GRECIA - STORIA

* LA SOFFERTA DEMOCRAZIA DI ATENE
TEMISTOCLE - CIMONE - L'ASCESA DI PERICLE

Temistocle

 

Le splendide vittorie ottenute sui Persiani avevano posto al sicuro la libertà della Grecia nei rapporti esterni; ma non poteva mancare che si risentisse il contraccolpo all'interno, dove pur sempre c'erano e vivevano i nemici della democrazia.
Tuttavia Libertà ed Eguaglianza divenne la parola d'ordine di tutto il mondo greco, ovunque si reclamarono ad alta voce istituzioni più libere, e nessuno di quelli che durante le guerre persiane erano stati indecisi o addirittura nemici della democrazia poté - sincero o no- sottrarsi all'impulso di questa corrente. La guerra vittoriosa aveva provocato questi rivolgimenti. La tirannide si era tenuta in piedi ancora per poco nell'Asia Minore, ma era artificiale perchè aveva l'appoggio della signoria persiana; ma dopo la battaglia di Micale essa fu definitivamente abbattuta dappertutto.
Per l'ulteriore trionfo dell'idea democratica fu poi decisivo il fatto che a capo della lega marittima si trovò Atene. L'esempio infatti della città predominante non poteva non esercitare un orgoglio negli ateniesi e una profonda influenza sulle città confederate; a mano a mano le loro costituzioni vennero sempre più ravvicinate a quella ateniese; anzi quest'ultima costituzione fu talora addirittura presa a prestito tale e quale. Atene naturalmente favorì in tutti i modi il progresso di questo movimento; era infatti chiaro che la comunanza di ordinamenti pubblici di carattere democratico avrebbe costituito il più saldo vincolo tra i membri della lega.


Dopo Salamina e Platea, dopo l'annientamento dei Persiani, l'unità e la democrazia che avevano permesso queste vittorie, si diffuse in tutta la Grecia. Anche in Beozia, dopo la battaglia di Platea, cadde il governo aristocratico che aveva stretto l'alleanza con i Persiani e fu sostituito con un governo democratico.
Ad Argo che non aveva partecipato ma che già possedeva una costituzione, e nella sostanza e di fatto era democratica, venne abolita anche qui la dignità regia che, per quanto con poteri assai limitati, si era retta fino alla guerra persiana. Sull'esempio di Argo poi la democrazia fu introdotta anche nell'Elide ed in Arcadia, ed in seguito a tale trasformazione quest'ultima regione si staccò da Sparta per passare dalla parte di Argo.

Sparta non potè a meno di rimanere semplice spettatrice di tutti questi avvenimenti, perché aveva preoccupazioni urgenti in casa propria. Si era venuto manifestando un fermento fra gli iloti; e chi fomentava in segreto questo movimento era né più ne meno che lo stesso reggente Pausania di cui abbiamo già parlato, compresa la sua misera fine. Ma qui a lui dobbiamo tornare.
Già reggente di suo cugino Plistarco, il figlio minorenne di Leonida immolatosi alle Termopili, dopo la vittoria di Platea, quello strepitoso successo aveva conferito a Pausania una autorità, quale nessun re di Sparta aveva mai goduto: con l'aiuto di essa Pausania concepì la speranza di restaurare la dignità regia in tutta l'antica pienezza di poteri e liberarla dalla soggezione alla tutela dell'eforato.
Con questi disegni in cuore, l'anno dopo Platea, egli assunse nel 478 il comando della flotta alleata ellenica; ma la ribellione degli Joni lo fece presto cadere dalla sommità cui era giunto. Fu - come abbiamo già narrato- richiamato a Sparta ed accusato d'alto tradimento per pretese connivenze col re persiano, nulla però si riusciva a provare a suo carico e il tribunale lo assolse. Lui tornò sull'Ellesponto, e soltanto quando fu cacciato da Bisanzio dagli Ateniesi gli efori spartani gli impartirono l'ordine di tornare nuovamente indietro. A quel punto egli concepì una insurrezione di iloti; ma gli efori lo prevennero. Solo rifugiandosi nel tempio di Atena Pausania potè sottrarsi alla cattura e a una sentenza di morte per cospirazione; gli efori non osarono violare il sacro luogo ma fecero murare l'ingresso, ed il vincitore di Platea vi trovò una fine ingloriosa: la morte per fame (verso il 470).

Verso la stessa epoca (469) fu abbattuto anche il suo collega nel regno Leotichida, il vincitore di Micale. Dopo quella vittoria era stato mandato nella Tessalia per castigare questa regione del contegno tenuto durante la guerra aiutando i Persiani, ma non era riuscito a concludere gran che, venne accusato di corruzione e deposto dalla sua carica; morì in esilio a Tegea.
A Sparta nella lotta con l'autorità regia l'eforato era rimasto vittorioso; gli eroi della guerra persiana e il carisma che ne era derivato, erano stati tolti di mezzo. Salirono sì al trono due giovinetti, il nipote di Leotichida, Archidamo, e il figlio di Leonida, Plistarco, ma da loro non vi erano da temere pericoli per l'ordine di cose esistenti. Durante i due secoli successivi non vi fu più alcun re che osasse ribellarsi all'autorità degli efori.

Così la Sparta degli efori, poté rivolgere il pensiero a restaurare la propria egemonia sul Peloponneso. Due grandi vittorie riportate a Tegea e a Dipea ricondussero all'obbedienza l'Arcadia; ed Argo venne a trovarsi nuovamente isolata. Sparta era sul punto di portare le armi anche contro Atene, quando venne colpita da un formidabile terremoto che rase al suolo quasi tutte le città e seppellì sotto le rovine una gran parte della popolazione (verso il 465). A questo punto - anche senza Pausania- scoppiò l'insurrezione degli iloti che da lungo tempo si era venuta preparando. E se nella Laconia vera e propria, grazie all'energia del giovane re Archidamo, la calma fu in breve ristabilita, al di là del Taigeto, nella Messenia, la rivolta non potè essere stroncata tanto facilmente. In campo aperto gli insorti, é vero, non furono neanche qui in grado di tener testa alle truppe spartane, ma riuscirono a trincerarsi e sostenersi sul monte Itome che si elevava come una fortezza naturale nel centro della regione, e che già un'altra volta, un quarto di millennio prima, aveva offerto rifugio ai loro antenati nella guerra contro Sparta.
Sparta così si vide costretta a mobilitare i contingenti degli alleati del Peloponneso, ed alla fine a reclamare anche da Atene l'aiuto che le spettava in base all'alleanza.

Ad Atene, nei primi anni che seguirono la vittoria di Salamina e Platea, a Temistocle (come Pausania a Sparta) gli fu conferita una autorità quasi assoluta, inattaccabile da ogni critica.
Del resto la sua politica aveva ricevuto dai fatti una conferma così splendida che Aristide stesso desistette dalla sua opposizione e cooperò con Temistocle al consolidamento del predominio marittimo di Atene. Alla lunga però non fu possibile evitare il risorgere dei vecchi antagonismi.
Inoltre Temistocle vide elevarglisi contro un nuovo competitore: Cimone. Dinanzi ai freschi allori conquistati da quest'ultimo a Platea nella guerra persiana andò sempre più impallidendo la gloria del vincitore di Salamina. Cimone vedeva la salute dell'Ellade in una stretta unione delle due città predominanti, mentre Temistocle non si faceva illusioni che la rottura con Sparta sarebbe stata soltanto questione di tempo e quindi, dove poteva, creava ostacoli alla politica spartana.

La decisione di questi contrasti su opposte vedute, alla fine fu rimessa al tribunale dell'ostracismo; il popolo sentenziò a favore di Cimone, e Temistocle dovette prendere la via dell'esilio (verso il 471).
Si recò ad Argo, dove prese parte attiva al movimento democratico del Peloponneso; e forse non deve essere stato neppure estraneo ai piani rivoluzionari di Pausania. E quindi si trovò coinvolto nella caduta di quest'ultimo. Su istigazione degli efori di Sparta fu elevata contro di lui ad Atene una accusa di alto tradimento, ed in conseguenza si reclamò da Argo la sua consegna; il governo argivo non lo consegnò ma non gli offrì protezione, e Temistocle lasciò Argo e iniziò ad errare per tutta l'Ellade, perseguitato ovunque, finché alla fine si volse all'unico rifugio che ancora il mondo gli poteva offrire: la corte persiana che proprio lui aveva umiliato a Salamina.

Re Artaserse, era da poco succeduto sul trono del padre Serse (464). Temistocle se era bandito in Grecia, in Persia lo era ancora di più, era il nemico della Persia numero uno, e su di lui c'era da tempo una taglia per la sua cattura. Ma sapendo che ora era bandito da Atene, probabilmente si sarebbe rifugiato fuori dall'Ellade erano stati intensificati i controlli sugli stranieri.
Nondimeno Temistocle riuscì con uno stratagemma orchestrato da un suo fidato amico (lo vestì da donna lo mise dentro chiusa in una civettuole carrozza, e a chi voleva controllare diceva che c'era dentro una nobildonna che stava raggiungendo il sovrano. Ed essendo sempre tali signore gelosamente custodite dalla pubblica vista, la carrozza non fu mai alla stessa aperta). Così Temistocle giunse fino alla corte persiana di Susa. Poi presentandosi come "un greco" chiese udienza. Ottenuto l'incontro, si prostrò davanti al re e gli fece la più commovente dichiarazione per ottenere da lui protezione:
"Voi vedete ai vostri piedi Temistocle; colui che ha recato molto danno ai Persiani, ma che ora può rendere loro importanti servigi. La mia vita è in vostro potere: se voi la salvate, vi renderete obbligato eternamente un uomo che caldamente vi prega; se me la togliete, distruggete il più gran nemico della Grecia". Insomma tu farai un gran favore ai greci.
Il giovane Artaserse restò attonito di questa intrepidezza, non si scompose ma in cuor suo non potè che ammirarlo. Non gli diede subito una risposta, ma dopo averlo congedato si diede ai più alti trasporti di gioia, e con i suoi consiglieri agitandosi come un ossesso andava ripetendo "Ho in mio potere Temistocle!".
La notte portò consiglio, e il giorno dopo deliberò. Quell'uomo che aveva distrutto e umiliato l'esercito persiano era proprio grande, e non si poteva che agire in un solo modo: mostrarsi generoso. Non solo lo richiamò per dirgli con le più cortese maniere che lo avrebbe protetto, ma gli donò anche duecento talenti per le sue esigenze quotidiane. Poi lo intrattenne affinchè gli parlasse dello straordinario popolo ateniese. Ogni giorno lo voleva incontrare, e Temistocle per poter liberamente conversare con lui, nelle altre ore libere si applicò allo studio della lingua persiana. In tutte le occasioni Arteserse gli dimostrava alta stima. Lo unì perfino in matrimonio ad una donna della più alta aristocrazia, lo fece compagno di tutti i suoi piaceri, lo stabilì in Magnesia sul Meandro e gli affidò per la sua sussistenza le rendite di tre città.
Si narra che un giorno a tavola con i suoi figli, e riflettendo sulla magnanimità del sovrano, per come era trattato, per il benessere che lo circondava, non si potè trattenere dallo esclamare "Noi saremmo periti, miei figli, se non fossimo periti".
Qui l'uomo che aveva fondato la grandezza di Atene, l'uomo cui più che ad ogni altro la Grecia doveva la salvezza dalle strette dell'invasione persiana, chiuse i suoi giorni da vassallo del gran re.

Secondo una leggenda, forse creata dai suoi stimatori per dare maggior risalto all'ingratitudine degli Ateniesi, Arteserse approfittando dei torbidi ad Atene provocati da Cimone, ma anche preoccupato dell'accresciuto potere di Atene, convinto che Temistocle nutrisse del gran rancore, gli propose di affidargli il comando dell'esercito persiano per invadere nuovamente l'Attica. Tale proposta gettò Temistocle nell'agitazione, essendo ancora forte l'amore per il suo paese, inorridiva pensando al disonore cui andava incontro se avesse preso le armi contro di esso. Ma nemmeno poteva, rifiutando, dimostrarsi ingrato con chi nel momento più amaro della sua vita lo aveva accolto e colmato dei più alti favori. Vide dentro la sua coscienza che non vi era altra soluzione, aveva ormai sessantacinque anni, e solo la morte poteva liberarlo dal suo infelice stato, solo quella poteva liberarlo dall'angoscioso dilemma. Si risolse di sacrificare la vita al suo dovere verso la patria, e alla sua gratitudine per Artaserse. Uniti i suoi amici più cari, diede loro un commovente addio e inghiottì un sorso di sangue di toro avvelenato.
Questa la leggenda, ma secondo Tucidide, Temistocle non morì avvelenato ma di malattia naturale.

Comunque andarono le cose, Temistocle rimase un simbolo per amici e nemici, da venerare.
Possedeva Temistocle gran magnaminità, invincibile coraggio, insaziabile desiderio di gloria, ma che era leggittima e lodevole, perchè contribuiva al vantaggio e alla gloria della sua repubblica.
Godette meravigliosa forza di memoria, straordinaria penetrazione degli animi umani, sagacità, un talento singolarmente attivo, infaticabile, perseverante.
Lo abbiamo visto nella sua più estrema necessità rifugiarsi fra i nemici del suo paese, vedendosi perseguitato nella più rigorosa maniera da un geloso popolo -quello di Sparta-, e da un ingrato popolo, "il suo", che già per esperienza conosceva capace della più gran crudeltà verso coloro che rendevano i più alti servigi al proprio paese. Dopo Milziade, il cui destino era recente nella sua memoria, lui era il principale autore della loro salvezza. Si era guadagnato con la insinuante destrezza l'affezione degli alleati con la sua dolce e condiscendente condotta. Con la prudenza aveva eliminato quello spirito di discordia che dominava i greci al tempo dell'invasione Persiana - che in quella occasione poteva essere fatale- e li aveva riuniti contro il comune nemico.
Convinse i suoi concittadini che la forza navale era la loro più grande sicurezza, e che essa sola avrebbe procurato la superiorità sopra tutti gli altri stati greci; e oltre alla vittoria di Salamina, a lui principalmente gli ateniesi dovettero la priminenza nella stessa scienza navale.
Ma anche in fatto di stratagemmi e accortezza Temistocle fu abilissimo, e in tale agire, benchè fosse falso, i suoi cittadini gliene furono universalmente grati, perchè ogni cosa contribuiva al vantaggio o alla gloria della repubblica, e quindi ogni cosa era legittima e lodevole.
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Ritorniamo ad Atene, al dopo l'ostracismo e dopo il bando a Temistocle. L'influenza decisiva passò a CIMONE. Bisogna subito dire che anche lui non fu meno ammirato dagli Atemiesi in tempo di pace, di quello ch'egli fosse durante la guerra. Egli era di nobili natali, più soldato che politico, largo del suo principesco patrimonio sino alla prodigalità e popolare per questo fatto altrettanto quanto lo era per i suoi successi in guerra.
Oltre a erigere pubblici edifici con i soldi dello stato, ne spese molti anche dei suoi. Perfino i suoi grandi giardini furono aperti allo svago della cittadinanza; creò una mensa dove ogni cittadino ricco o povere, locale o straniero era accolto, e assisteva con la sua ricchezza non solo i suoi amici ma anonimi cittadini. Quando paggeggiava per le strade di Atene, i suoi accompagnatori avevano ordini di mettere di nascosto del denaro nelle mani di tanti cittadini che accorrevano al suo passaggio per chiedere aiuti vari. E addirittura avevano l'ordine di dare acconce vesti a chi indossava stracci.
A chi gli rimproverava di fare demagogia, di ostentare la magnanimità, di corteggiare il pubblico, lui rispondeva sprezzante che: non aveva bisogno di strisciare con nessuno perchè era coraggioso e lo aveva dimostrato; di non ambire a cariche politiche per arricchirsi perchè era abbondantemente già ricco; di non aver bisogno di prestigio perchè nobile lui lo era già, fin dalla nascita.
Dopo la vittoria guadagnata a l'Eurimedonte non aveva potuto che consolidare il suo prestigio, la sua fama e indi la sua autorità.

Dopo l'uscita di scena di Temistocle e l'ascesa di Cimone, la buona intesa fra Atene ed i suoi alleati cominciò ad intorbidarsi. Fu questa una conseguenza inevitabile della vittoria sui Persiani; nella misura che si eliminò completamente il pericolo della dominazione straniera, le altre città si mostrarono sempre meno disposte a fare dei sacrifici per la prosecuzione della guerra o a sottostare all'alta sovranità di Atene. Nasso per prima si ribellò ad Atene, ma la rivolta rimase isolata e venne rapidamente domata.
Non passò molto che scoppiò un conflitto fra Atene e Taso relativamente alla proprietà delle miniere d'oro della costa tracica; fidando sull'aiuto di Sparta, Taso prese in mano le armi (466). Il recente terremoto impedirono a Sparta di recarle l'aiuto promesso; intervenne invece Cimone e Taso fu costretta a sottomettersi agli Ateniesi, a consegnare la sua flotta, a cedere i suoi possedimenti sul continente, abbattere le proprie mura e adattarsi a pagar tributo.

Era appena terminata la guerra contro Taso che giunse ad Atene una richiesta di aiuto degli Spartani. Gli iloti uniti ai Messeni avevano approfittato del terremoto per scatenare una rivoluzione e tentare di stabilire la loro libertà. Gli spartani furono ridotti a chiedere assistenza agli Ateniesi.
Non mancarono voci a consigliare un rifiuto, ma l'influenza di Cimone decise in favore della concessione di questo aiuto. Cimone credendo cosa non generosa prendere vantaggio dalle sventure di una città rivale, persuase gli Ateniesi di assisterla. Egli stesso marciò in Laconia alla testa di 4000 opliti. Ma neppur gli Ateniesi riuscirono a spuntarla contro le forti posizioni di Itome; l'assedio si trascinò per lungo tempo, e siccome al mantenimento di un semplice blocco erano sufficienti le truppe del Peloponneso, Sparta ripresasi dal disastro, con tanta ingratitudine fu fatto intendere a Cimone che non si aveva più bisogno dei suoi buoni servigi.

Atene questo rinvio delle sue truppe la prese come un'offesa, e rispose denunziando l'alleanza conclusa in occasione della guerra persiana. La posizione di Cimone si trovò gravemente scossa ed i suoi nemici credettero giunto il momento di fare ancora un passo avanti sulla via delle riforme democratiche. Il consiglio dell'areopago conservava tuttora le estese facoltà che Solone gli aveva lasciate; e siccome i suoi membri rivestivano la carica a vita e quindi erano di fatto esenti da ogni responsabilità, esso controbilanciava assai efficacemente l'influenza del consiglio dei cinquecento estratti a sorte. Naturalmente un corpo così costituito era una spina negli occhi per la democrazia radicale, e perciò ora Efialte propose di limitare la competenza dell'Areopago alla giurisdizione criminale, deferendo invece il controllo sulla pubblica amministrazione, che esso aveva sinora esercitato, ai tribunali dei giurati i cui membri venivano estratti a sorte fra tutti i cittadini ateniesi superiori in età ai trent'anni.

Cimone ed il suo partito fecero, come è ovvio, la più accanita opposizione a tale proposta; il conflitto si inasprì fino al punto che l'unico modo per risolvere la questione restò quello di ricorrere al tribunale dell'ostracismo. Esso decise contro Cimone; e le proposte di Efialte furono trasformate in legge (461).
Ma poco tempo dopo lo stesso Efialte cadde assassinato, il primo attentato di tal genere perpetrato in Atene dalla caduta dei tiranni, ma il delitto fu inutile, non ripagò i suoi assassini, perché il partito della riforma democratica trovò un capo di non minor valore in PERICLE, che aveva appoggiato Efialte nella campagna contro Cimone. Piuttosto singolare, perchè alcune idee di Cimone erano pari a quelle del Pericle maturo; il aveva già sostenuto che per la grandezza e la salvaguardia della repubblica, sulla bandiera doveva rimanere sempre scritto "prosecuzione della guerra contro la Persia"; e che non bisognava dare tanto credito alle pacifiche promesse dell'ambigua e ingrata Sparta (lui l'aveva provata, l'umiliazione di sentirsi dire che di lui non avevano più bisogno). Il secondo invece per quanto accorto dovette entrare nell'ordine di idee di Cimone; infatti, durante la critica situazione in Egitto, riparando all'ingiustizia di averlo mandato in esilio, lo richiamarono dopo cinque anni di eslio. Lui rientrato non esitò con un'armata di 140 vascelli ad andare ad affrontare proprio i Persiani. Il grand'uomo si comportò da eroe, i suoi uomini colsero una serie di vittorie, ma nell'ultima, combattuta a Cipro, Cimone cadde gravemente ammalato; sentendosi morire e temendo uno sfascio nel suo esercito, scongiurò i suoi a tenere segreta la sua morte. I suoi obbedirono, e procedendo nelle loro operazioni, ottennero anche a Cipro, a Citio, una clamorosa vittoria riuscendo a catturare cento vascelli nemici. Ad Atene li accolsero come trionfatori, ma non dimenticarono Cimone. Molti si commossero apprendendo la sua fine.
Plutarco fra gli altri sublimi encomi lo descrive come "affezionato figlio, fedele amico, zelante cittadino, espertissmo comandante, e così tanto liberale, che mai è stato in generosita pareggiato ad altri".

PERICLE

Pericle era figlio del vincitore di Micale, Santippo, e di Agariste, nipote del grande Clistene; e furono queste relazioni di parentela che gli spianarono la via in età relativamente ancora giovane a salire al potere, benché non avesse avuto ancora occasione di distinguersi in guerra ed in generale non fosse che uno stratega di media capacità. Anche come uomo di Stato egli difettava di vera e propria genialità creativa, ma era dotato di molto tatto politico e soprattutto aveva, come altri raramente, il dono di trascinare le masse col vigore della sua eloquenza. Era, come si direbbe oggi, un grande parlamentare, e questa qualità lo mise in condizione di conquistarsi, in uno stato così profondamente democratico come il suo, un potere quasi monarchico e di mantenerlo in sua mano per lunghi anni. Egli divenne la più influente personalità del suo tempo in tutta la Grecia. Non senza ragione con il suo nome chiamiamo tutto questo periodo.

Pericle possedeva anche dei sublimi sentimenti, una meravigliosa dignità di maniere e di portamento. Aveva ricevuto la maggior parte della sua educazione sotto il celebre filoso Anassagora, dal quale oltre la filosofia, aveva appreso lo stile alto e puro. Inoltre Pericle aveva studiato nello stesso tempo e con molta cura l'arte del governo fra i suoi concittadini; la sua singolare penetrazione dell'animo umano, presto lo rese abile a regolare le passioni e i pregiudizi.
Quando poi divenne senatore, l'incarico gli diede l'opportunità di spiegare ai suoi colleghi problemi e soluzioni politiche con un'arte oratoria al supremo grado. E questa oratoria era rinforzata, dalla grazia, da una bella voce, da seducenti esteriori doti. Gli uditori rimanevano incantati, egli catturava la loro immaginazione e riusciva a governarli a suo piacimento.
L'audacia di questa oratoria, l'impeto con la quale la esercitava, rendeva attoniti gli ascoltatori, che paragonavano alcune sue declamazioni al tuono di Giove; e proprio per questo si guadagnò il nome di "Olimpio".
Tutto questo e la sua prodiga fastosa maniera, non solo sedusse i suoi colleghi ma ebbe il popolo a suo favore. E proseguendo con questo sistema non trovò opposizione nel suo rivale Cimone.
Era, lo abbiamo già detto, un uomo dolce, candido, di pacifica indole, e di sentimenti troppo elevati per impegnarsi in piccoli raggiri politici. E quindi fin dall'inizio del suo primo successo, dimostrò di provare piacere quando poteva dividere ricchezze e onori con i suoi concittadini, e fin dall'inizio i progressi furono rapidi verso questa sua ambizione.
Ma non mancarono i nemici. Durante la sua amministrazione, per equilibrare il suo esorbitante potere in Atene, la classe nobile gli oppose contro Tucidide, cognato di Cimone, il quale con in mano un relativo potere, si sforzava a mantenere nell'equilibrio della bilancia la nobiltà e il popolo, tuttavia le sue invettive erano taglienti, perchè spinte da una personale animosità; arringò contro di lui con singolare acutezza e abilità; e la contesa come vederemo giunse a cosi alto punto, che divenne necessario l'esilio dalla città dell'uno o dell'altro. E fu l'accortezza di Pericle a prevalere e a far sbandare il suo rivale.

Di fronte a Sparta così sempre ambigua, Atene mise da parte ogni riguardo. Essa si alleò con Megara che fino allora aveva fatto parte della lega del Peloponneso, ma era venuta in guerra con la sua potente vicina Corinto per una controversia di confini. Ne derivò una guerra fra Atene e Corinto; Egina, l'antica rivale di Atene, si schierò dal lato di Corinto, ma la marina ateniese si rivelò di gran lunga superiore alla marina nemica; la flotta peloponnesiaca fu sconfitta dinanzi ad Egina in modo da rimanerne annientata e gli Ateniesi dopo la fortunata battaglia navale fecero entrare un esercito e cominciarono l'assedio della sua capitale. Un attacco diretto dai Corinzi con tutte le loro forze contro Megara, allo scopo di distrarre dall'assedio della città alleata il nemico e disimpegnarla, fu respinto dalle riserve ateniesi comandate da Mironide senza che fosse necessario richiamare le truppe che si trovavano sotto Egina (458).

In conseguenza di questi fatti Sparta si vide costretta ad intervenire nella lotta. L'insurrezione messenica, é vero, non poteva dirsi ancora completamente domata, ma le cose erano così prossime alla fine che non vi era più bisogno per Sparta di tenere impegnate a tale scopo tutte le sue forze. Fu quindi inviato un esercito peloponnesiaco di 11.000 opliti al di là del golfo di Corinto nella Grecia centrale, dove la Beozia si schierò subito dal lato degli Spartani; l'intenzione operativa era di invadere da questa base l'Attica. Ma gli Ateniesi prevennero l'attacco; rinforzati da truppe ausiliarie dell'alleata Argo e della Tessalia, varcarono con 14.000 opliti il confine della Beozia ed offrirono battaglia presso Tanagra ai Peloponnesiaci e Beoti collegati.
Le qualità militari superiori degli Spartani fecero sì che la vittoria rimanesse a loro, ma fu una vittoria pagata a così caro prezzo che i vincitori non ardirono mettere a frutto il successo ottenuto ed invadere l'Attica. Essi si accontentarono di ricostituire la lega beotica nella sua antica forma sotto la guida di Tebe, e poi si ritirarono nel Peloponneso attraverso i passi dell'Istmo (457).

Il defilarsi rese libere le mani agli Ateniesi nel centro della Grecia. Un esercito ateniese agli ordini di Mironide entrò nella Beozia e qui presso i «vigneti» (Enofita), due mesi dopo la battaglia di Tanagra, riportò una splendida vittoria sull'esercito della lega beotica. In seguito tutta la regione, salvo Tebe, strinse alleanza con Atene, e lo stesso fecero la Focide e la Locride, di modo che l'egemonia di Atene venne ora ad estendersi dall'istmo sino alle Termopili. Anche Egina poco dopo aprì le porte agli assedianti; dovette consegnare le sue navi, abbattere le proprie mura e fece adesione alla lega marittima ateniese in qualità di membro obbligato a tributo. Ottenuti questi successi, gli Ateniesi osarono e passarono all'offensiva contro il Peloponneso; una flotta comandata da Tolmide distrusse l'arsenale spartano di Giteio sulla costa laconica, ma non riuscì a disimpegnare i Messenii trincerati sull'Itome. In compenso fu presa Naupatto che dominava l'ingresso del golfo di Corinto e venne indotta l'Acaia a passare dalla parte di Atene; nello stesso periodo di tempo anche Trezene nell'Argolide aderì ad Atene.

Atene parve trovarsi sulla via migliore per divenire in Grecia la potenza terrestre egemonica come lo era già quella marittima.
Nè meno vittoriose riuscirono le armi ateniesi nella lotta con i Persiani. Alla morte di Serse, avvenuta nel 465, l'Egitto si era sollevato contro la dominazione persiana; il satrapo del paese, il fratello di Serse, Achemene, fu sconfitto in una grande battaglia presso Papremide nella parte occidentale del delta e vi rimase egli stesso ucciso. Naturalmente i capi dell'insurrezione si rivolsero per avere un appoggio proprio ad Atene. E proprio allora una flotta ateniese di 200 navi si trovava nelle acque di Cipro; essa entrò nel Nilo e conquistò la capitale Menfi, salvo la cittadella, il « castello bianco », che rimase in potere dei Persiani (461).
La completa liberazione del paese dalla signoria persiana parve non dovesse ormai essere che una questione di tempo. E già gli Ateniesi da Cipro avevano iniziato l'offensiva contro la Fenicia.

La potenza di Atene era giunta al suo apogeo. Se non che ben presto si rivelò che la base era troppo piccola per sostenere il colossale edificio che Temistocle, Cimone e Pericle avevano eretto in appena un quarto di secolo. Effettivamente Atene non era abbastanza forte per poter reggere alla lunga ad una lotta contemporanea su due fronti, contro i Persiani e contro il Peloponneso. Se anche, a datare dalle vittorie riportate presso l'Eurimedonte e sotto Egina, essa aveva un incondizionato predominio sul mare, non si trovava affatto in grado di tener testa ai suoi avversari per terra. Non potè infatti dare un aiuto efficace ai Messeni, e quindi alla fine Itome dovette arrendersi a dieci anni di distanza dall'inizio dell'insurrezione (456); i valorosi difensori ottennero rifugio in Atene, poi domiciliati a Naupatto, da poco conquistata, furono utili alla stessa Atene perché da allora essi tennero d'occhio i Peloponnesiaci.

Con questa resa Sparta riacquistò l'antica libertà d'azione nei riguardi esterni che era rimasta paralizzata per tanto tempo. E contemporaneamente il re persiano si decise di portare il colpo decisivo contro l'Egitto. Un forte esercito persiano penetrò nel paese, gli Ateniesi vennero sconfitti e circondati nell'isola di Prosopite sul Nilo, dove dopo un assedio di diciotto mesi furono alla fine costretti ad arrendersi (inizio del 456). Soltanto pochi uomini degli equipaggi greci riuscirono a salvarsi ed a tornare in patria passando per Cirene. Atene, impegnata a fondo nella guerra col Peloponneso, non aveva all'inizio del conflitto potuto spedire aiuti di sorta; e quando alla fine una flotta di soccorso di 50 navi giunse nel Nilo, era già troppo tardi ed anche questa squadra rimase coinvolta nella catastrofe.

Il formidabile colpo subito da Atene produsse profonda impressione in tutto il mondo ellenico. Qualcuno già immaginò di vedere di nuovo la flotta persiana nel Mare Egeo, e sotto quest'incubo fu deciso di mettere al sicuro il tesoro di guerra trasportandolo dall'isola di Delo, che altrimenti sarebbe rimasto in pericolo di fronte a eventuali attacchi nell'acropoli di Atene dov'era custodito. Ma soprattutto era necessario giungere ad un accordo con Sparta. Venne quindi - riconoscendo l'ingiustizia del loro trattamento - richiamato dall'esilio Cimone, ed infatti grazie alla sua mediazione si riuscì a concludere con il Peloponneso un armistizio per la durata di cinque anni (451).
In questo modo Atene, sicura alle spalle, poté rivolgere tutte le sue forze contro la Persia.

Tuttavia l'attacco che si temeva da questa parte non si verificò, perché gli insorti egiziani opposero ancora lunga resistenza nelle regioni paludose del delta ed anche le città greche dell'isola di Cipro non si mostrarono affatto disposte a ritornare sotto la dominazione persiana. In loro difesa - come abbiamo già accennato piuù sopra- Cimone richiamato dall'esilio, salpò alla testa di una flotta di 140 triere rinforzato da altre 60 egiziane e cominciò l'assedio della città fenicia di Citio sulla costa meridionale dell'isola; qui purtroppo dovette soccombere ad una malattia. Nel frattempo era comparsa nelle acque di Cipro una flotta persiana, e ciò indusse gli Ateniesi ad interrompere l'assedio di Citio per andare incontro al nemico. Presso la città di Salamina di Cipro ci fu la battaglia ed i Fenici vi rimasero sconfitti ed annientati; cento delle loro navi furono catturate dai vincitori ed il dominio ateniese sul mare fu così aumentato e nuovamente assicurato (450).
Ma Atene era profondamente esausta e con la morte di Cimone il partito che aveva scritto sulla sua bandiera la prosecuzione della guerra contro la Persia era rimasto privo del suo capo. Si aggiunga che i rapporti con Sparta continuavano a rimaner molto tesi, e ciò faceva prevedere con certezza una ripresa del conflitto alla scadenza dell'armistizio quinquennale. Atene quindi intavolò trattative con la Persia.
Atene si mostrò pronta a sacrificare Cipro; ed in compenso il re persiano si impegnava a non introdurre alcuna flotta nel Mare Egeo. Su queste basi fu conclusa la pace, che nella storia reca a torto il nome di "Pace di Cimone", giacché con essa Atene rinunciò invece proprio al programma per il quale il suo grande condottiero aveva combattuto per tutta la durata della sua vita. Atene tradì con questa pace la sua missione nazionale, all'interesse del cui compimento essa andava debitrice della sua posizione dominante; e non gliene fu risparmiata la punizione. Da questo momento cominciò la decadenza di Atene.

Infatti anche nel resto della Grecia dopo quell' indecoroso patto, i nemici di Atene risollevarono il capo. Nella Beozia scoppiò una insurrezione; un esercito ateniese al comando di Tolmide, che era stato mandato per spegnere la rivolta, fu distrutto a Coronea ed in seguito a questa disfatta anche l'Eubea e Megara si ribellarono alla signoria ateniese. Poco dopo l'esercito della lega del Poloponneso, guidato dal figlio di Pausania, il giovane re Plistoanace, passò l'istmo ed invase l'Attica.
Pericle radunò in fretta quante truppe aveva sotto mano ed occupò le alture che separano la pianura di Atene dal piano di Eleusi, ma non osò dare battaglia al nemico in campo aperto. Tentò quindi la via delle trattative e siccome si mostrò disposto a far grandi sacrifici si giunse rapidamente ad un accordo. Atene rinunziò alla Beozia, a Megara e ai suoi possedimenti nel Peloponneso; in compenso Sparta riconobbe il predominio ateniese sul mare. La convenzione era destinata a rimanere in vigore per 30 anni.

Così la potenza di Atene sul continente ellenico rimase distrutta senza che Sparta avesse avuto bisogno di sacrificare a tale scopo neppure un uomo. E probabilmente, data la decisa superiorità di Atene sul mare, anche proseguendo la guerra non si sarebbe potuto ottenere di più. Infatti in previsione di quanto sarebbe avvenuto, gli Ateniesi subito dopo la rottura con Sparta (462) avevano cominciato a collegare la città con i suoi porti del Pireo e del Falero mediante due muraglie laterali lunghe da 6 a 7 chilometri e ad assicurarle così le sue comunicazioni col mare; questa opera colossale era ora compiuta e rendeva impossibile circondare Atene e bloccarla completamente. Malgrado ciò la pace incontrò a Sparta viva disapprovazione in seno ad un partito molto esteso, il quale ottenne lo scopo di far sottoporre Plistoanace a giudizio per alto tradimento e di farlo deporre dalla carica. Ma non era ormai più possibile revocare il patto che lui aveva concluso. E quindi Pericle si trovò libere le mani contro l'Eubea; l'isola fu soggiogata dopo breve resistenza e ridotta alla piena dipendenza da Atene.

Nondimeno la posizione di Pericle per tutto ciò che era avvenuto non potè restare che gravemente scossa. Il partito di Cimone cominciò di nuovo ad alzar la testa. Ma il suo capo, Tucidide, figlio di Melesia, non era l'uomo da poter stare a confronto con Pericle. Si arrivò, é ben vero, a provocare le decisioni del tribunale dell'ostracismo; ma la massa del popolo rimase fedele al suo antico capo e toccò a Tucidide di andarsene in esilio (445).
Da questo momento Pericle rimase senza rivali alla testa dello Stato; anno per anno fu rieletto stratega, e nel consiglio e presso l'assemblea popolare la sua parola ebbe sempre un' influenza assolutamente decisiva.
Vero é inoltre che nel frattempo si era trasformato in demagogo. Cimone stesso non aveva disdegnato di accrescere la sua popolarità mediante sconfinate demagogiche liberalità a favore delle masse, e spesso mettendo mano alle infinite risorse del suo principesco patrimonio; Pericle, per superarlo in liberalità, pose le mani nelle casse dello Stato. Per rendere possibile anche ai cittadini più poveri il diritto di sedere nei tribunali di giurati, che a datare dalla riforma di Efialte giudicavano in ultima istanza anche su questioni di carattere politico, venne introdotto, su proposta di Pericle, un assegno per i giudici in ragione di due oboli per seduta, che era allora pari al salario giornaliero di un comune lavoratore.

Anche i grandiosi edifici pubblici che furono costruiti sotto l'amministrazione di Pericle ebbero in gran parte lo scopo di dare lavoro remunerativo alle masse. Né Pericle trascurò di soddisfare il gusto che il popolo aveva per gli spettacoli celebrando splendide feste. Tutto ciò volle dir poco finché la situazione delle finanze dello Stato fu rigogliosa ed a capo della cosa pubblica si trovò un uomo superiore a ogni altro come Pericle; ma ben presto questi dispendi dovevano riuscire fatali al progresso dello Stato.
Rispetto alle relazioni con gli alleati, l'opera di Pericle fu diretta a trasformare sempre più l'alta sovranità di Atene in una dominazione effettiva. Questo svolgimento -forse- fu in gran parte però causato dalla forza stessa delle cose, perché Atene se voleva che la pace fosse mantenuta nel campo della lega, non poteva fare a meno di inserirsi nelle controversie fra i vari (ottusi) membri della lega stessa, e perfino nelle perturbazioni interne dei singoli (ottusi) Stati confederati.

O per forza di cose o per volere di Pericle, la prima conseguenza fu che gli alleati vennero assoggettati alla giurisdizione ateniese, di modo che tutte i più importanti processi affioranti nell'àmbito del territorio federale furono giudicati dinanzi ai tribunali attici.
Era anche vero che, quando non vi era di mezzo un interesse ateniese, questi tribunali offrivano una garanzia di imparzialità assai maggiore che non i tribunali dei singoli staterelli; e siccome e giudici attici giudicavano secondo il diritto attico, ne derivò che attraverso la giurisdizione si pervenne anche all'unificazione del diritto in tutto il dominio ateniese.
È pur vero peraltro che tale sistema rese assai dispendiosa per gli alleati la giustizia, anche a prescindere dalla limitazione che esso arrecava all'autonomia comunale, così cara a tutti e Greci. Naturalmente non mancarono neppure ingerenze nell'amministrazione interna degli Stati confederati che spesso furono addirittura assoggettati al controllo di funzionarii ateniesi. Costoro favorirono in ogni maniera i partiti democratici locali e talora riformarono la costituzione modellandola su quella ateniese.

Nelle città del territorio federale importanti dal punto di vista militare furono distaccati presidi e quando se ne presentò l'occasione, specialmente in caso di tentativi di ribellione andati a vuoto, vennero domiciliati nelle città confederati cittadini ateniese affidandogli delle terre. In seguito a tutto ciò l'assemblea federale perdette con l'andar del tempo ogni importanza; Atene decise a suo arbitrio in merito a tutte le questioni di interesse comune, e da quando il tesoro della lega venne trasportato ad Atene non si volle persino più render conto dell'impiego del denaro comune; bastava, si disse, che Atene ottemperasse al suo obbligo di proteggere gli alleati dagli attacchi esterni.
Così la lega, sotto il governo di Pericle, si trasformò in un dominio ateniese; gli alleati si mutarono in sudditi. Soltanto le tre grandi isole della costa occidentale dell'Asia Minore, Lesbo, Chio e Samo, conservarono la propria autonomia; esse erano esente dal tributo federale anche se conferivano contingenti di navi proprie alla flotta ateniese.

Tutto ciò non poteva a meno di suscitare fra gli alleati un profondo astio contro Atene, reso anche maggiore dal fatto che la guerra contro la Persia per la quale era stata un tempo costituita la lega, non era stata più proseguita a datare dalla «pace di Cimone», e neppure sembrava fossero da temere ulteriori pericoli da questo lato. Ma i piccoli Stati erano impotenti contro la città dominante, e gli Ateniesi furono abbastanza accorti per non dar ragioni di dolersi a quei pochi Stati federati che erano tuttora autonomi.
Ma a lungo andare i conflitti non poterono esser del tutto evitati. Nell'anno 440 Samo venne a guerra per questioni di confine con la vicina Priene e poi con Mileto; le due città, non essendo in grado di tener fronte ai Sami, chiesero aiuto ad Atene che così si trovò coinvolta nella lotta. Pericle salpò immediatamente con 60 navi e riportò presso l'isola di Tragea una vittoria sulla flotta di Samo superiore per numero di navi. Questo successo arrecò il beneficio che Chio e Lesbo si mantennero fedeli e l'insurrezione rimase in sostanza limitata solo a Samo, che però rimasta sola si rivolse per aiuto a Sparta ed alla Persia; ma nel Peloponneso non se la sentirono di violare la pace conclusa pochi anni prima con Atene ed anche il gran re non osò intervenire. Così Samo dopo un assedio di nove mesi fu costretta ad arrendersi agli Ateniesi. E ovviamente l'isola fu privata della sua indipendenza (439).

Durante gli anni successivi la pace in Grecia non venne turbata, e Pericle ebbe modo di cercare nel Nord e nell'Occidente dei compensi per tutti quei i sacrifici che si erano dovuti fare prima. Una spedizione compiuta verso il Ponto indusse in gran parte le città greche del luogo ad entrare a far parte del dominio ateniese, in Tracia venne fondato non lontano dalle foci dello Strimone la colonia di Anfipoli (437), importante per la sua situazione strategica come per le ricche miniere d'oro del vicino Pangeo. In Occidente era stata già alcuni anni prima (445) fondata in vicinanza della distrutta Sibari la colonia ateniese di Turii; Atene poi si alleò pure con le città calcidiche della Sicilia e dell'Italia. Furono questi tentativi di espandere la potenza ateniese sull'Occidente greco che alla fine provocarono la rottura col Peloponneso e fecero scoppiare quella guerra che finì con la caduta del dominio ateniese.

Ma prima di arrivare al grande conflitto "civile" che prese poi nome di Guerra Peloponnesiaca che porterà lentamente alla rovina la Grecia.....
soffermiamoci al periodo dell'illuminato governo di Pericle che favorì lo sviluppo di una cultura che sarà esemplare nei secoli; cioè agli anni quando Atene visse la sua età più gloriosa.
L'ETA' DI PERICLE > > >

Bibliogrfia e testi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECA - 1822
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1 - Sei 1916
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO, 1927
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI - 1968
JOHN D. GRAINGER Seleukos Nikator ECIG
FRANCA LANDUCCI GATTINONI -Lisimaco di Tracia - Jaca book 1992
RICHARD A. BILLOWS Antigonos the One-Eyed (University of California Press 1997)

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