GLI ARMISTIZI - LA PACE
LE PUNIZIONI
della
PRIMA GUERRA MONDIALE

Bulgaria Prima a deporre le armi fu la Bulgaria, il 29 settembre 1918: dovette evacuare immediatamente i territori serbi e greci ancora invasi, smobilitare e espellere tutti gli agenti tedeschi, ed infine consegnare all’esercito dell’Intesa alcuni centri strategici.
Turchia Il 30 ottobre fu la volta della Turchia, con l’armistizio di Mudros
Austria L’Austria–Ungheria chiese l’armistizio all’Italia, che fu firmato il 3 novembre, a Villa Giusti a Padova.
Germania L’11 novembre i delegati tedeschi firmarono l’armistizio di Rethondes, per il quale la Germania si impegnava a evacuare tutti i territori finora occupati, a dichiarare nulli i trattati di Brest Litovsk e di Bucarest, a consegnare il materiale da guerra e la flotta.

 

i 14 punti
di Wilson
L'8 gennaio il presidente Wilson enumerò i quattordici punti ai quali si sarebbe ispirata la sua azione nella futura conferenza per la pace. (vedi link dedicato)
la pace con la Germania Il trattato di pace con la Germania, Versailles 28 giugno 1919, non fu negoziato ma imposto:
  • obbligo di rifondere alle potenze vincitrici tutti i danni subiti dai territori e dai cittadini in conseguenza della guerra: la cifra stabilita fu di 132 miliardi di marchi oro da estinguere in trent'anni (non fu applicato);
  • La restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena;
  • Il distacco del bacino minerario della Saar, affidato per quindici anni all’amministrazione della Francia;
  • l’annessione dei distretti di Eupen e di Malmédy al Belgio;
  • la restituzione dello Schleswig settentrionale alla Danimarca;
  • la cessione alla Polonia del territorio chiamato il "corridoio polacco", che permetteva alla Polonia di avere uno sbocco al mare;
  • la città di Danzica era dichiarata città libera sotto il controllo internazionale;
  • la perdita di tutte le colonie, spartite tra Francia e Gran Bretagna, ad eccezione dell'Africa Sud Occidentale data all'Unione del Sudafrica e di alcuni territori in Estremo Oriente concessi al Giappone;
  • la riduzione del proprio esercito a 100.000 uomini;
  • la consegna della flotta all’Inghilterra;
  • la smilitarizzazione perpetua della Renania;
  • l'impegno a fornire materie prime ai paesi vincitori a condizioni vantaggiose con la concessione unilaterale di facilitazioni doganali;
  • l'annullamento del Trattato di Brest-Litovsk con la Russia, il che sottrasse alla Germania i territori baltici ed altri strappati alla Romania: nacquero in tal modo le repubbliche di Lituania, Estonia, Lettonia e Finlandia.
la pace con l'Austria Il trattato di Saint–Germain en Laye del 10 settembre 1919 con l’Austria vera e propria e il trattato di Trianon il 4 giugno 1920 con l’Ungheria:
  • Nascita di nuovi stati: la repubblica d’Austria, il regno di Ungheria, la repubblica della Cecoslovacchia, il regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Jugoslavia), la repubblica di Polonia, la repubblica di Lituania, la repubblica di Estonia, la repubblica di Lettonia, la repubblica di Finlandia;
  • La restituzione da parte dell’Ungheria alla Romania della Transilvania;
  • La Polonia riunì a sé le provincie polacche un tempo sotto l’Austria;
  • L’Italia ottenne le terre irredente, come era stabilito nel patto di Londra, cioè il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero, Trieste e l’Istria.
la pace con l'Ungheria Il trattato del Trianon del 4 giugno 1920 stabiliva la nascita dello stato indipendente ungherese che tuttavia dovette cedere terriotri alla Jugoslavia, alla Romania e alla Polonia.
la pace con la Bulgaria Il trattato di Neuilly del 27 settembre 1919 con la Bulgaria: essa dovette rinunciare allo sbocco sul mare Egeo e cedere la Macedonia alla Jugoslavia e alla Grecia.
la pace con la Turchia In base al trattato di Sèvres, 10 agosto del 1920, la Turchia:
  • perse l’Arabia, la Mesopotamia, la Siria (posta sotto mandato francese) e la Palestina (mandato inglese);
  • dovette cedere alla Grecia la Tracia e l’Anatolia meridionale con la zona di Smirne (mantenne sul suolo europeo la sola città di Istanbul);
  • l'Irak fu posto sotto il mandato inglese;
  • dovette accettare il controllo internazionale degli stretti.
la Società delle Nazioni La Società delle Nazioni, auspicata da Wilson, prese vita nell'aprile 1919 (approvazione dello Statuto). Nel gennaio 1920 ci fu a Ginevra la prima sessione. Ma proprio gli Stati Uniti, dopo esserne stati i promotori con il presidente Wilson non entrarono a farne parte, per il voto contrario del Congresso.

 

LA SOCIETA' DELLE NAZIONI

 

All'indomani della fine della guerra 1914-1918 l'opinione pubblica mondiale fu pervasa dalla grande speranza che quella appena terminata dovesse essere l'ultima guerra. In tutto il mondo si costituirono organizzazioni e leghe per il mantenimento della pace. Negli Stati Uniti, il presidente Wilson propose l'istituzione di una "Società Generale delle Nazioni" che doveva "fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi stati".

La proposta, provenendo dal più potente, e in quel momento, il più prestigioso stato del mondo, provocò entusiasmo dei popoli e i governi accolsero l'inclusione del Patto della Società delle Nazioni nel trattato di pace alla Germania fatto firmare a Versailles.

Il Patto della S.d.N. (CHE LEGGEREMO A FONDO PAGINA) non condannava la guerra in sè, ma solo la guerra "ingiusta", cioè aggressiva. A tal fine gli stati membri s'impegnavano a rispettare l'integrità territoriale e l'indipendenza di tutti gli altri (art. 10): dichiaravano materia d'interesse e pertanto d'intervento della S.d.N. qualsiasi guerra o minaccia, anche se diretta contro uno stato non membro (art.11); s'impegnavano a sottoporre le loro controversie o a un giudizio arbitrale o all'esame del Consiglio della S.d.N. (art.12).

Molte speranze collegate con la S.d.N. andarono deluse negli anni successivi alla sua fondazione: La potenza aggredita lanciava appelli; la potenza attaccante riceveva, al massimo, una sanzione morale ma intanto conservava i frutti della violazione compiuta.

Eppure nonostante questi aspetti negativi, l'esperimento societario non fu inutile al progresso di tutte le nazioni. Le esperienze piuttosto negative insegnarono molto, se non altro (una speranza ancora attuale) a non commettere alcuni errori sostanziali.

La Società delle Nazioni non era mai stata nell'intenzione dei fondatori, una federazione di stati o un superstato; specie da parte britannica si era manifestata la costante tendenza a ridurre al minimo le attribuzioni dei suoi organi. Nella rielaborazione dei valori morali e politici del primo dopoguerra cominciò a farsi strada più insistentemente l'opinione che, per opporsi efficacemente al nazionalismo, lo stato nazionale doveva essere sostituito da quello continentale e che l'Europa doveva organizzarsi in federazione.
Da questo diffuso sentimento si rese più tardi interprete il conte Coudenhove Kalergi, che nel 1932 fondò il movimento paneuropeo e nel libro "Paneuropa" lanciò l'idea di organizzare sul continente una federazione di stati. Egli sintetizzò come segue il dilemma europeo: "Può l'Europa, nel suo frazionamento politico ed economico, difendere la propria pace ed indipendenza dalle crescenti potenze mondiali non europee, o essa è costretta, al fine di difendere la propria esistenza, ad organizzarsi in una federazione di stati?".
 Il movimento si diffuse in tutti gli stati e se ne costituirono sezioni ovunque.

Nel 1924 gli stati avevano ancora mostrato di nutrire fiducia nello spirito societario, votando il PROTOCOLLO DI GINEVRA con il quale s'impegnavano ad accettare l'arbitrato obbligatorio in un certo numero di casi gravi. Ma il Protocollo rimase lettera morta quando in Inghilterra, dopo alcune settimane, il governo laburista fu sostituito da quello conservatore che denunciò l'approvazione precedentemente data.

IL TRATTATO DI LOCARNO
(che metteremo presto tutto in rete, integralmente, dall'opuscolo originale)

Il successivo orientamento fu quello dei patti regionali, ritenuti i soli capaci di essere concretamente realizzati al di fuori degli interventi societari, che incontravano sempre meno il favore dei governi, soprattutto quello inglese. Con gli accordi di Locarno siglati il 16 ottobre 1925:

1) La Germania si impegnava a non compiere alcuna aggressione conto la Francia e il Belgio, paesi che assumevano una obbligazione analoga nei suoi confronti;


2) La Gran Bretagna e l'Italia garantivano l'inviolabilità dei confini tra la Germania e Francia, e tra Germania e Belgio. Si dava così un riconoscimento all'esistenza della Società delle Nazioni, ma in una forma che denunciava sfiducia nel suo funzionamento. Altri accordi di natura bilaterale furono stipulati a Locarno dalla Germania con il Belgio, la Cecoslovacchia, la Francia e la Polonia. Questi erano però privi di garanzia internazionale che al fondamentale e primo degli accordi stessi era assicurata dalla partecipazione della Gran Bretagna e dell'Italia.

Non c'è quindi da meravigliarsi se, dopo Locarno, regnasse un senso di incertezza. La ricerca di sicurezza da parte francese portò alla conclusione di un nuovo trattato che poneva la guerra fuori legge. I negoziati ebbero inizio il 26 aprile 1927, in occasione del decimo anniversario dell'entrata in guerra degli Stati Uniti, quando ARISTIDE BRIAND propose al governo di Washington di sottoscrivere un patto bilaterale per "porre la guerra fuori legge". Il segretario di stato KELLOG accettò la proposta di negoziare, ma respinse la formula bilaterale e il principio delle sanzioni contro un eventuale violatore. Nacque così, dopo varie e complesse trattative, il testo firmato a Parigi il 27 agosto 1928 da 15 stati, noto sotto il nome di PATTO BRIAND-KELLOG).

Non parve quindi assurdo che un insigne uomo di stato, il Ministro degli Esteri Aristide Briand, iniziasse nel 1929, con la Gran Bretagna e la Germania, trattative che facevano seguito a contatti privati avuti con STRESEMANN, per la costituzione di una Comunità economica, primo passo verso un'Unione  europea a carattere federativo. Quest'ultima formò oggetto di un memorabile discorso da lui pronunciato il 5 settembre 1929 - nella sua nuova qualità di Presidente del Consiglio francese . all'Assemblea della Società delle Nazioni. A questo discorso fece seguito un memorandum, inviato nel maggio 1930 ai governi europei, i quali l'accolsero manifestando l'intenzione di non voler rinunciare alla propria sovranità, venendo così a negare i principi stessi su cui poggiava la progettata unione. I governi si rifiutarono di prendere impegni concreti e l'iniziativa fallì, soprattutto a causa dell'atteggiamento inglese.

L'orientamento ufficiale degli stati fu solo quello di raggiungere delle garanzie di sicurezza attraverso ulteriori accordi regionali: si ritornava alla tradizionale politica delle alleanze e dei trattati difensivi: ma terminò anche il periodo delle intese regionali. Dal 1935 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale fu un susseguirsi di infrazioni al diritto, di fronte alle quali la Società delle Nazioni o restò inerte o votò provvedimenti del tutto inadeguati. Era il crollo degli ideali su cui si fondava la Società delle Nazioni, che doveva registrare la propria completa sconfitta nel momento in cui il mondo si lanciava nella guerra totale per la seconda volta in una generazione.

La Società delle Nazioni era terminata con un fallimento anzitutto per l'assenza degli Stati Uniti, responsabili dell'esistenza della nuova organizzazione e, data la loro potenza, della sicurezza del mondo. A questo si aggiungeva il reciproco sospetto trasferito sul piano societario i loro tradizionali antagonismi. Il conflitto italo-etiopico fu veramente la tomba della Società delle Nazioni. Esso non dimostrò soltanto debolezza dell'organismo, ma anche la scarsa sincerità di chi in suo nome, aveva assunto un deciso atteggiamento morale. Ne derivò il crollo dell'edificio societario nella stima dei governi e dei popoli, e l'inizio di tutte le iniziative intese a scuotere la pace e la legge internazionale.

Un organismo capace di garantire la pace e la sicurezza si fece strada nuovamente alla fine della seconda guerra mondiale, con la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) il 26 giugno del 1945. Ma per organizzare la propria concreta difesa,  collateralmente più tardi, il 4 aprile 1949 fu creata la Organizzazione difensiva atlantica, la North Atlantic Treaty Organization (la NATO)

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Patto della Società delle Nazioni

Allo scopo di promuovere la cooperazione internazionale, realizzare la pace e la sicurezza degli Stati, mercè:

l'impegno di non ricorrere in dati casi alle armi;

lo stabilimento di rapporti palesi, giusti e onorevoli fra le Nazioni;

il fermo riconoscimento delle regole del diritto internazionale come norme effettive di condotta fra i Governi;

l'osservanza della giustizia e il rispetto scrupoloso di ogni trattato nelle relazioni reciproche dei popoli civili;

le Alte Parti contraenti consentono nel presente " Patto della Società delle Nazioni ".

Articolo 1

Saranno Membri fondatori della Società delle Nazioni quelli tra i firmatari che sono nominati nell'elenco allegato a questo patto, e quegli altri Stati nominati del pari nell'elenco, che aderiranno al patto senza riserve, mediante una dichiarazione depositata presso il Segretariato entro due mesi dall'entrata in vigore di questo patto; la loro adesione dovrà essere notificata a tutti gli altri Membri della Società.

Qualunque Stato, dominio o colonia, pienamente autonomo, non nominato nell'elenco, può diventare Membro della Società se la sua ammissione sia approvata dai due terzi dell'Assemblea, purché dia effettive guarantigie della sua sincera intenzione di osservare i propri doveri internazionali, e accetti quelle norme che potranno essere prescritte dalla Società relativamente alle sue forze e ai suoi armamenti, militari, navali ed aerei.

Ogni Membro della Società potrà recederne, salvo preavviso di due anni, purché al momento del recesso abbia adempito tutti i suoi doveri internazionali e tutte le obbligazioni che derivano da questo patto.

Articolo 2

L'azione della Società, a norma del presente patto, si svolgerà per mezzo di un'Assemblea e di un Consiglio, assistiti da un Segretariato permanente.

Articolo 3

L'Assemblea sarà costituita dai rappresentanti dei Membri della Società. Si riunirà a determinati periodi e ogni volta che le circostanze lo richiedano, nella sede della Società o in quello altro luogo che eventualmente fosse stabilito.

L'Assemblea può trattare nelle sue adunanze di ogni argomento che si riferisca all'azione della Società o che interessi la pace del mondo.

Ogni Membro della Società disporrà di un voto e non potrà avere più di tre rappresentanti nell'Assemblea.

Articolo 8

I Membri della Società riconoscono che, per mantenere la pace, occorre ridurre gli armamenti nazionali al limite minimo compatibile con la sicurezza dello Stato e con l'azione comune intesa ad assicurare l'adempimento degli obblighi internazionali.

Il Consiglio, tenendo conto della posizione geografica e delle circostanze di ogni Membro della Società, redigerà i programmi di questa riduzione, affinché i vari Governi li esaminino e provvedano.

Tali programmi dovranno essere sottoposti a nuovo esame e revisione, almeno ogni dieci anni.

Una volta adottati dai vari Governi, i limiti degli armamenti così stabiliti non potranno essere superati senza il consenso del Consiglio.

I Membri della Società convengono che la fabbricazione di munizioni e strumenti di guerra da parte di privati si presta a gravi obiezioni.

Il Consiglio avviserà ai modi di prevenire gli effetti perniciosi di questa fabbricazione, col debito riguardo alle necessità di quei Membri della Società che non sono in grado di fabbricare le munizioni e gli strumenti di guerra necessari alla propria salvaguardia.

I Membri della Società si impegnano ad effettuare, nei reciproci rapporti, un completo e leale scambio di informazioni circa le proporzioni dei loro armamenti, i loro programmi militari, navali ed aeronautici, e le condizioni delle loro industrie in quanto possano adattarsi a fini di guerra.

Articolo 10

I Membri della Società si impegnano a rispettare, e a proteggere contro ogni aggressione esterna, l'integrità territoriale e l'attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società. In caso di aggressione, minaccia o pericolo di aggressione, il Consiglio avviserà ai modi nei quali quest'obbligo dovrà essere adempito.

Articolo 11

Ogni guerra o minaccia di guerra, che tocchi direttamente o indirettamente uno dei Membri della Società, è considerata fin d'ora come materia interessante l'intera Società, e questa provvederà nei modi più opportuni ed efficaci per salvaguardare la pace fra le Nazioni. Nel caso che tale emergenza si verificasse, il segretario generale convocherà immediatamente il Consiglio, a richiesta di uno qualunque dei Membri della Società.

Si dichiara del pari che ciascuno dei Membri della Società potrà in via amichevole richiamare l'attenzione dell'Assemblea o del Consiglio su qualsiasi circostanza concernente le relazioni internazionali, che minacci di turbare la pace o la buona armonia fra le Nazioni, dalla quale la pace dipende.

Articolo 12

I Membri della Società convengono che, qualora sorgesse fra loro una controversia tale da condurre a una rottura, sottoporranno la questione a un arbitrato o ad un regolamento giudiziale o all'esame del Consiglio, e in ogni caso non ricorreranno alle armi prima che siano trascorsi tre mesi dalla decisione arbitrale o giudiziale o dalla relazione del Consiglio.

Nei casi contemplati in questo articolo, la decisione deve essere pronunciata entro un termine conveniente, e il Consiglio dovrà fare la sua relazione entro sei mesi dal giorno in cui l'avvertenza gli sarà stata sottoposta.

Articolo 14

Il Consiglio formulerà e sottoporrà ai Membri della Società un progetto per la istituzione di una Corte permanente di giustizia internazionale. La Corte sarà' competente per conoscere e decidere ogni vertenza di carattere internazionale che le Parti le sottopongano. La Corte potrà anche esprimere un parere su qualunque controversia o questione deferitale dal Consiglio o dall'Assemblea.

Articolo 16

Qualora uno dei Membri della Società ricorra alla guerra, in violazione dei patti di cui agli articoli 12, 13 e 15, sarà considerato ipso facto come colpevole di aver commesso un atto di guerra contro tutti gli altri Membri della Società, i quali si impegnano fin d'ora a interrompere immediatamente ogni rapporto commerciale e finanziario col medesimo, a proibire ogni traffico fra i propri cittadini ed i cittadini dello Stato contravventore, e ad interdire ogni rapporto finanziario, commerciale o personale fra i cittadini dello Stato contravventore e i cittadini di qualsiasi altro Stato, sia o non sia Membro della Società.

Sarà in tal caso dovere del Consiglio di raccomandare ai vari Governi interessati quali forze militari, navali od aeree dovranno essere fornite da ciascuno dei Membri della Società come contributo alle forze armate destinate a proteggere i patti sociali.

I Membri della Società convengono inoltre di prestarsi mutua assistenza nei provvedimenti finanziari ed economici presi a norma del presente articolo, per attenuare le perdite e gli inconvenienti che ne risultassero; di prestarsi del pari mutua assistenza per resistere contro i provvedimenti speciali diretti contro uno di essi dallo Stato contravventore, e di prendere i necessari provvedimenti per facilitare il transito attraverso il proprio territorio alle forze di qualunque dei Membri della Società, cooperanti alla protezione dei patti sociali.

Ogni Membro della Società che abbia violato i patti sociali potrà esserne escluso per voto del Consiglio, al quale partecipino tutti gli altri Membri della Società in esso rappresentati.

Articolo 22

Alle colonie e ai territori che in seguito all'ultima guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che prima li governavano, e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo moderno, si applicherà il principio che il benessere e lo sviluppo di tali popoli è un compito sacro della civiltà, e le garanzie per l'attuazione di questo compito dovranno essere incluse nel presente patto.

Il metodo migliore per dare effetto pratico a questo principio è di affidare la tutela di questi popoli a nazioni progredite, che, grazie ai loro mezzi, alla loro esperienza e alla loro posizione geografica, possano meglio assumere questa responsabilità e siano disposte ad accettare tale incarico; questa tutela dovrebbe essere esercitata dalle medesime come mandatarie della Società e per suo conto.

Il carattere del mandato dovrà variare secondo il grado di sviluppo del popolo, la posizione geografica del territorio, le sue condizioni economiche e altre circostanze simili.

Alcune comunità che appartenevano prima all'Impero turco hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere provvisoriamente riconosciuta, salvo il consiglio e l'assistenza amministrativa di una Potenza mandataria, finché non saranno in grado di reggersi da sé. I desideri di queste comunità dovranno essere principalmente tenuti in conto nella scelta della Potenza mandataria.

Altri popoli, specie dell'Africa centrale, sono in tale stato che il mandatario dovrà rispondere dell'amministrazione del territorio, a condizioni che garantiscano la libertà di coscienza e di religione, limitata solo in quanto sia necessario per il mantenimento dell'ordine pubblico e del buon costume, il divieto di abusi, come il commercio degli schiavi, il traffico delle armi e dei liquori, il divieto di stabilire fortificazioni e basi militari o navali e di dare agli indigeni una istruzione militare per scopi diversi dalla polizia e dalla difesa del territorio; a condizione altresì, che assicurino agli altri Membri della Società vantaggi eguali per il commercio ed il traffico.

Vi sono territori, come quelli dell'Africa sud-occidentale e talune isole del Pacifico australe, che, per la scarsa densità della popolazione, per la piccola superficie, per la lontananza dai centri della civiltà, per la contiguità geografica allo Stato mandatario, e per le altre circostanze, possono meglio essere amministrate secondo le leggi del detto Stato, come parti integranti del suo territorio, salvo le garanzie predette nell'interesse della popolazione indigena.

In ogni caso di mandato, il mandatario presenterà alla Società una relazione annuale circa il territorio affidatogli.

Il grado di autorità, di ingerenza e di amministrazione che dovrà essere esercitata dal mandatario sarà in ciascun caso esplicitamente determinato dal Consiglio, quando non sia stato preventivamente convenuto dai Membri della Società.

Una commissione permanente sarà costituita, per ricevere ed esaminare le relazioni annuali dei mandatari e dar parere al Consiglio in ogni materia relativa all'osservanza dei mandati.

FINE


A Parigi era imminente l'accettazione da parte della Germania del Trattato di Versailles, che avvenne il 28 giugno.
Per l' Italia sullo storico documento firmarono SONNINO, il marchese IMPERIALI e l'on. SILVIO CRESPI.
Si componeva di 435 articoli, dedicati i primi alla "creatura" di Wilson (La definizione della Società delle Nazioni), gli altri precisavano gli oneri d'ogni genere imposti alla Germania vinta.


E se la prima parte parlava di pace, felicità nei popoli, autodeterminazioni, nella seconda alcuni già vedevano un'altra guerra; e che le armi anche se tacevano prima o poi per la disperazione avrebbero di nuovo iniziato a farsi sentire. E quando l'America, proprio lei che ne doveva essere la garante- volle rimanere fuori dalla Società delle Nazioni, molti non ebbero dubbi.
Il fallimento della Società delle Nazioni pur concepita da Wilson fu ben presto dovuto proprio  per l'assenza degli Stati Uniti che l'avevano promossa. Il segretario di stato KELLOG respinse la formula bilaterale e il principio delle sanzioni  contro un eventuale stato europeo aggressore di un altro (Questo perchè volevano seguitare a vendere indisturbati agli europei le merci, sia ai "cani" che ai "gatti" che si azzuffavano).

Se la dovevano sbrigare da soli gli europei.  Ma senza la "forza" militare di dissuasione  dell'America i litigiosi stati europei tornarono alla tradizionale politica delle (ambigue) alleanze e dei (fragili)  trattati difensivi (come ai tempi di prima, durante e dopo Napoleone, e che erano solo carta straccia - vedi la Triplice intesa). Così  fu un susseguirsi di infrazioni al diritto, di fronte alle quali la "casareccia"  Società delle Nazioni, o rimase apatica o votò provvedimenti del tutto inadeguati. Fu così che ripartirono tutte quelle liti lasciate in sospeso nel primo conflitto; in quello italo-etiopico - più tardi - addirittura la Società delle Nazioni finì nel ridicolo. Ma era quella che era: una nullità.

E se già all'inizio c'era insofferenza per l'idea di conferire un certo potere ad un organo internazionale, quando questo potere venne del tutto a mancare, l'era dei dittatori iniziava. L''inizio di un disastro pure.

Non va dimenticato che, per quanto possa sembrare assurdo, l'immagine della Russia prima leninista e poi quella stalinista godeva di un diffuso "rispetto democratico" anche in America. Per anni fecero la corte ai bolscevichi. E in funzione anti-inghilterra -che dopo il disastro economico del '29, tornò a chiudersi in se stessa), nel 1933 gli stessi Stati Uniti (ovviamente per fare affari, facendo un grosso dispetto agli inglesi) avevano riconosciuto l'U.R.S.S., e non furono pochi gli ambienti intellettuali americani disposti a concedere credito e credibilità al regime dello "splendido georgiano".

Ma perchè meravigliarsi- I mezzi per capire c'erano. In un libro uscito in Italia nel 1921, Caracciolo, Bagliori  di Comunismo, Biblioteca di cultura storica,  c'è un intervista di Losowski, presidente dei sindacati operai della Russia soviettistica, e ai giornalisti occidentali (penne imperialiste) recatisi in Russia a studiare l'organizzazione del regime comunista russo, affermava "Se la sperata rivoluzione europea non avviene, la rivoluzione bolscevica russa è condannata a perire. Non possiamo sussistere se il comunismo non si propaga dappertutto, Se rimarremo soli, fatalmente cadremo. Come si potranno conciliare nelle relazioni commerciali l'economia comunista e quella borghese? Nella vita economica internazionale valgono le leggi dei vasi comunicante; perciò, o noi saremo costretti ad accettare le vostre leggi, o voi le nostre, e ciò in un breve periodo di tempo. Noi per guadagnare tempo dobbiamo utilizzare anche il più breve respiro, altrimenti è la morte!" 
Chi leggeva in questi anni 1920, se voleva poteva anche capire qualcosa e antevedere il 1933, e anche... il 1990! Cioè il crollo, e l'apertura della Russia, all'economia di mercato occidentale; pardon... americana (con gli europei che hanno fatto pochi affari).


Ora qui ci basta accennare alle clausole essenziali imposte alla Germania, per capire la sua costernazione e il desiderio di rivalsa di tutto un popolo, con -fra breve- un caporale in testa:

La Germania doveva cedere: al Belgio, Eipen e Malmedy; alla Francia, l'Alsazia, la Lorena, la proprietà delle miniere della Saar (il polmone carbonifero che alimentava la siderurgia tedesca); alla Danimarca, parte dello Slesvig; alla Polonia, parte della Posnania, della Prussica Occidentale, della Prussica Orientale, dell'Alta Slesia.
Danzica col suo territorio e Memel col proprio, divenivano città libere, amministrate dalla Società delle Nazioni.
La Renania era neutralizzata - al pari di una fascia larga cinquanta chilometri lungo la destra del Reno e n'era prevista l'occupazione da parte degli Alleati per quindici anni.

Per quanto riguardava il bacino minerario della Saar anch'esso presidiato dagli Alleati (pronti ad invaderla), la sua restituzione alla Germania era condizionata all'esito di un plebiscito da effettuarsi nel 1935. Qualora il plebiscito stesso risultava favorevole alla Repubblica teutonica, la Francia avrebbe corrisposto in oro il valore delle miniere.
La Francia, in barba ai principi enunciati da Wilson, era ben determinata a salvaguardarsi definitivamente dal militarismo tedesco, e per fare ciò, al grido della parola d’ordine l’Allemagne paiera, chiedeva il controllo della riva occidentale del Reno sotto forma di annessioni territoriali o con la creazione di uno stato cuscinetto, il disarmo perpetuo della Germania e il pagamento di pesanti riparazioni. Tutto ciò in contrasto con altri opinionisti, che ritenevano fosse più costruttivo per un futuro di pace una limitazione generale degli armamenti e un atteggiamento meno mortificante contro i vinti; oltretutto, per le potenze occidentali un’entità statale forte al centro dell’Europa sarebbe stata un ottimo baluardo contro il temuto dilagare del fenomeno bolscevico.

Era fatto obbligo alla Germania: di non possedere più di 36 navi da guerra, con un effettivo massimo di 15 mila marinai; di non mantenere alle armi più di 4 mila ufficiali e 100 mila soldati raccolti per mezzo del volontariato con l'obbligo a 12 anni di ferma; di non possedere alcun aereo militare e neppure civile; di consentire il controllo sulle proprie industrie cui era vietata la produzione di materiale bellico. La repubblica vinta s'impegnava inoltre a corrispondere 1'importo dei danni causati dalla guerra nel Belgio, in Francia e sul mare.
Tutte indistintamente le floride Colonie tedesche furono affidate alle Potenze mandatarie; così ripartite: il 70 per cento alla Gran Bretagna, il 24 per cento alla Francia, il 5 per cento al Belgio; l'l per cento al Giappone. All'Italia… la beffa e lo scorno. Ma il bello doveva ancora arrivare!

La Germania s'impegnava poi di firmare ed accettare senza riserve i futuri trattati di pace da imporre all'Austria, all'Ungheria, alla Turchia, alla Bulgaria; rinunciava all'unione doganale con il Principato di Lussemburgo, ricostruito com'era nel 1914, ed ai diritti acquisiti nel Marocco per mezzo degli accordi del 1906, del 1909, del 1911.
In attesa di conoscere l'ammontare del suo debito, da fissare ad accertamenti compiuti, la Repubblica vinta era tenuta: in un primo anticipo di 25 miliardi di marchi-oro entro il 1 ° maggio 1921, ad un secondo anticipo di 80 miliardi fra il 1921 ed il 1926, ad un terzo anticipo di 80 miliardi in data da fissarsi dalla Commissione delle riparazioni.
Qualora la Germania avesse dimostrato la propria correttezza nella solvenza del debito, le truppe dell'Intesa si sarebbero ritirate anzitempo dalla Renania.
Ma i tedeschi si chiedevano, se questi erano rate e si parlava solo di anticipi, quanto sarebbe mai stato allora il conto finale?"

A dimostrare l'animo con il quale i Tedeschi accolsero le imposizioni dell'Intesa, basti ricordare quanto avvenne a Scapa Flow il 21 giugno 1919 (pochi giorni prima della fatidica firma a Versailles).
Secondo gl'impegni assunti già con la firma dell'armistizio, la Germania doveva disarmare la propria formidabile Flotta e acconsentire al suo internamento in uno scalo neutrale o appartenente agli Alleati.
Sia per lo scarso interessamento dell'Intesa a questo riguardo, sia perché i Paesi europei rimasti assenti dall'immenso conflitto erano ben pochi, il porto neutrale non si trovò. Nel colloquio avvenuto il 15 novembre fra sir Davide Beatty ed il contrammiraglio tedesco Meurer, restò pertanto convenuto, che la flotta imperiale sarebbe stata ospitata dal Regno Unito nel suo Firth of Forth.
Gli equipaggi marittimi prussiani avevano abbracciato il Comunismo, tuttavia -invitandoli ad osservare che ottemperando alle imposizioni dell'Intesa si sarebbero facilitate le trattative di pace - fu possibile far tornare a bordo il personale sufficiente alla navigazione. Senza artiglierie, né siluri a bordo, piuttosto malconcia e a rilento, la grande flotta tedesca salpò dalla rada di Shillig alle 2 pomeridiane del 19 novembre 1918. I marinai avrebbero voluto innalzare la bandiera rossa, ma avvertiti che con quel vessillo, non compreso nelle tavole delle insegne riconosciute dagli Alleati, sarebbero stati trattati da corsari e presi a cannonate - si accontentarono di mettere un banale segnale scarlatto a prora.
Agli ordini del viceammiraglio von Reuter, la "Hochsee Flotte" muoveva alla volta del mare aperto. Ma non per combattere i nemici della patria ma per offrire il pietoso e umiliante spettacolo della propria impotenza.

Durante la navigazione, nonostante le precauzioni prese, la torpediniera "V. 30" urtò contro una mina micidiale che squarciò l'esile silurante, uccidendo due uomini e ferendone tre. Colata a picco l'equipaggio fu salvato fino all'ultimo naufrago.
Alle 8 antimeridiane del 21 novembre 1918, la "Hochsee Flotte" incontrava la "Grand Fleet" nello specchio di mare prestabilito, a cinquanta miglia dall'isola May.
Per quanto la giornata fosse nebbiosa, ogni nave scorgeva le altre navi. I marinai britannici videro così, dopo cinquantadue mesi, le maestose "dreadnoughs", i superbi incrociatori di battaglia, gli incrociatori leggeri, le numerosissime torpediniere, che avevano tanto a lungo pattugliato il bellico mare tempestoso, in mezzo al turbinare sinistro dei venti, di giorno sotto il sole torrido, o nelle notti nei lividi raggi della luna.
Sorvolata dai dirigibili, preceduta e fiancheggiata dalle unità britanniche, la "Hochsee Flotte", raggiunse il Firth of Forth, dove rimase fino al 25 novembre 1918.
Quel fatidico giorno, i Tedeschi salparono per l'ultima volta. Il 26, l'Armata tedesca giungeva a Scapa Flow.
Per sette mesi i Prussiani, rimpatriati gli uomini eccedenti alla necessità del servizio, rimasero a bordo delle loro navi internate nella base britannica. Furono sette mesi di clausura, durante i quali - salvo l'ammiraglio Reuter- nessuno poteva scendere a terra, né passare da un'unità all'altra. A bordo, si verificavano attriti frequentissimi fra i Consigli dei Marinai e gli ufficiali, mentre il rigore della censura ed il ritardo della corrispondenza rendevano ancora più penoso l'isolamento assoluto in un angolo squallido del mondo in mezzo ad un paesaggio selvagge e nudo d'acqua e di scogli.

Dal "Times" del 16 giugno 1919, l'ammiraglio Reuter venne a sapere che, in seguito alle condizioni di pace presentate il 7 maggio, la Germania doveva cedere agli Alleati le navi internate a Scapa Flow. Sconvolto e indignato, deliberò allora di affondare l'Armata che era ai suoi ordini.


Presi segreti accordi con i comandanti delle singole unità, poco dopo le ore 10 antimeridiane del 21 giugno 1919, faceva innalzare sulla propria nave il segnale convenuto che significava: - Affondate immediatamente!
Tutto era stato predisposto. A bordo di ogni nave, erano pronti gli sportelli trasversali e longitudinali sotto la linea di galleggiamento, le porte dei corridoi, gli sportelli di comunicazione con le stive, le condutture di ventilazione. Non restava che spalancarli all'acqua per finire in fondo al mare.
Mentre gli equipaggi, compiuto l'ultimo servizio, si mettevano in salvo sulle scialuppe, le belle navi condannate s'immergevano una dietro l'altra nei flutti. La prima a colare a picco in pochi minuti, fu la super corazzata "Friedrich der Grosse", alle ore 12,16. Ultimo a scomparire fu l'incrociatore di battaglia "Hindenburg", alle 5 pomeridiane.

In quattr'ore e quarantaquattro minuti, 10 corazzate, 5 incrociatori di battaglia, 5 incrociatori leggeri, 32 torpediniere, andarono a coricarsi sui fondali di roccia che stanno intorno alle isole, alle isolette, agli scogli che circondano la baia di Scapa Flow, diventando in breve la tomba dell'orgoglio marinaro della Germania vinta. Bastarono quei 284 minuti perché si perdessero decenni di sacrifici, di fatiche, d'intesa geniale e operosità costruttiva. Vanto dei tecnici, amore degli equipaggi, espressione della volontà ambiziosa di un grande popolo ansioso del dominio oceanico; cinquantadue navi andarono distrutte senza sparare un colpo di cannone, sconfitte senza gloria.
Furono invase dalle acque, ma non affondarono, la Baden, l'Emden II e la Frankfurt. Gli Inglesi spezzarono gli ormeggi del "Nurnberg" e lo rimorchiarono, mentre altre 18 torpediniere, rimasero danneggiate, ma senza inabissarsi.
Per quanto accusato di tradimento, l'ammiraglio Reuter se la cavò -al pari degli altri ufficiali e dei marinai- con qualche mese di prigionia.
Quando, il 9 luglio del 1919, il Parlamento tedesco ratificava la pace, nel cuore del popolo vinto risuonava il comandamento dell'ammiraglio Reuter: "Affondare, ma non cedere".
Fino all'ultimo, la Germania tenterà poi di sottrarsi agli impegni economici e morali sottoscritti a Versailles. Ma a dire la verità, molti non credevano che quelle condizioni sarebbero state applicate con rigore. Inutilmente si sperò nella magnanimità del nemico. Ma non fu così.
Liquidata la Repubblica tedesca, fu la volta dell'Austria.

LA LIQUIDAZIONE DELL'AUSTRIA

Il secondo trattato di pace conseguente alla grande guerra fu quello sottoscritto dall'Austria a Saint-Germain-en-Laye il 10 settembre 1919. La cerimonia relativa, piuttosto breve, si svolse nel salone Luigi XIV dalle 10 antimeridiane alle 11,10. Un quarto d'ora dopo le 10 poneva la sua firma il cancelliere della Repubblica austriaca RENNER.
In seguito ai patti di San Germano, facevano parte della nuova Repubblica: l'Alta Austria,la Stiria, la Carinzia, il Burgenland, il Tirolo ed il Voralberg, la bassa Austria.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, l'Austria era un impero di 51 milioni di abitanti, esteso per 670.000 kmq. Ora era diventato un piccolo Paese di soli 83.000 kmq e circa 6.000.000 milioni di abitanti con capitale Vienna con un quarto di tutta la popolazione; una grande metropoli che appariva e appare ancora oggi, una città macroscopica rispetto al piccolo Paese che l'Austria era diventata e com'è attualmente. Nessuna città europea possiede quei grandi monumentali palazzi e i "Ring" (= strade di una larghezza enorme), che conserva ancora tutta la struttura creata sotto il dominio absburgico. Qui, da oltre un secolo, vi era tutta l'organizzazione territoriale del Paese; ma in alcune regioni non bene accetta, criticata, osteggiata anche con l'estremismo di un nazionalismo tedesco che tornava ( e tornerà più tardi) a farsi sentire; a torto o ragione, questo è materia storica.
L'Austria si ritrovava composta da nove territori: Austria Inferiore, circa 1.480.000 abitanti Austria Superiore 1.340.000; Salisburgo 483.000; Tirolo 630.000; Vorarlberg 333.000; Carinzia 552.000; Stiria 1.184.000; Burgenland 273.000.

L'84% della popolazione cattolica, il 16% protestante. La lingua il tedesco. Negli ultimi anni questo Paese era stato soggetto a un'intensiva immigrazione di elementi di altre etnie; ma non era dovuto a un destino ma fu una precisa scelta fatta da Vienna.
Si chiamava ai tempi di Carlo Magno Ost-mark (Marca ovest della Germania Carolingia), poi Deutchosterraich, vale a dire Stato tedesco ovest; ma dopo Westfalia, perse il Deutch, e cessò di essere identificato in uno stato germanico quando gli Asburgo nel 1648, dopo la guerra dei trent'anni, dovettero rinunciare all'egemonia sugli stati germanici.
L'Austria si rinchiuse nel suo territorio ma si spaccò in due, in osterraich superiore e in osterraich inferiore, che non significa in senso figurativo alto o basso, ma il primo è il territorio a sinistra di Linz, l'altro si trova a destra di Linz: quest'ultimo sempre vissuto sotto la chioccia dello statalismo della corte di Vienna. Un imponente apparato burocratico amministrativo concentrato in un piccolo territorio, che creò uno stato dentro lo stato.

L'Austria superiore aveva sempre guardato alla Germania (protestante, nazionalista, prussiana, creata da Federico) l'Austria inferiore si era sempre invece appoggiata a Vienna, agli Asburgo (fanatici cattolici, conservatori, con il sostegno e i consensi di una miriade di Principi o funzionari "viennesi" che dalla corte erano stati sempre imposti nei territori assoggettati esercitandovi l'autorità imperiale ma anche quella personale; e tutto questo in Paesi con una etnia non austriaca e tanto meno tedesca, cioè slavi, boemi, italiani, cechi, magiari, croati, sloveni; e sempre senza concedere a loro nulla, neppure le tradizioni e le espressioni culturali.
Una politica suicida e quindi -lo abbiamo visto- alla prima sua debolezza, non di mezzi, ma interni, intimi e latenti, tutto iniziò a precipitare.

L'Austria dopo la firma non possedeva più una flotta, tanto meno quella subacquea, né aerei militari né civili. Il suo esercito ridotto a 30 mila uomini con esclusivi compiti di polizia. Incombeva alla Repubblica l'obbligo di risarcire i vincitori per i danni causati dalle sue truppe e dai sommergibili.
Il Trentino, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, passavano all'Italia. Rimaneva insoluta la questione fiumana. La Boemia e la Moravia costituivano uno Stato indipendente. La Polonia un tempo soggetta agli Absburgo si univa alle terre polacche affrancate dal dominio della Russia e della Germania. La Croazia e la Slavonia furono incorporate nella Jugoslavia.
Il principato di Lichtenstein cessava di fare parte dell'unione doganale austriaca per aggregarsi economicamente alla Svizzera.

L'ALBANIA A L'ITALIA

Modesto compenso alle delusioni atroci sofferte a Parigi avrebbe potuto essere per l'Italia l'assegnazione dell'Albania, d'indubbio valore, almeno strategico.
Alla data dell'armistizio di Villa Giusti, il Paese degli Schipetari - come abbiamo già visto nelle precedenti puntate, completamente occupato dalle truppe grigioverdi agli ordini del generale PIACENTINI - sembrava apparentemente pacificato e pronto ad iniziare la marcia verso la rinascita civile.
Si trattava di costituire un Governo locale autorevole e amico dell'Italia.
Il problema non fu risolto. In breve, ricomparvero le bande fornite di armi e di munizioni di provenienza sconosciuta, largamente provviste di oro, accese di odio fanatico contro gl'Italiani il cui sangue era corso per assicurare all'Albania l'integrità, l'unità, l'indipendenza.
Tranquillo e ordinato pochi mesi prima, il popolo di Giorgio Castriota cadde nell'anarchia. Il Paese cadde in potere delle orde ribelli che si davano ai massacri, agl'incendi, alle devastazioni. Avvicinandosi l'estate del 1920, la situazione si fece critica; prima preoccupante, disperata poi per le truppe che presidiavano il campo trincerato di Vallona, troppo scarse contro le turbe avversarie.
Il Generale Piacentini chiese nuovi contingenti. La risposta fu questo telegramma del Ministro della Guerra
"Condizioni interne del Paese non consentono prelevamento truppe per l'Albania; tentativo invio rinforzi provocherebbe sciopero generale, dimostrazioni popolari, con grave nocumento della stessa compagine dell'Esercito che non occorre mettere a dura prova".

Abbandonati a se stessi, i difensori del campo trincerato di Vallona sostennero aspri combattimenti.
Presidiavano le posizioni più avanzate piccoli reparti staccati del 72° Fanteria, comandato da ENRICO GOTTI. Promosso generale, uno dei valorosi che non volle abbandonare i suoi Fanti.
Il 6 giugno, le avanguardie italiane furono assalite da forze quindici volte superiori. Il Gotti fu l'animatore che diresse la prodigiosa resistenza, durata ben dieci ore, molto efficace, tale da causare perfino ai nemici perdite enormi. Alla fine, i Fanti si trovarono senza munizioni, senz'acqua, senza il concorso dei due soli pezzi d'artiglieria di cui disponevano, inutilizzati dal fuoco avversario.
GOTTI dispose allora affinché fossero posti in salvo la bandiera e i fondi del Reggimento. Quindi, pronto al sacrificio estremo purché i suoi avessero tempo e modo di ripiegare, si avviò a trattare con i ribelli, ma lo uccise a tradimento un capo albanese.
Alla memoria di Enrico Gotti fu decretata la medaglia d'oro.

Fra i valorosi combattenti d'Albania dobbiamo qui ricordare il popolarissimo, amato ed ammirato da tutti, VITTORIO MONTIGLIO un ufficiale appena adolescente.
A quattordici anni, era giunto in Italia dal lontano Cile - dove risiedeva - per partecipare alla guerra. Con la sua possente prestanza fisica, nascose l'età immatura, e ottenne di far parte prima in un reparto territoriale delle truppe combattenti poi per le sue gesta fu promosso Sottotenente del 7° Alpini (aveva 15 anni) e comandò gli Arditi del Battaglione Feltre, seguitando ad offrire prove di valore. Promosso Tenente (aveva 16 anni), passò con il suo reparto in Albania. In seguito ai nuovi atti d'eroismo compiuti, gli fu decretata la medaglia d'oro, mai tributa prima ad un combattente di così giovane età (ma solo dopo si scoprì la sua vera età).
Poiché, nonostante il proprio valore, i Grigioverdi si trovarono ridotti dal numero degli avversari in grave pericolo, il Governo vinse le proprie riluttanze e si accinse ad inviare soccorsi.
Ma la rivolta popolare scoppiata ad Ancona (di cui abbiamo già menzionato in altre pagine dell'anno 1920) impedì la partenza dei Bersaglieri ammutinati, mentre la Sinistra parlamentare levava il grido: "Via dall'Albania!", "Basta le guerre!"
Si rinnovò la vergogna di Adua. Vittoriosa nel massimo conflitto della storia, per la debolezza dei suoi politici, per l'aberrazione delle irrazionali folle, l'Italia cedeva senza dignità e senza rivincita alle orde remunerate dal soldo straniero.
Il 3 agosto 1920 l'Italia sottoscriveva a Tirana l'impegno di sgomberare Vallona, conservando soltanto l'isolotto di Saseno. In seguito fu ritirato anche il presidio rimasto a Durazzo.

E VENIAMO A FIUME

Durante la discussione svoltasi in seno alla conferenza della Pace per la definizione del trattato da imporre all' Ungheria, il delegato americano POLK, strenuamente sostenuto da Clemenceau, perorò la cessione di Fiume alla Jugoslavia. Si oppose con forza, passione e argomentazioni il delegato italiano SCIALOJA, ma mancato l'accordo, si giunse alla compilazione dell'art. 53 che abbiamo già citato.
La questione fiumana rimaneva aperta. Per risolverla, i delegati italiani e quelli jugoslavi si riunirono il 12 novembre 1920 a villa Spinola, tra Rapallo e Santa Margherita. Le odiose pressioni fatte dalle Potenze straniere al Governo italiano debole oltre l'immaginabile, indusse l'Italia a sottoscrivere un trattato (da molti italiani dichiarato indegno, il primo infuriato fu D'Annunzio) per cui l'Italia s'impegnava a sgombrare tutta la Dalmazia, salvo Zara; a cedere tutte le isole della Dalmazia, tranne Cherso, Lussino, Unie, Sàntego, Lagosta e Cazza; a riconoscere l'indipendenza (città detta "libera") di Fiume con il suo piccolo territorio.
Lo sgombro della Dalmazia poté avvenire pacificamente perché 1'ammiraglio MILLO - Governatore di quel territorio dal 12 novembre 1918 - non tenne fede alla promessa, fatta a Gabriele D'Annunzio cui aveva dichiarato: "Mi no mollo".
Ritirate le truppe Grigioverdi, partite le belle navi giunte all'altra sponda quando all'indomani del 4 novembre splendeva sull'Adriatico la luce della Vittoria italiana, Traù, Spalato, Sebenico: le belle città, una volta venete, ancora tradite nella lunga attesa, caddero in potere dei nuovi "padroni".

Non fu così a Fiume.

Fin dal 12 settembre del 1919, la città che gli Alleati intendevano sottomettere al proprio governo - era stata occupata di sorpresa da Gabriele D'Annunzio e dai Granatieri (ne parleremo ancora nelle pagine dedicate). In sintesi per non provocare spargimento di sangue, Francesi, Inglesi e Jugoslavi erano stati costretti ad andarsene, lasciando Fiume al Poeta ed ai suoi Legionari.
Questi animati da un nazionalismo estremo, non intendevano piegarsi all'infamia di Rapallo. Dopo inutili trattative, il Governo italiano inviò contro Fiume il generale CAVIGLIA le cui truppe, fra il 24 ed il 31 dicembre, 1920 (nel giorno poi definito "Natale di Sangue"), vinta la fiera resistenza dei Legionari, s'impadronivano della città.
Presidiata dai Grigioverdi, Fiume attese il compimento del suo destino che fu decretato molto molto più tardi.

Era infatti il 25 gennaio 1924, quando giungevano a Palazzo Chigi i ministri Jugoslavi PASIC e UNCIC, invitati da Benito Mussolini, che il 30 ottobre di due anni prima (nel '22) aveva già assunto il potere. L'accordo presto concluso riconosceva all'Italia il diritto di annettersi Fiume ed il suo territorio.
Il 17 marzo, sciogliendo il voto secolare, la città ospitava Vittorio Emanuele III giunto a rendere più solenne con la sua presenza augusta la cerimonia per cui la gemma del Carnaro era congiunta per sempre alla Madre Patria.
L'articolo 13° del Patto di Londra riconosceva all'Italia -come sappiamo - il diritto di chiedere compensi nel caso di un'estensione dei possedimenti coloniali francesi ed inglesi in Africa a spese della Germania.
Tale estensione era avvenuta con l'assegnazione dell'Africa Orientale e Occidentale Tedesca alla Gran Bretagna, del Togo e del Camerun alla Francia.
Mentre i Governi precedenti non erano riusciti a far valere nemmeno quest'altro diritto italiano, Mussolini faceva presente a Londra l'opportunità di addivenire al definitivo assetto dell'Africa equatoriale mediante la cessione dell'Oltregiuba promessa quale ben meritato compenso.
Di pieno accordo reciproco, il XXIV maggio 1924, ricorrendo il IX anniversario dell'intervento italiano, la bandiera britannica fu ammainata a Chisimaio e sostituita dal tricolore.

"Le richieste italiane all'Inghilterra
- disse Mussolini -per la cessione del territorio del Giubaland rimontano al maggio 1919 e da quell'anno in poi, furono proseguite, senza alcun risultato positivo, trattative con il Governo britannico che incontravano seri ostacoli tanto di ordine politico quanto di ordine tecnico locale, per le difficoltà di risolvere delicati problemi inerenti sopra tutto alla sistemazione delle popolazioni nomadi delle regioni poste in prossimità delle nuove frontiere". Il Governo nazionale riuscì felicemente superare gli ostacoli di ordine politico che avevano fino allora ritardato la conclusione dell'accordo. Una volta chiarita la situazione, anche le difficoltà di ordine tecnico furono eliminate, giungendo così alla stipulazione di un accordo che teneva in maggior conto possibile gli interessi delle Altre Parti contraenti e delle popolazioni locali.
Il territorio acquistato all'Italia misurava un'estensione di 91.122 Kmq, abitati da circa 150.000 indigeni, su un territorio principalmente desertico, anche se lungo i fiumi, si stendono ampie vallate che potevano avere un avvenire agricolo
Gli accordi preventivi furono definitivamente codificati nella Convenzione di Londra del 15 luglio 1924.

Fu questo l'ultimo documento che contemplava vantaggi territoriali derivati all'Italia per la sua partecipazione alla grande guerra.


Ma torniamo indietro. Conclusa la pace fra gli Alleati e i singoli Paesi che costituivano la Quadruplice, permaneva lo stato di Guerra fra la Confederazione Stellata, la Germania, l'Austria, l'Ungheria. Esso cessò in seguito ai trattati di Vienna, stipulato il 23 agosto 1921; di Berlino, sottoscritto due giorni dopo; e di Budapest.
Gli Stati Uniti si disinteressavano delle variazioni territoriali avvenute, limitando la loro competenza alle clausole economiche.
Incominciò poi il lavorio lungo e lento delle Commissioni incaricate di tracciare i confini sul terreno. E' notevole il fatto che la Conferenza degli Ambasciatori, fissando - nel luglio del 1922 - le nuove frontiere fra la Jugoslavia e l'Albania, non tenne conto alcuno del Montenegro. Il piccolo Regno fu soppresso ed il suo territorio incorporato nella coalizione quanto mai eterogenea che aveva come capitale Belgrado.
A molti non sembrò nemmeno possibile, che uno Stato europeo si potesse cancellare dalla carta politica del Continente con un procedimento così tanto sbrigativo e da alcuni ritenuto irregolare.
Così, ogni nuova unità etnico-politico-economica in cui fu diviso il mondo ebbe i suoi termini precisi. Le occupazioni militari temporanee cessarono, salvo per il bacino della Saar (in sospeso, in attesa della totale capitolazione della Germania- già sopra ricordata).

Mentre in Oriente fin dal 1919 e poi nel corso del 1920, l'Intesa aveva iniziato a ritirare le proprie truppe della Manciuria e della Siberia, lasciando la Russia al suo destino.
Rispettivamente il 27 agosto 1919 ed il 2 aprile 1920 giungevano a Torino e a Napoli i reparti Grigioverdi, che in Murmania e nell'Estremo Oriente avevano portato in quelle lontane contrade la bandiera italiana.

Erano i giorni in cui l'Italia, militarmente, mise definitivamente fine alla Prima Guerra Mondiale.
I Continenti mutarono la propria configurazione politica; gli Stati, i loro confini; i Governi, la propria forma; i Popoli, le aspirazioni e i convincimenti. La Grande Guerra aveva cambiato il volto dell'Europa, e ne era uscita una nuova, con piccoli e grandi Stati che faticavano a trovare un proprio equilibrio stabile e s'incepparono nella faticosa marcia pure quelle che seguitavano a considerarsi Potenze, due in particolar modo, Francia e Inghilterra.
Tutto questo perché la "costruzione" della nuova Europa (solo minimamente fatta dagli europei) non era stata perfetta.
Del resto le architetture umane non resistono ai decenni perché o che si fondano sulle sabbie mobili o sulle chiacchiere dei principi mutevoli, anzi su interpretazioni pratiche dei principi astratti, ancor più che variabili.

Se qualcuno sognò all'inizio di abolire, oppressori e oppressi, o di applicare il principio di nazionalità, creduto un giusto diritto, questo si è poi dimostrato un mito teoretico, perché i popoli tendono a congiungersi e a disgiungersi secondo le necessità insoddisfatte dalle ripartizioni etniche. Né le genti si contengono entro confini definiti, per cui l'appartenenza delle zone unite ma mescolate è causa di altri soprusi e questi lentamente accendono rancori pieni di pericoli.

La guerra segnò la fine di un'era. Le grandi dinastie dell'Europa centrale ed orientale - i Romanov, gli Asburgo e Hohenzollern - furono spazzate via. Il conflitto segnò così la fine del dominio dell'Europa sulla scena mondiale e l'inizio della politica globale. Aprì la strada alla dissoluzione degli imperi coloniali, al trionfo del comunismo in Russia, e all'ingresso degli Stati Uniti sulla scena mondiale come grande potenza.

Crollarono tre imperi storici, dallo sfacelo nacquero nuovi stati, risorsero vecchie nazioni, ma da un altro punto di vista tutti i belligeranti europei nell'incapacità di mettersi d'accordo, uscirono dal conflitto tutti sconfitti, in quanto la guerra segnò - se non la causò direttamente - uno spostamento della potenza internazionale dall'Europa all'America da un lato, alla Russia sovietica dall'altro. Per rimanere da questo momento in avanti (i 2 blocchi) padroni assoluti dell'Europa. Quanto alla seconda guerra mondiale, questa fu null'altro che la prosecuzione della prima; e che rafforzarono ancora di più i due blocchi.

Retorici, poeti, romanzieri, o semplici giornalisti dalle colonne dei loro giornali, dissero a fine guerra che gli eroi non erano caduti invano, che l'umanità si era inebriata di luce raggiante dell'avvenire e che il futuro sarebbe stato migliore. Purtroppo l'attesa di questo futuro sereno tardava a venire, anzi all'orizzonte di questa nuova alba già si stavano formando nubi minacciose.

A vedere certi sguardi dei "biscazzieri" di Versailles, a loro importava poco il tanto sangue versato, il mare di lacrime di tanti pianti, quello che interessava era una catalogazione di crediti, il possesso di un bacino minerario, una serie di privilegi doganali, una flotta marina o aerea. E ogni cosa aveva un costo.
Uno di loro, SHUTS delle Nazioni Unite, a Wersailles, fece un'amara constatazione "l'intera Europa, oggi, sta per essere liquidata per 2 miliardi di sterline". Insomma l'Europa era stata messa in vendita.
Ed anche Sir GEORGE (inglese) fece il suo commento: "Ho la sensazione crescente che gli USA si stiano comportando da prepotenti".

E fu profeta quando scrisse: "Non riesco ad immaginare più grave motivo di una guerra futura se non il fatto che il popolo tedesco, che si è dimostrato uno dei più forti e potenti del mondo, possa trovarsi circondato da tanti piccoli stati formati per lo più da popoli che non abbiano mai avuto prima un governo stabile, ma che comprendono un gran numero di tedeschi desiderosi di riunirsi con la madre patria" ( Lloyd George, "The Truth About the Peace Treaties", Vol I, p.622").

Mentre lo diceva un arrabbiato caporale austro-tedesco, stava già maledicendo la mano di chi aveva firmato la pace, ed entrava nel Partito Arbeitpartei; il caporale era Adolf Hitler, e con lui nei primi iscritti il generale Lundendoff, il decorato Hermann Goring, i fratelli socialisti Otto e Gregor Strasse, Alfred Rosemberg, Rudolf Hesse, Julius Streicher, l'anno dopo Joseph Goebbels. Vogliono loro risolvere i problemi della Germania.

IL PESANTE "CLIMA" POLITICO IN ITALIA

Nel frattempo anche in Italia erano iniziati altri più gravosi e complessi problemi di carattere politico, economico, di ordine pubblico e, soprattutto, di carattere sociale. Tutto era diventato vecchio, la classe politica, l'Italia liberale, la borghesia, e dopo quattro anni o di trincea o di sacrifici, erano diventati "vecchi" anche gli italiani; e perfino quelle ventate di sano socialismo dei primi anni del secolo erano diventate antiquate, o almeno per gli italiani che al fronte si erano ormai emancipati, acculturati, e molti avevano imparato perfino a leggere o a udire cos'era il sindacalismo, i partiti e di conseguenza anche "a credere alle utopie" (lo dirà Nenni, più avanti).
Il Paese, finita la guerra, per tutta una serie di questi motivi, non era solo inquieto, ma per molte altre ragioni, pur sempre legate a quelli; era nel disordine e stava vivendo un clima quasi insurrezionale, facendo così sperare ad una compagine politica la "Rivoluzione del proletariato", e ad un'altra una "Rivoluzione dei borghesi o piccolo-borghesi ", o come si iniziò a dire della "classe media" o "ceto medio emergente", cioè piccoli borghesi aggressivi, che pure loro in trincea avevano imparato qualcosa: a reagire aggredendo. Stanno nascendo gli ARDITI, a guidarli: MUSSOLINI

Il battagliero direttore del "Popolo d'Italia", pure lui un reduce, pure lui amareggiato, pure lui infuriato, comprese che solo con uomini come gli arditi, era possibile salvare la vittoria e la nazione e degli arditi si giovò e li utilizzò per la sua impresa che stava per iniziare. Aveva avuto già come preludio l'azione svolta l' 11 gennaio alla Scala di Milano con un gruppo di arditi per impedire che Bissolati pronunciasse un discorso contrario agli interessi d'Italia..... mentre a Parigi si compravano e si vendevano Paesi e popoli, e si metteva in liquidazione l'Europa, in cambio di una miniera, di un porto, o di una lingua di terra che interessavano i nuovi predatori, intanto in Italia ricominciavano gli scioperi e le dimostrazioni socialiste che guardavano alla nascente URSS.

Nel febbraio ce ne fu uno di sviopero a Milano, in cui migliaia di socialisti con bandiere rosse gridarono "viva la rivoluzione"; "morte alle istituzioni e alla guerra".
Ma dal suo giornale Benito Mussolini ammonì: "Difenderemo i nostri morti: tutti i morti, anche a costo di scavare le trincee nelle piazze e nelle strade delle nostre città".

Ma i morti e il patrimonio ideale della patria non si potevano difendere che chiamando a raccolta l'Italia interventista e ovviamente il combattentismo. L'appello fu lanciato il 23 marzo con "…un invito ai collaboratori e seguaci del Popolo d'Italia, ai combattenti, ex combattenti, cittadini e rappresentanti dei Fasci della Nuova Italia e del resto della nazione".
Fu così costituito a Milano il primo dei Fasci Italiani di Combattimento, che facevano capo a Mussolini e che, sotto la sua guida, tanto dovevano influire sui destini della nazione.

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