GRECIA (427- 347 a.C.)

PLATONE
(prima parte)

BIOGRAFIA

427 a.C. - Nasce ad Atene.
Morto a ottant'anni nel 347, Platone visse in uno dei momenti più drammatici della vita politica, quando la città di Atene aveva perduto il prestigio e l'egemonia politica e culturale del secolo precedente. Platone, discepolo di Socrate che già aveva pagato con la condanna a morte la propria opposizione ai costumi del tempo, cercò in ogni modo di risollevare il mondo che lo circondava dal decadimento: indicò la via filosofica e la via politica per innalzarsi sopra la crisi.
Scriveva in una lettera: Vedendo questo (cioè la condanna di Socrate) e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, le leggi e i costumi, "quanto più li esaminavo e avanzavo nell'età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all'amministrazione dello stato, restando onesto".
399 - Va a Mègara, dopo la morte di Socrate.
388 - Fa un viaggio nell'Italia Meridionale e in Sicilia. Si ferma a Taranto e a Siracusa.
387 - Acquista ad Atene un fondo presso il parco detto di Accademo e fonda un centro di studi che chiama Accademia.
367 - Torna a Siracusa per educare alla filosofia il nuovo sovrano Dionigi II.
361 - Fa un terzo viaggio a Siracusa.
347 - Muore ottantenne mentre Atene è in guerra con Filippo il Macedone. Abbiamo notizie della morte da un papiro in cui si descrivono le ultime ore del filosofo.

OPERE PRINCIPALI

Le opere di Platone sono costituite quasi completamente dai dialoghi sui quali gli studiosi successivi hanno a lungo dibattuto per stabilirne l'autenticità e la cronologia. Vi sono poi le lettere (13 in tutto), di cui però solo alcune sono state riconosciute dagli studiosi come autentiche. I dialoghi si possono dividere in alcuni gruppi:

Dialoghi socratici (396-388): Apologia di Socrate, Critone, Carmide, Lachete, Liside, Protagora, Gorgia, Eutifrone, Ippia minore, Menesseno, Menone, Eutidemo
Dialoghi successivi alla fondazione dell'Accademia (387): Cratilo, Simposio, Fedone, Repubblica
Dialoghi della piena maturità (entro il 366): Fedro, Parmenide, Teeteto
Dialoghi della tarda maturità: (365-347) Sofista, Politico, Timeo, Crizia, Filebo, Leggi.

Nei dieci libri della Repubblica (e in altri dialoghi), Platone disegna il suo ideale politico. Va detto, innanzi tutto, che l'ideale del bene ha nella mente di Platone un immediato significato politico: il bene individuale si realizza completamente nel bene dello Stato, cioè nella perfetta organizzazione razionale di esso. I lavoratori hanno il compito di mantenere lo Stato, i guerrieri di difenderlo, i filosofi di governarlo.
Indubbiamente l'ideale di uno Stato siffatto, retto dai filosofi, aveva assai poco in comune con la realtà ateniese del tempo e mai, in seguito, si sarebbe realizzato. Platone comunque vi credette fermamente e cercò anche di arrivare a un risultato politico concreto, se pure senza conseguire alcun esito positivo.

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Come per Socrate, diamo la parola ancora a Will Durant: (Storia della Filosofia)

"L'incontro di Platone con Socrate era stato come una svolta nella sua vita. Era cresciuto nell'agiatezza e forse anche nella ricchezza; era bello, giovane e forte; lo chiamavano Platone - così si racconta - per l'ampiezza delle sue spalle; si era distinto come soldato e aveva due volte vinto il premio ai giochi istmici. Una simile adolescenza non è facile produca dei filosofi. Ma l'animo gentile di Platone aveva trovato una gioia nuova nei giochi «dialettici» di Socrate: era un piacere per lui ascoltare il maestro quando criticava dogmi e punzecchiava congetture con la punta acuta delle sue domande; Platone prese parte a questo genere di sport, come avrebbe preso parte ad una lotta fisica assai più aspra; e sotto la guida del vecchio «tafano» (come Socrate chiamava se stesso), egli passò dalla discussione pura all'analisi diligente e alla fruttuosa discussione. Divenne un appassionato della scienza e del suo maestro. «Ringrazio Dio», - usava dire - «di esser nato greco e non « barbaro, libero e non schiavo, uomo e non donna; ma soprattutto « ringrazio di esser nato nel secolo di Socrate ».

Aveva ventott'anni quando il maestro morì, e quella tragica fine di una vita tranquilla lasciò la sua impronta in ogni fase del pensiero dell'alunno. Lo colmò di un tale disprezzo per la democrazia, di un così forte odio per la plebe, che nemmeno la sua origine aristocratica e il suo sangue nobile non avrebbero certo potuto infondergli; lo indusse ad accettare il principio di Catone, che, cioè, la democrazia doveva essere distrutta e sostituita dal governo dei più saggi e de' migliori. Il problema assorbente della sua vita fu di trovare il metodo per iscoprire gli uomini più saggi e migliori, e persuaderli, poi, a reggere il governo.
Frattanto, gli sforzi fatti da Platone per salvare Socrate lo avevano messo in vista agli occhi sospettosi dei capi democratici; i suoi amici gli fecero capire che Atene non era per lui un luogo sicuro e che il momento era assai favorevole per mettersi a viaggiare nel mondo.

Così, nell'anno 399 a.C. Platone partì. Non si sa con certezza dov'egli andasse; le varie fonti autorevoli non sono d'accordo su questo punto. Pare ch'egli siasi recato dapprima in Egitto. Fu colpito da ciò che dicevano i sacerdoti preposti al governo di quel paese, che, cioè, la Grecia era una terra giovane, senza tradizioni e senza una profonda cultura, e non poteva, quindi, esser presa sul serio da quegli enigmatici sapienti del Nilo. Ma nulla ci educa più di una scossa violenta; il ricordo di quella casta colta, che governava teocraticamente un popolo statico di agricoltori, rimase sempre vivo nel pensiero di Platone ed ebbe i suoi effetti quand'egli dettò la sua Utopia.
Poi passò in Sicilia e in Italia, dove si uni per qualche tempo alla scuola o setta fondata dal grande Pitagora: ed anche qui il suo animo suscettibile fu colpito da un esiguo numero di uomini dediti all'insegnamento, i quali vivevano una vita semplice, nonostante la loro posizione sociale. Platone viaggiò dodici anni, bevendo largamente ad ogni fonte di sapere, avvicinandosi ad ogni altare, saggiando ogni credenza. Qualcuno pretende ch'egli sia giunto sino in Giudea ed abbia subìto l'ascendente della tradizione di quei profeti socialisti; qualche altro aggiunge che sia arrivato alle rive del Gange ed abbia imparato le mistiche meditazioni degli Indi. Noi non sappiamo.

Tornò ad Atene nel 387 a. C., quasi quarantenne, giunto a maturità per la conoscenza di molti popoli e la saggezza di tanti paesi. Aveva alquanto perduto il suo entusiasmo giovanile, ma aveva raggiunto una certa prospettiva del pensiero, per cui ogni verità estrema era veduta come una mezza verità e i vari aspetti d'ogni problema armonizzavano in una giustizia distributiva dinanzi ad ogni faccia della verità. Egli era insieme scienziato ed artista; in lui, filosofo e poeta vivevano in un'anima sola; ed egli creò per se un modo d'esprimersi, in cui avevano posto contemporaneamente bellezza e verità: il dialogo.
Mai, fin allora, la filosofia aveva assunto una veste tanto splendida, e mai, certo, essa la assunse in seguito. Anche nelle traduzioni, lo stile platonico é luminoso, sfolgorante, fiorito. « Platone » dice Shelley, uno de' suoi ammiratori, « ci dà il raro connubio di una stringata sottigliezza logica con il tipico entusiasmo per la poesia, fuso, dallo splendore e dall'armonia de' suoi periodi, in un torrente irresistibile di impressioni musicali, che conduce alla persuasione con una corsa senza riprender fiato » (Citato da Barker, «La grande teoria politica», Londra, 1918, pag. 5)

Non per nulla il giovane filosofo aveva iniziato la sua carriera letteraria come drammaturgo.
La difficoltà di capire Platone sta appunto nella sua miscela inebriante di filosofia e di poesia, di scienza e d'arte; non possiamo sempre dire quale sia la voce ne l'espressione dell'autore ne' suoi dialoghi; s'egli parli alla lettera o metaforicamente, se scherzi o dica sul serio. Talvolta il suo amore per lo scherzo e l'ironia, o per il mito ci lascia delusi; possiamo quasi dire che egli non insegnò se non in parabole.

«Debbo io, da persona anziana, parlare a voi, o giovani, sotto forma di apologo o di mito? chiede il suo Protagora ( Protagora, pag. 320). Si dice che questi dialoghi fossero scritti da Platone per il pubblico medio, che a quel tempo sapeva leggere; per la loro forma dialogata, il loro vivace urto di pro e contro e il loro graduale sviluppo e frequente ripetizione d'ogni problema importante, essi erano certo (per quanto ci possano apparire astrusi oggi) foggiati sulla mentalità di colui che s'accosta alla filosofia come a un cibo di lusso che, dalla brevità della vita, é costretto a leggere come può, leggere chi corre. Perciò dobbiamo aspettarci di trovare in questi dialoghi molto di scherzoso e di metaforico, molte cose comprensibili soltanto allo studioso di minuzie sociali e letterarie del tempo di Platone; molte cose che oggi potranno sembrare di minima impórtanza e fantastiche, ma che saranno state la droga necessaria a digerire quel pesante cibo di pensiero per coloro che non erano abituati a nutrirsi d'idee filosofiche.
Dobbiamo pur confessare che Platone possedeva in certa misura le qualità ch'egli stesso condannava. Inveisce contro i poeti e i loro miti, e non fa che aggiungerne uno al numero dei poeti e centinaia a quello de' miti. Si lamenta de' sacerdoti (i quali vanno attorno predicando l'inferno e offrendo redenzione dal medesimo - cfr. La Repubblica, pag. 364), ed è lui stesso un sacerdote, un teologo, un predicatore, un supermoralista, un Savonarola, che denuncia l'arte e vorrebbe veder sul rogo tutte le vanità. Riconosce, al pari di Shakespeare, che, « i confronti sono malsicuri » (Sofista, pag. 231), ma egli non fa altro che scivolare da un confronto in un altro; condanna i Sofisti come parolai, ma egli stesso tratta
la logica ne più né meno di un sofo. Faguet ne fa oggetto di una parodia: «Il tutto è maggiore di una parte? - Sì - Quindi, è chiaro che i filosofi dovrebbero governare lo Stato? - Come? - È evidente; rifacciamoci da capo» (« Pour qu'on lise Platon », Paris, 19o5, pag. 4.).

Ma questo è tutto quanto si può dire di male sul conto suo : ciò non di meno, i Dialoghi restano uno dei maggiori tesori del mondo ( I dialoghi più importanti sono: L'apologia di Socrate, Critone, Fedone,
Il Simposio, Fedro, Gorgia, Parmenide
e Lo Statista. I tratti più importanti della sua Repubblica (i numeri citati si riferiscono alla numerazione del testo in margine, non a quella delle pagine sono: 327-32, 336-77, 384-5, 392-426, 433-5, 481-3, 512-20, 572-94). Il migliore di essi, La Repubblica, è di per se stesso un intero trattato, che Platone ridusse a un capitolo. Vi troviamo la sua metafisica, la sua etica, la sua psicologia, la sua pedagogia, la sua politica, la sua teoria sull'arte.

Vi troveremo discussi problemi che hanno sapore di modernità: comunismo e socialismo, femminismo e demografia, eugenica, i problemi nietzschiani sulla morale e sull'aristocrazia, i problemi di Rousseau sul ritorno alla natura e libera educazione, l'élan vital di Bergson e la psicanalisi freudiana, - tutto insomma. È un simposio per gli eletti, offerto da un ospite munifico. « Platon è la filosofia, e la filosofia è Platone », dice Emerson, e riferisce alla Repubblica le parole di Omar sul Corano: «Bruciate tutti i libri, ché il loro valore è tutto compendiato in questo» (Emerson, "Uomini rappresentativi", pag. 41).

Studiamo, dunque, la Repubblica.

IL PROBLEMA ETICO

La discussione ha luogo in casa di Cefalo, un aristocratico facoltoso. Sono tra i presenti Glauco e Adeimanto, fratelli di Platone; e Trasimaco, un sofista arcigno ed iroso. Socrate, che nel dialogo parla in vece di Platone, domanda a Cefalo
« Qual è, secondo voi, il maggior beneficio che avete tratto dalla ricchezza? ».
Cefalo risponde che la ricchezza per lui è un bene, principalmente perchè gli permette di essere generoso, onesto e giusto. Socrate gli chiede scaltramente che cosa egli intenda per giustizia; e con ciò scatena i molossi della canizza filosofica. Poichè nulla è più difficile della definizione, nulla costituisce un esercizio altrettanto severo di chiarezza e comprensione mentale. Per Socrate è semplicissimo distruggere una dopo l'altra le definizioni che gli si offrono; finchè Trasimaco, meno paziente degli altri, scoppia « in un grido »;
« Quale follia ti prende, Socrate? E perchè voialtri vi lasciate cadere in questo stupido modo ai piedi uno dell'altro? Io vi dico : se volete sapere che cosa è la giustizia, dovete rispondere e non domandare; ne dovreste inorgoglirvi confutando gli altri... Poichè molti sanno domandare, ma non rispondere» (336).
Socrate non si lascia impressionare; continua a domandare, invece che rispondere; e dopo rapidi colpi di parata e di attacco, egli provoca l'incauto Trasimaco a compromettersi con una definizione:
« Senti, dunque, esclama l'adirato sofista - io proclamo che potere è diritto e la giustizia è l'interesse del più forte... I diversi governi dettano leggi democratiche, aristocratiche o autocratiche, in vista dei loro rispettivi interessi; e queste leggi, fatte così da loro per servire ai loro interessi, le fanno passare presso i sudditi come giustizia, e puniscono come ingiusto chiunque le trasgredisca... Parlo dell'ingiustizia in senso lato, e ciò che intendo dire risulta nel modo più chiaro nelle autocrazie, le quali, con la frode e con la forza, derubano gli altri delle loro sostanze, non al minuto, ma all'ingrosso. Ora, quando un uomo ha rubato il danaro dei cittadini e li ha fatti schiavi, invece che truffatore e ladro, è proclamato benemerito e glorificato da tutti. La ingiustizia è condannata, perchè coloro che la condannano temono di soffrirne, e non perchè abbiano scrupolo di commettere ingiustizia essi stessi » (338-44).

Questa, naturalmente, è la dottrina che oggi - più o meno giustamente - associamo al nome di Nietzsche. « In verità, ho riso più volte sui deboli, che si credevano buoni perchè avevano gli artigli mozzati» (Così parlo Zarathustra).
Stirner espresse brevemente la stessa idea quando affermò che « un pugno di potere vale più che un sacco di diritti ». Forse in nessun altro momento della storia filosofia questa dottrina è meglio formulata che da Platone stesso in un altro dialogo, Gorgia (483), là dove il sofista Callicle accusa "la morale è un'invenzione del debole per neutralizzare la forza del forte".

« Essi distribuiscono lode e biasimo in vista dei loro proprii interessi: dicono che la disonestà è vergognosa e ingiusta - intendo per disonestà il desiderio di possedere più del proprio vicino - poiché, consci della propria inferiorità, sarebbero anche troppo felici dell'eguaglianza... Ma se esiste un uomo dotato di forza sufficiente (entra in scena il «superuomo"), egli scuoterebbe via dalle sue spalle tutto questo e se ne allontanerebbe per sempre; egli porrebbe sotto i piedi tutte le nostre formule e parole magiche e incantamenti, tutte le nostre leggi contro natura... Chi vuol vivere con sincerità dovrebbe permettere ai suoi desideri di ingigantire quanto più è possibile; ma quando essi fossero giunti alla massima misura, egli dovrebbe aver il coraggio e l'intelligenza di soddisfarli e appagar tutte le sue brame. Questo, io affermo, è la giustizia e la nobiltà naturale. Ma la maggior parte delle persone non sa far ciò, e biasima coloro che sanno farlo, perché si vergognano della propria incapacità, e desiderano nasconderla : perciò chiamano la opraffazione bassezza... Essi rendono schiave le nature più nobili e lodano la giustizia soltanto perchè sono codardi».

Questa giustizia non e una morale da uomini, ma da lacchè (oude gar andros all'àndrapodou tinos); è una morale da schiavi, non da eroi; le virtù vere di un uomo sono il coraggio (andreia) e l'intelligenza (phronesis) (Gorgia, 491; cfr. la definizione della virtù secondo Machiavelli: intelligenza più forza).
Forse questo aspro immoralismo riflette lo sviluppo dell'idea di supremazia della politica estera di Atene e il suo barbaro trattamento degli Stati più deboli (Barker, pag. 73.). « Il vostro impero - dice Pericle nell'orazione che Tucidide gli mette in bocca - è basato nella vostra forza più che sulla buona volontà dei vostri sudditi . E lo stesso storico riferisce ciò che dicono i messi ateniesi per costringere Melos ad allearsi ad Atene nella guerra contro Sparta: «Voi sapete benissimo, come noi, che, da che mondo è mondo, la giustizia esiste soltanto tra eguali: i forti fanno ciò che possono, e i deboli sopprtano ciò che debbono». (Storia della guerra del Peloponneso, 105).

Dobbiamo tendere alla rettitudine o al potere? - È meglio esser buoni o esser cattivi?
Come accetta Socrate - cioè Platone - la sfida di questa teoria? Da prima non l'accetta affatto. Egli dimostra che la giustizia è un rapporto fra individui dipendenti dalla organizzazione sociale; e che, in conseguenza, essa va studiata come parte della struttura di una collettività, piuttosto che nella condotta morale dell'individuo. Se - egli dice - possiamo rappresentarci uno Stato giusto, tanto meglio sapremo definire un individuo giusto. Platone si scusa di questa digressione, adducendo che, come per mettere alla prova la forza visiva di una persona le facciamo leggere un carattere grande, poi uno più piccolo, così è più facile analizzare la giustizia su larga scala, piuttosto che in piccola la condotta individuale. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare : in verità, il Maestro sta cucendo insieme due libri, e usa questa tesi come costura. Non vuole discutere soltanto i problemi della morale individuale, ma anche quelli di una ricostruzione sociale e politica. Ha in sè un'utopia ed è deciso a mostrarla. Ed è facile perdonargli, perchè la digressione costituisce l'essenza e il valore del suo libro.

IL PROBLEMA POLITICO
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"La giustizia sarebbe un problema semplice - dice Platone - se gli uomini fossero semplici; basterebbe un comunismo anarchico".
Per un istante egli si abbandona alla sua fantasia:
« Prima di tutto, consideriamo quale sarà il loro modo di vivere... « Non penseranno a procurarsi da sè grano, abiti, e scarpe e non fabbricheranno da sè le proprie case? E quando saranno ricoverati come si deve, lavoreranno in estate vestiti alla meglio e a piedi scalzi, ma saranno ben coperti e calzati durante l'inverno. Si nutriranno d'avena e di frumento, impastando e cuocendo la farina, e facendo con essa delle belle focacce e pagnotte; le imbandiranno su una stuoia intessuta di cannucce o di foglie pulite, mentre staranno sdraiati su giacigli di ami di tasso o di mirto. E staranno allegri con i propri figli, bevendo il vino fabbricato da loro, con la testa adorna di ghirlande e glorificando gli dèi; sarà una tranquilla vita socievole, e tutti avranno cura che la propria famiglia viva adeguatamente ai suoi mezzi. Poichè sapranno cosa sono la povertà e la guerra... Naturalmente avranno anch'essi il loro ristoro - sale, olivo e cacio, e cipolle, e cavoli, ed altre verdure dei campi, che vanno bollite; e daremo loro fichi, legumi, fagioli, bacche di mirto e faggiuola, che arrostiranno al fuoco, bevendo con moderazione. Con questa dieta saranno certi di vivere in pace fino a tarda età, lasciando in eredità ai proprii figli un simile sistema di vita ».

Osservate qui l'accenno fugace al controllo demografico (infanticidio, presumibilmente), al vegetarianismo, e al «ritorno alla natura», alla semplicità primitiva, che la leggenda ebraica rappresenta nel Giardino dell'Eden. Tutto questo è detto per bocca di Diogene, il «Cinico », il quale - come dice appunto l'epiteto - pensava fosse necessario «tornare alle bestie e viver con esse : sono così tranquille e riservate». Quasi ci verrebbe la voglia di metter Platone accanto a Saint-Simon, a Fourier, a William Morris e a Tolstoi. Ma egli è alquanto più scettico di questa gente di fede, e passa oltre tranquillamente alla domanda: Perché, dunque, un paradiso simile non si realizza? Come va che queste utopie non si avverano mai nel mondo?
Egli risponde che la causa dipende dalla cupidigia e dal lusso. Gli uomini non si contentano di una vita semplice; sono avidi, ambiziosi, attaccabrighe, e gelosi; si stancan subito di ciò che hanno e mirano a ciò che non hanno; di rado essi desiderano una cosa che non sia già posseduta da altri. Ne viene di conseguenza l'usurpazione di una tribù sul territorio di un'altra, la rivalità tra le diverse tribù a proposito delle risorse del suolo, e infine la guerra. Il commercio e la finanza hanno incremento e portano con se la divisione di classe. Ogni città ne contiene comunemente due, una de' poveri e l'altra dei ricchi, in eterno conflitto tra loro; ognuna, poi, ha le sue suddivisioni - sarebbe un errore trattare ciascuna come un singolo Stato » (423).
Sorge una borghesia mercantile, i cui membri cercano di farsi una posizione sociale con la ricchezza e un enorme consumo: spenderanno somme ingenti per le loro donne (548). Questa diversità nella distribuzione della ricchezza produce mutamenti politici: quando la ricchezza della classe commerciante supera quella dei proprietarii di terra, l'aristocrazia cede il posto a una oligarchia plutocratica - i mercanti ricchi e i banchieri hanno in mano le sorti dello Stato. Allora la scienza di governo, che è la coordinazione delle forze sociali e l'adattamento della politica al progresso, viene sostituita dalla lotta politica, che vuol dire strategia di partito e brama di poteri usurpati.
Ogni forma di governo tende a perire per eccesso del proprio principio fondamentale. L'aristocrazia si rovina, limitando troppo la cerchia entro cui è confinato il potere; l'oligarchia si perde per un'incauta lotta per la ricchezza immediata. In ambedue i casi, si va sempre a finire nella rivoluzione.

Quando la rivoluzione scoppia, può sembrare che essa abbia origine da minime cause e da meschini capricci; eppure, quantunque essa scaturisca spesso da un caso fortuito, è sempre il rapido risultato di gravi mali accumulati; quando un corpo è indebolito da malattie trascurate, un piccolo mutamento del clima può produrre una malattia seria (556).
Poi viene la democrazia: la classe povera ha il sopravvento su' suoi oppositori, ne massacra una parte e manda in esilio l'altra; e dà al popolo una uguale parte di libertà e di potere » (557).

Ma anche la democrazia va a rovina per eccesso di... democrazia. Essa è basata sul principio che tutti hanno il medesimo diritto di ottenere uffici pubblici e di aver voce in capitolo. A prima vista questo principio ha tutto l'aspetto di un ordinamento ideale; ma diventa disastroso quando il popolo non è abbastanza preparato dalla cultura a scegliere i migliori capi e i mezzi più saggi (558).

Quanto al popolo, esso non ha autonomia intellettuale, e non fa che ripetere quello che passa per la testa ai capi (Protagóra, 317); per poter accettare o respingere una dottrina, basta vederla esaltata o messa in ridicolo in una commedia popolare (queste parole si riferiscono certo ad Aristofane, le cui commedie attaccavano quasi ogni nuova idea). Il governo della plebe è certo come un mare in burrasca, su cui il veliero dello Stato deve navigare; ogni opinione di retori fa gorgogliar le onde e cambiare direzione alla rotta. Il risultato d'una simile democrazia è un governo tirannico, oppure autocratico: la folla ama tanto l'adulazione, è tanto « ingorda di miele », che l'adulatore più scaltro e senza scrupoli, il quale si atteggi a « protettore del popolo », sale al potere supremo (565). (Considerate la storia di Roma).

Più Platone ci pensa, e più si meraviglia della follia di lasciar la plebe scegliere a capriccio gli amministratori della cosa pubblica - senza parlare di quegli strateghi di dubbia moralità, a servizio della ricchezza, che tirano i fili oligarchici dietro la scena democratica. Platone si lamenta di questo: che mentre nelle cose semplici - come, ad esempio, il fabbricar le scarpe - noi crediamo la sola persona del mestiere capace di servire al nostro scopo, in politica presumiamo, invece, che tutti coloro i quali sanno conquistarsi i voti, sappiano anche amministrare uno Stato o una città. Quando siamo ammalati chiamiamo un medico provetto, che dia garanzia di una preparazione specifica e di competenza tecnica. Non ci fidiamo del medico più bello o più eloquente; e quando tutto lo Stato è malato, perchè non dovremo affidarne la guida agli uomini più saggi e migliori?
Il problema della filosofia politica è, dunque, quello di scoprire un metodo per bandire l'incompetenza e la disonestà dai pubblici uffici e scegliere e preparare i migliori a proteggere il bene pubblico.

IL PROBLEMA PSICOLOGICO

Ma dietro questi problemi politici è la natura dell'uomo: per capir la politica, dobbiamo, purtroppo, capire la psicologia. « Come l'uomo, così lo Stato » (575); « i governi variano secondo i caratteri degli uomini...; gli Stati sono fatti delle nature umane che vi si trovano » (544); "lo Stato è quello che è, _perché i cittadini sono quello che sono".
Non dobbiamo, dunque, aspettarci uno Stato migliore, finchè non abbiamo uomini migliori: fino a quel giorno, tutti i possibili cambiamenti lasceranno immutate le cose essenziali. «È pur graziosa la gente! - sempre sotto cura, accresce e complica i proprii mali, spera di guarire con un certo farmaco, suggerito da qualcuno, e non migliora mai, ma peggiora... Pare stia giocando, fa pratica di legislazione, e s'immagina che, promuovendo riforme, metterà fine alle disonestà e alle furfanterie dell'umanità... e non s'accorge che, in realtà, sta tagliando le teste di un'idra » (425).

Esaminiamo un po' il materiale umano, con cui ha da fare la filosofia politica.
La condotta umana, dice Platone, scaturisce da tre sorgenti principali: desiderio, emozione e sapere. Desiderio, appetito, impulso, istinto sono una di queste prime sorgenti; emozione, spirito, ambizione, coraggio formano la seconda; sapere, pensiero, intelletto, ragione formano la terza. Il desiderio ha sede nella carne; è un serbatoio rigurgitante di energia, fondamentalmente sessuale. L'emozione ha sede nel cuore, nell'afflusso e nella forza del sangue; è la risonanza organica dell'esperienza e del desiderio. Il sapere ha sede nel cervello; esso è l'occhio del desiderio e può divenire il pilota dell'anima.
Tutte queste potenze e qualità risiedono in tutti gli uomini, ma in grado diverso. Taluno non è che l'incarnazione del desiderio: sono anime inquiete e ingorde, tutte assorbite da cure e lotte materiali, ardenti per brama di ricchezza e d'apparenza, le quali considerano nulla i propri guadagni di fronte alle proprie mire, che vedono vieppiù allontanarsi. Tali sono gli uomini che dominano e manipolano l'industria. Ma ve ne sono altri, templi di sentimento e coraggiosi, i quali non considerano molto ciò per cui essi lottano, ne la vittoria « in sè e per sè» ; sono pugnaci, più che conquistatori; la loro fierezza consiste nel potere più che nel possesso, la loro gioia è sul campo di battaglia e non sul mercato sono gli uomini che costituiscono gli eserciti e le armate del mondo. E finalmente pochi uomini trovano la propria gioia nella meditazione e nell'intelletto; non anelano ai beni materiali, nè alla vittoria, ma al sapere; essi lasciano il mercato e il campo di battaglia, per chiudersi nella chiarezza calma del pensiero solitario: la loro volontà è una luce più che un fuoco; mirano non al potere, ma alla verità. Tali sono le creature della saggezza, che restano appartate, dimenticate dal mondo.

Orbene, l'azione individuale, per riuscire efficiente, esige che il desiderio, pur essendo riscaldato dall'emozione, sia guidato dal sapere: così, nello stato perfetto, le forze industriali produrrebbero, ma non governerebbero; le forze militari proteggerebbero, ma non governerebbero; le forze del sapere, della scienza e della filosofia sarebbero nutrite e protette, e governerebbero.
Non guidata dal sapere, la plebe è una moltitudine disordinata, per i suoi confusi desideri: il popolo ha bisogno della guida di filosofi, come i desideri hanno bisogno di essere illuminati dal sapere: «La rovina incomincia quando il mercante, innalzato dalla ricchezza, sale al potere » (434); oppure quando il generale usa il proprio esercito per istabilire una dittatura militare. Il produttore è al suo posto nel campo economico, il guerriero in battaglia: sono ambedue fuori di posto nei pubblici uffici; e nelle loro mani rozze lo spirito politicante annienta la scienza della politica. Poiché questa è veramente una scienza e un'arte; bisogna aver vissuto per essa ed esservi preparati da lungo tempo. Solo un re filosofo è capace di reggere una nazione. « Fin che i filosofi non sono re, oppure, fin che i re e i principi di questo mondo non hanno lo spirito e la forza della filosofia, e la saggezza e il potere politico non risiedono nel medesimo individuo... le città, e neppure la razza umana cesseranno dall'essere malate » (473).
Ecco la chiave di volta del pensiero platonico.

LA SOLUZIONE PSICOLOGICA

Che cosa dobbiamo, dunque, fare?
Dobbiamo cominciare col «mandare in campagna tutti gli abitanti della città, che hanno più di dieci anni, e prendere in consegna i bambini, i quali saranno così protetti dalle abitudini dei loro genitori» (540). Non possiamo formare un'utopia con la gioventù corrotta fino al midollo delle ossa dall'esempio dei genitori. E' necessario incominciare dalle basi, se possibile. Può anche darsi che un governante illuminato si metta in grado, un giorno o l'altro, di tentare un tale esperimento in qualche parte o colonia del suo regno. (Uno, infatti, lo tentò, come vedremo). Ad ogni modo, dobbiamo dare ad ogni ragazzo, sin dall'inizio, un'eguaglianza perfetta di possibilità culturali: non si può dire in che punto si accenda la luce dell'intelletto o del genio; è nostro dovere cercarlo ovunque, imparzialmente, in ogni classe sociale e in ogni razza. La prima tappa del nostro cammino è una cultura universale.

"Per i primi dieci anni di vita, la cultura deve essere essenzialmente fisica; ogni scuola deve avere la propria palestra e un campo di giuoco; giuoco e sport ne debbono costituire il programma completo. Così nel primo decennio si creerà una tale riserva di salute, da rendere inutile ogni sorta di medicine. Non è' forse una sventura aver bisogno della medicina, perché, con una vita indolente e fastosa, gli uomini si sono riempiti, come stagni, di acqua e di vento... flatulenze e catarro?... . Si può affermare che il sistema adottato oggi dalla medicina, educhi le malattie, e le tiri in lungo, piuttosto che curarle. Ma questa è un'assurdità del ricco ozioso.

«Quando un falegname è ammalato, chiede al medico un rimedio energico e pronto - un emetico, una purga, un caustico o il bisturi. E se gli si dice di seguire una cura dietetica, di fasciarsi e di ungersi la testa, o simili, egli risponde subito che non ha tempo di esser malato e che non può soffrire una vita dedita alla cura del suo male, a scapito della sua consueta professione. Allora dice addio a quella specie di medici e riprende la sua dieta comune; e, o guarisce e vive e si dedica alle proprie faccende, oppure, se la sua costituzione cede, muore, e tutto è finito» (405-6).
Non possiamo avere una nazione di malaticci o d'invalidi; l'Utopia deve cominciare dal corpo umano.

Ma l'atletica e la ginnastica farebbero l'uomo troppo unilaterale.
«Come trovare una natura gentile che abbia anche un grande coraggio? - Sembra che gentilezza e coraggio non vadano affatto d'accordo» (35). «Non vogliamo una nazione di gente capace soltanto di
lottare per un premio e di sollevar pesi. Forse la musica risolverà il nostro problema: con la musica, l'anima apprende il ritmo e l'armonia, e «persino una certa tendenza alla giustizia; poiché, come può essere ingiusto chi è armonicamente costituito? Non è forse per questo, Glauco, che l'educazione musicale è molto potente? Ritmo e armonia penetrano nei segreti meandri dell'anima, e dànno grazia ai movimenti è di grazia adornano l'anima » (401; Protagora, 326).
La musica foggia i caratteri, ed ha perciò la sua parte nel determinare alcune situazioni sociali e politiche. «Damone mi dice - ed io posso benissimo crederlo - che, quando cambia la foggia musicale, le leggi fondamentali dello Stato cambiano con essa » (Cfr. Daniel O' Connell. « Lasciatemi scrivere i canti di una nazione, e non m'importerà di sapere chi fa le leggi »).
La musica è preziosa non solo perché essa dà una certa raffinatezza al sentimento e al carattere, ma anche perché conserva e ridona la salute. Esistono malattie che possono essere curate soltanto attraverso la mente (Carmide, 157): così il sacerdote Coribante curava le donne isteriche con la musica di pifferi che le eccitava a ballare e ballare, finché cadevano a terra esauste e si addormentavano: quando si svegliavano erano guarite. Le sorgenti inconscie del pensiero umano sono in tal modo toccate e addolcite; in questi substrati della condotta morale e del sentimento il genio getta le proprie radici. «Nessun uomo cosciente raggiunge la vera intuizione ispirata, ma la trova quando la potenza intellettiva è astratta dal sonno, da una malattia o dalla demenza; il profeta (manike), oppur genio è simile al pazzo (manike) (Fedro, 224).

Platone precorre, in modo impressionante, la nostra «psicanalisi». La nostra psicologia politica è perplessa, egli dice, perché non abbiamo adeguatamente studiato i vari appetiti o istinti dell'uomo. I sogni ci daranno il modo di capire le più sottili ed esclusive fra queste disposizioni di spirito.
«Si crede che alcuni piaceri non necessari e alcuni istinti siano illeciti; ogni uomo, probabilmente, li ha, ma in qualche persona essi sono «soggetti al controllo della legge e della ragione (« sublimati »); i desideri migliori hanno il sopravvento sugli altri, che vengono totalmente repressi o ridotti in forza e numero; al contrario, i desideri volgari hanno maggior forza e sono più numerosi in altre persone. Intendo parlare soprattutto di quei desideri che si risvegliano quando la ragione, il dominio e la padronanza di noi stessi ("censore") sono addormentati: la bestia selvaggia, che si nasconde in noi ed è nutrita di carne e di bevande, si erge, si denuda e si sazia a volontà; non esiste follia concepibile o delitto, per quanto vergognoso e snaturato - non eccettuato l'incesto o il parricidio ("la trama di Edipo") - di
cui quella creatura non possa macchiarsi... Ma quando il polso di un uomo è sano e temperato, ed egli va a dormire tranquillo, in possesso delle proprie facoltà mentali... dopo aver appagato i propri appetiti non troppo ne troppo poco, ma solo quant'è necessario per farli tacere... non è facile ch'egli si trovi in balia di fantasiose visioni sfrenate... In tutti noi, anche nei buoni, esiste una natura bestiale latente, che fa capolino nel sonno". (571-2)

Musica e misura dànno grazia e salute all'anima e al corpo; ma troppa musica è altrettanto pericolosa della troppa atletica. Essere solo atleta vuol dire essere quasi un selvaggio; ed essere soltanto un musicista significa «esser tenero e molle assai più della giusta misura» (410).
I due individui devono andare uniti; dopo compiuto i sedici anni, lo studio individuale della musica va abbandonato, mentre il canto corale, come i giochi in comune, durerà per tutta la vita. E nemmeno la musica dev'essere soltanto musica; ma usata per dar forma attraente agli aspetti, spesso disgustosi, della matematica, della storia e della scienza; non v'è ragione perché questi difficili studi non debbano essere addolciti dal verso abbelliti dal canto. Ed anche allora, questi studi non debbono essere imposti a una mente renitente; lo spirito di libertà deve prevalere, entro i dovuti l'miti. «Gli elementi della cultura... dovrebbero esser presentati all'intelligenza nella fanciullezza, ma senza alcuna coercizione; giacché un uomo libero, dev'essere libero anche nella conquista del sapere... La cognizione imposta non fa presa sull'intelligenza. Non usate, dunque, la coercizione, ma fate in modo che la cultura sia una specie di divertimento; vi sarà così più facile scoprire la naturale tendenza del bambino» (536).

"Con le menti che si svilupperanno in questa libertà e i corpi resi forti dallo sport e dalla vita all'aria aperta, il nostro stato ideale avrebbe una solida base psicologica e fisiologica, capace di ogni possibilità di sviluppo. Ma occorre anche provvedere a una base morale: i membri della comunità debbono formare un'unità; debbono imparare che ognuno di essi è un membro del tutto; che ognuno deve agli altri cortesia e obblighi. Ma finché gli uomini sono per natura ingordi, combattivi ed erotici, come si potrà persuaderli a comportarsi bene? Con l'organizzazione onnipresente della polizia? E' un metodo brutale, costoso e irritante. Ne esiste uno migliore e, cioè, dare alle esigenze della comunità la sanzione di una autorità soprannaturale".
"Dobbiamo avere una religione".

Platone crede che una nazione non può essere forte se non crede in Dio. Una semplice forza cosmica, o causa prima, o élan vital, che non è persona, non potrebbe ispirare speranza, né devozione, nè sacrificio; non darebbe conforto al cuore degli afflitti e nemmeno coraggio alle anime contristate. Ma un Dio vivente può fare tutto questo, può incitare sbigottire l'individuo egoista e ridurlo alla moderazione dei propri appetiti, al controllo delle proprie passioni. Tanto meglio se alla credenza in Dio si unisce quella nell'immortalità personale; la speranza di una vita futura ci dà coraggio di affrontare la morte e di sopportare quella dei nostri cari; siamo doppiamente armati, se combattiamo con fede. Ammettiamo pure che nessuna delle varie credenze può essere dimostrata; che Dio può essere, dopo tutto, l'ideale purificato del nostro amore e della nostra speranza, e che l'anima è come la musica della lira, muore con l'istrumento che le diede forma; però è certo (così dice Fedone, alla Pascal), che non ci nuocerà credere, anzi, farà un gran bene a noi e ai nostri figli.
Avremo certamente da fare con questi nostri bambini, se ci mettiamo in testa di spiegare e giustificare ogni cosa alla loro semplice mentalità. E il peggio verrà dopo, quand'essi, giunti all'età di vent'anni, faranno il primo scrutinio e il primo esame di ciò che hanno imparato nei loro anni di scuola in comune. Ne seguirà una spietata sarchiatura, che noi potremo chiamare la Grande Eliminatoria. Non si tratterà di un puro esame accademico, perché sarà pratico e teorico: «vi saranno anche dolori, pene e lotte» (413).

Avranno la possibilità di mettere in mostra tutta la loro bravura e ogni specie di stupidità verrà in luce. Coloro che non si dimostrano idonei saranno destinati a lavorare alla vita economica della nazione; saranno uomini d'affari, impiegati, lavoratori dei campi e massaie. L'esame sarà imparziale e impersonale; si deciderà se un giovane debba diventare massaio o filosofo non per un monopolio della possibilità o del favoritismo nepotistico; la selezione sarà più democratica della democrazia.
Coloro che supereranno questo esame dovranno fare ancora dieci anni di studio e di pratica, per il perfezionamento del corpo, della mente e del carattere. Poi affronteranno un secondo esame, assai più severo del primo. Quelli che verranno respinti diventeranno ausiliari o agenti esecutivi e ufficiali militari dello Stato. In queste grandi eliminatorie sarà necessario mettere in opera ogni mezzo di persuasione per convincere gli eliminati ad accettare il proprio destino con dignità e calma. Importa moltissimo impedire che la maggioranza scartata al primo esame, e poi il secondo gruppo di eliminati, minore di numero, ma più forte e capace, si facciano avanti e riducano questa nostra Utopia a un ricordo evanescente.
Che cosa può impedir loro di costituire un mondo, nel quale il numero e la forza soltanto saranno ancora al potere e la commedia stomachevole d'una sedicente democrazia si instauri di nuovo da capo ad nauseam?

La religione e la fede soltanto saranno la nostra salvezza: potremo dire a tutti quei giovani che le gerarchie a cui essi furono ascritti sono state decretate da Dio e irrevocabili e che nemmeno tutte le loro lacrime potrebbero cancellare anche una sola parola di quelle decisioni. Potremo raccontar loro il mito dei metalli
Cittadini, siete fratelli, eppure Dio vi ha dato forma diversa. Qualcuno di voi ha la facoltà del comando; e questo, Egli lo ha fatto d'oro, conferendogli il massimo onore; altri li ha fatti d'argento, per essere d'aiuto ai primi; altri ancora, che saranno contadini e artigiani, furon fatti di rame e di ferro; e le diverse specie di metalli umani saranno generalmente conservate nei figli. Ma siccome siete tutti originari della stessa famiglia, un padre d'oro avrà talvolta un figlio d'argento, oppure un padre d'argento avrà un figlio d'oro. E Dio proclama... che, se il figlio di un padre d'oro o d'argento ha in se un misto di rame e di ferro, la natura esige una trasposizione di classe; e l'occhio di chi comanda non deve aver pietà di suo figlio, cui tocca di scendere nella scala sociale e farsi contadino o artigiano, proprio come altri usciti dalla classe artigiana sono saliti in onore e son diventati reggitori o ausiliari. Giacché un oracolo dice che, quando un uomo di rame o di ferro regge lo Stato, egli sarà distrutto» (415).

Questa « favola regale » assicurerà un consenso quasi incontrastato al resto del nostro piano.
Ed ora, che cosa ne sarà dei fortunati rimasti, passati allo setaccio di queste selezioni successive?
Si insegnerà loro filosofia. Hanno ormai raggiunto il loro trentesimo anno; non sarebbe stato saggio far loro gustare questa cara delizia troppo presto;... i giovani, appena s'accostano alla filosofia, vi cercano un passatempo e non fanno che contraddire e confutare... come i cuccioli, che amano addentare e lacerare tutto ciò che capita loro tra le «grinfie» (359).
"Questa cara delizia, che è la filosofia, implica soprattutto due cose: pensare con chiarezza - e questa è metafisica; e governare saggiamente - e questa è politica. I nostri giovani selezionati dovranno imparare innanzi tutto a pensare con chiarezza. E a questo scopo studieranno la dottrina delle idee".

Ma questa famosa dottrina delle idee, abbellita e annebbiata dalla fantasia e dalla poesia di Platone, è un labirinto scoraggiante per lo studioso moderno, e deve aver richiesto un altro severo esame dei giovani selezionati dalle diverse vagliature.
L'idea di una cosa potrà essere l'« idea generale » della classe a cui la cosa appartiene (l'idea di Giovanni, Guglielmo, Enrico è l'uomo); oppure essa potrà essere la legge o le leggi secondo cui la cosa opera (l'idea di Giovanni sarebbe la sommissione della sua condotta alle leggi naturali); oppure potrebbe essere il fine perfetto e ideale, verso cui la cosa e la sua classe si sviluppano (l'idea di Giovanni è Giovanni dell'Utopia). Probabilmente l'idea comprende tutto questo - idea, legge e ideale. Dietro i fenomeni superficiali e i particolari che colpiscono i nostri sensi esistono generalizzazioni, schemi e vie di sviluppo, che sfuggono alla sensazione, ma che sono percepite dalla ragione e dal pensiero. Queste idee, leggi e ideali sono più che permanenti - e perciò più reali - delle cose particolari percepite dai sensi, attraverso le quali noi li percepiamo e denunciamo; Uomo è più permanente di Tom, o Guglielmo, o Enrico; questo circolo e nato dal movimento della mia matita e scompare sotto l'attrito della mia gomma, ma la concezione di circolo permane. Quest'albero sta ritto, e quell'albero cade; ma le leggi che determinano quali corpi debbono cadere, quando e come, non ebbero principio; esistono ora, esistevano sempre, senza fine. Il gentile Spinoza direbbe che esiste tutto un mondo percepito dal senso, e un mondo di leggi arguito dal pensiero : noi non vediamo la legge dei quadrati inversi, ma essa esiste, e ovunque; esisteva prima che ogni cosa incominciasse e sopravvivrà anche quando tutto il mondo delle cose non sarà che un racconto finito.

Ecco un ponte: il senso percepisce il calcestruzzo e il ferro per cento milioni di tonnellate; ma il matematico vede, con gli occhi della mente, l'ardita e delicata armonia di tutta quella massa di materiale con le leggi della meccanica, della matematica e dell'ingegneria, leggi alle quali deve sottostare la costruzione di ogni ponte; e se il matematico fosse anche poeta, vedrebbe ugualmente le leggi che sostengono il ponte; se le leggi fossero violate, il ponte cadrebbe nel fiume sottostante; le leggi sono il Dio, che sostiene il ponte nel cavo della mano. Aristotele accenna a qualcosa di simile, quando dice che per « idee » Platone intendeva ciò che intendeva Pitagora per « numero », quando insegnava che il nostro è un mondo di numeri (voleva dire, probabilmente, che il mondo è retto da verità e leggi matematiche).
Plutarco ci dice che, secondo Platone, «Dio geometrizza sempre»; oppure, secondo Spinoza quando esprime lo stesso pensiero, Dio e le leggi universali di struttura e di azione sono sempre la medesima realtà. Per Platone, come per Bertrand Russell, la matematica è, perciò, indispensabile preludio alla filosofia e alla sua forma sublime: sulle porte della sua Accademia Platone pose - come avrebbe fatto Dante - queste parole «Non entri alcuno che ignori la geometria» (I particolari della disputa per l'interpretazione data qui alla dottrina delle idee si possono trovare nel Platone di D. G. Ritchie, Edimburgo, 1902, spec. alle pagg. 49 e 85).
"Senza queste idee - queste generalizzazioni, leggi e ideali - il mondo sarebbe per noi ciò che esso deve sembrare agli occhi semiaperti del neonato, un ammasso, cioè, di sensazioni staccate, senza categorie e senza significato; poichè alle cose vien conferito un significato classificandole e generalizzandole, trovando le leggi del loro essere, e il movente e lo scopo della loro attività. Oppure, il mondo senza idee sarebbe un insieme di titoli di libri, caduti a caso dal catologo, in cui fossero stati ordinati per classi, per serie, per destinazioni; sarebbero come le ombre di una caverna paragonate alle realtà illuminate esternamente dal sole, che gettano nella caverna quelle ombre fantastiche e fallaci" (514).
Quindi l'essenza della somma cultura è la ricerca delle idee; delle generalizzazioni, delle leggi di successione e linee ideali di sviluppo; dietro le cose dobbiamo scoprire le loro relazioni e il loro significato, il loro modo e legge di azione, la funzione o l'ideale cui esse servono e che adombrano; dobbiamo classificare e coordinare la nostra esperienza sensibile in termini di legge e scopo: soltanto perché aliena da tutto questo la mente dell'imbecille differisce dalla mente di Cesare.

Orbene, dopo cinque anni di scuola in questa recondita dottrina delle idee, quest'arte di percepire forme significative e coordinazioni causali e potenzialità ideali tra il disordine e il pericolo delle scnsazioni; dopo cinque anni di tirocinio nell'applicazione di questo principio alla condotta degli uomini e degli Stati; dopo questa lunga preparazione dall'infanzia, attraverso la gioventù fino alla maturità di trentacinque anni, siamo certi che questi prodotti perfetti sieno pronti ad assumere la porpora regale o le più alte funzioni della vita pubblica? Saranno essi, veramente, dei re-filosofi, atti a reggere e a liberare la razza umana?

Ahimè! non ancora. La loro educazione non è compiuta. Nel complesso essa non è stata che un'educazione teorica; qualche altra cosa è necessaria. Fate che questi dottori in filosofia passino dalle eccelse vette filosofiche alla « caverna » del mondo degli uomini e delle cose: le generalizzazioni e le astrazioni non hanno alcun valore se non sono saggiate nel mondo del concreto: i nostri studenti entrino, dunque, in questo mondo senza favoritismi; competano essi con gli affaristi, con i cupidi individualisti dalla testa dura, con i forti e gli astuti; in questa lizza di combattimento essi impareranno dal libro stesso della vita; si faranno male alle mani e si scorticheranno le gambe filosofiche a contatto della cruda realtà del mondo; si guadagneranno il pane col sudore per quindici lunghi anni. Qualcuno dei nostri prodotti perfetti non reggerà alla fatica e verrà sommerso da quest'ultima forte ondata di eliminazione. Potranno cooperare coloro che sopravvivranno, contusi e cinquantenni, sobri e sicuri di sè, liberati di ogni scolastica vanità dallo spietato attrito con la vita, e ormai armati di tutta la saggezza che viene dalla tradizione e dalla esperienza, dalla cultura e dalla lotta.
Questi uomini, infine, diventeranno automaticamente reggitori dello Stato.



Nel prossimo capitolo...
ANNO 427-347 a.C.
PLATONE: SISTEMA COMUNISTA?


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