CAPITOLO 11


LA GUERRA DI LIBIA
(da pag. 327 a pag. 368)

Gli antecedenti della guerra libica - Gli accordi con la Francia, Inghilterra e Russia e un memorandum aggiunto al Trattato della Triplice - Quali furono le ragioni che mi determinarono all'impresa - La scelta del momento - La politica antitaliana della Porta: minacce e agitazioni - Nostri moniti al Governo turco - La preparazione diplomatica - Cordiale atteggiamento dell'Inghilterra, Francia e Russia - Difficile situazione dei nostri alleati: l'atteggiamento di Aerenthal - Tentata intromissione conciliatrice del barone Marshall - Kiderlen Wàchter sconsiglia l'azione - Una campagna internazionale di stampa contro l'Italia - La preparazione militare - Perchè non cercammo di attaccare la flotta turca - L'episodio del "Derna" - Il nostro ultimatum - La risposta evasiva turca e la dichiarazione di guerra.

Un terzo punto del programma con cui avevo assunto il governo, come già ho accennato, era la soluzione del problema della Libia; problema che si trovava davanti all'Italia ormai da parecchi anni, dopo che gli accordi intervenuti fra la Francia e l'Inghilterra, fra la Francia e la Germania, e fra la Francia e la Spagna, con l'assenso nostro e delle altre Potenze, avevano risolto con le due questioni dell'Egitto e del Marocco, il problema generale dell'Africa mediterranea, riconoscendo all'Italia interessi e diritti predominanti sulla Tripolitania e la Cirenaica.

Naturalmente, come ho già osservato, questo punto del mio programma di governo doveva rimanere segreto; la segretezza essendo un elemento essenziale per la migliore soluzione del problema. Tale reticenza fu considerata da taluni critici prima dell'evento come una rinuncia; mentre altri, quando entrammo in azione, giudicarono che l'impresa fosse stata improvvisata e precipitata, e cioè come un mezzo per fiaccare le opposizioni conservatrici alle due leggi della riforma elettorale e del monopolio.

Ora é vero che l'essere l'Italia impegnata nella impresa di Libia ebbe l'effetto di disarmare certi intrighi che si ordivano contro quelle leggi, e si comprende che quando un paese si trova in guerra, i conflitti degli interessi e delle opinioni rimangono notevolmente attenuati. Ma ciò era una semplice conseguenza, cosa ben diversa da un proposito e da una manovra intenzionale, che sarebbero state contrarie alla avversione che io ho sempre avuta, di cercare diversivi all'estero per i conflitti della politica interna. D'altronde sarebbe stato assurdo pensare a diversivi mentre i dissensi sulla politica interna erano tenui e secondari, e la soluzione della questione libica invece interessava veramente e largamente la pubblica opinione.

Che io mi rendessi conto dell'importanza del problema dell'Africa mediterranea, e della necessità che l'Italia non fosse esclusa dalla sua soluzione, l'avevo già dimostrato sino da quando ero entrato nel Parlamento, dando la mia adesione ad un gruppo, che si differenziava dal resto della Sinistra, appunto perché rimproverava al suo capo, Cairoli, la faccenda di Tunisi; ed avevo pure disapprovato il governo che non aveva accolto l'invito dell'Inghilterra di partecipare alla sua azione in Egitto.

Dopo conclusi poi gli accordi con la Francia e con l'Inghilterra, col riconoscimento del nostro primario interesse nella Libia a compenso del nostro disinteressamento nel Marocco e nell'Egitto, io non avevo mai perduto di vista la questione nel suo aspetto diplomatico; ed avevo ottenuto, al tempo della visita dello Czar a Racconigi, il riconoscimento dei nostri diritti su quella zona da parte della Russia; mentre poi all'articolo nove della Triplice, che parlava già di una nostra eventuale occupazione della Tripolitania, «a titolo di legittimo compenso», in un posteriore promemoria, relativo al rinnovamento dell'Alleanza, datato del maggio 1902, era stata aggiunta, per nostra richiesta, una dichiarazione pura e semplice di disinteressamento della Germania e dell'Austria-Ungheria per la questione della Libia, senza nessuna loro riserva di compensi.

Durante poi il mio precedente governo io mi ero direttamente occupato della eventualità che l'Italia dovesse affrontare l'impresa di Libia; e col criterio di compiere una preparazione locale, per profittare dei conflitti e dissensi e malumori politici dei capi locali con le autorità turche, avevo fatto agire in Cirenaica e in Tripolitania certi miei agenti, fra cui ricordo Mohamed Ali Elui Bey, un egiziano che aveva già reso altre volte servizi all'Italia, e che si mise in relazione con il capo dei Senussi; ed altre persone, che non conviene nominare perché essendo ancora vive potrebbero essere esposte a vendette, le quali pure si erano affiatate con l'elemento senussita della università islamica del Cairo.

Se la soluzione del problema libico non appariva necessariamente militare mentre durava il regime di Abdul Hamid, dal quale pareva che si potessero ottenere concessioni, di carattere economico e giuridico, tali da assicurare gli interessi italiani contro qualunque altra mira o appetito; le cose avevano mutato di molto con l'avvento del regime dei Giovani Turchi. Costoro avevano eccitato dovunque il sentimento politico e fanatico delle popolazioni, indirizzandolo particolarmente contro quella potenza da cui credevano di avere soprattutto da temere in una data zona del loro impero: e per la Libia la potenza tenuta in sospetto era naturalmente l'Italia.

Il Banco di Roma aveva in quegli ultimi anni stabiliti in Tripolitania e Cirenaica interessi notevoli, che il Governo italiano aveva il dovere di tutelare; e se la Turchia avesse avuta una chiara visione della situazione, si sarebbe ben guardata dal creare a quegli interessi difficoltà, imbarazzi e minacce di rivalità, che dovevano prima o dopo avere l'effetto di costringere l'Italia a intervenire. Ricordo che quando noi richiamavamo l'attenzione della Porta su queste cose e sulla necessità di non ostacolare, anzi favorire gli interessi italiani in Libia, essa ci rispondeva evasivamente e facendoci delle offerte che a prima vista parevano assurde; così una volta, mentre ce le negava in Tripolitania, ci offerse delle concessioni nientemeno che in Mesopotamia. Non era un'assurdità, ma una astuzia raffinata, anzi troppo raffinata per avere un risultato. Con tali offerte la Porta mirava ad imbrogliare le carte ed a creare dissensi e conflitti fra le Potenze diversamente interessate nelle varie zone dell'Impero Ottomano; noi infatti in Mesopotamia ci saremmo urtati con gli interessi tedeschi ed inglesi, gli inglesi e i tedeschi in Libia si sarebbero urtati con gli interessi italiani.

Tale era, nelle grandi linee, la situazione del problema della Libia quando nel 1911 io assunsi nuovamente il governo; cioé una situazione peggiorata e che rendeva ormai difficile assai, se non addirittura impossibile, una sua pacifica soluzione, quale forse anteriormente avrebbe potuto essere accettata. Di tutto questo da principio non parlai che con quello dei miei colleghi, che era il più direttamente interessato, e al quale competeva la preparazione diplomatica iniziale: l'on. San Giuliano. Egli si trovò pienamente d'accordo con me e mi fu poi validissimo collaboratore per la sua parte, sia nella preparazione dell'impresa sia nella sua finale soluzione. L'on. San Giuliano, di cui ricordo sempre la fidata amicizia e il grande disinteresse patriottico, era uomo di ingegno pronto, sottile, ed equilibrato ad un tempo; e che si era fatta rapidamente per la politica estera una larga e sicura preparazione, avendo anche coperti iposti di ambasciatore a Londra e a Parigi. Egli aveva la capacità, piuttosto rara, di considerare le questioni in tutte le loro facce prima di prendere una risoluzione: come pure di fare giusta ragione alle critiche che si potevano, opporre alle sue vedute, assimilando le opinioni degli altri. Possedeva poi una singolare facilità, una volta compresa una questione nel suo complesso, di farne una esposizione chiara e semplice ; e particolarmente felice era nella redazione di documenti diplomatici, che devono essere compilati in modo che esprimano tutto ciò che si deve e vuoi dire, senza dare appigli a ritorsioni.
Ricordo che spesso, dopo una conversazione che egli aveva con me, nella quale esaminavamo una questione nei suoi vari aspetti e prendevamo una decisione, egli si ritirava in una stanza attigua al mio studio, ed in pochi minuti compilava la nota diplomatica, che dopo un'ultima revisione fatta insieme veniva spedita. Egli mi teneva sempre informato, anche quando eravamo lontani, minutamente di tutto, e non prendeva alcuna deliberazione senza prima essersi messo d'accordo con me. Il solo punto in cui io non ero d'accordo con lui, era una certa tendenza che egli aveva di spingersi avanti troppo rapidamente; ma bastava poco per fargli subito riconoscere la convenienza di andare più adagio e ponderare più lungamente.

Ad un certo punto della sua carriera egli si era disinteressato interamente dalla politica generale e da qualunque altra questione che non fosse di politica estera, per la quale intendeva di specializzarsi; ed a questo scopo appunto mi aveva chiesto di farlo nominare Senatore, perché l'ambiente della Camera, con le sue lotte politiche e con le necessità elettorali, gli impediva di seguire completamente questa sua inclinazione.


Quando la guerra con la Turchia fu dichiarata, ci fu chi almanaccò sulle ragioni che potevano avere spinto il governo a questa decisione, la quale a chi ignorasse i precedenti doveva parere appunto improvvisata. E si parlò di ragioni segrete, le quali avrebbero ad un certo punto vinte le mie esitazioni.
Niente di vero vi é in tutto questo. Le ragioni che mi persuasero della necessità di agire, erano ragioni di carattere politico generale. Una volta risolta la questione del Marocco da una parte con lo stabilimento del predominio francese, e quella dell'Egitto dall'altra, col riconoscimento diplomatico del predominio inglese, stabilitovi di fatto da lungo tempo, le condizioni di cose in cui rimaneva la Libia, sotto il dominio ottomano, erano tali da non poter continuare.

Mentre infatti l'Africa occidentale, da Tunisi al Marocco, e l'Egitto si trovavano sotto l'egida di amministrazioni europee, nella Libia prevalevano ancora condizioni straordinariamente arretrate; basta ricordare che a Bengasi c'era ancora il commercio degli schiavi, che venivano presi con la violenza: nel centro d'Africa e venduti su quel mercato. Era impossibile che una simile infamia fosse tollerata alle porte d'Europa.
Noi, nei negoziati con la Francia e l'Inghilterra per le questioni egiziane e marocchine, ci eravamo fatti attribuire dei diritti, dei quali avevamo ottenuto il riconoscimento anche da parte delle altre maggiori potenze; e doveva venire, e per me era venuto o era imminente il momento nel quale noi ci trovavamo in questa alternativa: o esercitare senz'altro questi diritti o rinunciarvi. Lo stato di cose esistente non poteva durare, e data la condotta dei Giovani Turchi, se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe andata qualche altra potenza in qualche modo interessata politicamente, o che vi avesse creato degli interessi economici. D'altra parte l'Italia, che si era già così profondamente commossa per l'occupazione francese di Tunisi, non avrebbe certamente tollerata una ripetizione di un evento di quel genere per la Libia; e così noi avremmo corso il rischio di un conflitto con qualche potenza europea, cosa senza confronto più grave di un conflitto con la Turchia.

Perseverare nella situazione in cui ci trovavamo, di avere messa una ipoteca sulla Libia, ciò che impediva agli altri di andarci, senza poi andarvi noi, sarebbe stata una cosa non seria, e che del resto ci creava difficoltà in tutte le altre questioni europee, e particolarmente in quelle dei Balcani. Un'altra complicazione derivava dal fatto della politica turcofila in cui si erano impegnati allora i nostri alleati, soprattutto la Germania, e che si trovava in contrasto con il trattamento che il governo di Costantinopoli faceva agli interessi italiani; così che San Giuliano, nelle sue comunicazioni coi governi di Berlino e di Vienna sosteneva la tesi, in apparenza paradossale, che l'unico modo per ristabilire l'amicizia fra noi e la Turchia, e rendere possibile una politica armonica della Triplice Alleanza nell'Impero Ottomano, era che noi occupassimo la Tripolitania.

Per queste ragioni capitali, appena formato il Ministero, San Giuliano ed io ci trovammo d'accordo che l'occupazione della Libia era una questione da tenere di mira. San Giuliano, che per la Libia sentiva un interesse più speciale, nella sua qualità di siciliano, aveva maggiore fretta, e riteneva conveniente di agire prima che fosse risolta la questione grave assai, allora pendente fra la Francia e la Germania, per il Marocco.
Egli sosteneva che se noi avessimo agito mentre l'opinione pubblica europea era assai preoccupata dei pericoli della questione marocchina, la nostra azione avrebbe attratta minore attenzione e sarebbe, come si dice, passata più facilmente. Tittoni esprimeva una opinione eguale da Parigi, con argomenti diversi; egli pensava che l'impresa libica non avrebbe trovate opposizioni in Francia mentre vi perdurava la preoccupazione della questione marocchina; ma temeva che una volta quella questione risolta, il governo francese, con tutta la migliore buona volontà di mantenere gli impegni presi con noi per la Libia, si sarebbe trovato sotto la pressione del partito coloniale francese, assai potente, il quale non avrebbe mai visto di buon occhio che l'Italia s'insediasse vicino alle colonie francesi nell'Africa settentrionale.

Sulla opportunità di agire subito io ero d'opinione diversa. Io pensavo che l'Italia non dovesse muoversi fino a che non fosse risolta appunto la questione marocchina, che nei primi tempi del mio nuovo Ministero era ancora aperta fra la Francia e la Germania, e traversava anzi il suo momento più difficile e pericoloso. Tale questione era infatti di tanta importanza, che poteva essere la scintilla della conflagrazione europea; ed io ricordo che in quei giorni l'Ambasciatore di Francia, Barrére, mi aveva accennato al pericolo che per la questione del Marocco scoppiasse la guerra fra il suo paese, che non intendeva di subire più l'umiliazione inflitta al Delcassé, e la Germania, i cui propositi apparivano oscuri. Ora, finché pendeva questa minaccia di una guerra europea, noi, a mio parere, nulla dovevamo fare che potesse complicare la situazione, e soprattutto nei rapporti fra la Francia e la Germania; sia per non assumere la grave responsabilità di avere contribuito alla conflagrazione generale; sia perché se la guerra europea fosse scoppiata, era nostro evidente interesse di trovarci interamente liberi, e non impegnati in una impresa che avrebbe complicata la nostra situazione. Si aggiunga ancora che, aspettando la fine della questione marocchina, la questione della Libia si sarebbe presentata sul campo diplomatico interamente isolata, nel quale caso era assai più facile ottenere il consenso di tutti; mentre, se noi agivamo mentre era aperta un'altra questione, che interessava così profondamente alcune delle maggiori Potenze europee, il consenso ci sarebbe stato mercanteggiato e condizionato dalle varie parti, con l'effetto di complicare assai le cose.

Però, oltre a queste, di carattere politico e diplomatico, di altre complicazioni si doveva tenere conto, di carattere militare. Noi sapevamo che i porti della Libia non possedevano fortificazioni o solo fortificazioni invecchiate, tali da non potere opporre alcuna resistenza all'attacco di una flotta moderna, e che le guarnigioni turche a Tripoli, Derna, Bengasi, Tobruk, Misurata, ecc. erano esigue e tali da non potere opporsi ai nostri. sbarchi. La flotta ottomana, costituita di poche e vecchie navi, non poteva pure fare ostacolo alle nostre operazioni. Ma era noto però che il governo Giovane Turco stava lavorando a rimettere in piena efficienza l'assetto militare dell'Impero, e per la flotta si erano date o si stavano per dare importanti ordinazioni per dreadnoughts e cacciatorpediniere ai cantieri inglesi. A parte questi preparativi di carattere generale, nulla avrebbe impedito al governo ottomano, quando avesse avuto sentore delle nostre intenzioni, di portare in Libia forti reparti di truppa, e di rafforzare la resistenza contro sbarchi con mine e torpedini. In secondo luogo bisognava tenere conto delle condizioni del mare nelle diverse stagioni, considerando soprattutto che gli sbarchi nei porti della Tripolitania e peggio in quelli della Cirenaica, erano resi assai difficili per la mediocrità dei mezzi di cui quei porti disponevano. Grossi sbarchi improvvisi, quali si richiedono per una spedizione militare che deve procurarsi il vantaggio della sorpresa, non erano possibili, per le condizioni del mare, fra il dicembre ed il maggio; l'impresa quindi, o doveva farsi in autunno o rimandarsi all'anno seguente, cosa, per le ragioni dette, assai pericolosa.

Un'altra considerazione favoriva la scelta della stagione autunnale, quando cioè si andava verso l'inverno: il nostro proposito cioè di isolare l'azione libica il più possibile, ed evitare soprattutto ripercussioni nei Balcani, che l'esperienza mostrava assai meno probabili nella stagione invernale, quando la neve rende molto difficili, in quel paese montuoso, i movimenti militari ed anche le incursioni di semplici bande armate.
* * *
Quando dunque la questione marocchina fra la Francia e la Germania fu pacificamente risolta, io giudicai che fosse giunto il momento di agire.
La condotta del governo dei Giovani Turchi aveva nel frattempo, anziché mitigata, aggravata la situazione. A Tripoli particolarmente, il Valì, istigato e spalleggiato dal comitato locale «Unione e Progresso», moltiplicava gli atti di dispregio verso i cittadini italiani, e cercava ogni pretesto per ostacolarne l'attività e danneggiarli. Le cose erano giunte a tal punto che il Banco di Roma, che aveva specialmente stesi i suoi interessi commerciali nella Tripolitania, vedendosi esposto a gravi danni, parve avesse aperte trattative per cedere tutti questi suoi interessi ad un gruppo di banchieri austro-tedeschi.
E bisognava per la verità riconoscere che da quasi ormai due anni la Porta si mostrava affatto sorda a tutti i nostri reclami e alle nostre proteste; lasciando anzi intravedere chiaramente il desiderio di sradicare qualunque influenza italiana dalla Libia, provocando nello stesso tempo l'entrata in campo di altri interessi, specialmente tedeschi, con l'evidente intenzione di crearvi una condizione di cose che alla lunga avrebbe intaccati gli stessi diritti politici che dalle altre Potenze ci erano stati riconosciuti. L'importanza decisiva dell'elemento commerciale nel determinare la validità degli interessi politici, sia pure tradizionali, é uno degli aspetti della colonizzazione moderna; e il governo ottomano con la sua politica intesa ad ostacolare l'affermazione della nostra supremazia economica in Libia, insidiandola con concessioni offerte o promesse a cittadini di altre Potenze, e togliendoci così l'alternativa di una penetrazione pacifica, non solo rendeva inevitabile, ma affrettava l'occupazione militare italiana, dando ad essa le migliori ragioni.

Fra l'altro, come esempio di queste macchinazioni contro gli interessi italiani, va ricordato che, dovendosi in quel tempo fare l'aggiudicazione per lavori notevoli di estensione ed adattamento del porto di Tripoli, il governo dì Costantinopoli, stabilendo di bandire un'asta pubblica, aveva lasciato intendere di essere disposto a fare di tutto per impedire che essa fosse aggiudicata ad un italiano. Sino dal luglio noi, anche per mezzo dei nostri alleati, cercammo di fare comprendere al governo turco che continuando per quella strada avrebbe rese inevitabili nostre decisioni radicali; e che, per migliorare le relazioni fra i due paesi, s'imponevano alcuni provvedimenti, fra i quali la sostituzione dell'allora Valì, principale persecutore dei nostri interessi, ed ormai troppo decisamente compromesso in una politica antitaliana perché si potesse sperare in un suo ravvedimento sincero e leale.

L'Aehrenthal, allora alla testa del governo austro-ungarico, e il Cancelliere tedesco, Kiderlen-Wàchter, riconobbero la giustezza delle nostre lagnanze e la legittimità delle nostre domande; ma, da certi loro accenni pare che essi pensassero che i Giovani Turchi dopo gli atteggiamenti nazionalisti che avevano presi, e sui quali fondavano il loro prestigio, non si trovassero in condizione di fare reali concessioni, senza esporsi ad un grave indebolimento di quel prestigio, con la possibile conseguenza anche di una caduta del loro regime. E che il governo turco non avesse alcuna volontà di venire incontro alle nostre eque esigenze, anzi credesse di potersi prendere con noi qualunque libertà, anche fuori della questione libica, fu in quel torno dimostrato da un altro fatto diplomatico assai grave. Avendo bisogno di fondi, la Porta stava negoziando con la Germania e l'Austria-Ungheria un aggravamento del quattro e mezzo per cento sulle tariffe doganali; e noi fummo informati che, una volta ottenuto il consenso delle altre potenze a tale aumento, esso intendeva mettere l'Italia di fronte al fatto compiuto, ed applicare la nuova tariffa alle merci italiane senza alcun preventivo negoziato.

Siccome il consenso delle altre Potenze era ottenuto in base a compensi ed a concessioni, era evidente che anche per quella occasione il governo turco, non solo si proponeva di evitare qualunque discussione di compensi e concessioni coll'Italia; ma credeva di poter compiere contro di noi un aperto atto di dispregio, che avrebbe gravemente danneggiato in tutto l'Oriente il nostro prestigio, già assai scosso, secondo le relazioni dei nostri consoli, in Tripolitania, come conseguenza delle prepotenze a cui vi erano stati sottomessi i nostri connazionali.

La conclusione della questione marocchina aveva poi avuto notevoli e inevitabili ripercussioni nell'opinione pubblica italiana, quale era espressa nella stampa. La stampa si occupava largamente della questione dell'Africa mediterranea; ed anche giornali cauti e moderati non nascondevano che la conclusione dell'accordo franco-tedesco per il Marocco, che dava finalmente, senza più ostacoli e riserve, alla Francia ciò che le era stato riconosciuto nella convenzione conclusa con l'Italia, rendeva ormai imperativo di definire chiaramente, ed una volta per sempre, nella realtà gli interessi ed i diritti che erano stati riconosciuti anche a noi. Definizione che avrebbe potuto anche essere pacifica, se a Costantinopoli si fosse avuto un chiaro concetto della situazione, e si fosse compreso che l'unico modo di evitare un conflitto, era di venire incontro lealmente all'Italia.
Le lettere e i telegrammi da Tripoli portavano invece ad ogni momento notizie di nuovi soprusi, i quali, per quanto mediocri e secondari ognuno per sé stesso, presi tutti insieme costituivano un grave danno economico e politico; mentre le notizie da Costantinopoli, riconfermane dai dispacci della nostra ambasciata, e perfino dalle corrispondenze di giornali esteri, dipingevano la Porta in atto di spregio e di sfida verso di noi.

La considerazione generale dei nostri interessi nell'Africa mediterranea, congiunta, a quelle notizie che dimostravano essere in pericolo, non solo gli interessi economici, ma anche il nostro prestigio e la nostra dignità nazionale, finirono per determinare una vera campagna in molta parte della nostra stampa, che chiedeva senz'altro la soluzione della questione libica, con largo consenso da parte della pubblica opinione. La ripercussione del linguaggio dei nostri giornali, tanto in Tripolitania che a Costantinopoli, fu assai curiosa e contraddittoria. Quel tanto di opinione pubblica che vi era in Turchia, e che era totalmente dominata dal Giovani Turchi, cominciò anch'essa ad agitarsi; si tennero sedute dei Comitati «Unione e Progresso», nei quali si protestava contro qualunque concessione all'Italia in Libia; si eccitava il governo a mandare truppe ed armi a Tripoli e a Bengasi; si minacciava di istituire un boicottaggio generale in tutto l'Impero contro le merci italiane, e si accennava persino al proposito, nel caso di guerra, di espellere tutti gli italiani dai territori dell'Impero.

A Tripoli la situazione era più complicata. I rapporti dei nostri consoli avevano già richiamata la nostra attenzione al fatto che il regime turco non era affatto popolare fra gli arabi, che ne erano continuamente vessati; e non mancavano dei capi influenti, quale il sindaco di Tripoli, Hassuna pascià, discendente della antica famiglia reale dei paese, che non si mostravano alieni dall'affiatarsi con noi. I nostri consoli non si fecero però mai eccessive illusioni in proposito; presumendo che, in caso di guerra, l'appello al fanatismo islamico ed al nazionalismo non sarebbero riusciti vani.
Infatti i Comitati locali dell' «Unione e Progresso» iniziarono per tempo una campagna di nazionalismo e fanatismo, convocando i capi e le popolazioni arabe nelle moschee, per manifestazioni di protesta contro l'Italia; ottenendo nel principio una risposta mediocre, che andò però a mano a mano infervorandosi e aumentando.

Il contegno del governo turco fu assai vario, ed andò mutando con lo svolgersi degli avvenimenti. Esso tentò da principio la maniera forte. L'incaricato d'affari turco, il giorno, quattro agosto si presentò alla Consulta, e nell'assenza del San Giuliano parlò in modo altero al sottosegretario, lagnandosi che l'ostilità verso la Turchia che si andava manifestando nell'opinione pubblica e perfino nel Parlamento, non fosse moderata da esplicite dichiarazioni ufficiali del governo italiano; e concluse dicendo che la mancanza di un'azione energica da parte nostra avrebbe potuto turbare i rapporti fra i due paesi. Il sottosegretario, onorevole Di Scalea, premettendo che egli non poteva accettare tale intonazione di linguaggio nè prendere nemmeno atto di quella comunicazione, osservò che la Turchia doveva solo a sé stessa la sollevazione dell'opinione pubblica italiana, per gli innumerevoli atti di ostilità che essa aveva lasciato compiere da suoi funzionari, e particolarmente dal Valì di Tripoli. San Giuliano informò della cosa. De Martino, che reggeva l'Ambasciata di Costantinopoli, dandogli anche incarico di lasciare chiaramente intendere al Ministro degli Esteri turco, che se la condotta delle autorità turche verso i nostri interessi in Tripolitania non fosse mutata, le conseguenze potrebbero essere più gravi assai che gli articoli dei giornali e i discorsi dei deputati. Era un parlar chiaro e leale il nostro, che però non ebbe alcun effetto; ed io tengo a rilevarlo contro l'accusa fatta a noi di avere consumata una aggressione improvvisa ed ingiustificata. In fondo la Turchia, come ci comunicava il nostro addetto militare, riferendo sulla lentezza ed inadeguatezza dei preparativi militari turchi per la difesa della Libia, non credeva nè alla nostra capacità di agire nè alla nostra potenzialità militare, e calcolava quindi che una nostra spedizione avrebbe implicata una lunga e visibile preparazione che le avrebbe dato tutto il tempo necessario per preparare la difesa. Nè i moniti di qualche ambasciatore estero ebbero effetto. Solo all'ultimo momento, anzi quando già la nostra flotta era davanti a Tripoli ed entrava in azione, rivolgendosi alla Germania e ad altre potenze perché intervenissero come pacieri, fece promesse di concessioni di ogni genere, e si dichiarò disposta a riparazioni per il passato. Era troppo tardi, e le promesse fatte in quelle condizioni e circostanze erano la riprova della scarsissima fede che si poteva avere in quel governo.
* * *
D'altra parte, durante tutto questo periodo preparatorio, che andò dal giugno al settembre, io ritenni conveniente di condurre avanti un'opera di preparazione diplomatica presso le Potenze in qualunque modo interessate; opera che fu intensificata quando l'occupazione della Libia divenne per noi una decisione irrevocabile, ed anzi di imminente attuazione.
Anche in questo bisognava però procedere con molta prudenza, per non dare allarmi e non provocare complicazioni. Si trattava di risolvere la situazione libica, che non poteva più protrarsi senza danno ai nostri interessi ed al nostro prestigio, senza allarmare l'Europa riguardo alla questione ottomana, che si temeva potesse provocare una conflagrazione generale. C'era dunque il pericolo, se le nostre intenzioni diventassero troppo apparenti, che a qualche potenza venisse l'idea di darci dei consigli, e che in tal modo s'intavolasse una discussione generale che poteva compromettere tutto, dando tempo alla Turchia per una forte preparazione bellica nel territorio che dovevamo occupare.

Per tanto la preparazione diplomatica, che pure era necessaria per creare intorno alla nostra impresa, quando si iniziasse, un sentimento di benevolenza o almeno per evitare avversioni troppo forti ed aperte, doveva consistere nel tenere le Potenze al corrente della difficile condizione in cui la condotta del Governo turco poneva l'Italia, e lasciare comprendere che noi potevamo essere costretti, prima o dopo, ad agire, senza però nulla precisare al riguardo.
Inviammo quindi le opportune istruzioni ai nostri ambasciatori nelle grandi capitali. Il nostro ambasciatore a Londra, marchese Imperiali, trovò la strada abbastanza facile presso il Governo, mentre il contegno della stampa non era ugualmente favorevole. Parlando con Sir Edward Grey, allora ministro degli Esteri, il nostro ambasciatore mise in rilievo la longanimità veramente esemplare di cui il Governo italiano aveva dato prova, per il suo desiderio di evitare complicazioni, ma senza però riuscire a persuadere i Giovani Turchi a mutare la loro condotta, ora nascostamente ora apertamente ostile. Tale ostilità si era andata anzi sempre più aggravando; cosicchè il nostro governo non si troverebbe più in grado di resistere alla opinione pubblica, reclamante la tutela degli interessi e della dignità nazionale.

Questa comunicazione ebbe luogo il 26 luglio. Grey l'accolse con molta cordialità. Egli dichiarò che già precedenti accenni l'avevano reso edotto delle difficoltà della nostra situazione, e che un esame di questa l'aveva persuaso che le nostre lagnanze erano pienamente fondate. Se pertanto l'Italia, a tutela dei suoi diritti conculcati, e fallito ogni possibile tentativo per una soluzione pacifica della questione, si trovasse costretta ad agire, l'Inghilterra non solo nulla farebbe contro, ma le concederebbe l'appoggio della sua simpatia, beninteso solamente morale, riservandosi, al momento opportuno, di fare sentire a Costantinopoli che la Turchia non poteva aspettarsi dall'Italia trattamento diverso dato il suo scorretto procedere verso di essa.
Grey osservò ancora, sempre a titolo di consiglio amichevole e personale, che gli pareva fosse indispensabile che la nostra eventuale azione fosse giustificata da una flagrante violazione dei nostri diritti, o dalla patente dimostrazione del proposito della Turchia di porci in Tripolitania in condizioni di inferiorità rispetto alle altre nazioni. Insistette su questo punto specialmente nel senso di evitare qualunque apparenza che la nostra azione fosse determinata dal desiderio da parte nostra di ottenere dalla Turchia una posizione economica basata su particolari interessi, perché una tale apparenza gli avrebbe reso difficile di sostenere davanti al Parlamento la simpatia e l'appoggio morale che intendeva di concederci; l'Inghilterra avendo sempre mantenuto intatto il principio della porta aperta in materia economica anche nei suoi accordi con la Francia per il Marocco.

Codeste cordiali ed amichevoli disposizioni dell'Inghilterra, dovute oltre che all'antica amicizia fra i due paesi, ed agli accordi intervenuti fra loro per l'Africa mediterranea, anche al riconoscimento, che al governo inglese era agevole per la sua esperienza di cose coloniali, della impossibilità di altra soluzione, furono pienamente confermate all'ultimo momento. Infatti il 26 settembre, nell'imminenza della nostra azione, avendo l'ambasciatore turco a Londra, per ordine del proprio, governo, fatte preghiere presso il Foreign Office, perché l'Inghilterra intervenisse dando a noi consigli di moderazione; Grey gli fece rispondere che, trattandosi di questione esclusivamente italo-turco, il Governo britannico non intendeva di intervenire in alcun modo, anche se l'Italia, andando alle ultime conseguenze, occupasse la Tripolitania.

Più incerto fu il contegno della stampa inglese. Alcuni giornali riconoscevano fondate le nostre lagnanze, ma si mostravano riluttanti ad incoraggiare misure coercitive, per la preoccupazione delle ripercussioni che esse potevano avere sulla già precaria situazione interna della Turchia; e si prevedeva un'aspra resistenza con misure di rappresaglia contro gli interessi italiani nelle altre parti dell'Impero. Vi erano poi alcuni giornali liberali ed altri radicali che si mostravano risolutamente ostili, usando anche un linguaggio violento ; e seppi che erano giornali che risentivano l'influenza tedesca in quanto sostenevano il progetto, allora patrocinato da alcuni gruppi politici inglesi, per una intesa con la Germania.

Pienamente cordiale fu pure verso di noi l'atteggiamento della Francia, alla quale del resto i nostri diritti sulla Libia dovevano apparire tanto più legittimi, e la nostra azione più giustificata, in quanto la situazione generale dell'Africa mediterranea, e la posizione speciale in cui l'Italia si trovava, erano in buona parte una diretta conseguenza, sia della politica francese riguardo al Marocco, sia degli accordi intervenuti da lungo tempo e sempre confermati, fra l'Italia e la Francia. Il governo francese comprese benissimo ed ammise senza riserve, che la soluzione definitiva a cui arrivava la questione marocchina con gli ultimi accordi con la Germania, apriva nettamente il problema della soluzione del problema libico per l'Italia.
Il nostro ambasciatore, on. Tittoni, che già aveva avuto molta parte nei negoziati relativi ai nostri diritti sulla Libia quando era ministro degli esteri, aveva ottenuto recentemente le più esplicite e categoriche dichiarazioni dai Ministri Pichon e Cruppi riguardo alla fedeltà della Francia agli impegni conclusi nel 1902. Il 22 settembre egli aveva poi avuta una nuova conversazione col Ministro degli Esteri De Selves, e questi gli aveva dichiarato che per la nostra azione in Tripolitania potevamo contare che il governo francese sarebbe stato con noi incondizionatamente; e soggiunse anche che siccome si parlava della eventualità del lanciamento di un nuovo prestito turco in Francia, il governo non avrebbe mai data la sua adesione fino a che la questione tripolina non fosse pienamente risolta. Anche Delcassé dichiarò al Tittoni che tutti i voti e le simpatie erano per l'Italia. Tale atteggiamento, così cordialmente amichevole del governo francese, fu pure rispecchiato dalla stampa, la quale, a parte l'incidente del Manouba e del Carthage, seguì poi con molto favore e simpatia la nostra impresa.

Anche il governo russo, informato di una nostra eventuale azione in Tripolitania verso la fine d'agosto, prese atto amichevole, per mezzo del Ministro degli Esteri, signor Neratow, delle nostre comunicazioni, riconoscendo il nostro diritto di agire in base agli accordi di Racconigi. L'Iswolsky, che di quegli accordi era stato con me e col Tittoni l'autore nel 1907, trovandosi ora a Parigi quale ambasciatore, parlò della cosa col Tittoni, ed udite le spiegazioni di questi, dichiarò che potevamo agire come credevamo, aggiungendo: - Procurate però di non farci trovare all'improvviso sulle braccia lo sfacelo della Turchia e la necessità di un intervento europeo nella Balcania.

Preoccupazioni di questo genere furono espresse poi da parte della stampa russa, la quale, considerando che in tre anni di esistenza il regime giovane-turco non aveva avuto a registrare che degli insuccessi o dei disastri; nella Bosnia-Erzegovina, in Creta, in Albania, e dovunque; temeva che l'occupazione della Tripolitania potesse essere la goccia che facesse traboccare il vaso dell'indignazione pubblica turca, spingendo il governo a gettarsi in qualche avventura pericolosa nei Balcani oppure in Persia per riconquistare il prestigio perduto. Nel contegno di queste tre Potenze in tale occasione, oltre che la cordialità verso di noi e il leale adempimento degli impegni contratti, non era assente forse un qualche risentimento verso il governo Giovane-Turco, che si era buttato in braccio alla Germania, e il calcolo della convenienza politica che quel governo dovesse accorgersi che la protezione germanica potesse riuscire inefficace anche contro un membro della Triplice Alleanza.

La considerazione della particolare situazione in cui si trovavano la Germania e l'Austria, e soprattutto la prima, fra l'alleanza con l'Italia, e l'amicizia e gli interessi con la Turchia, aveva persuaso me e il San Giuliano della convenienza di ritardare al più possibile di informare gli alleati delle nostre intenzioni e della nostra eventuale azione; ragione che noi poi dichiarammo francamente, e che anche l'Aerenthal riconobbe legittima e giusta, quando verso la fine di settembre ritenemmo opportuno alla fine di informarli. Avevamo voluto ad un tempo risparmiare loro un serio imbarazzo, ed assicurarci contro interferenze le quali, per quanto bene intenzionate ed amichevoli, avrebbero complicata la nostra situazione. L'Aerenthal, informato dal nostro ambasciatore D'Avarna, e messo al corrente delle ragioni dell'azione nostra, mostrò di rendersene benissimo conto. Egli si mostrò soddisfatto del proposito, da noi dichiaratogli, di volere localizzare la questione nel Mediterraneo, e di astenerci, nella misura del possibile, da azioni tali da provocare ripercussioni nei Balcani; ma insistette sul pericolo che tali ripercussioni non si potessero evitare, considerando la situazione interna della Turchia e le disposizioni dei Giovani Turchi.
Come amico ed alleato dell'Italia egli credeva suo dovere di richiama e su ciò l'attenzione del nostro governo, pregandolo a considerare la grave responsabilità in cui poteva incorrere. Del resto chiese tempo a riflettere, per poi fare il suo rapporto all'Imperatore, a cui competeva di pronunziarsi, riservandosi di comunicarci le decisioni che il governo avrebbe prese.

Gli avvenimenti poi posero l'Austria davanti al fatto compiuto; ed il conte di Aerenthal, dando il 29 settembre la risposta che si era riservata, dichiarò che il suo governo doveva anzitutto esprimere il rincrescimento che il governo italiano avesse abbandonato così presto il terreno diplomatico. Però il governo austroungarico considerava che l'Italia, sua alleata ed amica, aveva diritto di provvedere come meglio credeva alla tutela dei propri interessi, e non avrebbe quindi fatta alcuna difficoltà alla sua azione in Tripolitania. E concludendo richiamava ancora l'attenzione nostra sulle eventuali ripercussioni della nostra azione nei Balcani, e ricordando che il Trattato della Triplice era basato sul mantenimento dello statu quo nella Turchia europea, esprimeva la fiducia che l'Italia avrebbe preso tutti i provvedimenti convenienti per localizzare la sua azione nel Mediterraneo e impedire perturbamenti nei Balcani. Nel fare le nostre comunicazioni all'Austria ed alla Germania, noi avevamo abbinato in certo modo la questione della Tripolitania col rinnovamento, ormai prossimo della Triplice, per fare ben comprendere a Vienna ed a Berlino che un atteggiamento ostile e poco cordiale verso di noi avrebbe messo in serio pericolo l'Alleanza.
Più complicata e delicata ancora di quella dell'Austria era la situazione della Germania, la quale, dopo avere compiuto negli ultimi anni un lavoro assiduo e fortunato per attrarre la Turchia nella orbita della Triplice, vedeva ora prossimo a scoppiare un conflitto fra la Turchia ed una delle antiche alleate. L'amicizia turco-tedesca era stata opera di un diplomatico tedesco di grande valore, il barone Marshall, e il governo tedesco contando su di lui per trovare una soluzione pacifica della questione, noi ci trovammo in comunicazione più col Marshall a Costantinopoli che con il Cancelliere a Berlino.
Il giorno 26 settembre il Marshall arrivò a Costantinopoli di ritorno da Berlino, dove certo aveva avuti affiatamenti ed istruzioni; ed in alcune conversazioni col nostro reggente l'ambasciata, Comm. De Martino, fece del suo meglio per attraversarci, sia, pure amichevolmente, la strada. Al suo arrivo il Gran Visir l'aveva subito dilaniato, invocando i buoni uffici della Germania, e nello stesso tempo facendo ricadere su questa la responsabilità delle cose, e sostenendo che la questione tripolina non era altro che una conseguenza dell'azione tedesca nel Marocco.
Il Marshall, secondo ciò che egli riferì al De Martino, aveva energicamente negato, respingendo la responsabilità sui Giovani Turchi, che non avevano mai seguito i suoi consigli di non scontentare l'Italia in Tripolitania. Ad ogni modo il Gran Visir insisteva per l'intromissione di buoni uffici della Germania, dichiarandosi disposto a fare tutte le concessioni che l'Italia chiederebbe, per evitare la caduta dei Giovani Turchi.
Il Marshall aveva risposto che avrebbe riferito a Berlino.

Quale fosse la risposta che da Berlino ricevette non sapemmo; ma in un'altra e decisiva conversazione col De Martino apparve chiaro che egli aveva promesso al Gran Visir di fare un tentativo per una intesa sul terreno economico; e si sforzò assai di persuaderlo. Egli sosteneva che la nostra occupazione della Tripolitania avrebbe fatto scoppiare una immediata rivoluzione in Turchia, con la caduta dei Giovani Turchi e conseguenti disordini contro le colonie europee; che ciò avrebbe reso necessario l'invio di navi e sbarchi da parte dell'Italia e di altre Potenze, con la conseguenza ultima che si sarebbe aperta la questione d'Oriente.
Il nostro rappresentante, in base ad altre informazioni raccolte, dichiarò esagerate quelle preoccupazioni, e i fatti gli dettero poi ragione; mentre il Marshall viceversa si dichiarava convinto che gli Stati balcanici non si sarebbero mai mossi, ed in questo invece ebbe poi torto. Il Marshall insisté assai nelle sue vedute, dandoci assicurazioni sulle concessioni economiche; e poiché il De Martino gli rispondeva che la fiducia dell'Italia era ormai esaurita e che del resto la questione si era spostata, e che si trattava ormai dell'equilibrio del Mediterraneo, egli concludeva, sempre insistendo che noi ci assumevamo una responsabilità assai grave.

Ed anche alla vigilia del giorno in cui si iniziarono le ostilità, il ministro degli esteri tedesco Kiderlen Wàchter chiamò il nostro ambasciatore, il Pansa, e cercò di indurlo a persuadere il governo italiano a non dichiarare la guerra alla Turchia, mettendo anch'egli avanti il pericolo di perturbazioni balcaniche e dello sfacelo dell'Impero Ottomano.

Questi tentativi di arrestarci sulla via dell'azione, mi confermarono nel mio proposito di evitare che fra l'evidente nostra intenzione di agire e l'azione stessa ci fosse un intervallo che lasciasse tempo all'intervento di consigli da qualunque parte. La situazione della Germania, ripeto, era assai delicata, per gli impegni, sia pure generici, di protezione presi verso i Giovani Turchi, e si comprende e non c'è da fare obiezione al suo tentativo di guadagnarsi un gran merito presso di loro risolvendo amichevolmente la questione della Libia.
Il Marshall aveva tentata la sua mediazione il 27 settembre, il giorno dopo la presentazione del nostro ultimatum; tre giorni dopo venne la risposta insoddisfacente della Turchia e la nostra dichiarazione di guerra; e dopo il fatto compiuto il governo tedesco si condusse sempre lealmente con noi.

Una forte parte della stampa tedesca, come pure di quella austriaca, condusse invece una violenta campagna di denigrazione contro l'Italia, per quasi l'intera durata della guerra; ed io ebbi ragione di credere che quella campagna rappresentava un tentativo di certi interessi che avrebbero voluto sostituire nella Triplice la Turchia all'Italia. Tali vedute non erano affatte condivise dal Governo di Berlino, il quale anzi insistette presso di noi per una rinnovazione anticipata dell'Alleanza.

A quel segreto, che consideravo necessario per la preparazione della nostra azione, e che fu benissimo mantenuto sino all'ultimo, concorse anche la stagione estiva, che allontanando da Roma gli ambasciatori delle Potenze, evitava le indiscrezioni ed anche quei contatti nei quali non é sempre possibile non tradire il proprio pensiero. Io poi m'ero inteso con San Giuliano perché, col pretesto delle vacanze egli si tenesse a Fiuggi o a Vallombrosa, mentre io stavo a Cavour ed a Bardonecchia, per mostrare che nulla d'insolito era sul tappeto. Ricordo che i giornali più infervorati per la questione libica mi rimproveravano acerbamente questa mia lontananza dalla capitale, e la mancanza di contatti col Ministro degli Esteri e con gli altri membri del Governo in un momento simile; ma le ingiurie che mi rivolgevano mi facevano un gran piacere, perché dimostravano che il mio stratagemma riusciva perfettamente, concorrendo anche a dissipare i sospetti presso il governo turco, che fu poi infatti colto quasi di sorpresa dal nostro ultimatum.

La preparazione militare fu essa pure condotta segretamente e rapidamente. L'eventualità che l'Italia potesse avere bisogno di compiere un'azione d'oltremare era stata considerata nelle nostre disposizioni militari; e tutti i particolari per la rapida formazione di un corpo di sbarco erano stati studiati e fissati già da tempo.
Si trattava quindi di calcolare gli effettivi necessari per una data operazione e di mettere in moto il meccanismo prestabilito. Nel mese di agosto io avevo pertanto chiamato a me il nostro Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, e gli avevo dato incarico di studiare il problema della occupazione della Libia e di fare il calcolo delle truppe necessarie per effettuarla; e gli raccomandai di calcolare con larghezza. Le truppe regolari di presidio nei punti capitali della Tripolitania e della Cirenaica non erano che tre o quattro mila; ma bisognava tenere conto della popolazione araba, di carattere assai bellicoso; e specie di quelle tribù nomadi dell'interno, abituate all'aspra vita del deserto e che vivevano costantemente in armi ed erano suscettibili agli eccitamenti fanatici a cui i turchi sarebbero indubbiamente ricorsi. Nella Cirenaica poi vi era una vera organizzazione militare, che faceva capo al Senusso di Kufra e di Giarabub; e se i senussiti non erano sempre in buone relazioni con i turchi, non c'era su questo da fare affidamento, non essendo difficile, come provarono poi gli avvenimenti, che potessero essere rivolti contro di noi.

Era poi mio intendimento, per ragioni di ordine generale, che la nostra azione fosse fatta con forze talmente preponderanti, da togliere sino dal principio ogni dubbio sull'esito; pensando che in tal modo sia le popolazioni locali, sia la Turchia si rassegnerebbero più facilmente al fatto inevitabile. Pertanto, quando il generale Pollio mi portò il risultato dei suoi studi, in base ai quali egli riteneva sufficiente una spedizione di circa ventiduemila uomini, io gli dissi di raddoppiarla, portandola a circa quarantamila. In realtà poi, a certo momento, il nostro corpo di spedizione, durante la guerra, superò gli ottantamila uomini.

Il primo corpo di spedizione fu dunque costituito da un corpo d'armata e due divisioni e truppe suppletive e servizi di intendenza in grande abbondanza. Nel formarlo si tenne conto della convenienza di non turbare un'eventuale contemporanea mobilitazione generale dell'esercito. I reparti che lo componevano - cioè reggimenti, squadroni, batterie, ecc. - erano unità organiche di pace opportunamente rafforzate; le truppe erano composte di uomini della classe 1890, che avevano compiuta l'intera istruzione, più quelli della classe del 1888, appositamente richiamata. Vi furono uomini della classe del 1889, che si trovavano ormai alla fine del servizio, i quali chiesero di fare parte volontariamente della spedizione. Si erano pure provvisti abbondantemente di mezzi che consentissero di portarsi a due o tre giornate di marcia dalla costa, e di spingere, occorrendo, qualche piccola colonna ad alcune tappe verso l'interno.

Queste forze furono divise in due scaglioni; il primo, destinato ad entrare immediatamente in azione, comprendeva una divisione di fanteria, due squadroni di cavalleria, nove batterie da campagna, ed aveva per forze supplettive due reggimenti di bersaglieri, tre batterie da montagna, due compagnie di artiglieria da fortezza ed i vari servizi. Complessivamente comprendeva 22 500 uomini, seimila cavalli, settantadue pezzi d'artiglieria ed ottocento carri. Il secondo scaglione riproduceva, in proporzioni alquanto ridotte, il primo; contava 13 200 uomini e trenta pezzi di artiglieria. Il totale del corpo di spedizione fu di trentaseimila uomini circa. I reggimenti di fanteria e i bersaglieri erano dotati di mitragliatrici da montagna, ed il corpo aveva a sua disposizione mezzi aeronautici, fra cui quattro aeroplani; e credo che tali mezzi militari fossero usati allora per la prima volta. A base generale del corpo di spedizione fu scelto Napoli; e basi secondarie furono poi costituite nei luoghi di sbarco.
Il primo scaglione, quando imbarcato, costituì un convoglio di trentadue piroscafi, ventitré dei quali caricarono a Napoli, e nove a Palermo. C'erano poi navi sussidiarie ; due trasporti per feriti, due navi ospedali; altre per i rifugiati, altre per il rimorchio. Per il secondo scaglione si usarono dodici piroscafi, ed una parte delle sue truppe fu imbarcata a Catania. Abbondantemente si provvide per i viveri, per le munizioni, per i materiali del genio, fra cui pontili per lo sbarco, indispensabili in una costa la quale, tranne a Tripoli, non disponeva quasi di porti; e si creò un corpo speciale per il servizio dell'acqua con numerosi drappelli di zappatori e tutto il necessario perchè in quel paese aridissimo i soldati non dovessero soffrire di una tale mancanza.
Quando poi il corpo di spedizione si mosse, noi, dopo una rapida concentrazione a Taranto e a Siracusa mettemmo in azione l'intera nostra flotta per assicurarne assolutamente l'incolumità e prevenire qualunque incidente.

A questo proposito é opportuno ribattere una critica errata che si fece allora alla nostra azione navale da parte di certi spiriti bellicosi a vuoto. Si sapeva, e noi eravamo stati informati in proposito con precisione dal nostro console, che allo scoppiare della guerra la flotta turca si trovava a Beirut, in Siria, da dove però si mosse immediatamente. Alcuni avrebbero voluto che la flotta nostra l'avesse ricercata per colarla a fondo; cosa che sarebbe stata assai agevole, tanto la flotta nemica, composta di due vecchie corazzate, di due incrociatori e di alcune torpediniere, era inferiore alla nostra. Ma io consideravo una tale impresa inutile e rischiosa nello stesso tempo. Entrando in guerra noi avevamo dichiarato chiaramente alle Potenze interessate nell'Impero Ottomano, che il nostro unico proposito era l'occupazione della Libia, e che, a parte ciò, non desideravamo fare alcun danno alla Turchia, ed intendevamo evitare qualunque azione che potesse condurre a complicazioni. Se noi avessimo aperta la campagna andando a cercare e ad affondare la flotta turca nell'Egeo, lontano dal nostro obiettivo dichiarato, ci saremmo esposti all'accusa di mancare sin dal principio, se non ai nostri impegni, certo alle nostre dichiarazioni; e ciò avrebbe suscitato indubbiamente dei malumori ed avrebbe potuto dare a qualche Potenza il pretesto di complicazioni che era nostro primissimo interesse di evitare in quel momento, essendo impegnati altrove.

In secondo luogo una tale impresa avrebbe potuto essere rischiosa; non per la minaccia di quella flotta turca, ma per qualche eventuale incidente indiretto. Ricordo che da Beirut si ricevette avviso telegrafico che la flotta turca uscendo da quel porto si dirigeva verso sud-ovest, la qual cosa faceva supporre che volgesse verso la Cirenaica; si seppe poi che, mutata la sua rotta, si era diretta ai Dardanelli. Rintracciare quella flotta nel suo viaggio da Beirut ai Dardanelli, entro i meandri costituiti dalle isole del Mare Egeo, a giudizio degli intendenti non era cosa facile; e mentre le nostre forze navali fossero impegnate in quella caccia, avrebbe potuto avvenire che il nemico, il quale possedeva dei velocissimi cacciatorpediniere di recente acquisto, alcuni dei quali si credeva fossero annidati a Prevesa, quindi non lontano dalle vie del nostro corpo di spedizione, tentasse un colpo di mano e riuscisse a colpire qualcuno dei nostri trasporti o ad affondarlo.

Pure prescindendo dall'effetto che un tale incidente avrebbe avuto sul pubblico italiano, che metteva allora di nuovo alla prova i suoi nervi sedici anni dopo il disastro della guerra abissina; un tale scacco, che sarebbe apparso anche più grave in considerazione della enorme differenza fra le forze navali nostre e quelle del nemico, nell'inizio stesso della nostra azione sarebbe stato deplorevole. Noi eravamo stati costretti, per ragioni imprescindibili, a turbare la pace europea; e molti occhi non benevoli erano fissi su di noi; in tali condizioni dovevamo evitare qualunque incidente che potesse dare ragione di accusarci di leggerezza e d'incompetenza. Le azioni energiche, come quella in cui ci eravamo impegnati, anche se spiacciono per gli interessi che turbano, finiscono per imporre il rispetto quando siano ben condotte; cosa di cui avemmo appunto un esempio anche in quell'occasione, nel linguaggio della stampa forestiera, la quale, dopo averci per qualche giorno accusati ed anche ingiuriati, finì per cambiare presto tono, quando vide che andavamo diritti per la nostra strada e che saremmo arrivati alla meta.

Intanto, già nella prima metà di settembre, la situazione in Tripolitania si andava aggravando, per il crescente sospetto di una nostra non lontana azione. A Tripoli gli agitatori del Comitato «Unione e Progresso» compievano una duplice azione; per una parte si sforzavano di eccitare le popolazioni e attrarre nella loro orbita i capi delle tribù e dei villaggi, ed a questo scopo vi tenevano frequenti riunioni; e quantunque l'elemento migliore del paese, che aveva già con gli italiani relazioni commerciali, si mostrasse più moderato, si riusciva a determinare una corrente a noi ostile specie nella bassa popolazione. Per l'altra parte questi agitatori si tenevano in continua comunicazione col governo turco e col Comitato centrale di Costantinopoli, al quale trasmettevano resoconti dei comizi assicurando la ferma: volontà della popolazione di rimanere nell'Impero Ottomano, pronta e decisa per questo scopo a qualunque sacrificio, e si domandava che Tripoli venisse fortificata e si inviassero armi e munizioni. Si compilavano pure statistiche delle popolazioni arabe dell'interno, in base alle quali si calcolava che vi fossero nel paese circa centomila uomini atti a portare le armi ed a partecipare ad una energica difesa contro qualunque attacco.
Il governo e il Comitato di Costantinopoli rispondevano incoraggiando tali preparativi, promettendo di fare avere almeno centomila fucili e cannoni, e di inviare una commissione, presieduta da Nasin pascià, ex-valì di Bagdad, per intraprendere immediatamente l'opera di fortificazione della città e del porto e degli altri punti più importanti della costa.

Noi dovemmo allora preoccuparci di due cose: e cioè della sicurezza della numerosa colonia italiana di Tripoli, come pure degli altri europei che vi risiedevano; e d'impedire il minacciato invio di armi e munizioni. Non era ancora il caso di fare manifestazioni tali che potessero fare precipitare le cose, per tanto io autorizzai la marina a dislocare alcune navi da guerra a Siracusa, pronte a partire per Tripoli al primo cenno.
Che la Porta potesse fare tutto quello che da Tripoli si chiedeva per la sua difesa era da escludersi; ma che qualche cosa avrebbe pure fatto era egualmente certo. Ed infatti verso la metà di settembre il nostro addetto militare a Costantinopoli ci informò che si stava caricando il piroscafo «Degna» con circa diecimila fucili ed abbondanti munizioni, qualche cannone, e viveri e vestiari. Quel piroscafo infatti partì poi per Tripoli, e noi demmo ordine di intercettarlo, cosa che avevamo ormai diritto di fare perchè il suo arrivo coincise col nostro ultimatum, ma sfortunatamente esso riuscì a sfuggire alla nostra vigilanza.

Anche la situazione diplomatica ci consigliava ad affrettare. Era ormai evidente che la questione del Marocco andava ad una soluzione pacifica, ed infatti l'accordo preliminare fra la Francia e la Germania fu firmato il 23 settembre. D'altra parte c'era sempre da temere di qualche resipiscenza da parte di qualche Potenza che pure fino allora aveva riconosciuto le nostre buone ragioni; fra l'altro ci fu riferito da Vienna che l'Aerenthal, parlando con alcuni diplomatici esteri, si era mostrato spiacente di quanto avveniva in Italia al riguardo della questione di Tripoli, perchè, a suo avviso, il momento per sollevare tale questione non era opportuno.

Io decisi allora di agire. Dovevo anzitutto parlare col Re ed ottenere la sua autorizzazione per la chiamata di qualche classe sotto le armi e per un'azione immediata. Io ero a Cavour ed il Re si trovava a Racconigi; e per evitare le illazioni che si sarebbero tratte da quella visita, la quale non sarebbe sfuggita all'attenzione dei giornali se io passavo per Torino, chiesi che da Casa reale mi fosse mandato a Cavour un'automobile. Esposi al Re la situazione ed ebbi il consenso alla nostra azione ed a tutti gli atti relativi.
Mi ero incontrato col Re il 17 settembre; il giorno 18, di ritorno a Cavour telegrafai a San Giuliano, a Spingardi e a Leonardi Cattolica di affrettare i preparativi, insistendo perché si procedesse con la massima segretezza e a mezzo di persone di sicura fiducia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, riteneva indispensabile richiamare sotto le armi la classe del 1888, allora in congedo, per la necessaria elasticità nella composizione del corpo di spedizione, e perché i reggimenti che non partivano non rimanessero stremati di forze; ed io provvidi alla emanazione del decreto occorrente. Più tardi autorizzai l'invio immediato di navi a Tripoli per la sicurezza della nostra colonia e per impedire che si ripetesse l'episodio del «Derna», essendo da aspettarsi che, la nostra intenzione essendo ormai patente, la Turchia tentasse di farvi arrivare nuove armi e soldati.

Il 24 io arrivavo a Roma, ed il 26 veniva, in seguito a deliberazione del Consiglio dei Ministri, spedito il nostro ultimatum alla Turchia. Quel documento fu compilato in modo da non aprire strada a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga discussione, che dovevamo ad ogni costo evitare; e fu a questo scopo ponderato in ogni sua parola. Esso osservava che per un lungo periodo d'anni il Governo italiano non aveva mai cessato dal fare constatare a quello turco la necessità che lo stato di disordine e d'abbandono in cui erano lasciate la Tripolitania e la Cirenaica avesse fine, e che quelle regioni fossero poste in grado di profittare degli stessi progressi conseguiti dalle altre parti dell'Africa mediterranea. Codesta trasformazione, che s'imponeva per le esigenze generali della civiltà, costituiva per l'Italia un interesse vitale, per la breve distanza che separava quei paesi dalle sue coste. Ma nonostante che il Governo italiano avesse sempre cordialmente dato il suo appoggio al governo ottomano in diverse questioni politiche degli ultimi tempi; nonostante la moderazione e la pazienza, di cui esso aveva dato finora prova, non solamente il Governo ottomano non aveva tenuto conto di tali sue vedute, ma, peggio ancora, aveva mantenuto contro qualunque nostra intrapresa economica in quelle regioni una opposizione sistematica ed ingiustificata.

Ora la Turchia, con un passo compiuto all'ultimo momento, aveva proposto all'Italia di venire ad un accordo, dichiarandosi disposta a qualunque concessione economica compatibile coi trattati in vigore, e con la dignità e gli interessi suoi superiori. Ma il Governo italiano non si credeva più in condizione di iniziare negoziati dimostrati vani dall'esperienza del passato, e che lungi dal costituire una garanzia per il futuro, non farebbero altro che moltiplicare le occasioni di irritazioni e conflitti. Il documento continuava osservando che le informazioni dei nostri agenti consolari in quei paesi dipingevano la situazione che vi regnava contro i sudditi italiani, e che era stata apertamente provocata da ufficiali e da altri organi dell'autorità governativa. Questa agitazione costituiva un pericolo imminente non solo per i sudditi italiani, ma anche per quelli di altre nazioni i quali, giustamente allarmati avevano cominciato ad imbarcarsi ed abbandonare il paese. L'arrivo a Tripoli di trasporti militari ottomani, alle conseguenze del cui invio il Governo italiano non aveva mancato di richiamare l'attenzione della Porta, non poteva che aggravare la situazione, ed imponeva all'Italia di provvedere immediatamente ai pericoli che ne risultavano.

L'ultimatum continuava poi annunciando che il Governo italiano, vedendosi ormai forzato a tutelare la propria dignità e gli interessi del paese, aveva deciso di occupare militarmente la Tripolitania e la Cirenaica, non avendo la scelta di altra azione; e dichiarava di aspettarsi che il Governo ottomano desse gli ordini necessari perchè tale occupazione non incontrasse resistenza da parte dei suoi rappresentanti in quei territori. Accordi ulteriori fra i due governi potrebbero poi essere presi per regolare la situazione definitiva che risulterebbe dall'occupazione militare. E concludeva chiedendo una risposta entro ventiquattro ore, in mancanza della quale il Governo italiano procederebbe ad attuare immediatamente le misure destinate ad assicurare l'occupazione.

La risposta della Turchia al nostro ultimatum fu, come era da aspettarsi, evasiva e dilatoria. Essa rigettava la responsabilità delle cattive condizioni in cui si trovavano la Tripolitania e la Cirenaica sul precedente regime; sosteneva, contro verità, che il governo turco era sempre venuto incontro agli interessi italiani e che le autorità locali li avevano protetti; e rinnovando le offerte di concessioni, chiedeva che noi indicassimo le garanzie che ritenevamo necessarie, promettendo di non modificare nel frattempo la situazione di quei territori, specie nell'aspetto militare.
La risposta del Governo ottomano ci arrivò il 29 settembre, e il giorno stesso noi facemmo presentare dal nostro incaricato d'affari la dichiarazione di guerra.

FINE DEL CAPITOLO UNDICI

< indice dei capitoli