessario, il che non avvenne.

Le mie previsioni ottimiste infatti si avverarono, totalmente, perchè lo sciopero non potè durare che pochissimi giorni. Esso si esaurì per stanchezza, e i primi a stancarsene furono gli scioperanti stessi, i quali, rendendosi a poco a poco conto della mancanza di vere ragioni che giustificassero e i loro sacrifici e il turbamento recato alla vita, generale del paese, cominciarono un po' da per tutto a ritornare al lavoro. Le classi borghesi, che da principio si erano assai spaventate, come avviene purtroppo frequentemente per qualunque minaccia, quando ebbero visto finalmente in faccia questo spauracchio dello sciopero generale, di cui si era parlato con tanto allarme prima di conoscerne i reali effetti, ed ebbero constatato che non produceva i guai temuti, si rinfrancarono.

Gli stessi elementi rivoluzionari finirono per comprendere che questo strumento, che poteva parere così terribile sino a quando si limitavano a parlarne ed a minacciarne l'uso, alla prova dei fatti si era rivelato pressochè innocuo, e tale da mettere forse in maggiori imbarazzi chi lo usava che quelli contro i quali era diretto. L'impressione del fallimento fu generale; anche quelli che erano stati più spauriti ed avevano domandato mezzi straordinari per fare fronte alla minaccia, si persuasero dopo, ad esperimento compiuto, che l'averla affrontata con tanta tranquillità era stata una delle principali ragioni del suo fallimento. La sincera e logica pratica della politica di libertà acquistava così un nuovo merito con la distruzione dello spauracchio e del mito dello sciopero generale, la cui minaccia aveva per così lungo tempo turbato lo spirito del paese.

I deputati socialisti, e gli altri della Estrema Sinistra che si erano uniti a loro per provocare e proclamare lo sciopero, quando si accorsero che cessava di per se stesso, si affrettarono a proclamarne la fine. Poi indissero e tennero una riunione nella quale deliberarono di chiedere la immediata convocazione del Parlamento. Siccome la Camera era già prossima a compiere i suoi cinque anni di vita, ed avrebbe dovuto essere sciolta in tempo non lontano, io risposi che, invece di convocare i deputati ritenevo più opportuno convocare gli elettori, per dare loro modo di esprimere il loro giudizio sulla politica del Governo, ed anche perché giudicassero quei partiti e quegli uomini che avevano provocata quella inutile e dannosa interruzione nella vita normale del paese. Così io proposi alla Corona lo scioglimento della Camera e la Camera fu sciolta (18 Ottobre 1904)

Ad evitare qualunque falsa impressione, nella relazione per lo scioglimento della Camera io riaffermai chiaramente la volontà liberale del Governo, dichiarando che il Ministero non avrebbe mutata una linea al programma seguito dal febbraio 1901 in poi, cioè della più ampia libertà per tutti nei limiti della legge. La fede nella politica liberale non poteva, nel mio pensiero, essere scossa dalle violenze di una esigua minoranza che tutto il paese aveva disapprovate. Quelle violenze anzi avevano dimostrato che la libertà era sopra tutto temuta dagli elementi rivoluzionari, i quali in un regime libero perdono ogni ragione di essere, e perciò ogni prestigio. Ricorrendo infatti allo sciopero generale, che fra l'altro impediva alla voce della opinione pubblica di farsi sentire, costoro avevano dimostrato coi fatti che per acquistare l'ambito predominio, erano costretti a sopprimere ogni libertà, compresa quella della stampa, per la impotenza in cui erano di sostenere col ragionamento le loro assurde pretese. Il Governo manteneva quindi intatto il suo programma di libertà, che trovava vivaci oppositori appunto nei due partiti estremi, di destra e di sinistra; avendo illimitata fiducia nel senno del popolo italiano a cui la storia ha insegnato essere suoi nemici egualmente pericolosi la demagogia e la reazione.
* * *
Le elezioni (6 Novembre 1904) si svolsero poi infatti sopra tutto come un giudizio sulle responsabilità dei partiti e degli uomini che avevano provocato il perturbamento dello sciopero generale; e per logica retribuzione quel giudizio colpì più particolarmente quegli uomini e partiti radicali, che solo per calcoli e preoccupazioni elettorali, che poi apparvero sbagliate, si erano lasciati rimorchiare dietro i socialisti ed i rivoluzionari. E nello stesso modo che la politica reazionaria del Pelloux, nelle elezioni del 1901, si era risolta contro i partiti e gli uomini della reazione; così le esagerazioni rivoluzionarie ed egualmente perturbatrici della vita normale del paese, dei socialisti e degli altri estremisti, si rivolsero contro di loro. La Camera eletta coi comizi del novembre 1904, apparve subito assai più conservatrice della Camera sciolta. Nè questo era per me ragione di rammarico e di preoccupazione, perché se io ho sempre egualmente avversato il rivoluzionarismo e la reazione, ho sempre apprezzato tanto le forze del progresso che dei conservatorismo quando agiscono entrambe in modo legittimo entro i limiti della legge.
Nel caso attuale poi, l'affermazione conservatrice, ma per nulla reazionaria, uscita dalle elezioni, aveva il particolare merito di servire di lezione al socialismo ed al rivoluzionarismo, mostrando che il popolo italiano, nella sua educazione civile, non intendeva permettere che certi limiti fossero violati da qualsiasi parte.

Alla riapertura del Parlamento, il discorso della Corona riaffermò la piena fiducia nel regime della più ampia libertà entro i limiti della legge fortemente difesa; riaffermazione che corrispondeva pienamente al verdetto dato dal paese nei comizi elettorali, risultati egualmente contrari ai campioni della reazione ed a quelli del sovversivismo. Il discorso preannunciò pure l'intenzione di invitare il Parlamento ad elaborare una saggia legislazione sociale, che ad un tempo mirasse ad elevare progressivamente il tenore di vita delle classi lavoratrici e fornisse, mediante l'arbitrato e il probivirato, nuovi strumenti per la pacifica soluzione dei conflitti fra capitale e lavoro, allo scopo di evitare le lotte combattute con le armi dello sciopero e delle serrate, nelle quali il danno è comune e la vittoria rimane a chi abbia non le migliori ragioni, ma la maggiore forza dalla sua parte.
Credetti poi opportuno di apportare un mutamento alla Presidenza della Camera, la quale ormai per parecchi anni era stata tenuta con grande dignità e imparzialità e tatto dall'on. Biancheri, col quale ero legato da sentimenti di comune stima ed amicizia, e da cui mi dolse di dovermi distaccare.

Le ragioni di questa mia decisione, di carattere essenzialmente politico, le comunicai al Biancheri stesso, con piena franchezza, in una mia lettera. Ed erano duplici; per un lato, con la costituzione di una Camera in cui lo spirito conservatore, sia pure nelle forme più moderate, predominava, a me pareva opportuno, per ragioni di equilibrio ed a garanzia delle parti più liberali, che la Presidenza fosse tenuta da un uomo di tendenze spiccatamente avanzate; per l'altro, considerando la nuova situazione generale uscita dalle elezioni, mi ero convinto della opportunità di profittarne per accentuare al possibile la separazione dei radicali dai repubblicani e dai socialisti. La nomina di Marcora a Presidente della Camera, dati i precedenti dell'uomo e l'autorità di cui godeva fra gli elementi avanzati ma costituzionali, rispondeva a questa duplice convenienza. Il Biancheri, che pure parecchi mesi prima mi aveva accennato spontaneamente all'opportunità di tale nomina, mi rispose con franchezza pari alla cordialità, dichiarandomi il suo parere che la composizione della Camera indicasse come più opportuna la scelta di una persona di meno spiccata personalità politica e che rappresentasse piuttosto uno spirito di conciliazione.

Le ragioni espostemi dal Biancheri non mi persuasero a rinunciare a quella che io credevo una alta convenienza politica per fare gradatamente entrare nell'orbita delle istituzioni il partito radicale, che per il suo programma positivo e misurato non aveva alcuna ragione di rimanere confuso fra gli estremisti sia repubblicani che socialisti. L'elezione del Marcora alla Presidenza rispose perfettamente alle mie aspettazioni, in quanto egli per lunghi anni esercitò la sua delicata funzione con generale soddisfazione e perché quella nomina fu il primo passo decisivo che avviò il partito radicale ad assumersi la responsabilità del governo.
Mi compiaccio pure di ricordare la creazione, avvenuta in quel torno di tempo, di una nuova istituzione internazionale, con sede in Italia, dovuta ad una nobile e geniale iniziativa del Re. Sua Maestà, il 24 gennaio 1905 mi indirizzò una lettera che qui riproduco:
«Caro Presidente. - Un cittadino degli Stati Uniti d'America, il signor Davide Lubin, mi esponeva, con quel calore che viene dai sicuri convincimenti, una idea che a me parve provvida e buona, e che perciò raccomando all'attenzione del mio governo.
«Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza, né a migliorare e distribuire secondo le ragioni del consumo le varie culture, ne a tutelare i propri interessi sul mercato, che, per i maggiori prodotti del suolo, si va sempre più facendo mondiale.
«Di grande giovamento potrebbe quindi riuscire un istituto internazionale, che si proponesse di studiare le condizioni della agricoltura nei vari paesi del mondo; di segnalare periodicamente l'entità e la qualità dei raccolti, cosicché ne fosse agevolato il commercio e la determinazione giusta dei prezzi; di fornire notizie precise sulle condizioni della mano d'opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne avessero una guida utile e sicura; di procedere d'intesa per la tutela degli stessi emigranti coi vari istituti nazionali già sorti a tal fine; di procurare opportuni accordi per la difesa contro quelle malattie delle piante e del bestiame, per le quali riesce meno efficace la difesa parziale; di esercitare finalmente un'azione prudente e opportuna sui congegni delle assicurazioni e del credito agrario.
«Di un, istituto siffatto, capace di ulteriori e benefici svolgimenti, e a cui Roma sarebbe degna sede augurale, dovrebbero fare parte le rappresentanze degli Stati aderenti e delle maggiori associazioni interessate, per modo che vi procedessero concordi l'autorità dei Governi e le libere energie dei coltivatori della terra.
«Ho fede che l'altezza del fine farà superare le difficoltà dell'impresa.
« E in questa fede mi piace di confermarmi. - Suo aff.mo Cugino Vittorio Emanuele.»
L'iniziativa del Sovrano, accolta rispettosamente dal Governo, ottenne il plauso dell'opinione pubblica italiana ed internazionale, ed ebbe la cordiale adesione di tutti gli Stati civili. L'Istituto fu fondato; e da allora in poi ha sempre ed utilmente funzionato.
* * *
L'anno 1904 ebbe pure un avvenimento di alta importanza internazionale, e fu la visita a Roma del Presidente della Repubblica francese, il Loubet.
Il Re, dopo la sua ascensione al trono, aveva compiuto un giro di visite presso i capi dei principali Stati europei; era stato a Pietroburgo, a Londra, a Berlino ed a Parigi. Queste visite furono restituite. Il Re d'Inghilterra, Edoardo VII, e l'Imperatore di Germania, Guglielmo II, avevano fatto queste restituzioni di visite durante il Ministero Zanardelli; io ero allora Ministro degli Interni e non ebbi occasione di avvicinare particolarmente i due sovrani, a parte i ricevimenti generali a cui interveniva l'intero corpo dei ministri. Ricordo tuttavia che Re Edoardo insisteva particolarmente col nostro Sovrano perché si mettesse in rapporto col Re di Spagna, col quale da poco la Corte d'Inghilterra si era imparentata; ma il governo italiano gli dovette richiamare le difficoltà di una tale relazione, in quanto che non si poteva ammettere una visita del Re di Spagna che a Roma.

Con l'Imperatore Guglielmo io avevo già avuti rapporti abbastanza intimi, durante il mio primo Ministero, cioé dieci anni prima, nell'occasione di una sua visita fatta a Re Umberto. Io l'avevo allora accompagnato a Napoli, dove si era trattenuto tre giorni, alloggiando nel Palazzo Reale, ed alla Spezia, di cui voleva visitare l'arsenale, interessandosi molto a
tutto ciò che concerneva la marina militare come mostrò poi col grandioso sviluppo che dette appunto alla marina da guerra del suo Impero. Quando restituì nel 1903 la visita a Vittorio Emanuele III, in un ricevimento di Corte a cui erano presenti i ministri egli mi riconobbe di lontano, ed avvicinandomisi mi complimentò dicendomi che era lieto di constatare che in quei dieci anni non ero invecchiato. - Mentre, aggiungeva, io sono invecchiato assai. - L'impressione che l'Imperatore Guglielmo II dava nei rapporti personali, col suo fare aperto e cordiale, era indubbiamente assai simpatica; e trattenendosi a parlare con lui, nelle conversazioni a cui egli si abbandonava con molta semplicità e calore, si ritraeva l'ulteriore impressione di una intelligenza molto viva e pronta, che amava di espandersi sui soggetti più vari. La cordialità personale dei suoi modi non diminuiva però mai là dignità della sua posizione, e si sentiva che egli era convinto di avere una missione, che rimaneva però un po' generica, senza che apparissero, o che egli volesse lasciare apparire, propositi precisi e concreti.
Come era naturale, nell'occasione di quelle sue visite in Italia egli parlava molto delle cose nostre, mostrando d'interessarsene molto, ma io ebbi a notare che la sua, conversazione si rivolgeva piuttosto a raccogliere informazioni, senza che esprimesse mai sulle cose nostre giudizi suoi personali.

La venuta di Loubet a Roma, quantunque rappresentasse anch'essa una restituzione di visita, ebbe
una molto maggiore importanza politica, e per parecchi rispetti, particolari e generali. Era mia fondamentale concezione, per la politica estera, che l'Italia, pure mantenendo lealmente la sua alleanza con le Potenze centrali, dovesse considerarla come essenzialmente pacifica, e indirizzata ad assicurare la pace dell'Europa. La Triplice Alleanza, concepita in tal modo, in piena conformità con lo spirito e la lettera del Trattato, non solo non ostacolava il mantenimento di relazioni cordiali con le altre Potenze, e specie con l'Inghilterra e la Francia, ma le incoraggiava. Personalmente poi io avevo sempre desiderato di migliorare i rapporti con la Francia, che sotto i governi di Crispi erano stati se non messi in serio pericolo, certo raffreddati dall'interpretazione meno conciliante e pacifica che Crispi dava al trattato. Così, sino dal mio primo Ministero, io avevo lavorato al miglioramento dei rapporti fra l'Italia e la Francia; e, come ho già detto, ero riuscito ad ottenerne una pubblica manifestazione con la partecipazione ufficiale della flotta francese alle feste Colombiane nell'estate del 1892.
La venuta di Loubet a Roma aveva, pure un alto significato politico, in quanto essa rappresentava la prima visita ufficiale di un Capo del Governo francese alla capitale d'Italia. Infine essa servì a confermare e condurre a termine gli accordi speciali già intervenuti fra i due paesi, quando era al governo Pelloux con Visconti-Venosta quale ministro degli Esteri, continuati poi ad Algesiras, sulla connessione fra le due questioni del Marocco e della Libia, e secondo i quali l'Italia si disinteressava del Marocco, e la Francia riconosceva all'Italia assoluta priorità d'interessi riguardo la Libia.
Il Presidente Loubet, a dare maggiore rilievo all'importanza ed al significato della visita, aveva condotto con se il Ministro degli Esteri, che era allora il Delcassé; e nelle conversazioni che intervennero fra loro due, me, il Tittoni, e per la parte economica e finanziaria, il Luzzatti, io ebbi modo di farmi una adeguata impressione dei due uomini di Stato francesi. Il Loubet mi apparve un uomo molto equilibrato e di buon senso, ed animato di sincera e cordiale amicizia verso l'Italia; nel Delcassé rilevai soprattutto la finezza ed abilità, come pure l'insistenza con la quale tentava di sciogliere o per lo meno indebolire i nostri vincoli con la Germania, senza però che sia stata avanzata in proposito alcuna proposta concreta. Si trattò insomma solo di conversazioni generiche, delle quali non si può disconoscere l'utilità allo scopo e col successo di migliorare grandemente i rapporti fra i due paesi, dopo un lungo periodo di ostilità sia pure superficiale.

Un ultimo evento diplomatico di quell'annata, fu la visita che io feci sulla fine di settembre al principe di Búlow, ad Homburg, presso Francoforte. Erano pervenute a me sicure informazioni che l'allora ambasciatore di Germania a Roma, Conte De Monts, mandava al suo governo dei rapporti poco favorevoli all'Italia, e tali da potere indurre in sospetto sulla lealtà del Governo italiano nell'alleanza. Io credetti allora opportuno venire a diretto contatto col principe Búlow, allora Cancelliere, da me già conosciuto durante il mio Ministero del 1892-93, epoca nella quale egli era ambasciatore di Germania a Roma. Non volli d'altra parte che la visita assumesse un carattere di troppa solennità, e procurai, a mezzo di comuni amici, che essa fosse preparata in modo semplice e senza notizia pubblica. Ed infatti nulla si seppe se non dopo il mio ritorno.
Arrivai ad Homburg la mattina del 27 settembre, ed alle undici ebbi col von Búlow una conversazione che si protrasse per oltre un'ora e mezza e della quale presi subito degli appunti, che ancor conservo. Egli cominciò a parlare con grande fervore e compiacimento dei progressi compiuti dall'Italia in ogni campo, e specie nel campo economico, negli ultimi anni; e mi espresse la sua piena approvazione per la politica interna che io avevo applicata, dichiarandomi che aveva particolarmente apprezzato il modo con cui mi ero condotto di fronte allo sciopero generale.

Passando poi un po' alla volta nel campo della politica estera, egli mi disse che alcuni in Germania avevano avuta l'impressione che noi ci fossimo avvicinati troppo alla Francia nell'occasione della visita del Presidente Loubet a Roma. Io gli osservai che le accoglienze fatte al Loubet rispondevano ai doveri della ospitalità; ma che d'altronde consideravo come un interesse comune togliere di mezzo le ostilità che avevano perdurato per lungo tempo fra Italia e Francia. Gli osservai ancora che noi avevamo conseguito il risultato di escludere d'ora in avanti che il governo francese potesse in alcun modo essere o parere il sostenitore del papa nel campo politico, togliendo così di mezzo le ultime velleità dei fautori del potere temporale.
E su tutto questo egli conveniva cordialmente. Discorremmo anche del papa d'allora convenendo essere bene che l'influenza del papato non fosse più a servizio della Francia contro l'Austria. Si passò poi a parlare dei nostri rapporti con l'Austria. Il Bùlow lodò il nostro contegno, e mi assicurò formalmente che l'Austria non aveva alcuna mira di espansione nei Balcani; dichiarando ancora che occorreva mantenervi lo statu quo col dominio della Turchia, e se tale dominio non potesse in seguito reggersi, la retta soluzione sarebbe stata di costituirvi stati autonomi nell'Albania e in Macedonia. Io gli osservai che l'Italia non potrebbe mai consentire che altra potenza, ed in specie l'Austria, occupasse l'Albania in qualunque punto, perché una tale occupazione avrebbe l'effetto di chiudere ad essa l'Adriatico; ed egli ne convenne interamente, aggiungendo che tale nostra esigenza corrispondeva pure alle direttive dell'Austria e della Germania.

Io richiamai poi la sua attenzione alle difficoltà che creava al governo italiano il trattamento, spesso e in molta parte non equo, che il governo austriaco faceva agli italiani dell'Istria e del Trentino; osservando che se quel governo si mostrasse più largo verso gli italiani suoi sudditi, concedendo ad esempio l'università italiana a Trieste, le agitazioni ed i conflitti nazionalisti ne sarebbero assai attenuati.
Il Bulow consentì pienamente, assicurandomi che la Germania farebbe del suo possibile per indurre l'alleata ad un trattamento più generoso dei suoi sudditi italiani. Mi aggiunse che la Germania aveva ogni interesse a mantenere lo statu quo austriaco; che le dottrine dei pangermanisti erano fantasia senza base di realtà, la Germania non avendo alcun interesse ad assorbire nel suo organismo alcuna parte dell'Austria. E mi citò in proposito anche l'opinione di Bismarck. Passando a parlare della guerra russo-giapponese, mi espresse l'opinione che la Russia non potrebbe dettare la pace se non quando avesse conseguito un successo militare.
Io rimasi ad Homburg due giorni, durante i quali ebbi col Principe Bulow altre lunghe conversazioni, specialmente in passeggiate che facemmo insieme nei bellissimi boschi che circondano la elegante città. II mio scopo, che era di franche spiegazioni e di affiatamento, fu pienamente raggiunto. Io ho del resto sempre avuta ed ho ancora la convinzione che il Principe di Bulow sia stato costante e sincerissimo amico dell'Italia, pure mettendo sempre, come é naturale, i primissima linea gli interessi del suo paese. Nelle conversazioni che avemmo in quei giorni egli mostrò apertamente di tenere moltissimo all'amicizia del l'Italia, e di giudicare la sua appartenenza alla Triplice come una garanzia per l'equilibrio e la pace europea. L'impressione personale mia di lui é sempre stata di uomo intelligentissimo, che conosceva profondamente le situazioni ed i problemi della politica europea, e la cui mente era rivolta a mantenere la pace d'Europa, e non a spingere alla guerra.

Verso la fine di gennaio del 1905 io fui colpito da una influenza fortissima che mi mantenne per parecchi giorni la febbre ad oltre quaranta gradi; ed uscii da quella malattia con una grande depressione fisica, che mi rendeva pressochè impossibile di occuparmi degli affari del governo. Tentai per oltre un mese di reagire contro tale debolezza; ma dovendo constatare che non ci riuscivo, e che mi si imponeva un periodo di assoluto riposo, decisi di ritirarmi; e presentai al Re con la seguente lettera le mie dimissioni:
«Maestà. - Quando, un mese e mezzo fa, io fui colpito da influenza e poscia da una grande depressione nervosa, conseguenza anche di precedente stanchezza, pensai che in tale condizione non potevo dedicarmi con la necessaria attività alle gravi cure del mio ufficio, e manifestai il proposito di presentare alla Maestà Vostra le mie dimissioni. I medici allora mi sconsigliarono da tale passo ritenendo che in breve tempo avrei potuto ricuperare le forze e sarei stato in grado di riprendere con la necessaria attività il mio ufficio.
«Mi arresi a tale consiglio ritenendo essere mio dovere di non abbandonare senza necessità assoluta il posto affidatomi dalla fiducia di Vostra Maestà e nel quale mi sorreggeva la fiducia dei Parlamento.
«Durante questo periodo della mia malattia intervenni due volte alla seduta della Camera dei Deputati, in occasioni nelle quali mi parve doveroso assumere la più diretta e personale responsabilità di importanti disegni di legge, ma constatai purtroppo che le mie forze non mi consentivano di partecipare in alcun modo alle discussioni parlamentari. Tale mia condizione continua oggi in modo così persistente da togliere la speranza di potere, senza un lungo periodo di riposo assoluto, ristabilirmi in salute.
«Ora troppo gravi problemi incombono al paese e troppo alti sono i doveri di un presidente del consiglio perché vi si possa far fronte in simili condizioni di salute. Tutta la mia buona volontà si infrange contro una impossibilità fisica.
« Sono quindi costretto, per il sentimento della mia responsabilità, per la sincera e profonda devozione mia alla Maestà Vostra e alle istituzioni, a presentare a Vostra Maestà le mie dimissioni dal posto di Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell'Interno.
« Col più profondo ossequio ho l'onore di professarmi della Maestà Vostra devotissimo suddito Giovanni Giolitti. »

Roma, 4 marzo 1905.

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