GRECIA - STORIA
* NASCE L' IMPERO PERSIANO
* IL PRIMATO DI SPARTA - * L'ASCESA DI ATENE


La pianura di Sparta con in fondo il Taigeto

 


Mentre terminava il settimo secolo e iniziava il sesto a. C. nelle regioni dell'Eufrate ci fu un evento della massima importanza per le conseguenze avvenire: l'impero assiro, che per tanto tempo era stato la potenza preponderante in Asia, soggiacque alle forze collegate dei Medi e dei Babilonesi. Dopo la sconfitta i Medi portarono le loro armi verso Occidente e procedendo vennero a conflitto col regno di Lidia. Dopo alcuni anni di guerra fu conclusa una pace che stabilì all'Halys il confine tra i due dominii (585).
Non passò che una generazione e l'impero dei Medi nel 558 a.C. iniziò ad essere conquistato dai Persiani, guidati da Ciro II il Grande che otto anni dopo, nel 550, occupò definitivamente Ectabana, capitale dei Medi.

CRESO re di Lidia, ritenne giunto il momento propizio di intervenire, per fermare questi Persiani, anche perché intendeva lui estendere la propria signoria ad oriente. Passò col suo esercito l'Halys, ma ben presto si accorse di avere sottostimato le forze ed il valore dei Persiani e perciò decise di ritornarsene alla sua capitale Sardi per preparare e organizzare meglio una nuova campagna. Se non che Ciro gli si pose alle calcagna; nella pianura dell'Ermo la cavalleria lidia fu sbaragliata dagli squadroni persiani, Sardi fu circondata e dopo un breve assedio fu presa d'assalto e incendiata; lo stesso re cadde nelle mani del vincitore (546 a. C.). ( Secondo una tradizione Creso morì nel rogo della sua città. Secondo Erodoto fu invece magnanimamente salvato da Ciro).

Con questa spietata conclusione, tutto il regno di Lidia rimase distrutto; le città elleniche del litorale opposero ancora qualche resistenza ai Persiani per qualche tempo, ma ben presto vennero anch'esse costrette a sottomettersi.
Soltanto i cittadini della potente città marittima di Focea non seppero adattarsi a piegarsi al giogo persiano. Per la massima parte essi si imbarcarono sulle loro navi e cercarono una nuova patria nel lontano occidente, nell'isola di Cirno (Corsica), dove già alcuni decenni prima avevano fondato una colonia ad Alalia. Essi intendevano creare una base piu forte alla loro signoria coloniale e di procedere alla conquista del dominio su tutto il bacino occidentale del Mediterraneo.

Di fronte a questo pericolo i Fenici non potevano rimanere spettatori inoperosi. Essi erano venuti in Occidente quasi contemporaneamente ai Greci e vi avevano fondato sulla costa settentrionale dell'Africa una serie di fiorenti colonie; e fra queste Cartagine, che grazie alla sua favorevole posizione era salita in potenza al di sopra di tutte le altre e le aveva assoggettate alla sua alta sovranità. Anche sulle isole davanti alla costa africana erano sorte delle stazioni fenicie, nell'occidente della Sicilia, nella Sardegna, nelle Pitiuse e nella piccola isola di Gades presso la sponda iberica al di là delle colonne d'Ercole.
Già verso il 600 a. C. essi avevano sventato un tentativo fatto dagli abitanti di Cnido di fondare una colonia a piedi del monte Erice sulla costa occidentale della Sicilia, ed i coloni greci dovettero accontentarsi di cercare un rifugio nelle sterili isole Lipari.

Così Cartagine anche questa volta si oppose all'occupazione di Cirno in Corsica da parte dei Focesi; e nell'agire essa trovò degli alleati negli Etruschi che si vedevano anche più direttamente minacciati dal sorgere della vicina nuova colonia greca. I due popoli unirono le loro flotte e diedero ai Focesi ad Alalia battaglia sul mare. La vittoria tuttavia andò agli Elleni, ma nella lotta contro il nemico superiore per numero essi subirono perdite così gravi che non furono più in grado di sostenersi a Cirno. Abbandonarono quindi l'isola e si stanziarono ad Elea presso Posidonia sulla costa occidentale d'Italia. Dopo quell' infruttuoso tentativo, non fu neppure possibile mantenere più a lungo la colonia focese a Menace, così i Cartaginesi divennero i soli padroni sulle coste della regione argentifera di Tartesso che poterono da quel momento in poi sfruttare senza altri concorrenti.

Massalia invece respinse vittoriosamente gli attacchi dei Cartaginesi e seppe conservare la sua posizione dominante sulla costa ligure ed iberica sino al promontorio di Artemide (Capo de la Nao) che d'ora in poi divenne il punto di confine fra i domini greci e fenici.
Anche gli Etruschi tentarono di respingere indietro dai loro fianchi i Greci. Circa un decennio dopo la battaglia di Alalia essi attaccarono Cuma, l'estrema vedetta del dominio greco sul mar Tirreno. E' ben vero che subirono una grave sconfitta; tuttavia resero per il momento impossibile da questo lato una ulteriore espansione dei Greci verso nord, i quali si ridussero a rimanere sulla difensiva.

Nel frattempo Ciro in Oriente aveva conquistato anche l'impero babilonese, di modo che delle grandi potenze orientali non restava indipendente che il solo Egitto. Ma pure questa regione pochi anni dopo fu conquistata, dal figlio di Ciro, Cambise, dopo che i mercenari greci che difendevano il paese furono sconfitti in una grande battaglia combattutasi presso Pelusio ad oriente del Delta. In seguito a ciò Cipro e Cirene si sottomisero all'alta sovranità persiana.
L'impero persiano era adesso non solo la prima, ma addirittura l'unica grande potenza del mondo; accanto ad essa non vi erano che piccoli Stati. Sembrò pertanto, dipendere dalla magnanimità del gran re di portare i suoi confini dove meglio credeva.

La signoria persiana, per lo meno da principio, non fu per le città greche granchè gravosa di quello che era stata prima la signoria lidia. I Persiani lasciarono alle città conquistate piena libertà negli affari interni, anche se spesso intervennero perché a capo di esse salissero dei tiranni, i quali erano dal loro stesso interesse legati all'ordine di cose esistente.
Non venne limitato neppure il diritto delle città di farsi guerra fra loro; il re non chiese che il pagamento di un moderato tributo e la prestazione di milizie ausiliarie in guerra. La situazione quindi nella Jonia si era ben poco mutata nella sostanza, e dal punto di vista economico ed intellettuale il paese non era mai stato così fiorente come divenne nel mezzo secolo, che seguì la caduta del regno di Lidia.

Le isole rimasero tuttavia fuori del dominio persiano. Verso quest'epoca esse furono teatro di aspre lotte partigiane. A Mitilene si eressero a tiranni a breve distanza l'uno dall'altro Melancro e Mirsilo, ma furono entrambi abbattuti dopo un breve periodo di dominazione; alla fine il popolo stanco dei torbidi interni, collocò a capo dello Stato con poteri illimitati Pittaco, uomo di alto valore, che ripristinò l'ordine ed acquistò alla sua città il dominio sulla parte meridionale della Troade (verso il 550 a. C.).

A Samo, verso il 540, Policrate abbatté la dominazione dell'aristocrazia dei proprietari fondiari, i così detti geomori, e si pose egli stesso a capo dello Stato. Creò una grande flotta, con l'aiuto della quale si rese padrone del Mare Egeo e scorazzando in ogni angolo sottopose a tributo popoli amici e nemici; tuttavia egli impiegò le ricchezze così acquistate iniziando grandiose costruzioni.
Con l'Egitto e coll'impero persiano Samo si mantenne ugualmente nei migliori rapporti; ma quando poi scoppiò il conflitto fra le due potenze, egli prese un partito ed inviò a Cambise un contingente di navi da guerra, convinto di ricavarci qualcosa.
Ma, conquistato che fu l'Egitto, i Persiani furono piuttosto ingrati con lui, e Policrate deluso iniziò a comportarsi con loro molto male e quelli non intesero di tollerare più a lungo il flagello che Policrate stava conducendo sulle loro coste; essi attirarono con l'astuzia sul continente lo sfuggente tiranno contro il quale la forza non riusciva a fermarlo e lo fecero uccidere. Poi portarono le armi contro Samo che fu soggiogata con poca fatica.

I Persiani insomma erano ormai i padroni dell'intera Asia Minore, con tutte le città elleniche del litorale ormai a loro sottomesse. Prima Dario, poi Serse, i due re non sembrarono più magnanimi come Ciro, ed iniziarono ad avere mire precise: quella di entrare in Tracia, in Macedonia, nel mar Egeo e in Grecia, cioè estendere l'impero Persiano anche in occidente.
Del resto con i torbidi che c'erano ad Atene, i nemici di Pisistrato, speravano in una insurrezione, e il vecchio Ippia da anni mandato in esilio, credendola numerosa e a suo favore per rovesciare Pisistrato per poi riprendersi il potere, non trovò di meglio che unirsi ai Persiani per invadere la sua stessa terra. Fu infatti sua l'idea di far approdare i Persiani a Maratona.
Fu così che nell'anno 490 Re Dario inizia la prima guerra persiana. Avrà poi lo scacco a Maratona, ma uscito sconfitto e intenzionato a prendersi la rivincita con un esercito più potente, il re persiano fece i necessari preparativi occorrenti, ma prima di terminarli nel 485 morì.
Tuttavia con la morte di Dario, in Grecia e ad Atene, nonostante la vittoria, il timore di essere nuovamente invasi rimase; ed infatti, Dario lasciando l'eredità del regno al figlio Serse, questi era delle sue stesse intenzioni bellicose, e nel 480, dopo aver risolto alcuni problemi a est, iniziò la seconda guerra persiana.

Riprenderemo questi argomenti fin dall'inizio, nelle 2 successive puntate, in "Le Guerre Persiane"

SPARTA

Nel frattempo nello stesso arco di tempo (550-490) a Sparta i re della dinastia Agiade, avevano acquistato l'egemonia nel Peloponneso. Dopo il definitivo assoggettamento della Messenia essa era senza dubbio la prima potenza della penisola; pertanto ora tentò di espandersi anche a nord e ad oriente.
Con la vicina Tegea si svolse una lunga serie di lotte d'esito vario ed alterno; da ultimo fu concluso un trattato in base al quale Tegea conservò la sua autonomia, ma entrò in stretta alleanza con Sparta e si obbligò a prestar milizie in caso di guerra (550).
Trattati analoghi vennero in seguito conclusi con gli altri cantoni dell'Arcadia. Anche Elide, che verso quest'epoca aveva soggiogato la Pisatide, regione intorno al corso inferiore dell'Alfeo, accedette ora alla lega spartana.
Contro la potente Argo, Sparta fece una serie di guerre fortunate che ridussero in suo potere la regione di confine di Cinuria nella parte orientale del Parnone; tuttavia Argo, riuscì a conservare la propria indipendenza. Invece Corinto, Sicione e le altre città del centro dell'Argolide cercarono di appoggiarsi a Sparta ed entrarono nella sua lega, che in tal modo, fatta eccezione di Argo e dell'Acaia, abbracciò l'intero Peloponneso; anzi fra le città poste fuori della penisola fece adesione alla lega anche Megara.

E questo il primo organismo statuale di notevole entità che i Greci siano riusciti a costituire. Infatti, sebbene la lega tessalica avesse press'a poco la stessa ampiezza e quasi la stessa popolazione, essa aveva una potenzialità militare minore e soprattutto mancava di un saldo elemento di coesione, mentre nell'àmbito della lega peloponnesiaca il territorio dello Stato egemonico preso da solo era altrettanto grande quanto i territori di tutti gli altri membri della lega messi insieme. È perciò che questa lega, per quanto poco compatta fosse la sua organizzazione, ha avuto una lunga durata ; e fu ad essa che la nazione andò debitrice della sua salvezza nella crisi che doveva ben presto colpirla.

Verso la stessa epoca PISISTRATO (questo giovane, ponendo le basi per la sua ascesa futura, si era distinto alla battaglia di Megara, occupando Salamina) gettava le basi del predominio marittimo di Atene. Egli seppe acquistarsi molta influenza in Delo, il cui tempio d'Apollo era dagli Joni abitanti di qua e di là dal mare considerato come il santuario comune della razza ellenica; insediò come tiranno nella vicina Nasso il suo amico Ligdamide; mise piede sull'Ellesponto, ove fu conquistata la città di Sigeo e mantenuta attraverso lunghe lotte con quei di Mitilene, mentre nel tempo stesso l'ateniese Milziade si costituiva un principato sull'antistante Chersoneso tracico. Né queste furono le sole opere di Pisistrato, giacché egli fece molto anche per lo sviluppo economico di Atene, che per la prima volta sotto di lui salì al grado di una importante città industriale e commerciale. E del pari la vita intellettuale di Atene deve a lui un grande incremento. Egli attrasse alla sua corte i primi poeti e compositori di musica dell'epoca e istituì la festa delle grandi dionisie, che era destinata ad acquistare così alta importanza per il culto delle arti musicali.

Con tutte queste opere egli fece tacere l'opposizione contro la quale all'inizio aveva dovuto lottare, e riuscì a mantenersi al potere sino alla morte. I suoi figli Ipparco ed Ippia governarono sulle orme del padre, ma non riuscirono ad impedire lo scoppio della rivoluzione. Ipparco cadde vittima di una cospirazione (514) ; e dopo ciò una mano di emigrati penetrò nel paese e occupò la fortezza di Lipsidrio ai piedi del Parneto. Ippia riuscì, tuttavia a tener testa al movimento ed a riprendere Lipsidrio col tradimento, ma a questo punto, chiamati dagli Alcmeonidi, intervennero con le armi nell'Attica gli Spartani. Ippia fu circondato nell'Acropoli e dopo un breve assedio fu costretto a capitolare; ottenne libera uscita e autoesilindosi se ne andò a Sigeo, il suo possedimento dell'Ellesponto.

La rivoluzione era stata opera dell'aristocrazia, e in prima linea della famiglia degli Alcmeonidi. Ma Clistene, che ora, dopo la morte di suo padre Megacle, era il capo di questa famiglia, comprese benissimo che una restaurazione dell'antico dominio assoluto dell'aristocrazia sarebbe stato il mezzo più sicuro per spianar la via al ritorno della tirannide. Nel solo caso che si fosse potuto riuscire a guadagnare il popolo, e specialmente il ceto medio, al nuovo ordine di cose, la libertà aveva speranza di durata. E quindi egli procedette a riformare la costituzione in senso democratico, senza alcun, riguardo per i pregiudizi della maggioranza delle persone della sua classe.
La cosa più essenziale era di spezzare l'organizzazione coll'aiuto della quale le famiglie nobili avevano sino ai tempi dei Pisistratidi tenuto in proprio potere lo Stato. Perciò Clistene abolì le quattro file in cui si suddivideva da tempo immemorabile la cittadinanza ateniese e vi sostituì dieci nuove file che avevano una base esclusivamente locale, di modo che in ciascuna venne iscritto un certo numero di demi o comuni della regione. Per evitare che la capitale acquistasse qualsiasi preponderanza sul resto del territorio, i singoli quartieri cittadini vennero ascritti a file differenti. Le grandi famiglie nobili che sinora avevano appartenuto in corpo ad una stessa file si trovarono in seguito a ciò sparpagliate, in modo che fu resa molto difficile ogni efficace azione collettiva dei loro membri. E infatti, ben presto perdettero qualsiasi influenza nello Stato.

Venne poi creata una rappresentanza popolare, un consiglio di 500 membri estratti a sorte, in cui ciascun demo o comune era rappresentato da un numero di consiglieri proporzionale alla sua popolazione. Questo corpo era diviso in dieci sezioni corrispondenti alle dieci file che si alternavano nella presidenza del consiglio, di modo che la sezione che volta a volta teneva la presidenza (i « pritani ») era permanentemente adunata.
Il consiglio preparava tutte le proposte da presentarsi all'assemblea popolare e attraverso questo ufficio divenne l'organo più importante dell'amministrazione pubblica. A questo modo il popolo partecipava direttamente al governo con le persone dei suoi rappresentanti e il potere dei magistrati veniva limitato molto efficacemente.
Ulteriori modificazioni sostanziali non furono apportate alla costituzione. In specie l'eleggibilità alle magistrature superiori rimase ristretta ai cittadini della prima classe del censo (i « pentacosiomedimni »). I nove magistrati supremi (« arconti ») e l'areopago conservarono la loro antica posizione. Per la nomina dei funzionarii di finanza fu introdotta l'estrazione a sorte ed il numero dei membri di ciascun collegio venne portato a dieci in corrispondenza al numero delle file, di modo che ogni file vi aveva il suo rappresentante.
Del pari l'esercito fu suddiviso in dieci battaglioni ciascuno costituito dagli uomini atti alle armi di una file.
Il comando di ciascun battaglione era tenuto da un capo (« stratega ») eletto dalla sua file; i dieci strateghi formavamo sotto la presidenza del polemarco il consiglio di guerra che decideva a maggioranza di voti.

Tuttavia la costituzione di Clistene fu ben lontana dall'essere ciò che più tardi venne chiamata una democrazia. Ma per i suoi tempi essa segnò un progresso molto notevole sulla via dell'evoluzione in senso liberale, e la nobiltà si vide colpita nei suoi più cari interessi. Se non che essa essendo una minoranza di soggetti, comprese che nulla sarebbe riuscita a fare di fronte al popolo con le sole sue forze. Ed è così che i nemici della riforma si rivolsero e Sparta e re Cleomene si recò poco dopo ad Atene per appianare la questione interna.

Egli cominciò con l'esiliare dalla città Clistene ed i suoi principali fautori, dopo di che venne eletto primo arconte il capo del partito reazionario aristocratico, Isagora (508). Ma allorché questi si accinse a disciogliere il consiglio istituito da Clistene, scoppiò la rivolta; Isagora e Cleomene dovettero fuggire da Atene e poco dopo gli esiliati rimpatriarono. Subita questa sconfitta, Cleomene penso una cosa sola, di scatenare una guerra contro Atene; ma il suo collega nel regno, il re dell'altra famiglia, Damarato, si oppose, e siccome anche fra gli alleati del Peloponneso sorse una viva opposizione contro la politica di Cleomene, questi non poté far altro che recedere dall'idea di compiere l'impresa.
Evitata questa guerra, contro Atene mossero i suoi vicini del nord, Beoti e Calcidesi; questo perché l'aristocrazia che era al governo in questi due Stati vide non senza ragione nei liberi ordinamenti di Atene un pericolo per la propria conservazione al potere e decise di prevenirlo finché era ancor tempo, prima che il nuovo ordine di cose si fosse consolidato ad Atene.

Ma gli Ateniesi non aspettarono l'attacco, il loro esercito varcò i confini e prima inflisse ai Beoti sulla sponda dell'Euripo una completa disfatta ; poi nello stesso giorno i vincitori passarono nell'Eubea dove sconfissero anche i Calcidesi. In seguito a ciò Calcide cadde sotto l'influenza ateniese, mentre i Beoti proseguirono per qualche tempo la guerra senza successo, ed alla fine dovettero anch'essi adattarsi a chieder pace.

La giovane democrazia ateniese aveva dato una splendida prova della sua vitalità.
L'aristocrazia peraltro, pur avendo perduto come abbiamo visto i suoi privilegi politici in una gran parte del mondo greco, mantenne una posizione predominante nei riguardi sociali. Infatti, malgrado tutti i rivolgimenti politici, essa aveva in sostanza conservato la sua antica proprietà fondiaria. E d'altro canto la proprietà mobiliare in confronto era ancora relativamente di scarsa entità, ed anche dove esisteva era tuttavia di origine molto recente; che altro erano infatti quei fabbricanti e mercanti recentemente arricchiti se non dei parvenus ?
Perciò la cultura era tuttora monopolio quasi esclusivo del ceto aristocratico; e non era del tutto ingiustificato che le persone appartenenti a questo ceto continuassero tuttavia a designare sé stessi come i « belli e buoni » e guardassero con dispregio i « cattivi » che vivevano del lavoro delle proprie mani e non avevano interesse e gusto per nulla di più elevato.

Le masse medesime -nella loro ignoranza- riconoscevano questa superiorità col fatto che - paradossalmente- eleggevano quasi esclusivamente dei nobili alle cariche più alte dello Stato. I medesimi tiranni erano anch'essi venuti fuori dall'aristocrazia, come il riformatore Clistene che apparteneva ad una delle principali famiglie nobili di Atene, così ancora per tutto un secolo, nella stessa democratica Atene, i generali e gli uomini di Stato, salvo poche eccezioni, continuarono ad essere reclutati dalle schiere della nobiltà.

Ciò spiega come lo sport avesse una parte così preminente nella vita della nazione greca. Il detto di Omero che nulla arreca maggior gloria all'uomo che l'essere un rapido corridore ed un buon pugilatore, é applicabile in sostanza anche all'epoca presente; una sola cosa arrecava onore anche maggiore, quella di avere nella propria scuderia cavalli velocissimi, giacché naturalmente a tale privilegio eran pochi coloro che potevano aspirare. Le gare di corsa e i tornei ginnastici costituivano quindi la parte più importante del programma delle feste popolari; campioni e spettatori spesso vi affluivano da grandi distanze. Particolare fama acquistò molto precocemente la festa ginnastica che si celebrava ogni quattro anni verso la metà dell'estate nella pianura di Pisa sul corso inferiore dell'Alfeo in onore di Giove olimpico.
Considerazione non minore godeva la festa in onore di Apollo pitico a Delfo, anch'essa quadriennale; in origine essa era una festa destinata soltanto a gare musicali, quale si addiceva ad un dio che era soprattutto il protettore dell'arte musicale, ma quando gli anfizioni assunsero la direzione del tempio di Delfo vi aggiunsero gare di corsa e giuochi ginnastici.

Feste analoghe si celebravano ogni due anni in onore di Posidone sull'istmo presso Corinto ed in onore di Zeus nella valle di Nemea presso Cleone nell'Argolide. Queste quattro feste a principio del sesto secolo vennero in tutto il mondo greco riconosciute come feste nazionali; i vincitori vedevano la loro fama propagarsi in tutta l'Ellade, le loro città natali li ricompensavano con ricchi doni e i primi fra i poeti non spregiavano di celebrarli nei loro canti.
In simile ambiente la ginnastica non poteva non divenire un elemento importantissima di ogni educazione elevata. Quando poi il giovinetto era diventato uomo, scendeva ogni giorno sulla piazza e vi rimaneva per ore intere a conversare coi propri uguali. E teneva ad essere vestito e messo su con eleganza ; chi poteva farlo, portava il mantello di porpora o delle vesti orlate a colori. Invece il costume d'andare armati era venuto in disuso da quando era stata introdotta una regolare giurisdizione; peraltro le armi costituivano anche ora l'ornamento delle pareti nelle sale di ricevimento delle case signorili. La sera raccoglieva a banchetto cordiale gli amici, i quali sovente restavano adunati sino a tarda ora della notte attorno alle tazze del vino. E per lo più il convito assumeva un colorito abbastanza sfrenato ; vi si invitavano delle suonatrici di flauto, le quali, vestite il più leggere possibile ed anche più leggere di costumi, si collocavano a sedere fra gli uomini ed accompagnavano le loro canzoni bacchiche.

Va da sé che nessuno poteva condurre la propria moglie a simili conviti; cosicché le donne onorate restavano escluse dalla società e ridotte entro l'àmbito della casa e la cerchia delle loro amiche. Soltanto a Sparta regnavano costumi più liberi; qui le fanciulle partecipavano persino agli esercizi ginnastici e quindi nelle relazioni fra le persone dei due sessi dominavano delle maniere disinvolte e prive di alcun riserbo destavano grave scandalo nei Greci d'altri paesi. Tuttavia anche qui le donne rimanevano escluse dai banchetti degli uomini.
Scarse essendo pertanto le occasioni di conoscere fanciulle di buona famiglia fuori della ristrettissima cerchia dei parenti e degli amici, i matrimoni erano per lo più matrimoni di convenienza cui era completamente estraneo l'amore. Si cercò un compenso nel commercio con giovinetti adolescenti, commercio che, se mantenuto entro certi limiti, era perfettamente consentito dal costume, anzi in parecchi Stati protetto dalle leggi. Quando il greco di quell'età parlava d'amore, la sua mente intendeva riferirsi in primo luogo a queste cose, e i bei giovinetti andavano orgogliosi di possedere un numero considerevole di ammiratori.
Nell'età omerica questo commercio libero e cordiale fra i due sessi e l'amore per i giovinetti era poco sviluppato. Ma anche più tardi, allorché la civiltà raggiunse l'apogeo del suo svolgimento, fu ripudiato dall'opinione pubblica perché ritenuto immorale. Tuttavia i Greci del VI e del V secolo così vedevano le cose ma non bisogna dimenticare che ogni età ha diritto di esser giudicata alla stregua delle idee morali che le sono proprie.

Naturalmente anche la poesia rispecchiò queste idee del tempo. Il complesso di quelle delle classi dirigenti fu verso la fine di questo periodo riassunto da Teognidi di Megara in un ciclo di elegie, che - contrassegno assai significativo di quali fossero le idee dell'epoca - dedicò al giovinetto Cirno da lui amato; né é meno significativo il fatto che queste elegie erano destinate ed esser recitate nei conviti. Esse incontrarono gran plauso e divennero in seguito un libro di scuola di cui abbiamo ancora oggi un estratto.

Ma già da molto tempo il convenzionalismo che accompagnava l'uso del metro elegiaco era stato rotto ed erano stati sostituiti metri più liberi. Così dall'elegia si svolse l'ode. Essa ebbe il suo primo grande maestro in Alceo di Mitilene (verso il 550), un nobile che ai tempi della rivoluzione aveva bravamente combattuto per la causa della sua classe e che alla sera altrettanto bravamente le rimaneva solidale di fronte al bicchiere. Vino e politica infatti sono anche i principali soggetti delle sue odi caldamente sentite e appassionate. Egli trovò un successore nel suo contemporaneo alquanto più giovane Anacreonte originario dell'isola di Teo nella Jonia abbondante di vini. Questi era una natura molle completamente aliena dalla politica, tanto è vero che visse di preferenza presso le corti dei tiranni; le sue odi cantano il vino e l'amore, specialmente l'amore per i belli giovinetti.

E d'amore cantò anche la compaesana e contemporanea d'Alceo, Saffo di Lesbo. Ma non é l'amore per l'uomo che incarna il suo ardente linguaggio, sebbene l'amore verso le belle fanciulle. I costumi dei lesbici tolleravano queste cose mentre in ogni altra parte della Grecia era punito. Saffo pertanto giunse a fondere in sé - cosa che non riuscì ad altra donna - l'energia virile e la tenerezza di donna, ciò che ne fece la più grande poetessa di tutti i tempi. Certo non dobbiamo giudicarla alla stregua delle nostre idee morali.

La poesia nel frattempo si era posta a servizio della musica. Mentre in origine quest'ultima aveva servito soltanto ad accompagnare il canto, ora le parti si invertirono; la musica era divenuta un'arte autonoma ed i poeti scrissero i libretti per i compositori. Fu questa una conseguenza dei progressi che nel corso dell'ultimo secolo aveva fatti la musica strumentale. La capacità della citara di prestarsi ad effetti sonori venne accresciuta con l'aumentarne il numero delle corde. Poi comparve pure un nuovo strumento mutuato dai popoli dell'Asia Minore e della Tracia: il flauto.
La scoperta della notazione musicale scritta, fatta all'incirca verso il 600, offrì la possibilità di fissare per scritto le composizioni; essa fa epoca per la musica altrettanto quanto la scoperta della scrittura alfabetica per la poesia. Le feste in onore di Apollo porsero ai musicisti l'occasione di eseguire le loro creazioni dinanzi ad un pubblico più numeroso di uditori. Queste feste, e soprattutto la festa di Apollo pitico a Delfo e quella di Apollo Carnio a Sparta, esercitarono una influenza decisiva per lo sviluppo di quell'arte. È qui, a Sparta, che si dice abbia fiorito Terpandro, il capostipite leggendario di una stirpe in cui rimase ereditario il culto dell'arte musicale; a lui è attribuita l'invenzione del « nomos citarodico », un genere di composizione per cetra in cui al canto non restava che la parte dell'accompagnamento.

Mentre inventore di analoghe composizioni per flauto é indicato Clona di Tebe, una città in cui l'arte di suonare il flauto fu sempre oggetto di un culto particolare. Ben presto si passò a sopprimere completamente l'accompagnamento vocale ed a scrivere composizioni puramente strumentali (i cosìddetti «nomi citaristici ed auletici») ; famoso divenne specialmente il « nomos pitico », composizione per flauto dovuta a Sacada d'Argo, un maestro che vinse tre volte l'una dopo l'altra il premio delfico (582, 578, 574).

A queste composizioni per l'esecuzione a solo si aggiunsero poi altre composizioni per cori con accompagnamento d'orchestra; esse costituiscono le più alte creazioni cui sia giunta l'arte musicale di quest'epoca. Anche in questo campo Sparta stette in testa all'inizio; in essa fiori nella prima metà del sesto secolo Alcmano, il primo maestro classico di questo genere musicale. La sua fama deriva principalmente dalle composizioni ch'egli scrisse per cori di fanciulle. L'argomento della poesia di base al canto, come si addice ad un genere di musica sacra, tendeva principalmente alla edificazione degli animi con i buoni esempi; ma il poeta trovava tuttavia modo di intrecciarvi le lodi delle belle corifee che cooperavano all'esecuzione per onorare la divinità.
Questa lirica corale poi ebbe ulteriore perfezionamento nelle colonie greche d'Occidente per opera di Stesicoro di Imera in Sicilia (verso il 550) ; egli attinse i suoi argomenti dall'epopea, attribuendo peraltro, giusta le tendenze del tempo, agli antichi miti un contenuto intrinseco etico maggiore.
È dovuta a lui anche la creazione del dialetto misto epico-dorico che da allora in poi rimase d'uso normale per comporre il testo dei canti corali. Stesicoro trovò un successore nel suo connazionale Ibico da Reggio, il quale peraltro é ben lungi dall'essere alla pari con lui. In seguito la lirica corale fu portata alla perfezione da Laso di Ermione (dell'epoca dei Pisistratidi), da Simonide di Ceo (558-468 all'incirca) e da Pindaro tebano (520-440 circa). Mentre Laso fu principalmente compositore di musica e come tale segna un'epoca nell'evoluzione dell'arte musicale greca, Simonide e Pindaro furono non meno grandi come poeti e profondi pensatori ; essi ritennero compito precipuo della loro arte l'ammaestramento morale dei loro uditori. Oltre a canti religiosi e composizioni per cerimonie funebri essi scrissero specialmente canti in onore dei vincitori nei grandi giuochi nazionali e ne trassero immensa lode presso i propri contemporanei insieme a ricca ricompensa materiale. Tuttavia specialmente in Pindaro si nota già una considervole misura di artifizio; la riflessione soffoca la poesia, e la lingua, manierata e spesso gonfia sino ad una ampollosità intollerabile, ha dovuto non di rado rimanere inintelligibile ai suoi stessi uditori.

I canti in onore dei vincitori nei giuochi erano peraltro lavori fatti su commissione ed evidentemente la cosa principale per il poeta medesimo, o per meglio dire per il compositore, era la musica. Ciò é anche più vero nel caso del nipote di Simonide, Bacchilide, il quale si tenne bensì lontano, seguendo l'esempio dello zio, dall'ampollosità pindarica, ma viceversa rimase di gran lunga al di sotto del suo grande rivale per la profondità del pensiero. Cominciò per la lirica corale la parabola discendente.
In compenso per l'apporto verso quest'epoca si svolse dalla lirica corale la nuova forma del dramma. A tal proposito il uonto di partenza é costituito dal ditirambo, il canto corale che si usava nella festa di Dioniso in onore del dio, in origine una mera improvvisazione gioconda tra i fumi del vino, elevata poi nel sesto secolo a forma d'arte per opera di Arióne di Lesbo e dei grandi classici della musica.
Il ditirambo fu principalmente coltivato a Corinto e nelle città vicine ed é qui che da esso si svolse il dramma satirico, nel quale il coro veniva in scena coi suoi componenti travestiti da satiri, coperti di pelli di caprone e con maschera corrispondente e rappresentava un episodio della storia del dio, naturalmente in forma ruvidamente popolare, conforme al carattere della festa.

Rappresentazioni simili vennero ben presto in oso anche nell'Attica. Qui si abbandonarono i costumi da satiri e quindi anche il coro perdette il suo carattere satirico ; agli argomenti burleschi si sostituì un'azione seria che venne attinta dal ciclo delle leggende eroiche, vale a dire, come allora si credeva, dalla storia antichissima, e talora anche dalla storia dell'epoca medesima. Ma soprattutto, accanto alle parti cantate, prese posto un dialogo tra íl poeta e il suo coro. La nuova forma conservò l'antico nome di tragedia (« canto dei caprii ») ed un ricordo dell'antico travestimento nella maschera, la quale ora naturalmente fu adattata volta a volta al personaggio; restarono inoltre in uso il dialetto dorico ed i ritmi artificiosi delle parti cantate, mentre il dialogo fu composto nella lingua volgare ed in tetrametri trocaici, più tardi per lo più in trimetri giambici.
La tradizione ascrive a Tespi, originario del villaggio attico di Icaria, dove il colto di Bacco era indigeno ab antiquo, di essere stato il primo a mettere in scena drammi di questo genere al tempo di Pisistrato ; a datare dal 534 essi vennero rappresentati anche ad Atene in occasione della gran festa in onore di Dioniso e da allora rimasero una parte essenziale del programma di questa solennità.
Il perfezionamento ulteriore della tragedia é dovuto sopra tutto ad Eschilo di Eleusi (525-456 all'incirca). Si attribuisce a lui di aver per primo messo in scena un secondo attore, il che rese possibile lo svolgimento di un dialogo anche senza partecipazione del coro e come conseguenza una azione scenica movimentata; ciò malgrado le parti cantate continuarono ad essere in prevalenza. Via via però il dialogo occupò sempre maggior posto ; e si aggiunse un terzo attore, innovazione che fu anch'essa accolta da Eschilo nelle sue ultime tragedie. Siccome le singole tragedie erano relativamente brevi, invalse l'uso che ogni poeta ne mettesse in scena l'una dopo l'altra tre, che in tal caso potevano anche essere fra loro concatenate per il contenuto; a rallegrare lo spirito degli spettatori chiudeva la rappresentazione come quarta parte uno scherzo satirico alla maniera antica.

Al pari dei suoi grandi contemporanei Simonide e Pindaro, anche Eschilo si propose come fine l'educazione morale dei suoi uditori. Perciò egli trattò di preferenza problemi religiosi; si può dire che tutte le sue tragedie sono teodicee, nelle quali il poeta cerca di mettere il contenuto degli antichi miti in armonia con le idee religiose più raffinate che dominavano nelle classi colte del suo tempo. Come nelle odi di Pindaro spira anche nelle sue tragedie l'alito solenne dello spirito profetico ; le figure ch'egli ci presenta sono figure di un mondo superiore, le quali peraltro apporto perciò sono troppo lontane da noi per poterci sentir capaci di prendere parte viva alle loro vicende.
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Abbandoniamo per il momento l'evoluzione culturale, e ritorniamo all'inizio di quel periodo... quando i Greci dell'Asia Minore, senza degna opposizione si erano piegati ai Persiani, e quando gli stessi Persiani decisero prima con Dario, poi con Serse di invadere la Grecia.


Parleremo cioè delle 2 guerre persiane ovvero
le GUERRE DI INDIPENDENZA DELLA GRECIA
LA PRIMA GUERRA PERSIANA > > > > >

Bibliogrfia e testi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECA - 1822
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1 - Sei 1916
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO, 1927
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI - 1968
JOHN D. GRAINGER Seleukos Nikator ECIG
FRANCA LANDUCCI GATTINONI -Lisimaco di Tracia - Jaca book 1992
RICHARD A. BILLOWS Antigonos the One-Eyed (University of California Press 1997)


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