STORIA DELL'INQUISIZIONE

LIBRO V.
( prima parte )

Le fasi del procedimento giudiziario - L'editto dell'assoluzione - Il Carcere Segreto - Le prove - La deposizione e la confessione - L'istruttoria - La sentenza - Le pene - La flagellazione - La « Verguenza » - Il « Mordaza » - La galera - « De vehementi ajuratio » - Il sanbenito - Procedimenti ecclesiastici contro gli ecclesiastici - Il martirio al rogo - L'auto da fè -

 

LE FASI DEL PROCEDIMENTO

L'EDITTO DELL'ASSOLUZIONE
Abbiamo già fatto qualche cenno all'editto dell'assoluzíone, che in principio ebbe una parte importante nell'organismo dell'Inquisizione. L'usanza aveva origine dal Secolo XIII, cioè quando, in qualsiasi luogo si installava un nuovo Tribunale, l'inquisitore, con la prima predica, doveva annunciare un'indulgenza che durava trenta o quaranta giorni. In quel frattempo ogni pellegrino, che si sentisse reo di eresia, poteva presentarsi. a confessare i propri peccati e quelli altrui. L'Inquisizione garantiva a questi individui che chiunque si fosse pentito dei propri peccati, sarebbe stato ripreso con affetto in seno alla Madre Chiesa, e, pur ricevendo una salutare penitenza, non sarebbe stato condannato né a morte, né alla prigione, né alla confisca dei beni. D'altronde gli inquisitori erano autorizzati, allo scopo di conciliare le anime, a comminare un'elemosina secondo il loro discernimento, il ricavato della quale veniva impiegato come contributo alla santa guerra contro i Mori.

Tuttavia, secondo una vecchia disposizione di Torquemada, questi individui conciliati non potevano ricoprire cariche pubbliche, sino a che la loro devozione non fosse provata. Tutti coloro che non facevano una confessione completa, sia a proprio riguardo, che a quello degli altri, erano da considerarsi come dei finti penitenti e se si potevano raccogliere delle prove contro di loro, doveva essere iniziato un rigoroso procedimento. I fuggiaschi, qualora si presentassero entro un dato termine, potevano essere ammessi all'indulgenza.
Le confessioni consegnate durante l'editto di assoluzione presentano un quadro commiserevole, inquantochè i disgraziati individui tentavano in ogni modo di confessare il meno possibile, nella speranza di poter diminuire la pena pecuniaria.
Essi tentavano di
diminuire la propria colpa, accusando coloro che li avevano trascinati sulla via errata. Imploravano in ginocchio l'inquisitore, dichiarandosi pentiti dei propri peccati e facendo voti di devozione.

La confessione di Maria Gonzâles de la Panpana, nel 1483, é un esempio caratteristico. Essa tentava di gettare tutta la colpa sul marito, mostrando le tracce delle scudisciate sulle mani inflittele dal marito, quando egli, con la forza, voleva convertirla alla religione ebraica. La donna venne ammessa alla conciliazione, ma all'incirca tre mesi dopo venne arrestata, sottoposta alle torture ed infine arsa viva, al rogo, in occasione del grande « auto da fé » del 23 Febbraio 1484.

Se l'editto dell'assoluzione praticamente non giovava molto alla propaganda della fede, maggior servizio esso rese con le oblazioni fatte dalle masse in tale occasione.
La conversione forzata dei Mori non diede i risultati attesi, poiché essi avevano la cattiva abitudine che mentre confessavano apertamente i propri peccati, con nessun mezzo si poteva muoverli a tradire gli altri colpevoli, loro connazionali: perciò venivano bruciati vivi, col motivo della loro ostinazione. Dopo l'espulsione dei Mori nulla si sentì per due anni, dell'editto di assoluzione. Nella Spagna non vi era più quella massa di eretici e elementi sospetti contro i quali sarebbe stato applicabile un simile procedimento e l'unità della fede era garantita sino al limite delle possibilità.

Senonché con le guerre Napoleoniche una nuova contaminazione si diffuse nel paese. La Spagna fu invasa da elementi eretici provenienti da paesi liberi, come la Francia e l'Inghilterra. Perciò con la riattivazione dell'Inquisizione, nel 1814, sembrò opportuno di combattere, con gli antichi sistemi, l'eresia ed il movimento per la libertà.
Secondo i rapporti dell'epoca qualche « espontandeo » approfittò dell'editto promulgato, ma in numero pietosamente esiguo. A quanto pare però l'antica persecuzione non fu ripresa. I Tribunali indubbiamente erano troppo occupati a rattoppare il loro passato splendore, per poter perdere del tempo con investigazioni contro gli eretici.

Se esaminiamo l'attività giuridica dell'Inquisizione, troveremo indubbiamente molte cose che con gli odierni concetti di giurisdizione farebbero scandalizzare a ragione. Infatti si vede che l'accusato era dichiarato colpevole, a priori, ed il Tribunale non aveva altro scopo che muoverlo alla confessione. Sarebbe difficile quindi escogitare un modo più ripugnante per condurre un giudizio.
La differenza più notevole tra l'inquisizione e le altre giurisdizioni consisteva nella impenetrabile segretezza che copriva tutte le
sue operazioni. Indubbiamente aveva altre cattive qualità, ma ciononostante fu sempre la segretezza a danneggiare principalmente le vittime e ad incitare maggiormente gli inquisitori ad abusare del loro potere.
Questa era un'eredità del Secolo XIII', quando l'Inquisizione riconobbe che il generale terrore suscitato da questa mistica segretezza le assicurava una posizione del tutto privilegiata di fronte alla Giustizia civile, che ebbe la sua manifestazione conclusiva negli orrori dell'« auto da fé ».

Da documenti storici dell'epoca si può dedurre che a quel tempo l'Inquisizione ed il Tribunale avevano edifici separati. In quello dell'Inquisizione gli inquisitori si radunavano nella cosiddetta « Audiencia de carcele ». Ma vi era anche un locale dove portavano, durante il dibattimento, l'accusato. Il secreto era nella prossimità delle carceri, mentre le anticamere servivano come archivi. Nulla che avesse un collegamento con l'Inquisi zione doveva rimanere fuori dalle mura dell'edificio. Ogni lettera, notifica, fattura o citazione, doveva essere restituita con la risposta scritta sullo stesso atto. Nessuna tipografia poteva stampare un documento senza che il Capo Inquisitore o la Suprema ne avessero presa visione, sotto pena di scomunica e multa di cento ducati.

Nel 1575 il Legato Leonardo Donato, il quale riteneva tanto necessaria l'Inquisizione per la Spagna, la descrisse tanto misteriosa nelle sue funzioni, che le sue vittime nulla potevano sospettare della propria sorte, sino alla lettura della loro sentenza di morte all'« auto da fé ».
Era pienamente riconosciuta la grande importanza del sigillo, come espressione universale della libertà di azione e come simbolo mistico dell'irreprensibilità. Quanto più segretezza serbava l'Inquisizione nei propri affari, tanto maggiore tributo di stima ebbe da parte delle sue vittime. La segretezza era applicata non soltanto negli affari della Religione, ma anche in tutto quanto vi era connesso, i voti, gli ordini, le decisioni, le lettere dirette alla Suprema, gli atti che si riferivano alla « limpieza » od ad altre questioni misteriose.

Nello stato originario medievale l'attività dell'Inquisizione era semplicemente e propriamente l'inquisire. L'inquisitore stesso provvedeva alle funzioni di accusatore e di Giudice, raccoglieva le prove e si sforzava di muovere l'accusato alla confessione, quindi pronunciava la sentenza. Quando il Santo Uffizio si stabilì nella Castiglia, agì come la continuazione dell'antica Inquisizione. Nella collezione dei suoi privilegi, accanto alle Bolle Papali del Secolo XIII, vi erano dei manifesti moderni, nonché le leggi violente di Federico II e le cosiddette Cedole dei Re Cattolici.

I testimoni venivano introdotti dagli inquisitori. Le disposizioni del 1484 ordinavano esplicitamente che l'Inquisitore dovesse interrogare personalmente i testi e non incaricare il Cancelliere. Ma gli inquisitori generalmente avevano tanti affari urgenti, da non trovare il tempo per l'interrogatorio dei testi e molte volte mandavano una deputazione al Cancelliere, per farsi sostituire da lui. Con l'andare dei tempi gli inquisitori evitavano sempre più simili pratiche. Per ciò che riguardava il procuratore, questi aveva soltanto la parte dello spauracchio, che intimidiva gli accusati, con continue minacce, allo scopo di indurli alla confessione, prima della presentazione dell'atto d'accusa, nel quale generalmente si chiedeva l'interrogatorio per mezzo di torture.

Studiando i lunghi e circostanziati rapporti delle cause, é interessante constatare come l'accusato, il quale incominciava col negare audacemente tutto, a poco a poco cedeva, sotto il peso della terrificante accusa ed infine finiva col fare una confessione affrettata, con la quale non esitava ad accusare parenti ed amici. La situazione dell'accusato lo rendeva del tutto impotente; egli stava solo dinanzi allo spietato ed esperto giudice. Già da settimane o da mesi egli stava meditando nella cella, apparentemente dimenticato, vivendo nella permanente incertezza di essere citato da un momento all'altro, dinanzi al consiglio d'accusa. Il disgraziato tormentava il proprio cervello, con lo sforzo compiuto nel tentare di indovinare l'effetto suscitato dalle dichiarazioni che avrebbe fatto e di dedurre le conseguenze della confessione o del diniego. Nello stesso tempo si torturava col pensiero della fuga; insisteva sulla propria innocenza, mentre il cosiddetto avvocato patrocinatore lo stimolava a confessare tutto e a ricorrere alle implorazioni di fronte ai giudici inesorabili.

Bisognava avere in verità una tempra eccezionale per poter sopportare questa lunga tensione di nervi, sapendo che l'avversario i questo gioco mortale aveva sempre a disposizione la camera di tortura. Il trattamento dei carcerati era abbastanza buono, si provvedeva agli ammalati ed ai poveri a spese del fisco. L'interrogatorio dei testi era seguito con la massima diffidenza e siccome il tempo contribuiva sempre a illuminare la giustizia, non si affrettavano le decisioni, ma si procedeva con lentezza, come era di dovere quando era in gioco la vita, l'onore ed il patrimonio, non solo dell'accusato, ma di una intera generazione. Se qualche rara volta l'accusato riusciva a provare la sua innocenza e non vi era alcuna possibilità di condannarlo, l'Inquisizione non tardava a farne grande pubblicità, per dimostrare la sua giustizia, in modo che tutti fossero convinti che le sue, condanne erano irreprensibili; in tali casi si portava festosamente in giro per la città, a cavallo, l'accusato, ornato di palme come un eroe vittorioso.

In quale misura fosse giustificata questa idealizzazione dei sistemi dell'Inquisizione lo abbiamo già potuto constatare, ma si vedrà anche in seguito.
Nessun altro dovere era tanto inculcato nella popolazione come quello di riferire all'Inquisizione qualsiasi parola od azione di ogni mancanza a questo dovere, mentre la legge ecclesiastica comminava la scomunica. Sotto la giurisdizione reale era vietato accusare i soldati del Re; una madre non poteva accusare il figlio, eccezion fatta se egli avesse peccato contro di lei e chi era allevato da qualcuno, in conoscente. Le leggi del Santo Uffizio comminavano la morte a chi loco parentis, non poteva accusare il suo tutore.

Abbiamo visto nei casi di Carranza, Villanueva e Florian Diaz, quale importanza avesse la funzione di calificador, ossia del censore, e quella del modo in cui venivano presentate le prove durante la riabilitazione delle monache del Convento San Placido, il calificador ebbe cura di dichiarare che, secondo analoghe testimonianze ricevute da suoi predecessori, in cause consimili, egli avrebbe emessa la sentenza, uguale a quella emessa ai detti predecessori.
Sarebbe difficile stabilire l'epoca in cui venne introdotta, la Ca Llorrente asserisce che nel 1550 non era ancora in uso, però ciò é errato, poiché, già nel 1520, la Suprema aveva ordinato che senza la sua approvazione fosse vietato nominare il calificador.

Nelle disposizione della riforma, nel 1498, venne raccomandato agli inquisitori di procedere con cautela negli arresti e di non arrestare nessuno, senza prove sufficienti. La frequente ripetizione di questo ordine fa tuttavia supporre che esso non sia stato preso in gran considerazione.
Citeremo qualche esempio che dimostrerà quanto poco valore pratico avessero tutte queste cautele.
A Toledo, il 5 Giugno 1561, il Procuratore informò il consiglio d'accusa che Isabel, figlia di Alvaro Ortolano, era sospetta di eresia e perciò ne chiedeva l'arresto. Gli inquisitori risposero che quando si fossero raccolte prove sufficienti, avrebbero rilasciato l'ordine di arresto. Allora il Procuratore dichiarò che egli stesso aveva sentito che Isabel si vantava con una amica di mantenere i digiuni ebraici ed allora venne ordinato immediatamente l'arresto.

Considerato che in questo caso, si trattava di una bambina, di appena dieci anni, il suo arresto, avvenuto su una base così labile, dimostra quanto poco effetto avessero le disposizioni del 1498.
Fra le lagnanze presentate per arresti, senza motivo, vi era soprattutto quella dell'onta che ne derivava a tutti i congiunti dell'arrestato. L'Inquisizione aveva la massima cura che l'arrestato, dal momento del suo arresto, non potesse scambiare parola con alcuno. Se ciò tuttavia fosse avvenuto, durante il trasferimento alle carceri, le guardie avevano severo ordine di denunciare coloro che avevano rivolta la parola al detenuto.
Se venivano arrestate due persone nello stesso tempo queste venivano tenute rigorosamente separate, tanto durante il tragitto, quanto in carcere.

Un'altra disposizione significava un forte gravame per i detenuti, inquantoché essi erano costretti a sopportare tutte le spese inerenti al loro arresto. L'incaricato che effettuava l'arresto aveva severo ordine di pretendere una data somma per l'alimentazione e le altre necessità del detenuto, somma che veniva poi depositata presso l'Alcale, inoltre richiedevano letto, biancheria ed abbigliamenti per il prigioniero.
Più spietato ancora era il fatto che, al momento dell'arresto, venivano sequestrati tutti i beni dell'arrestato.

A questa procedura il Tesoriere era accompagnato dal cancelliere e dallo scrivano e veniva compilato un inventario minuzioso, in duplice copia. Indi seguivano varie formalità legali, contemplate per impedire abusi degli incaricati, ma ciò nonostante le lamentele erano continue.
Uno degli capisaldi dell'Inquisizione consisteva nell'intangibilità del patrimonio sequestrato, che non avrebbe dovuto essere toccato innanzi tempo, nemmeno nei casi di maggiori necessità. Ma era più facile enunciare simili dogmi che mantenerli, in un'istituzione dove in realtà mancava ogni controllo. Tuttavia era rimasto in principio ben affermato che la famiglia del detenuto doveva essere mantenuta dal patrimonio confiscato, ciò che dimostrerebbe un pensiero umano, se non fosse stato molto dubbia la misura con cui questo provvedimento veniva a mitigare la situazione precaria della famiglia dell'arrestato, specialmente considerando che nella maggior parte dei casi i processi venivano protratti all'infinito.

Naturalmente nulla poteva compensare i commercianti per il danno subito, in seguito alla sospensione dell'esercizio della loro azienda, per vari anni. A costoro l'arresto e, conseguentemente, la confisca, significava la completa rovina.
La carica del Secrestador, cioè dell'amministratore dei depositi, appariva da principio molto desiderabile ed infatti fu redditizia per coloro che erano poco coscienziosi nel loro dovere. Lo dimostra il caso di Fernando de Mesa, secretador di Cordova, il quale aveva commesso tali e tanti abusi, che la Suprema decretò che gli fosse sequestrato il patrimonio; al momento del sequestro il de Mesa morì e si trovò che, soltanto la dote delle sue quattro figlie, che erano nel Convento di Santa Ines, ammontava a trentamila maravedi ciascuna; l'Inquisizione ne pretese la restituzione da parte dell'Ordine conventuale, ma questo protestò la sua povertà, dichiarandosi insolvente; in seguito a ciò Ferdinando ordinò che il pagamento fosse condonato.

IL CARCERE SECRETO

Carceles secretas era la denominazione ufficiale di quelle carceri segrete, dove si tenevano, durante i dibattimenti, gli accusati di eresia. Siccome questo carcere faceva parte dell'edificio dell'Inquisizione, vi si poteva condurre in qualunque momento, l'accusato, senza che egli potesse essere veduto da altri.
Si può affermare che l'arresto era sempre seguito dalla carcerazione e solo rare volte veniva concessa la libertà, contro versamento cauzionale. Più tardi questo venne completamente abolito; vi é però un caso del 1530 in cui Antonio de Parago, sacerdote consacrato, venne arrestato sotto l'accusa di tentata eresia. Il Tribunale di Toledo gli concesse la libertà, dopo che suo fratello si era assunto una garanzia di centomila maravedí.

Non vi sono annotazioni storiche circa lo stato delle carceri segrete, cioè non si sa se queste fossero migliori o peggiori delle prigioni reali o ecclesiastiche, tuttavia non vi é dubbio che fossero locali ripugnanti e malsani. Gli edifici dei vari Tribunali mostravano molta diversità l'uno dall'altro poiché essi generalmente non vennero costruiti apposta. A Saragozza utilizzavano il Palazzo Reale, come pure a Barcellona, mentre a Valencia si adottava il palazzo del Vescovo, a Sevílla il Castello di Triana ed a Cardova l'Alcazar.
Come risulta da annotazioni del 1592, le carceri segrete di Toledo non si trovavano in condizioni confacenti alle necessità. Maria Rodriguez, dopo che vi fu imprigionata, per nove mesi, suo figlio, chiese udienza al Tribunale, per ottenere un altro alloggiamento poiché nella eterna oscurità si era ammalata insieme alla sua creatura. L'inquisitore rispose rigidamente che ella avrebbe fatto meglio a pensare alla salvezza dell'anima, e che per quanto riguardava il resto si sarebbe provveduto secondo la giustizia.

Che le carceri segrete fossero malsane é dimostrato anche dall'alta mortalità dei detenuti, particolarmente durante l'epidemia della peste, fatto rilevato negli annali dell'epoca.
La reclusione nelle segrete era considerata come una delle maggiori disgrazie che potessero toccare ad una persona, specialmente considerata l'onta che cadeva su di essa e su tutti i congiunti. La Consulta del 1696 illustrò ampiamente le condizioni terribili di queste carceri, rilevando l'enorme ingiustizia, con la quale si colpivano con questa terribile disgrazia, persone innocenti e con lievi colpe. Succedeva infatti spesso che degli individui venivano rinchiusi nelle carceri sotterranee, per il solo motivo di aver offeso qualche incaricato dell'Inquisizione. Il terrore suscitato da tali procedimenti era l'arma più potente tra le mani dell'Inquisizione e non si può stupirsi che ne sia stato fatto grande abuso.

La crudeltà di tenere i prigionieri ai ceppi, non era un privilegio particolare dell'Inquisizione, poiché apparteneva ai normali mezzi di repressione della giustizia civile. Un italiano che nel 1592 visitò Madrid, descrisse tre specie di carceri, cioè quella della Corte, del Comune e del Clero, aggiungendo che tutti i carcerati indistintamente, anche con la minima accusa, portavano le catene.
Se dunque per questa ragione l'Inquisizione non può essere accusata per una particolare crudeltà, tuttavia aveva un mezzo speciale per infliggere insopportabili torture agli eretici che non volevano confessare. Questo era il cosiddetto mondesa della cui forma nulla di preciso ci é tramandata, ma da qualche cenno si può dedurre che si trattava di un arnese cruento. L'applicazione di questo strumento non poteva attribuirsi a provvedimento precauzionale. per impedire al detenuto di diffondere l'eresia, poiché il regolamento carcerario di per sé vietava a chiunque di rivolgere la parola ai prigionieri, ad eccezione del confessore il quale lo visitava di notte.

Ma vi era nelle carceri segrete un altro strumento che serviva esclusivamente alla tortura, il cosiddetto « piè de amigo » che era una specie di bidente che si puntava alla gola dell'imputato, fissandovelo in modo da obbligarlo a tenere continuamente il capo in posizione rigida.
Quest'ultimo arnese di tortura veniva generalmente applicato quando l'arrestato veniva trascinato attraverso le vie a scudisciate, ma qualche volta lo infliggevano anche nelle carceri, per pura crudeltà, allo scopo di aumentare i patimenti dei detenuti. Quando il famoso Augustin Casella venne arso vivo, a Valladolid, nel 1559, i delegati del Tribunale i quali nel pomeriggio precedente «l'auto da fé » erano recati a vederlo, lo trovarono in una cella oscura, curvo sotto il peso delle catene, con un « piè de amigo » al collo, sebbene egli avesse fatto confessione spontanea ed implorata la misericordia.

Nel 1559 Jacques Pinson, un Calvinista francese, che suscitò disordini a Toledo, venne condannato a cento scudisciate ed a portare il « pié de amigo ». Quando sette giorni dopo egli venne ammesso all'udienza aveva ancora al collo l'arnese di tortura, oltre a due paia di catene.
Nonostante l'applicazione dei ceppi, la fuga dalle carceri segrete non era affatto cosa rara, soltanto non sempre il prigioniero riusciva a mettersi in salvo, poiché l'Inquisizione era organizzata in modo che, generalmente, esso veniva di nuovo catturato. Nel caso di un'evasione si distribuivano immediatamente in tutta la città i connotati del fuggitivo, mobilizzando un intero esercito per l'inseguimento, cosicché ben presto egli cadeva di nuovo tra le mani della giustizia.

La massima crudeltà, nelle carceri dell'Inquisizione, era la più rigida disciplina che vietava ad ogni prigioniero qualsiasi contatto col mondo esterno. Abbiamo già visto che il detenuto, dal momento del suo arresto, non poteva scambiare alcuna parola con nessuno e questo divieto persisteva, con invariato rigore, tra le mura delle carceri, cosicché egli era come sepolto vivo. Nulla poteva sapere dei suoi cari, come nemmeno questi potevano avere nessuna notizia sul destino che lo aspettava e tante volte lo potevano rivedere, dopo qualche anno, ad un « auto da fé », come condannato alla morte sul rogo.

Un descrittore di un « atto da fé » di Valladolid, tenutosi nel 1599, vantava il successo incontrastato ottenuto col procedimento segreto dell'Inquisizione, dichiarando che nessuno poteva avere la minima idea di quale colpa si fossero resi rei i singoli detenuti, sino a che non li rivedevano al luogo dell'esecuzione:
Ogni cosa veniva portata al prigioniero nelle carceri, compresi gli alimenti, doveva essere notificata all'inquisitore, il quale decideva se gli oggetti potevano essere consegnati o meno, facendo esaminare minuziosamente ogni cosa, per evitare la segreta introduzione di qualche messaggio. Quando i penitenti, dopo l'« auto da fé », venivano scarcerati, erano sottomessi al aviso de carceles, durante il quale dovevano riferire, sotto giuramento, di tutto quanto avevano veduto e sentito, durante la loro prigionia, poi veniva imposto loro l'assoluto silenzio, sotto pena di gravi rappresaglie.

Tutto ciò non era fatto per mancanza di umanità o per crudeltà, ma era semplicemente prescritto dai regolamenti. Per impedire qualsiasi comunicazione per iscritto, fra i prigionieri, era severamente vietato l'uso di qualsiasi occorrente per scrivere. Anche questa disposizione, come le altre, venne emanata dalla Suprema nel 1534, dalla quale epoca tutto rimase in vigore, fino alla fine dell'Inquisizione.
Mentre si sorvegliava con la massima cura per impedire qualsiasi contatto fra prigionieri, ciò non significava che essi fossero soli nelle carceri. Generalmente era ritenuto desiderabile che gli uomini fossero separati dalle donne, per cui marito e moglie venivano chiusi in celle separate, ma, in caso di necessità, si collocavano nella stessa cella, quattro o cinque detenuti, che molte volte poi costituivano una preziosa fonte di informazione, poiché in quelle condizioni, con l'opportuna pressione, nessuno si peritava di riferire quanto aveva sentito dal suo compagno.

Le disposizioni impartite all'Alcade, nel 1652, ci informano sulle regole in vigore a quei tempi. Al mattino l'Alcade doveva visitare tutte le celle, per accertarsi della condizione dei detenuti, esaminando meticolosamente ogni foro, attraverso il quale essi potessero comunicare tra di loro, nonché le porte. Era vietato di lasciare coltelli o forbici tra le mani dei prigionieri. L'ispezione delle celle doveva essere ripetuta alla sera, allo scopo di sventare eventuali tentativi di fuga.
La più grande privazione era costituita dal divieto di illuminazione, poiché, nell'oscurità della cella, il tempo doveva sembrare infinito. Vi era però un'altra norma che colpiva gravemente lo stato spirituale dei fedeli e cioé il completo divieto dei conforti religiosi, per l'intero periodo di detenzione. Difficilmente si può comprendere tale provvedimento, considerando che la maggior parte degli arrestati era costituita da buoni cattolici, accusati di colpe che, generalmente, nulla avevano a che fare con l'eresia.

La situazione delle donne nelle carceri era quanto mai disastrosa, poiché esse erano alla mercé dei carcerieri, i quali, sotto il velo della segretezza, e terrorizzandole, facevano largamente abuso della loro posizione privilegiata. Probabilmente queste atrocità vennero all'orecchio del Cardinal Ximenes, poiché egli emanò un ordine severo, minacciando di morte coloro che avessero mantenuto relazione con le donne carcerate. La severità della pena comminata può dare una misura degli abusi, ma i Tribunali, come in molti altri casi, anche in questo dimostravano eccessiva indulgenza verso i propri dipendenti, cosicché queste disposizioni non vennero sempre applicate in tutta la loro rigidezza.

Nel 1590 Andres Certro, Alcade delle prigioni di Valencia, venne posto sotto accusa per aver sedotta una detenuta ed amoreggiato con altre, ma principalmente perché aveva permesso comunicazioni fra i prigionieri, dietro una lauta ricompensa. Nel processo si presentarono ventinove testi, che deposero contro l'Alcade, tuttavia egli negò i fatti addebitatigli, ma più tardi dimostrò di riconoscerli dandosi alla fuga. Alla sua cattura venne condannato a cento scudisciate.
Persino l'universale rispetto verso i Santissimi Sacramenti, doveva cedere dinanzi alla segretezza, inquantoché era vietato di comunicare alle autorità ecclesiastiche se un detenuto era moribondo. Con lo stesso spirito si procedeva quando un carcerato moriva senza assoluzione. In questi casi l'Alcade faceva rapporto all'inquisitore, il quale ordinava che in segretezza si stabilissero i dati personali del defunto, che veniva quindi sepolto pure nella massima segretezza. Generalmente gettavano i disgraziati in una fossa, mentre la loro famiglia nulla sapeva, sino a che il Consiglio d'accusa non portava la decisione, invitando gli eredi a difendere il buon nome e la memoria del morto. Anche se il morente avesse confessato sul letto di morte, il suo seppellimento avveniva generalmente in segretezza, mentre il suicidio, abbastanza frequente, era considerato come prova decisiva della colpevolezza.

Naturalmente la cura delle prigioniere dava luogo a qualche complicazione, poiché nelle carceri dell'Inquisizione non esistevano donne carceriere. Le disposizioni del 1498, che ordinavano la separazione degli uomini dalle donne, non significava che prima vi fosse stata sistematicamente la promiscuità, ma tendevano ad evitare anche i casi sporadici.
Nonostante tutto, sembra che le carceri dell'Inquisizione non raggiungessero lo stato miserevole delle altre, sia civili che ecclesiastiche.

LE PROVE

Secondo le antiche leggi di Castiglia entrambe le parti in causa facevano giurare i testimoni, ma i giudici li sottoponevano ad un segreto interrogatorio, per evitare l'influenza delle parti. Veniva data grande importanza al carattere dei testimoni e alla loro buona reputazione; erano esclusi coloro che erano già stati arrestati, gli ebrei, i mori, gli eretici, gli spostati e tutti coloro che erano cointeressati nella questione (i testimoni).
La Chiesa, sin dai tempi antichi, aveva stabilito il limite di età, ed era stabilita in venticinque anni, in nessun caso venivano ammessi di quattordici anni per i testi, ed in Spagna dove la maggiorità era stabilita in venticinque anni, in nessun caso venivano ammessi alla testimonianza individui al di sotto di quattordici anni. La penosa lotta interna dei testi, fra il sentimento d'affetto e l'istinto di conservazione, é fedelmente rispecchiato dal caso di Maria Lopez, avvenuto a Valladolid nel 1646. La disgraziata donna aveva meditato da settimane nella sua cella, prima di deporre contro sé e contro gli altri. Il 24 Giugno l'Alcade annunciava che essa aveva tentato di strangolarsi con un pezzo della sua camicia. L'inquisitore accorse nella cella e trovò la sventurata creatura rannicchiata sotto il letto; quando gliene chiese il motivo ella rispose che una donna, che aveva accusato falsamente il marito e la madre, della quale era l'unica figlia, non era più degna di vivere. Gli spietati regolamenti dell'Inquisizione stabilivano la morte al rogo come recidiva. Tuttavia il timore della morte prendeva il sopravvento ed essa finì a confermare la sua deposizione, ad eccezione della parte che si riferiva al marito. Il 29 Novembre venne condannata alla prigione ed alla confisca dei beni ed effettivamente comparve il 23 Giugno dinanzi all' auto da fé ».

L'Inquisizione romana era alquanto più clemente, inquantoché non esigeva che marito e moglie deponessero l'uno contro l'altro.
L'esame dei testi accusatori era un dovere degli inquisitori, i quali però molto spesso affidavano il compito ai cancellieri, benché questi non avrebbero dovuto farlo altro che alla presenza degli inquisitori stessi. Secondo le norme, l'esame dei testi, doveva svolgersi nella sala di dibattito, ad eccezione dei casi urgenti, in cui l'inquisitore poteva eseguirli nella propria casa.
Fra tutte le macchinazioni, con le quali si incoraggiavano i testimoni, perché deponessero a carico dell'accusato, era di maggior effetto la sicurezza del teste stesso che il suo nome rimarrebbe coperto. Questo abominevole procedimento era un'eredità dell'antica Inquisizione.

Quando Juan Franco venne condannato al rogo per protestantesimo nel 1570, a Toledo, l'unico teste che si presentò contro di lui era un francese, di nome Jan de Pronus, il quale depose che l'accusato seguiva i dogmi protestanti. L'unico fatto su cui poté appoggiarsi era un colloquio avuto con l'accusato otto anni prima. Benché egli non fosse spinto da alcun sentimento di vendetta il suo nome venne tenuto segreto nell'interesse della deposizione.
Mentre si sorvegliava attentamente che l'accusato non riconoscesse il teste, molte volte si presentava la necessità che i testi potessero identificare l'accusato. La questione fu risolta in modo che potesse corrispondere ad entrambi gli scopi. Nella causa di Diego de Uceda, nel 1528, escogitarono un mezzo assai semplice; nascosero i testimoni nella camera di tortura e fecero passeggiare l'accusato per un quarto d'ora, dinanzi al loro nascondiglio perché lo potessero ben riconoscere.

Più tardi si pensò a munire la sala di dibattimento della cosiddetta « celosia », cioè una fitta grata attraverso la quale i testimoni potevano vedere l'accusato, senza essere visti. Questo sistema si dimostrò molto utile in un processo di bigamia, a Valladolid, nel 1649. Infatti una delle mogli, Anna Romann, venne introdotta dietro la « celosia », per poter vedere il supposto marito, ma ella, non appena ravvisato l'accusato, dichiarò decisamente che non era quello l'uomo che aveva sposato. In seguito a ciò l'accusato venne assolto.

Nel 1488 a Toledo vennero torturati con le tenaglie roventi quattro ebrei, che avevano fatto falsa testimonianza, contro dei buoni Cristiani, con l'intenzione di rendere odiosa l'Inquisizione. Probabilmente per spirito di eguaglianza, nelle disposizioni del 1498 venne ordinato a tutti i Tribunali che coloro che avessero fatto falsa testimonianza, senza, distinzione di sorta, dovevano essere pubblicamente marchiati. Questo provvedimento era più che giustificato, poiché la corruzione e le false testimonianze non si contavano più, cosicché i giudici non potevano fare più alcun assegnamento sulla serietà di queste prove.
Questa regola rimase stabile, benché Simanca, dopo il Breve di Leone, dicesse che ogni falso testimonio avrebbe dovuto essere arso vivo o almeno punito in proporzione delle conseguenze della sua testimonianza, sull'accusato.

Di notevole interesse é il caso di Jan de la Barre, immigrato fiammingo, da tempo stabilito a Madrid. Egli era esageratamente bigotto e faceva dire giornalmente la Messa nella Cappella Reale, dal proprio Cappellano, sino a che de Robles, uno dei dipendenti dell'Inquisizione, glielo proibì severamente. Allora de la Barre volle fondare una « Cofradia », allo scopo di dire Messe, ma il de Robles pretendeva di divenire il presidente e di amministrare il fondo senza resa di conti. Naturalmente i due si azzuffarono e, quando de Robles volle conciliarsi, il de la Barre lo respinse sdegnosamente. Perciò il primo si vendicò accusando il de la Barre di aver fatto dichiarazioni eretiche, per aver trascurato Messa e confessione, ed inoltre asserì che egli aveva qualificato come ladri e banditi gli inquisitori, i quali non facevano che spogliare le persone ricche. S'intende che il bravo de la Barre venne posto sotto accusa, condannato a cento scudisciate ed al perpetuo esilio.

Nell'ultimo periodo dell'Inquisizione si era divenuti molto blandi in questioni di falso giuramento. Nel 1817 Manuel Gonzales. Arciprete, venne accusato dal Tribunale di Santiago per falso giuramento, ma quando furono inviati i dati raccolti alla Suprema, quest'ultima si accontentò di inviare un legato all'Abate Benedettino Monforte, perché egli ammonisse il reo di fare per l'avvenire le sue testimonianze fedeli alla verità come di dovere ad un Sacerdote consacrato, perché in caso diverso non lo avrebbero trattato con tanta clemenza come per questa volta; lo punirono imponendogli una settimana di esercizi spirituali nella Cappella della Clausura.

È molto difficile dare un giudizio generalizzante sullo stato delle carceri che, dato il loro grande numerò non potevano avere un aspetto di uniformità; in linea generale si potrebbe dire che lo stato delle carceri dipendeva dalla coscienziosità degli inquisitori. Certo non sarebbe giusto accettare senza riserve le descrizioni terrificanti, tramandateci da Lucero, che probabilmente si riferivano allo stato delle carceri di Cordova. Anche a Sevilla in certe epoche la situazione non dovette essere molto buona. Nel 1560 la tirannia dell'Alcade Gaspar de Bonavides provocò un'aperta ribellione, durante la quale il suo aiutante venne mortalmente ferito. L'Alcade giurò contro i ribelli, dei quali uno fu arso vivo, mentre un altro, un ragazzo quattordicenne, fu condannato a quattrocento scudisciate; questo avvenimento però mise in luce le malefatte del Bonavides, che si salvò presentandosi come penitente ad un « auto da fé », dove fu soltanto condannato ad abbandonare Sevilla.

Dalla fondazione dell'Inquisizione erano passati quarant'anni di fervente lavoro, prima che il potere fosse concentrato fra le mani della Suprema e che questa potesse dare un ordinamento definitivo ai Tribunali. Nel 1635 il Tribunale di Valencia fece rapporto che in seguitò all'alto prezzo del pane, i detenuti pativano la fame e chiese autorizzazione ad aumentare le razioni. Lo scarso valore del denaro pose la Suprema di fronte a difficoltà non lievi e, soltanto dopo cinque settimane di discussioni, venne deciso di raddoppiare le razioni.
I Tribunali esigevano inesorabilmente il pagamento del vitto da ogni carcerato che ne avesse la possibilità. Nel 1709 la Suprema emanò un ordine, dichiarando che non avrebbe fatto eccezione a tale riguardò nemmeno per i Francescani. Prima di ogni « auto da fé » il dispensero ed il cancelliere del sequestro, rendevano esattamente conto della situazione patrimoniale di ciascun penitente; coloro che sfuggivano alla confisca dovevano presentarsi al fisco, il quale provvedeva ad incassare le spese sostenute durante la detenzione e, se l'individuò era povero, lo facevano giurare che avrebbe pagato successivamente quanto gli fosse possibile.

L'Inquisizione perseguitava con vigore ogni manifestazione di eresia, sia esteriore che interiore, formale ò simulata, tuttavia, prima di procedere a passi di rigore, svolgeva sempre un'accurata istruttoria, che giovava almeno per conservare l'apparenza della sua rettitudine. Ciononostante guardava con sospetto ogni nuovo cristiano nel quale ravvisava sempre il segreto apostata e tuttavia incoraggiava le conversioni, poiché solo contro i battezzati essa poteva procedere. Se questi individui frequentavano gli esercizi religiosi, erano munifici verso la Chiesa ed anzi acquistavano permanentemente gli emblemi dei Cavalieri Crociati; nel segreto generalmente continuavano a professare la fede di Mosé e di Maometto.

Per individuare le colpe di costoro e quindi poterli punire, era necessario che gli inquisitori avessero una profonda conoscenza delle altre religioni. A questo scopo erano a disposizione esaurienti descrizioni illustrate.
Ciononostante l'Inquisizione aveva bisogno soltanto di minime prove per procedere contro i sospetti. La causa di una intera famiglia di Valladolid, svoltasi dinanzi a quel Tribunale nel 1622 sta a dimostrarlo.
Quando il Dottor Jorje Enriquez, medico di buona fama, che era anche curante del Principe Alva morì, si presentarono diversi testimoni al Tribunale per denunciare la famiglia di voler seppellire il loro congiunto secondo il rito ebraico. La Consulta de Fé non poté accordarsi nella questione e perciò inoltrò rapporto alla Suprema. Quest'ultima fece arrestare immediatamente la vedova, i figli e tutta la servitù, che vennero rinchiusi nelle segrete. Uno dei figli, un giovane di 18 anni, morì sotto le torture.

Nel 1635 Manuel Mendes, mentre viaggiava in compagnia della moglie e di altre due donne, sulla strada maestra, incontrò due contadini, ma non li salutò. Uno di essi lo investì chiedendogli perché non aveva detto il rituale « Lodato sia Gesù Cristo » oppure « Lodato sia il Santissimo Sacramento » ed egli commise l'imprudenza di rispondere che nella sua patria non si conosceva Dio. I due contadini lo denunciarono al più prossimo inquisitore, che lo fece arrestare immediatamente, sotto l'accusa di aver parteggiato per gli ebrei, racchiudendolo nelle carceri segrete di Valladolid e provvedendo alla confisca dei beni. Oltre a questo, il Mendes venne accusato da un compagno di cella di lavarsi le mani ogni mattina prima di toccare cibo. Il Mendes negò dapprima, ma dopo atroci torture finì per confessare tutto ciò che volevano.

Abbiamo ritenuto necessario di occuparci tanto minutamente delle testimonianze, poiché generalmente da esse dipendeva la sorte dell'accusato. Dopo questo attento esame non si può che avere l'impressione che il sistema delle deposizioni era tale da far risultare piuttosto le prove a carico dell'accusato che non la verità. Il solo fatto dell'arresto era considerato un segno di colpevolezza che l'Inquisizione durante il procedimento giuridico, si sforzava di convalidare con le prove.

LA DEPOSIZIONE E LA CONFESSIONE

L'Inquisizione considerava l'eretico non soltanto come un malfattore, ma anche come un peccatore. Questa distinzione impose due diverse funzioni, cioè lo scoprimento della cattiva azione ed il salvamento dell'anima del peccatore. Queste due funzioni erano un po' in contrasto. L'Inquisizione aveva un'autorizzazione particolare della Santa Sede, per giudicare gli eretici. Sebbene essa avesse la facoltà di scomunicare il peccatore, anche se la censura lo avesse assolto, non era essa stessa a compiere il rito, ma generalmente incaricava un altro sacerdote. L'Inquisizione non riceveva mai la Santa Confessione, né somministrava la Santa Comunione. Persino se si fosse rivolto ad essa un protestante per essere assunto in seno alla Madre Chiesa veniva chiamato un sacerdote che lo confessasse e gli desse l'assoluzione.

Tutto il procedimento tendeva a persuadere il peccatore a confessare i suoi errori e poi ad implorare la misericordia. Si invitava il peccatore ad alleggerirsi la coscienza per amore di Dio e della Santa Vergine, salvando con una completa confessione la propria anima, evitando di fare falsa testimonianza a favore di se stesso od altrui.
Indubbiamente vi era qualche inquisitore che credeva in coscienza di compiere una sublime funzione.
Dal primo dibattimento, sino alla sentenza pronunciata all'« auto da fé », il Tribunale concentrava tutti i suoi sforzi per muovere il peccatore al pentimento, o per lo meno alla confessione del suo peccato, valendosi di persuasione, false promesse di grazia, di minacce ed in caso di necessità di torture. L'individuo che si ostinava a negare la propria colpevolezza veniva accompagnato al luogo di esecuzione da confessori i quali non smettevano mai di persuaderlo a confessare ed a pentirsi dei peccati. Nello stesso modo sfruttarono l'agonia di coloro che morivano nelle carceri.

Questa continua sollecitazione alla confessione, portò naturalmente al risultato che i confessori ottennero l'istruzione di ascoltare la confessione dei disgraziati soltanto se questa valeva a fornire prove contro di essi.
La confessione, sia quella spontanea, che quella fatta dopo l'arresto, era considerata valida dagli inquisitori, soltanto se comprendeva l'assoluzione, la rinuncia al peccato e la domanda di riassunzione nella Madre Chiesa Cattolica. L'antica crudeltà si ripetè durante tutto il Secolo XVIII e, a quanto pare, l'unica concessione nei casi in cui il penitente non rivelava uno stato d'animo incline a recidive, era quella di poter lavarsi la coscienza con autotorture.

In generale dobbiamo venire alla conclusione che per le colpe di eresia non esisteva la discolpa di azione involontaria, ed era ritenuto che il peccatore dovesse essere sottoposto alle torture, si limitavano a condannarlo ad una ammenda, mentre se riusciva a resistere senza confessare, permaneva il sospetto ed egli veniva punito ugualmente.
Una prova lampante per l'efficienza del sistema delle denunce era fornita dal caso di un moro, di nome Francesco Zofery Ribera.

Egli simulava solo di essere Cristiano, quando ad un tratto un miracoloso cambiamento nei suoi sentimenti lo indusse a pellegrinare a Montreal dove confessò la sua eresia ad un sacerdote. Il buon Padre, il quale non era autorizzato a dare l'assoluzione, lo rinviò al Tribunale di Barcellona, dove gli posero la condizione di denunciare tutti i suoi parenti e conoscenti per essere assolto. L'inquisitore riconobbe che i nominati erano tutti valenciani, lo inviò in quella provincia, dove l'individuo non tardò a denunciare circa quattrocento persone; era un sarto ambulante e quindi aveva esteso circolo di conoscenze.

Soltanto pochi degli uomini che capitavano tra le mani dell'Inquisizione avevano l'eroico coraggio di Manuel Diaz, vittima del grande « auto da fé » del Messico. Sebbene dieci dei suoi compagni avessero deposto contro di lui egli negò imperterrito la sua colpevolezza e non giovarono né blandizie, né minacce, cosicché finalmente, non sapendo che cosa fare, lo fecero bruciare vivo, ma prima lo fecero spietatamente torturare. Quando lessero la sentenza egli dichiarò semplicemente che era già preparato a tutto. Era un uomo forte, di trentotto anni e sebbene urlando implorasse la morte e la misericordia per i suoi cinque figli, sopportò le terribili torture, negando di comprendere le leggi di Mosé ed in fine, col capo eretto e il passo sicuro, si avviò al luogo di esecuzione, senza tradire nemmeno uno dei suoi compagni.

La confessione sotto la tortura non era considerata spontanea e talvolta aveva valore relativo, poiché in taluni soggetti, soltanto il terrore della tortura minacciata, creava uno stato mentale che rasentava la pazzia. Nel 1570 Diego Reedondo, cittadino di Toledo, venne accusato di atti impuri, ciò che, secondo il concetto popolano, non era considerato peccato. Dapprima egli negò ogni cosa, ma poi quando lessero l'accusa, sotto l'impressione delle minacce di torture, finì col confessare senonché più tardi, quando vennero lette le deposizioni di cinque testi, ritirò la sua confessione dichiarando di non ricordare di aver commesso gli atti a suo carico. Il suo comportamento da pazzoide mise gli inquisitori nell'imbarazzo, tanto che finirono col rinviare la causa alla Suprema, che pietosamente lo condannò a due anni di esilio.
Il « negativo » che, di fronte ad un certo numero di seri testimoni, negava ostinatamente la propria colpa, veniva generalmente, qualificato per eretico maligno e cocciuto, col quale non si poteva fare altro che bruciarlo vivo, come effettivamente facevano anche se il disgraziato mille volte giurava di essere un buon cattolico. Infatti coloro che resistevano fino alla fine, ad ogni pressione, affermando di essere buoni cattolici, indubbiamente lo erano, poiché non temevano nemmeno la più orrenda morte, purchè fosse accertato che erano devoti a Cristo. Simili casi non erano affatto rari.
Gli stessi inquisitori riconoscevano che esisteva il rischio di far bruciare eventualmente autentici buoni cattolici e Perua lungamente tratta la questione in un suo scritto, domandandosi se sia ammissibile supporre che un individuo di fronte alla morte sul rogo deponga falsamente. Egli conclude che ciò non é assolutamente ammissibile e conforta le disgraziate vittime, dicendo che essi avrebbero conseguito con la loro perseveranza, la palma del martirio.

Effettivamente bisognava disporre di una tempra sovrumana per resistere sino alla fine a dichiararsi innocenti poiché l'Inquisizione teneva aperte le porte ai penitenti, sino all'ultimo momento. Se ad un « auto da fé » un negativo chiedeva di essere interrogato lo si esaudiva immediatamente. Veniva condotto fuori del luogo di esecuzione ed egli poteva confessare; la sua causa veniva discussa nuovamente e gli veniva inflitta una penitenza, nella misura richiesta dalla serietà della situazione e dal fatto di avere esitato nella confessione.
Simili casi non erano affatto rari e forniscono un'altra prova della terribile tensione che dominava la media normale degli individui in quella situazione.
Quando ogni altro modo si dimostrava inefficace per muovere il colpevole alla confessione vi rimaneva sempre il potente mezzo delle torture.
Naturalmente l'Inquisizione si valse anche di questo mezzo, poiché la colpa di eresia non era facilmente dimostrabile. Ad incominciare dalla metà del Secolo XIII, l'abituale applicazione della tortura nei procedimenti del Santo Uffizio, divenne uno dei fattori più efficaci per la propagazione del Cristianesimo. Tuttavia ci volle molto tempo prima che la Spagna approvasse l'innovazione.

Nella Castiglia, dove non si voleva riconoscere l'Inquisizione, Alfonso X, sebbene ammiratore delle leggi romane, dichiarò che la confessione doveva essere spontanea ed anche se essa avrebbe dovuto essere confermata più tardi liberamente, senza alcuna minaccia o pressione. Nel Reame di Aragona riconoscevano l'Inquisizione, ma dichiaravano illegale l'applicazione delle torture e ne fecero uso soltanto dopo un deciso ordine di Papa Clemente V.
Vedremo in seguito come in taluni casi i Tribunali avessero fatto abuso delle torture, tuttavia qualche scrittore esagera al riguardo, con l'intenzione di porgere una lettura più colorita ed emozionante. Il sistema era indubbiamente scellerato, sia nella concezione che nell'esecuzione. Tuttavia l'Inquisizione spagnola non era responsabile della sua introduzione e con imparzialità bisogna ammettere che nella gran maggioranza dei casi non lo applicava con tanta crudeltà, come lo facevano i Tribunali civili, limitando l'uso ad alcuni strumenti efficaci.

A tale riguardo il paragone tra l'Inquisizione romana e quella spagnola torna indubbiamente a vantaggio di quest'ultima. Mentre l'Inquisizione spagnola applicava le torture solo limitatamente, quella romana sottopose ad essa quasi tutti indistintamente gli accusati, fossero essi confessi o meno, allo scopo di strappar loro ancor maggiori particolari ed i nomi dei complici. Inoltre a Roma le torture vennero applicate anche per certe categorie di reati come per esempio la pura supposizione di eresia, la stregoneria, la bestemmia, per i quali nella Spagna ne era assolutamente vietata l'applicazione. Per di più a Roma lo « In arbitrio judicum » si riferiva non soltanto alla qualità ed alla durata della tortura, ma anche alla facoltà di eventuali ripetizioni. Autorevoli scrittori spagnoli asseriscono, a buon diritto, che l'applicazione delle torture era più blanda nel loro paese e quanto alla spietatezza, dato che si fa frequentemente cenno che l'accusato sopravvisse alle torture, si può supporre a ragione che queste non erano portate all'estremo come succedeva tanto spesso ai Tribunali civili.

Il carcere, eccessivamente duro, e particolari torture non erano tuttavia sconosciute nella procedura dell'Inquisizione e vennero applicati per stroncare gli accusati molto ostinati.
Ma la tortura era considerata una punizione troppo seria per essere affidata alla tirannia di un inquisitore, perciò, per impedire qualsiasi abuso, l'applicazione doveva essere preceduta da diverse formalità. Dopo il dibattito della causa e dopo le arringhe di accesa e difesa, si riuniva la consulta de fé per trattare la sentenza. Quando sembrava che le prove fossero insufficienti per pronunciare la sentenza e d'altronde non era constatabile abbastanza chiaramente l'innocenza dell'imputato, la Consulta ordinava l'applicazione delle torture e sospendeva il giudizio in attesa dei risultati.

Interessante era il caso di Diego Garcia, sacerdote, il quale era accusato di aver detto all'età di vent'anni che il Santissimo Sacramento non era altro che pane. La Consulta tenne due sedute ed infine votò per la tortura, ma la cosa non veniva affrettata e soltanto qualche mese dopo il Garcia venne sospeso ad una lieve tortura ad acqua. Egli non confessò ed allora gli sciolsero le corde, dichiarando che egli non aveva patito abbastanza. Tuttavia non ripeterono la tortura e pochi giorni dopo lo assolsero ripristinandolo nella sua carica sacerdotale vietandogli però di dire la Messa per due settimane.

La decisione della Consulta era sempre condizionata. Dopo la seduta l'imputato veniva introdotto nella sala di dibattimento dove dovevano presenziare gli inquisitori e l'incaricato del Vescovo. L'imputato veniva severamente ammonito di fare in nome di Dio e della Santa Vergine una completa confessione, deponendo senza reticenze contro sé e contro gli altri. Se ciò non lo commuoveva, allora con un decreto, firmato da tutti i membri, veniva condannato alle torture per un periodo di tempo, a seconda dei giudizio dell'assemblea, affinché egli confessasse tutto ciò che i testimoni avevano deposto contro di lui. Dichiaravano esplicitamente all'imputato che se egli fosse morto durante le torture, gli scoppiasse una vena o soffrisse qualche mutilazione, la colpa non sarebbe dei giudici, ma sua, perché aveva mancato di dire la verità.

Se in seguito, alla tortura si giungeva alla scoperta dei complici, gli inquisitori promettevano all'accusato di tenere segreta la confessione, affinché egli non si ricredesse.
Quando gli indizi erano troppo scarsi per giustificare la tortura, la Consulta de fé talvolta votava che l'imputato ne venisse soltanto minacciato. In questi casi veniva compilata la sentenza, se ne dava lettura all'accusato che veniva trascinato nella camera di tortura, denudato ed eventualmente legato al potro od all'escalera, ma non andavano oltre. Un simile strano caso fu quello di Leonora Perez, la quale, all'età di settant'anni venne condannata a Valladolid il 4 Maggio del 1634 in conspectum tormentorum. Quando la spogliarono il carnefice scoprì sul suo corpo le tracce di una precedente tortura e la vecchia confessò di esser stata torturata vent'anni prima, a Cóimbra.
Il 14 Giugno la sentenza venne nuovamente eseguita, ma prima che fosse stata spogliata, confessò la sua fede ebraica e svenne. Si rese necessario un rinvio, ma due giorni dopo la vecchia revocò la deposizione. La questione si protrasse fino al 1° Agosto del 1637 quando venne condannata al giuramento de vehementi con sei anni di deportazione e venti ducati di multa, nonché a sfilare lungo le strade di Cuenza. Tuttavia le cronache la nominarono ancora nel 1639 come prigioniera. In ogni modo doveva avere una forte tempra per sopportare e resistere per così lungo tempo alle varie minacce.

Le condizioni che seguivano la tortura erano abbastanza gravi poiché l'imputato doveva lavare l'anima sua dai peccati in modo adeguato alle sue forze fisiche. Dal punto di vista degli inquisitori ciò significava un vantaggio per l'imputato poiché gli dava una possibilità che era negata a coloro la cui condanna era già decisa.
Ciò é illustrato da un caso caratteristico svoltosi dinanzi al Tribunale di Toledo nel 1488. Juan de Rio era stato per molto tempo sacerdote a Roma, dove aveva pure preso parte al Giubileo del 1475. Con le sue maniere da cortigiano era riuscito ad entrare nelle grazie di Sisto IV e nel 1483 ritornò in Spagna colmato di ogni genere di onorificenze. Fra l'altro suscitarono molta invidia le prebende ecclesiastiche di Toledo di cui beneficiava. Fin dal suo ritorno nella Spagna, non poté assuefarsi al nuovo ordine delle cose ed i suoi discorsi audaci ben presto gli fecero perdere ad uno ad uno i privilegi goduti. L'accusa contro di lui era lieve e futile. Il capo di imputazione più serio era quello che una volta egli avrebbe mandato al diavolo tutta l'Inquisizione perché non poteva pagare il fitto dei terreni. In altri tempi, forse, egli avrebbe potuto cavarsela con una penitenza invece venne trascinato sollecitamente al luogo di esecuzione per poter procedere alla confisca dei suoi beni.
Dai Tribunali civili era ammesso che la tortura potesse essere applicata anche nei casi in cui l'entità del reato non l'avrebbe giustificata.

Francisco de Tomamira, paggio diciottenne del Principe Pastrana, venne posto dinanzi al Tribunale, nel 1592, sotto l'accusa di aver dichiarato che si sarebbe potuto lasciare in pace gli ebrei ed i mori se essi erano molto attaccati alla loro religione. Il ragazzo negò, ma venne torturato sino a che fu confesso e allora l'Inquisizione lo giudicò blandamente, imponendogli di ascoltare una messa in veste di penitente.
Ancora più significativo fu il caso del quindicenne Juan Pereira il quale venne posto sotto accusa per giudaismo, nel 1646. a Valladolid. Siccome il procedimento era lento il disgraziato ragazzo impazzì. Gli inquisitori non seppero che fare poiché le opinioni erano divergenti, se il ragazzo fosse realmente pazzo o simulasse. Si rivolsero dunque alla Suprema la quale saggiamente ordinò la tortura che avrebbe dovuto chiarire la questione.
Il 22 Aprile 16413, le torture vennero eseguite, ma senza apportare il risultato atteso. Il Pereira dovette essere ricoverato in un ospedale e siccome il suo nome non figura più nelle annotazioni é presumibile che vi sia deceduto.

Quando un imputato, confessando, non ammetteva tutto ciò che, secondo le prove, era a suo carico, veniva torturato perché completasse la deposizione, condizione necessaria per la prosecuzione del processo. Il castigo era sempre a seconda della confessione fatta sotto le torture, mentre in caso di mancata confessione, l'imputato veniva generalmente condannato alla galera. Molte volte la tortura veniva applicata anche se la confessione concordava con le prove, per la curiosità degli inquisitori, come nel caso di Antonio de Andrada il quale nel 1585 a Toledo, sebbene avesse fatto una confessione soddisfacente, venne sottoposto alle torture per ottenere ulteriori particolari sul reato e sui complici. Le incerte ed esitanti confessioni necessariamente avevano per seguito le torture, con le quali si riusciva ad eliminare le contraddizioni. Ciò avveniva generalmente con le persone timide le quali, impressionate dalla proposta del procuratore di applicare le torture, facevano in fretta delle confessioni che più tardi dovevano ritirare, provocando così quel provvedimento che erano intente ad evitare.

Si deve supporre anche che in certi casi, quando l'applicazione della tortura poteva sembrare eccessivamente severa gli inquisitori siano stati ispirati dall'intenzione di promuovere la salute dell'anima dell'imputato sollecitando il suo pentimento. Perciò Royas dichiarava che non bisognava esitare nell'applicazione della tortura, quando era in gioco la salute spirituale del colpevole, per farlo riconciliare con la Santa Madre Chiesa a mezzo di una salutare penitenza.
Quantunque sembri indegno, vennero torturati anche i testimoni, per estorcere da loro deposizioni probanti. Questa usanza era adottata da tutti i Tribunali che disponevano di una camera di tortura.

L'Inquisizione spagnola non faceva che seguire l'usanza comune delle altre giurisdizioni, quando, « in capur alineum », sottoponevano a torture coloro che avevano già confessato i loro peccati. Nessuna disposizione era considerata completa sino a che non avesse rivelato i nomi di coloro che egli sapeva rei di pratiche eretiche, e se vi era sospetto che l'imputato non si fosse alleggerita la coscienza anche a tale riguardo, si ricorreva senz'altro alle torture.

Le istruzioni del 1561 ammonivano tuttavia a questo riguardo gli inquisitori, di essere cauti nella applicazione di torture in « caput alineum » che in ogni modo era usata meno frequentemente nella Spagna che a Roma. Il sistema di mandare al patibolo coloro che pur confessando le loro colpe non volevano rivelare i nomi dei complici, portava generalmente ad una completa deposizione e di conseguenza al patimento. Come si é visto, questo metodo diede risultati soltanto in individui di tempra eccezionale.
Gli schiavi che deponevano contro i propri padroni venivano torturati senza eccezione per avere maggior conferma delle loro accuse. Nella causa di Juan de la Caballeria, nel 1488, accusato dell'assassinio di San Pedro Arbues, il teste principale era la sua schiava Lucia che ben due volte venne torturata perché confermasse la sua dichiarazione.

Nessuna classe sociale poteva esimersi dalle torture. Vi venne sottoposta la nobiltà, come il clero di tutti i ranghi per il quale però l'applicazione era meno severa che non nei laici, eccezion fatta per i casi assai gravi; ma anche allora essi avevano il diritto d'esser torturati da sacerdoti, sempre che se ne trovassero, disposti a compiere tale bisogna. Come per gli arresti anche per le torture, in base alla « carta acordada », la loro questione doveva essere sottoposta al giudizio della Suprema.

A quanto sembra, nessuna età poteva fare eccezione per essere esonerati dalle torture. Il Llorente descrive un caso in cui torturarono una donna di novant'anni a Cuenza, osservando però che ciò era avvenuto contro la volontà della Suprema. Nel 1540 la Suprema ordinava che si usasse riguardo all'età ed alla posizione sociale dell'imputato, mentre le disposizioni del 1561 non contengono eccezione per l'età e tutto viene affidato alla decisione del Tribunale. Ad un « auto da fé » di Toledo figurava una donna settantottenne di nome Isabel Canese, la quale, non appena iniziata la tortura, confessò. Inoltre la ottantaduenne Isabel de Jean la quale, dopo cinque giri di fune, svenne ed a mala pena poté riaversi.

Nemmeno l'età giovanile era rispettata. Nel 1607 a Valencia venne torturata la tredicenne Isabel Madelena, incolpata di certe oscure macchinazioni saracene, ma la bambina sopportò la tortura ed allora venne condannata a cento scudisciate. Nello stesso anno il Tribunale dimostrò maggior clemenza nei confronti del decenne Juan de Heredia il quale era accusato da un falso testimonio di aver visitato una casa in cui insegnavano le dottrine more. Egli era ostinatamente negativo e quindi fu posto in conspectun tormentorum, nonostante le proteste del suo tutore.
La deficienza mentale o pazzia, soltanto rare volte era considerata come impedimento per eseguire le torture e bisogna riconoscere il merito del Tribunale di Valencia il quale, quando nel 1710 la Suprema ordinò di torturare un certo Joseph Felix, protestò dichiarando che il ragazzo era scemo e quindi non avrebbe potuto comprendere il significato della tortura.
Era regola generale che la tortura non dovesse minacciare la vita dell'accusato, sebbene ciò non fosse sempre mantenuto nel fervore del lavoro. Erano persino prescritte delle precauzioni per accertarsi se il soggetto si trovava in uno stato da poter sopportare le torture, o meno. In casi di dubbio bisognava chiamare il medico dell'Inquisizione, come avvenne per esempio per Rodrigo Peter nel 1600 a Toledo. Egli era debole e malaticcio cosicché il certificato medico valse a salvarlo dalle torture. Ma nel 1623 la Suprema non era più tanto blanda, quando ordinò al Tribunale di Valencia di sottoporre alle torture José Pujal prima di trasferirlo all'ospedale.

La gravidanza venne considerata quasi sempre, almeno per rinviare le torture; tuttavia il Tribunale di Madrid, in seguito alle disposizioni del 1690, si limitò alla concessione di far sedere la donna gravida su una sedia, anziché legarla sul banco della tortura, ordinando poi la spietata tortura chiamata garotte che consisteva nell'applicazione di grosse funi che si sprofondavano nelle carni, due per le braccia e due per le cosce legate dietro al torace e poi girate con un'asta.
L'ernia, almeno nei primi tempi, era considerata come impedimento; tuttavia già nel 1662 le disposizioni ufficiali della Suprema ordinavano di non far più eccezione per chi era affetto da tale inconveniente. Al massimo, nell'applicazione del tampazo vigoroso che provocava emorragie nella parte inferiore del corpo. Nelle altre torture sarebbe stato sufficiente applicare strettamente un cuscino alla parte inferma per ovviare ad immediati pericoli. Per quanto riguarda le donne che allattavano, a quanto pare non vi era regola fissa. Nel 1575 il Tribunale di Valencia voleva far torturare Maria Gilo, ma il medico chiamato, dichiarò che ciò avrebbe costata la vita al poppante ed in seguito a questo sospesero il procedimento. Nel 1608 a Toledo si riaffacciò la questione nel caso di Luisa de Narvaz, e dati i voti discordi della Consulta essa venne rinviata alla Suprema che ordinò senz'altro la tortura.

Oltre a questi motivi generali vi erano anche casi particolari in cui si rinunciava alla tortura; mal di cuore, debolezza, ripetuti svenimenti durante la procedura ed altre cause. Il medico ed il chirurgo vennero sempre chiamati quando l'imputato era già spogliato perché lo esaminassero e li facevano rimanere a disposizione, per eventuali bisogni durante le torture. Pare che i Tribunali siano stati più miti della Suprema la quale, in una disposizione del 1662, rimproverò un inquisitore il quale, per qualche frattura di braccio o di gamba, era stato contrario alle torture.
Un'altra norma sanitaria era quella di far trascorrere qualche ora fra l'ultimo pasto e la tortura. Nel 1560 l'inquisitore Cervantes propose che il soggetto non potesse né mangiare né bere sin dalla vigilia del supplizio, mentre nel 1722 un giudice propose il digiuno di otto ore.

Durante la tortura dovevano presenziare tutti gli inquisitori, i rappresentanti del Vescovo, un cancelliere ed un segretario, che faceva esatta annotazione di tutto l'avvenimento, oltre a questi poteva presenziare soltanto un infermiere, qualora non fosse chiamato addirittura il medico. In principio, non fu facile trovare uomini disposti a questo lavoro ripugnante.
Ferdinando in una lettera scritta a Torquemada nel 1486 lamentava che gli inquisitori di Saragozza avevano assunto un giustiziere perché i messi si rifiutavano di eseguire le torture e perciò proponeva che i messi venissero licenziati e che al loro posto venisse assunto un giustiziere, ma senza aumento di paga. Forse per questa ragione sulle note di pagamento non figurava il carnefice.

Per qualche tempo sembra che l'Alcade avesse avuto anche queste funzioni. Ciò risulta anche da una lettera della Suprema, diretta all'inquisitore di Navarra, nel 1536, nella quale é detto che se il loro Alcade non si intendeva del lavoro, bisognava cercarne un altro poiché non era decoroso che gli inquisitori stessi provvedessero a questa incombenza come lo avevano fatto fino allora.
Di quando in quando i Tribunali dell'Inquisizione si valevano del giustiziere ufficiale della città il quale era bene esercitato nel mestiere. Quando il 23 Novembre 1646 a Valladolid venne ordinata la tortura di Isabel Lopez, l'Alcade annunciò che il giustiziere ufficiale era partito ed il suo ritorno incerto. Si dovette quindi rinviare la tortura, senonché Isabel Lopez il 27 Novembre confessò tutto sfuggendo così alle torture.
Dal Marzo all'Agosto del 1681, a Madrid pagarono ad Alonzo de Alcelà, giustiziere della città, per 14 torture eseguite, 44 ducati, cioé quattro ducati l'una. Può sembrare strano che gli inquisitori in un certo tempo sollevassero obiezione a che il giustiziere si presentasse mascherato, ma effettivamente nel 1524 la Suprema vietò che il boia comparisse mascherato permettendogli solo di far uso della cappa. Tuttavia nella seconda metà del Secolo XVI permisero che portasse la maschera ed anche il travestimento ritenendo opportuno che nessuno lo riconoscesse.
Dopo la lettura della sentenza l'accusato veniva introdotto nella camera di tortura, denudato e legato dal carnefice ad un palo. Indi seguiva una breve pausa durante la quale gli inquisitori nel Santo nome di Dio esortavano l'imputato di dire la verità, dichiarando che essi non desideravano vedere la sua tortura.

Il denudamento non era puramente una sadica accentuazione del procedimento, ma una cosa necessaria, poiché le diverse funi, cinghie e strumenti, dovevano accedere a tutte le parti del corpo che veniva martoriato. Tanto le donne quanto gli uomini erano sottoposti a questa formalità con l'unica concessione che gli ultimi potevano indossare il zaraquelber o panol de la perquema, una specie di mutandina. Tuttavia prima dovevano denudarsi completamente. Durante la tortura si potevano rivolgere solo queste tre parole al torturato: « dicci la verità! ». Era assolutamente vietato rivolgergli domande o fare dei nomi poiché si era constatato che i torturati erano sempre pronti ad assentire a quanto veniva loro chiesto, facendo così false testimonianze contro se e contro gli altri.

Naturalmente neanche il giustiziere poteva rivolgere alcuna parola ai torturato, mentre gli inquisitori dovevano badare che la tortura non lo storpiasse a vita. Il lavoro doveva essere eseguito lentamente perché diversamente avrebbe potuto perdere di effetto e l'imputato avrebbe potuto sopportarlo con maggiore facilità.
Secondo la regola generale, si poteva applicare la tortura soltanto una volta salvo i casi in cui emergessero nuove prove. Se il regolamento non permetteva la ripetizione della tortura la continuazione non era vietata e molte volte quando essa non dava i risultati desiderati l'inquisitore la sospendeva per riprenderla più tardi.
Con questo trucco, la tortura poteva essere ripetuta quante volte la Consulta lo ritenesse opportuno. Il segretario riferiva nel protocollo o nel verbale, fedelmente, tutto quanto era avvenuto, non omettendo nemmeno le disperate grida, proteste ed implorazioni alla morte. La lettura di questi verbali scritti con la massima freddezza ed indifferenza suscitano una profonda impressione.

A ciò che riguarda la varietà delle torture non si deve dimenticare che l'Inquisizione dipendeva per lo più, a tale riguardo, dal giustiziere ufficiale e così per necessità i sistemi applicati erano quasi identici a quelli dei Tribunali civili. Nelle prime epoche dell'Inquisizione esistevano solo due qualità di torture, la garrucha cioè una carrucola e la tortura dell'acqua.


Paolo Garcia menziona solo queste due forme di supplizio come le più antiche e di sicuro effetto. Il primo che era conosciuto in Italia con il nome di « strappado », consisteva nel legare le mani dietro la schiena, alla vittima, che issato per mezzo di una corrucola per le mani stesse veniva lasciato penzolare con un peso attaccato ai piedi. Nel 1620 qualcuno propose che i movimenti del giustiziere fossero lenti perché diversamente dopo il primo dolore violento prodotto dallo strappo, la sofferenza diveniva più sopportabile; che il condannato venisse issato sino a che le punte dei suoi piedi sfiorassero appena la terra, indi che gli venisse chiesto di dire la verità; in caso negativo bisognava legare il peso ai piedi e sollevarlo due pollici dalla terra. Durante il supplizio veniva cantato ripetutamente il Miserere.

La tortura dell'acqua era già più complessa. La vittima veniva distesa di una « escalera », specie di steccato, sul quale si trovavano delle punte pungenti; ad una estremità di questo letto di tortura si trovava una cavità che raccoglieva il capo del torturato, fissato con un anello di ferro che immobilizzava anche la gola. Delle corde scabre cosiddette « cordeles », che penetravano profondamente nelle carni, fissavano le braccia e le gambe. Il « costezo », ossia puntello, gli spalancava la bocca mentre la « toca », specie di imbuto di tela, gli veniva profondamente incastrato nella gola; in esso versavano da un « garru » cioè brocca, l'acqua. Generalmente l'acqua versata era più di una pinta. Se la vittima cominciava a soffocare allora di quando in quando gli levavano la toca e cercavano di convincerlo a dire la verità.

La crudeltà della tortura si uniformava al grado di sopportazione del torturato al quale generalmente venivano fatte ingoiare sette od otto pinte di acqua. Nel 1450, nel caso del sacerdote Diego Garcia, gli inquisitori si accontentarono di una sola pinta e poi lo assolsero. Nel caso di Manuel Diaz al Messico nel 1596, vennero applicati i cordeles. Gli girarono sette « garrotes » attorno alle braccia ed alle gambe, gli misero la Toca nella gola, facendogli ingoiare non meno di 17 pinte di acqua.
A Toledo nel 1593, nel caso di Maria Rodriguez, l'operazione venne fatta in due riprese; mentre la donna sedeva sul « bangrillo » le applicarono le cordeles con otto giri, poi venne distesa sull'escalera ed anche là le applicarono il garrote poi le fecero bere l'acqua, ma già alla seconda pinta essa fu presa da vomito per cui la sciolsero ed essa cadde svenuta a terra. Il giustiziere la alzò e le fece indossare la camicia, indi le dissero che se non avesse confessato, avrebbero ricominciato daccapo. La donna giurò di aver detta la verità ed allora sospesero le torture. Per nove mesi la disgraziata rimase rinchiusa nella sua cella fino a che la « Consulta de fé » votò la sua liberazione.
Probabilmente poco tempo dopo, questo genere di tortura venne soppresso e sostituito da altra tortura ritenuta meno crudele. Nel 1616 la Suprema si rivolse al Tribunale di Cordova per avere la descrizione del « garruche », della « silla », della « trampa » e del « tramezzo » che venivano applicati nei casi più gravi. Il Tribunale dispose che la « silla » non era più in uso poiché non poteva neppure essere considerata come mezzo di tortura, mentre il « garruche » venne soppresso perché provocava slogature e lussazioni. Da più di trent'anni, tanto il Tribunale dell'Inquisizione quanto quello civile ne avevano abolito l'uso, come pure della padella di carbone rovente, delle lamiere roventi, mattoni roventi, la toca di sette pinte, il depinonello, il carobaio, il taborillas, il sueno e diversi altri arnesi di tortura.

I mezzi moderni in quell'epoca erano il garrote ed i cordeles di cui si conoscevano tre sistemi, cioè la « vuelta de manqué », la « manicured » e la trazione della vittima sul « potro ».
Le istruzioni descrivevano molto particolareggiatamente l'applicazione di tutte queste torture. In generale la vittima veniva trascinata presso il potro, ovvero palo, gli venivano legate le braccia sul petto e i suoi piedi, passati attraverso un anello che si trovava all'estremità inferiore del palo stesso, poggiavano su sottili e taglienti assicelle di legno; ottenuta così l'immobilità del prigioniero cominciava il supplizio. Non vi poteva essere un limite nella crudeltà della tortura.

Le istruzioni del 1561 dicono che la legge considerava la tortura come un procedimento a cui non si poteva dare un regolamento rigido, ma doveva essere affidato al senso di giustizia dei giudici. Gonzalo Bravo nei suoi scritti del 1662 scrive soltanto che la Giustizia dell'Inquisizione giudicava a seconda dei casi e perciò era necessario il tatto e la saggezza del giudice, nonché l'abituale senso di pietà del Santo Uffizio.
Secondo l'opinione di un altro competente le torture avrebbero dovuto essere applicate al massimo per mezz'ora, tuttavia in molti casi esse vennero protratte sino a due o tre ore. Nel caso di Antonio Lopez nel 1648 a Valladolid la tortura incominciò alle otto del mattino e fu continuata fino alle undici ed il braccio destro della vittima rimase storpiato; due settimane dopo il Lopez voleva impiccarsi, ma ne fu impedito; tuttavia nel corso del mese morì in seguito al supplizio patito.
Simili casi non erano affatto rari. Gabriel Rodriguez venne torturato in tre riprese a Valencia nel1710 e poi condannato alla prigione e sfuggì alla galera soltanto poiché, in conseguenza delle violenze delle torture, era rimasto storpio per tutta la vita.
Ma nemmeno i casi letali mancavano. Nel 1623 venne torturato a Valladolid, Diego Enriques. Durante il procedimento avvenne un incidente e l'Enriquez venne riportato nella sua cella. Due giorni dopo il medico proponeva di farlo trasportare all'ospedale, ciò che fu fatto, ma la vittima vi morì.
Nella maggioranza dei casi, l'imputato sopportava la tortura e da questo fatto si potrebbe trarre la conseguenza che queste torture non fossero nemmeno tanto crudeli.

In linea di massima indubbiamente era così, ma la sorprendente capacità di sopportazione di qualche individuo dimostra che non si può generalizzare. Così per esempio Tomas de Leon venne torturato con i mezzi più svariati il 5 Novembre 1638 a Valladolid, ma egli sopportò tutto e soltanto in ultimo ci si accorse che aveva rotto il braccio sinistro.
Allo stesso Tribunale nel 1643, durante le torture eseguite sulla sessantenne Eugracia Rodriguez la « balestilla » le strappò un dito dal piede finché al primo giro della « manquerda » le fratturarono il braccio sinistro. Allora interruppero il supplizio, senza aver potuto estorcere alcuna confessione dalla vecchia; ma a nulla valse la resistenza della donna poiché poco dopo sotto il peso di nuove prove dovette confessare la sua eresia.
Un altro esempio di fibra eccezionale fu Florencia de Leon che sopportò la « balestilla », tre giri di « manquerda » ed il « potro » senza confessare, tuttavia poté salvarsi soltanto con la conciliazione e venne condannata ad una pena carcerarla.

Il procedimento ed il suo effetto sulla vittima sono riprodotti assai bene dalle relazioni dei segretari, scritte in un tono spassionato ed oggettivo, atto a dare esatte informazioni alla « Consulta de fé ».
Queste relazioni contengono le più diverse gradazioni di orrori nonché le grida ed invocazioni delle vittime.
In seguito riporteremo una di queste relazioni, nella quale si tratta di una mite applicazione della tortura ad acqua, al Tribunale di Toledo, su una certa Elvira de Campo, accusata di non voler mangiare carne suina e di cambiare la biancheria ogni sabato sera. La donna riconobbe l'azione addebitatale, ma negò di esservi stata indotta per motivi di eresia e perciò fu considerata ostinata e trascinata alle torture.

 

Venne condotta dinanzi agli inquisitori i quali dopo qualche esitazione le comunicarono l'intenzione di torturarla e per evitare delle sofferenze, la invitarono a dire la verità. Indi lessero la sentenza mentre la donna inginocchiata implorò che le venisse detto ciò che doveva confessare.
La relazione continua così:
La donna venne trascinata nella camera di supplizio ed ancora invitata a confessare la verità; siccome essa non confessava ordinarono di spogliarla continuando le persuasioni. Ma essa tacque e quando era già nuda disse agli inquisitori
« Ho commesso tutto ciò che mi ascrivete, senores ed ho testimoniato falsamente contro me stessa perché non voglio esser così torturata. Giuro su Dio che io non ho fatto nulla ».
Allora la obiurgarono ammonendola di non confessare falsamente, ma di dire la verità. Le legarono le braccia, mentre essa gridava : « Ho detto la verità, che altro potrei dire? ». Le gridarono ancora di dire la verità ed essa rispose: « Ho detto la verità, che altro devo dire? ». Le venne passata una corda attorno al braccio ed aspramente girato, continuando sempre a persuaderla a dire la verità; ma la donna pareva non aver nulla da confessare.
Cominciò a gridare dicendo
« Ho commesso tutto ciò di cui mi accusate. E quando le ordinarono di dire particolareggiatamente la verità rispose : « Ho commesso tutto ciò che dite di me ». Poi continuò : « Ditemi quello che debbo confessare poiché io non so che dirvi ».
Le ordinarono di dire tutto quello che aveva commesso, dicendole che era torturata per quello ed un altro giro venne dato alle corde. La donna gridò : « Lasciatemi, senores e dite quello che debbo confessare, non so quello che ho commesso; oh mio Dio, abbi misericordia di me povera peccatrice! ». Le corde furono ancora girate mentre essa implorava « Lasciate le corde soltanto un poco, senores, e ditemi che cosa debbo confessare, perché non so quello che ho commesso. Non mangiavo carne suina perché il mio stomaco non la sopportava; ho commesso tante altre cose e ve lo dirò se rilascerete le corde ». Le corde vennero invece strette ancora di più e la sciagurata gridò « Scioglietemi le corde e confesserò la verità. Lasciatemi per l'amor di Dio; ditemi quello che devo confessare. L'ho commesso, sì l'ho commesso. Voi mi straziate, seniores. Lasciatemi e ví dirò tutto ». La esortarono di nuovo a dire la verità ed essa rispose « Ma io non so che cosa debbo dire; sono colpevole, senores, sì sono colpevole. Oh, il mio braccio! Lasciatemi e vi dirò tutta la verità! ». Le dissero di dire tutto, ma essa continuò a lamentarsi : « Ahi, ahi, senores, lasciatemi, non mangiai di quella carne perché non desideravo di mangiarla ».
Girarono ancora le corde, mentre la donna implorava Non ne mangiavo, senores perché non desideravo di mangiarla. Lasciatemi e vi dirò tutto ».
Le ordinarono di confessare tutti i suoi reati contro la Santa Fede Cattolica, ma la donna per tutta risposta seguitava a dire « Portatemi via di qui e ditemi quello che debbo confessare. Oh, il mio braccio! Ahi, il mio braccio! ». Ripeté molte volte il suo grido e poi continuò « Non ricordo nulla; ditemi ciò che debbo confessare. Oh, me
miserabile! Rilassate solo un poco; ho commesso tutto ciò che mi imputate; mi spezzate il braccio; ma che cosa debbo dirvi? Lasciatemi affinché possa ricordare. Non vedete che sono una donna debole? Oh, oh, mi si spezza il braccio! ». Continuarono a stringere sempre più le corde. « Ma non c'é pietà per una povera peccatrice? ». Gli inquisitori risposero che avrebbero avuto pietà se avesse detto tutta la verità ed ordinarono pertanto di girare ancora le corde. « Ma se ho detto già tutto! Ho commesso tutto quello che dite; non so che cosa dirvi ancora, senores, davvero non lo so ». Allora contarono i giri delle corde che erano diciassette. Ne dettero ancora uno e la corda si spezzò. Ordinarono quindi di coricarla sul potro e la donna continuò a lamentarsi
« Perché non volete dirmi, senores, ciò che debbo confessare? Fatemi mettere sul pavimento e vi dirò tutto senores, tutto quello che volete ».
Gli inquisitori insistevano perché raccontasse con particolari quello che i testi avevano detto « Come ho già detto, senores, non so nulla. Ho detto di aver fatto tutto ciò che dicono i testimoni. Oh, oh, oh, mi fate a pezzi! E vi avevo già detto di aver commesso tutto. Se voi sapete la verità, senores, per l'amor di Dio vi imploro di aver misericordia. Sciogliete questi ferri dalle mie braccia; mi ucciderete, oh, senores! ».
La legarono al potro e continuarono a chiederle di dire la verità, stringendole ancora più stretto il garrote. La donna implorò
« Ma non vedete che mi uccidete? Ho commesso tutto quello che mi imputate, lasciatemi andare per l'amore di Dio! Abbiate pietà di me ed allora potrò ricordarmi meglio di tutto. Se ho già confessato di non aver voluto mangiare carne di maiale, senores! ». Ripeté più volte questa dichiarazione mentre gli inquisitori insistevano nel chiederle perché non avesse voluto mangiare della carne e la donna rispose
« Per il motivo che dicono i testimoni. Non so come spiegarvelo; oh me miserabile, perché non riesco a spiegarmi? Questa gente vuole ammazzarmi, non mi ascolta. Oh, lasciatemi ed io certamente vi spiegherò tutto, oh lasciatemi perché impazzisco ».
Le ordinarono severamente di confessare il suo peccato, ma la donna continuò « Non so dirvi di più; non ho più la mente a posto; Dio mi é testimone che se potessi lo direi. Ahi, senores, senores, nessuno ha pietà di me? Mi strappate L'anima: ordinate di lasciarmi. ho fatto tutto per mantenere la legge ».
Gli inquisitori domandarono quale legge avesse voluto mantenere.
« Quella legge » disse la donna, « che hanno detto i testimoni, ma io non ricordo più nulla; di che legge state parlando? Oh, sciagurata la madre che mi portò nel suo seno ».
Le chiesero ripetutamente di precisare la legge di cui aveva parlato, ma la donna rimase ostinata, ed infine tacque completamente.
Dettero un altro giro al garrote, chiedendole ancora di precisare la legge. Infine la donna riprese a parlare « Se lo sapessi, senores, lo direi; oh, oh, oh; mi uccidono! Ahi, il mio cuore! Dio é testimone che mi uccidono innocente. Oh, me misera! ».
Le comunicarono che se non si fosse decisa a dire la verità le avrebbero versato acqua nella gola, ma la Campon continuava a dire che non poteva dir nulla e che era una povera peccatrice. Allora le misero la toca nella gola ed essa strillò « Levatemela che soffoco! ».
Ma le versarono una brocca d'acqua nella gola, ordinandole ancora di confessare la verità. La sciagurata chiese il confessore dicendosi moribonda. Le risposero che avrebbero continuato la tortura finché non avesse detto la verità, ma nonostante diverse ripetizioni la donna non proferì più verbo. Allora l'inquisitore comprese che era esausta dalla tortura e ne ordinò la sospensione.

Non vale la pena di raccontare ancora gli altri miserevoli particolari. Fecero passare quattro giorni poiché l'esperienza dimostrava che questo era il tempo necessario perché le membra si irrigidissero, ciò che rendeva ancor più dolorosa la ripetizione del supplizio.
Portarono ancora la sciagurata donna nella camera di tortura. Completamente affranta, quando la spogliarono, implorò con voce che spezzava il cuore che il suo corpo venisse coperto. Ripeterono le domande, ma la disgraziata, durante la tortura diede delle risposte del tutto incomprensibili, cosicché la Inquisizione ebbe finalmente la soddisfazione di estorcere la confessione di eresia.

È impossibile leggere senza costernazione questi funesti rapporti e non si può comprendere come le innumerevoli contraddizioni che avvenivano nelle deposizioni estorte col supplizio dagli sciagurati condannati, possano essere state prese in considerazione da uomini di stato e legislatori. Il risultato di queste confessioni era quasi sempre una prova di pazienza e di capacità di resistenza, non però della verità. In qualche caso si trovarono uomini dal sistema nervoso e muscolatura tanto forti, che tutti gli sforzi del giustiziere non valsero a mutare il loro atteggiamento negativo. Le corde potevano tagliare le carni sino all'osso, le membra potevano essere contorte sino a spezzarsi, ma nulla valeva ad infrangere la fermezza di taluni eroi.

In altri casi bastava che l'accusato ravvivasse la caratteristica camera di giudizio, per cedere immediatamente sotto l'influenza della terribile visione e confessare tutto, non soltanto su se stesso ma anche dei migliori amici e parenti, dei quali poteva ricordarsi nello stordimento provocato dal timore.
Tuttavia pure pienamente consci di ciò, tanto i Tribunali civili, quanto quelli ecclesiastici, nonché gran parte del mondo cristiano, insistevano rigidamente sull'applicazione di quel sistema che a nome della giustizia portava ad un'infinita serie di atrocità.

La ratifica della confessione dell'imputato ritenuta necessaria, avveniva generalmente nel pomeriggio del giorno seguente il supplizio, per mantenere le 24 ore prescritte dalla legge.
Talvolta però facevano trascorrere più tempo, come nel caso di Caterina Hermandez, la quale il 13 Luglio 1541, non appena spogliata fu confessa. Ma la ratifica della confessione, da parte degli inquisitori avvenne soltanto il 27 luglio, con la scusa che avevano altri lavori più urgenti.
La dichiarazione contenuta nella ratifica, che la confessione non era provocata dalle torture, era una semplice menzogna, poiché in tutte le giurisdizioni era prescritta la ripetizione del supplizio in caso di revoca della confessione. Anche nel caso di Diego Fuceda nel 1528, il Tribunale di Toledo si atteneva a questa norma. L'imputato era accusato di luteranesimo e non appena fu messo al cospetto della camera dei supplizi si affranse e confermò tutto quello che dicevano i testimoni, ma non poté ricordare esattamente le deposizioni.
Siccome questa confessione era stata fatta evidentemente soltanto per timore delle torture, il supplizio venne applicato, ma già al primo giro del garrote lo sciagurato era talmente confuso che fece falsa deposizione contro se stesso. Gli inquisitori si accontentarono di questo e lo prosciolsero.
Ma simili casi non erano frequenti. Il procedimento era generalmente quello di ripetere le torture e se la confessione era seguita da un'altra revoca, suppliziavano anche per la terza volta la vittima.

Rimase tuttavia una questione insoluta se questa procedura potesse essere ripetuta all'infinito, o se vi fosse un limite stabilito. I diversi Tribunali facevano ampie discussioni in merito.
Nel caso di Miguel de Castro, il quale venne posto sotto accusa nel 1644 al Tribunale di Valladolid, l'accusato venne torturato come renitente. Egli confessò, poi rettificò la confessione, in seguitò la ritirò e la rettificò ancora. Durante la seconda tortura gli strapparono due dita e gli slogarono le braccia. Tuttavia egli ritirò ancora la confessione. Lo avrebbero torturato anche una terza volta, se il medico non fosse intervenuto ed allora la Suprema lo condannò alla prigione, alla penitenza ed a cento scudisciate.

Quando l'applicazione della tortura non aveva per risultato una confessione, avrebbe dovuto essere una prova di innocenza. Vi era una legge che prescriveva questa interpretazione, ma all'Inquisizione non piacque di osservarla e si trovava sempre qualche pretesto per poter derogare.
In molti dei casi in cui la tortura era sopportata con facilità, probabilmente il giustiziere era stato corrotto. Non doveva essere una cosa facile, data la severa segretezza che celava ogni azione del Santo Uffizio, ma tuttavia non era impossibile. Ad un « auto da fé » di Valencia comparirono 97 penitenti mori, tra i quali 53 vennero torturati, ma senza poter estorcere loro una confessione.
Poco dopo Luis de Jesus, giustiziere del Santo Uffizio venne processato per aver accettato denaro dai mori. Lo stesso caso avvenne a Cordova dove all'« auto da fé » del 13 Luglio 1723 comparve anche il giustiziere Carlos Felipe, accusato di aver protetto gli eretici e gli ebrei. Con molta discrezione l'Inquisitore si accontentò di scacciarlo dalla sua carica. Alquanto strano é il fatto che, sebbene le operazioni di tortura fossero a conoscenza del pubblico, l'Inquisizione si asteneva di darne pubblica lettura agli « auto da fé ».

Naturalmente sarebbe impossibile di dare una esatta statistica, per stabilire il numero approssimativo delle torture applicate dalla Inquisizione. Tuttavia disponiamo di alcuni dati succinti, come per esempio gli annali del Tribunale di Toledo tra il 1575 ed il 1610. In questo periodo furono posti dinanzi al Tribunale per eresia 411 persone tra le quali 109 vennero torturate. In due casi la tortura dovette essere smessa già all'inizio, poiché le vittime erano svenute; in sette casi il procedimento dovette essere sospeso prima dell'interrogatorio. Vi erano poi cinque casi in cui le vittime vennero poste « in conspectum tormentorum ». Complessivamente dunque si può dire che la tortura venne applicata sul 37 per cento degli accusati.

Quando alla fine del Secolo XVIII l'attività dell'Inquisizione diminuì notevolmente, furono anche più rari i casi di supplizio.
Una delle prime attività di Ferdinando VII, non appena asceso al trono, fu quella di vietare l'applicazione delle torture. Con Manoscritto Reale del 5 Febbraio 1803 vennero soppresse queste pratiche ad eccezione dell'applicazione delle catene. Nel contempo venne aperta istruttoria presso i vari Tribunali del Regno per stabilire se non fossero costretti gli innocenti a fare falsa confessione contro se stessi. Poco tempo dopo Ferdinando promulgò un severo ordine che vietava a tutti i giudici di applicare qualsiasi pressione o tortura, al fine di estorcere all'imputato od ai testimoni qualche confessione, nominando severi provvedimenti per le recidive.
Il Llorente pubblicò nella Gazette de France una lettera papale in data 14 Aprile 1816, con cui vietava severamente l'applicazione delle torture presso tutti i tribunali dell'Inquisizione. Questo ordine venne notificato agli Ambasciatori di Francia e di Portogallo.

Secondo l'« arancel » ossia tariffa, nel 1553 spettavano al giustiziere un real per l'applicazione della tortura e mezzo real per la sola minaccia dell'imputato. Ai Tribunali civili la vittima era obbligata a pagare il proprio giustiziere. All'Inquisizione invece, in quelle cause in cui i reati autorizzavano l'applicazione delle torture, la reclusione nelle carceri era sempre connessa alla confisca dei beni e così il Tribunale stesso provvedeva alle paghe che. come abbiamo visto, già nel 1681 ammontavano a quattro ducati per ogni opera di giustiziere. Nell'Inquisizione romana, dove le torture vennero applicate ancor più liberamente, in base alla deliberazione del 1614 della Congregazione l'imputato era esonerato dal pagamento delle spese di tortura.


L'ISTRUTTORIA


L'antica Inquisizione evadeva sollecitamente le cause dei colpevoli. Non appena essi erano gettati nelle segrete venivano sottoposti ad interrogatorio e quindi la causa veniva discussa. Più tardi però gli inquisitori fecero l'abitudine di citare gli imputati quando loro piaceva e non di rado protraevano le cause all'infinito, con grande disperazione degli arrestati. Tuttavia l'accusato poteva domandare, in qualunque momento, di essere interrogato, ciò che generalmente gli veniva accordato. Al primo regolare interrogatorio lo facevano giurare che avrebbe detto soltanto la verità, tanto sul momento, come in seguito e che non avrebbe detto nemmeno una parola di tutto quanto aveva visto e sentito in connessione con la sua causa.
L'arrestato doveva dare le sue generalità, denunc
iare la sua abituale occupazione e l'epoca del suo arresto. Dopo di ciò, trattandosi di caso di eresia, si apriva l'istruttoria che si estendeva su tutta la generazione della famiglia.

L'applicazione di questo sistema fu alquanto ridicola nell'istruttoria aperta nei confronti di uno schiavo negro mandingo, per via di pratiche superstiziose, nel 1763, a Lima. Lo schiavo aveva settant'anni ed era stato portato, ancora in infanzia, dalla Guinea e dopo tanti anni fu interrogato circostanziatamente circa i suoi genitori, nonni, zii e zie e gli fu fatto giurare che tutti questi appartenevano alla razza negra e che nessuno di essi era mai stato punito o multato dall'Inquisizione.
Dopo questi preamboli, gli rivolsero delle domande relative al suo battesimo ed a riti religiosi. Egli doveva fare il segno della croce ed infine riferire esattamente del suo passato, domanda sulla quale simili imputati rispondevano negativamente ed allora seguiva la cosiddetta ammonizione che era di tre specie.
Il testo di tali ammonizioni era minaccioso. Si faceva noto all'imputato che il Santo Ufficio non faceva mai arrestare senza motivi e senza prove sufficienti. Perciò lo avvertivano che rendendo omaggio a Dio ed alla Santa Vergine, esaminasse la propria coscienza e confessasse tutto quanto aveva commesso e quanto era a sua conoscenza sul conto di altri, senza tacere alcuna cosa ed astenendosi dalle menzogne. Con ciò si sarebbe alleggerita la coscienza e salvata l'anima da buon cattolico; inoltre gli avrebbero trattata la causa con la massima sollecitudine e col maggior riguardo possibile, mentre in caso contrario, lo avrebbero punito severamente.

Questo ammonimento esercitava un'efficace pressione sull'imputato, particolarmente se esso, col solito sistema dei rinvii senza fine, si era già tormentato per mesi e qualche volta per anni, rinchiuso nella sua cella, isolato dal mondo e meditando sul possibile esito della sua causa, che raramente si poteva attendere favorevole.
Il sistema spietato di non far conoscere all'imputato l'accusa sollevata contro di lui sembra sia stato messo in uso solo gradualmente; attorno. al 1530 si faceva ancora qualche cenno al genere di accusa, ma verso il 1540 divenne regola l'assoluto riserbo al riguardo. Solo verso la fine del segno di Carlos III e dopo la Restaurazione, l'Inquisizione concedeva, di volta in volta, un' «audencia de cargo», durante la quale si informava l'imputato della natura dell'accusa.

Il sistematico riserbo tenuto a questo riguardo diede ottimi risultati, agli effetti dell'istruttoria, fatto dimostrato dal caso di Angela Perez, svoltosi nel 1680, dinanzi al Tribunale di Toledo. Dopo essere rimasta per undici mesi nelle carceri, essa chiese una udienza, per conoscere il motivo della sua detenzione. Allora la avvertirono di averle già detto che nessuno veniva carcerato dall'Inquisizione senza che avesse peccato contro la religione e siccome la Perez insisteva di non aver nulla da confessare, la rimandarono in cella, esortandola a riflettere e ad alleggerirsi la coscienza.

Ancora più caratteristico era il caso di José Brunon de Vertis, sacerdote del Messico, il quale aveva mistificato alcune donne, dicendo di aver avuto delle visioni. Vennero arrestati tutti, ed il sacerdote venne incarcerato il 9 Settembre 1649. Nelle ripetute udienze invano chiedeva di essere informato sui motivi del suo arresto, strisciava letteralmente sulle ginocchia, dinanzi agli inquisitori, riferendo esattamente di tutti i suoi fatti e di quelli degli altri. Umilmente si dichiarò pronto a sottomettersi a tutte le imposizioni della Chiesa e di confessare tutto quello che volevano. La tensione nervosa era superiore alle sue forze e poco dopo diede segni di squilibrio.
Finalmente, il 30 Aprile 1656. morì, dopo essersi torturato in prigione per sette anni e mezzo, senza conoscere il capo d'accusa contro di lui. Venne sepolto in terra non benedetta e la causa venne proseguita contro la sua memoria ed i suoi familiari.

Durante il terzo ammonimento l'accusato veniva avvertito che se non avesse confessato, il procuratore avrebbe steso l'atto di accusa, in base al quale il processo sarebbe proseguito, ma ciò era soltanto un'astuzia per farlo parlare, perché l'istruttoria seguiva il suo corso, indipendentemente dalle sue dichiarazioni.
Sembra strana questa procedura, dato che all'atto dell'incarcerazione l'Inquisizione doveva possedere già qualche prova della colpevolezza dell'accusato, ma si desiderava conoscere i particolari della sua vita eretica.
L'usanza di fare intervenire nei processi penali l'avvocato difensore era stata appena applicata in Inghilterra, che l'adottò pure l'Inquisizione. Ciò può essere considerato come una prova del desiderio di fare giustizia assoluta.
Nella cancelleria Reale, organizzata da Ferdinando ed Isabella, vi erano due « abogados de los pobres ».

Nel Medio Evo l'Inquisizione non concedeva all'imputato l'avvocato difensore e la legge canonica dichiarava esplicitamente che un avvocato il quale avesse assunto la difesa di un eretico doveva essere considerato disonorato in eterno.
Che il pericolo che minacciava gli avvocati difensori troppo zelanti non fosse una pura ipotesi é dimostrata dal caso di Ferdinando Casafranca supremo Tesoriere di Catalogna, il quale venne arso vivo all' « auto da fé » del 17 Giugno dello stesso anno. Suo suocero venne torturato e la madre gettata nelle segrete dove morì. Il difensore di Casafranca Francisco Franch, Procuratore reale, venne perseguitato dall'Inquisizione per le sue prestazioni nella causa, sebbene egli fosse divenuto nel frattempo Governatore della Cancelleria reale. Ferdinando, che si interessava vivamente di lui, fece scrivere il 28 Febbraio del 1505, dal Capo Inquisitore Deza, all'inquisitore Francesco Pays de Sotomayor, ma ciò non poté salvare l'avvocato da amare umiliazioni.

Il principale requisito dell'« abogado de los presos » era la limpieza propria e quella della moglie. L'avvocato, poco alla volta, divenne un semplice dipendente dell'Inquisizione che, contro uno stipendio adeguato, svolgeva un'attività in perfetto accordo con quella degli inquisitori, Nel 1584 uno degli avvocati pregò il Tribunale di Valencia di mettere a sua disposizione un posto all'« auto da fé », per poter presenziare all'esecuzione dei suoi clienti. La domanda venne accolta e fu assegnato all'avvocato l'ultimo posto, fra i dipendenti stipendiati.

Effettivamente il cosiddetto avvocato difensore non era che un mezzo per estorcere una deposizione all'imputato, al quale compito lo rendeva molto adatto la sua posizione come consigliere amichevole. Il contatto fra l'avvocato ed il suo cliente era tuttavia vietato, se non nella presenza degli inquisitori e del segretario, il quale metteva a verbale tutto il colloquio.
Le conseguenze che potevano ricadere sull'avvocato alla minima deviazione dal suo dovere sono illustrate dal caso di Isabel Galdoz, che venne posta dinnanzi al Tribunale di Toledo nel 1621 per eresia. Il suo avvocato, Argendona, prese a cuore sinceramente la sua difesa poiché la poveretta gli pareva davvero innocente. Egli le domandò pure se non avesse qualche nemico che potesse averla accusata falsamente. L'atteggiamento del legale dispiacque agli inquisitori, i quali, dopo un dibattimento sommario, mandarono la donna al patibolo e licenziarono l'avvocato dalla carica.

Se nonostante simili ostilità da parte degli Inquisitori, si trovava qualche avvocato che difendesse con zelo l'imputato, ciò era generalmente dovuto alle forti somme offerte dai parenti al difensore stesso. Infatti originariamente, i parenti ed i figli dell'accusato potevano comunicare liberamente col difensore, fornendolo di informazioni e nominandogli dei testimoni.
Malgrado la segretezza assoluta del procedimento giudiziario, l'Inquisizione teneva a che l'accusato avesse un difensore, per salvare le apparenze, ma con gravi minacce si assicuravano della discrezione dell'avvocato.
Quando nel 1565, Pedro Hernandes venne posto dinanzi al Tribunale di Toledo, accusato di calvinismo, egli fu immediatamente confesso, si convertì alla Fede Cattolica ed implorò grazia; respinse l'offerta di un difensore ed accettò soltanto quando gli dissero che era assolutamente necessario l'intervento di un consulente giuridico.
Come il solito si trattava di pura formalità, poiché egli fu arso al rogo, il 17 Giugno dello stesso anno.

Oltre all'avvocato difensore, nelle cause contro minorenni figurava anche un'altra persona, che chiamavano « curador » ossia tutore, che doveva pure confermare all'imputato le paterne cure dell'Inquisizione.
Nel 1638 Blanca Enriquez, comparsa dinanzi al Tribunale di Valadolid con l'accusa di parteggiare per gli ebrei, dichiarò di aver ventidue anni e così, data la sua minore età, le venne assegnato il « curador ». Fra l'altro essa depose di essersi convertita, nove o dieci anni prima a Cordova. La causa fu rinviata alla Suprema, la quale scoprì che la precedente istruttoria contro la donna si era svolta nel 1623, quando aveva già quindici anni e quindi ora doveva averne trenta e non ventidue. Siccome in questo caso l'assegnazione del curador, aveva condotto su falsa pista l'istruttoria, la Suprema ordinò che il processo fosse rifatto da capo.

Quando leggevano l'atto d'accusa all'imputato lo invitavano a scegliersi un avvocato difensore. Probabilmente gli citavano due nomi di persone a lui assolutamente sconosciute, ma nel maggior numero dei casi soltanto uno. Siccome l'imputato non aveva alcuna libertà di scelta, appena aveva dato il consenso veniva chiamato l'avvocato, che era già pronto ad attendere in anticamera.
Fra i motivi di assoluzione enumerati dal « Simancas », la minore età non aveva grande importanza, poiché, come abbiamo visto, l'imputato, non appena raggiunta l'età della responsabilità, veniva punito senza misericordia.

L'alienazione mentale costituiva un motivo assai più serio, inquantoché gli squilibrati erano considerati irresponsabili ed inviati all'ospedale. Con molta larghezza di vedute l'Inquisizione qualificava la stregoneria come manifestazione di deficienza mentale e le famose streghe come pazze. In quei tempi a Barcellona era accusata una certa strega di nome Juana Rosquells, la quale era considerata dai medici e dai consultori come alienata. Siccome non sapevano che fare si rivolsero alla Suprema, la quale ordinò l'assoluzione della strega. ma con una certa incongruenza chiese un deposito cauzionale.
Più interessante fu il caso del bracciante Juan Garcia di Toledo il quale si era vantato di aver avuto delle visioni. All'udienza diede risposte incomprensibili alle domande rivoltegli e quando la
« consulta de fé » gli chiese se avesse preferito cento scudisciate od essere collocato all'ospedale, egli molto saggiamente respinse entrambe le proposte e così la Consulta decise di sottoporlo ad un esame medico.
Ciò avvenne, ma in modo tanto superficiale da non poter dedurne alcuna conclusione. La « Consulta de fé » si riunì ancora e decise che se il Garcia avesse continuato a sragionare gli si dovevano infliggere cento scudisciate, fosse o no pazzo, infine però lo prosciolsero.

Quando veniva accertato che l'imputato era alienato di mente, generalmente lo si inviava all'ospedale, ma prima del 1570 bisognava prima chiedere il parere della Suprema. Gli ospedali stessi non erano sempre disposti ad accogliere simili ammalati, ma nel 1574, un ordine severo della Suprema impose il ricovero obbligatorio.
Un caso significativo fu quello di Benito Ferrer, il quale portava abusivamente la veste del sacerdote e venne arrestato il 24 Agosto 1621 a Madrid dalla polizia vescovile. Già sembrava che egli venisse assolto quando il 20 Settembre, durante la Messa Solenne, essendo in libertà provvisoria, egli salì improvvisamente all'altare e strappò dalle mani del Sacerdote officiante, la Santa Ostia, all'istante dell'elevazione, e, frantumatala tra le mani, la gettò a terra, gridando : « Dio traditore, ora mi vendico! ».

Il sacrilegio suscitò naturalmente grande scandalo ed indignazione generale. La Corte Vescovile apprese il fatto, ma tuttavia era disposta a considerarlo come il gesto di un pazzo, quando l'Inquisizione pretese per sé il colpevole, inviandolo a Toledo per l'istruttoria, con l'ordine che il suo processo si svolgesse sollecitamente. Prima di trasportarlo da Madrid, il Procuratore lo esaminò. Il Ferrer dichiarò di essere perfettamente assennato, spiegando che l'ostia non era consacrata, poiché, tanto il sacerdote officiante, quanto i fedele presenti alla Chiesa, erano tutti demoni malefici.
Il Ferrer era indubbiamente pazzo, poiché nelle udienze successive, nel 1623, dichiarò di essere stregato e che tutti quelli che incontrava erano demoni. Il suo avvocato difensore chiese l'esame psichiatrico, ciò che venne fatto, col risultato che lo dichiararono simulatore. Tuttavia la « Consulta de fé » non era concorde nella votazione e perciò a Suprema ordinò di fare indagini sul passato dell'imputato. Vent'anni prima, come cittadino Catalano, egli si era preparato ala carriera ecclesiastica, ma due conventi lo respinsero, mentre altri due lo congedarono dopo pochi mesi di attività. I Tribunali di Barcellona e di Valencia indagavano su queste tenui tracce, ma i Frati di quei tempi erano già morti o dispersi e solo uno o due ricordavano ancora il Ferrer, il quale era noto come uomo poco intelligente ed evidentemente invaso dal diavolo. La prossima « Consulta de fé » votò all'unanimità la scomunica, ma la Suprema non approvò questa decisione e propose come estremo tentativo la tortura.

Quando gli lessero la sentenza, il Ferrer dichiarò semplicemente di essere pronto a tutto quanto la Maestà Divina avesse deciso per lui. Indi venne torturato ferocemente per tre ore; grondava sangue da ogni parte del corpo, ma fra i gemiti e gli urli non si poteva apprendere altro che : « Il figlio di Dio ha patito di più ed io sono qui per rendergli omaggio ». Poi chiese una Bibbia, sulla quale dimostrò che tutti i suoi torturatori erano diavoli.
Se la tortura doveva essere considerata come prova, questa volta non si poteva più dubitare della pazzia dell'accusato, ma la Suprema non fu ancora contenta ed ordinò che fossero rinchiuse nella sua cella due persone fidate, col compito di osservarlo attentamente.
L'8 Febbraio del 1623 gli inquisitori dichiararono assennato il Ferrer, viceversa il medico della Suprema era del parere che egli soffrisse di fissazioni. La Suprema esitava ancora e fece prolungare il periodo di osservazione, sino a che la Consulta, all'unanimità, lo dichiarò pazzo. Però la Suprema, stanca ormai della questione che pareva non aver fine, il 21 Gennaio 1624 condannò il Ferrer ad essere arso vivo.

Francisca Garcia venne arrestata come « alumbrada », ossia come uno di quegli individui semipazzi ed inclini al misticismo, contro cui l'Inquisizione lottava accanitamente. La donna confessò sinceramente i propri istinti perversi, i quali, secondo lei, erano in armonia con i comandamenti di Dio. Durante la lunga udienza parlò tanto confusamente che venne ritenuta pazza. Furono chiamati i medici che dichiararono che essa era tocca al cervello, ma l'Alcade osservò che non si poteva accertare se fosse deficiente o scellerata. L'esitazione durò per due anni, quando finalmente decisero di lasciarla nelle carceri.
Seguì un altro esame, del quale riferirono che l'imputata piangeva, gridando senza rispondere alle domande, ripetendo incessantemente che la sensualità era cosa grata a Dio. Passarono altri diciotto mesi ed essa finalmente chiese udienza ed implorò in ginocchio, piangendo, che le venisse insegnato a vivere onestamente. Dichiarava di saper bene che avrebbe dovuto accontentarsi del marito, ma che solo con l'aiuto di Dio avrebbe potuto resistere alla tentazione.
Convocarono immediatamente la « Consulta de fé », la quale
votò ancora la detenzione, poiché era da temere che la donna si abbandonasse ad ogni sorta di bassezze quando avesse riacquistata la libertà.

Passarono ancora due anni e mezzo, quando il segretario e l'Alcade annunciarono che la sciagurata non diceva più perversità e così il 1° Luglio del 1655 fu ordinata una nuova istruttoria.
La Suprema però era già stanca della questione ed in tono energico esigette un immediato dibattito. A questo punto cessano i rapporti e non si hanno dati precisi sullo svolgersi della causa, tuttavia é evidente che la disgraziata donna venne giudicata come assennata, perché la sentenza la condannava a due anni e mezzo di segregazione cellulare, dove, se non fosse stata pazza, sarebbe certamente impazzita, per l'oscurità e per l'abbandono.

Nei primi periodi dell'Inquisizione, il lavoro di questa era in gran parte di porre sotto accusa gli assenti ed i morti. Le persecuzioni sistematiche, naturalmente, ebbero per conseguenza la fuga di migliaia di convertiti. In nessun modo si poteva conciliare con la politica dello Stato e della Chiesa un eventuale perdono dei peccati dei fuggitivi e dei morti. Se non si poteva stabilire un esempio, facendo bruciare i corpi vivi, era sempre possibile esumare le ossa dei morti, oppure bruciarli in effigie.

In una simile linea di condotta, non poteva trovare nulla di eccepibile lo spirito di quell'epoca, né la giurisdizione latina. Nelle sfere intellettuali della Chiesa si era abituati già da tempo al pensiero di giudicare coloro che erano già comparsi davanti al giudizio divino e di far esumare le ossa di quegli eretici che fossero sepolti in terra benedetta.
La Giustizia non era più blanda nei casi di alto tradimento, quando si potevano porre sotto accusa i morti e sequestrare i loro beni.

Ancora nel 1600, nella Scozia, vennero portati al Tribunale i cadaveri del Earl of Gowrie e di suo fratello, perché fossero presenti al procedimento penale, col quale vennero condannati con tutte le regole all'impiccagione, allo squarciamento ed alla crocifissione. Nel 1605, Robert Logan of Restalrig, tre anni dopo la sua morte, venne dichiarato colpevole di partecipazione nella congiura Gowrie e le sue ossa furono esumate e portate al processo, mentre venivano confiscati i suoi beni.
Per quanto riguardava i fuggiaschi, era ritenuto assurdo, in tutta l'Europa, che l'assenza del reo potesse sospendere il procedimento a suo carico. Nell'Aragona i fuggitivi venivano diffidati a presentarsi entro quindici giorni; in caso contrario il processo continuava, ma essi avevano il diritto di ricorrere anche se fossero ritornati dopo la sentenza.

Si può farsi un'idea delle abbondanti entrate che ebbe l'Inquisizione da tali procedimenti, dalle annotazioni di uno degli scrittori di quel tempo, il quale asserisce che all'« auto da fé » del 25 Luglio 1485, a Toledo, vennero bruciate in effigie quattrocento persone ed il 25 Maggio del 1490 altrettante.

Il rito era di grande effetto. Costruivano un alto piedistallo, ricoperto tutto da un drappo nero, di fronte al palco degli Inquisitori; leggevano uno per uno i nomi dei condannati con la sentenza: ogni volta che un nome era chiamato si apriva il drappo e compariva un'effigie con la veste che gli ebrei usavano porre ai morti. Seguiva la scomunica dell'eretico, poi veniva eretto in mezzo alla piazza un alto rogo, su cui le immagini venivano bruciate insieme alle ossa. Dopo queste cerimonie i nomi dei giustiziati fuggiaschi venivano letti nella Cattedrale, con l'invito rivolto agli eredi di presentarsi entro venti giorni, perché in caso diverso l'eredità sarebbe spettata al Re.

Il proclama rivolto agli eredi ed ai figli dei defunti, nel 1484, chiamava per nome 61 morti, invitando i discendenti a difenderli. Vi erano inoltre quarantadue fuggiaschi, da difendere dall'accusa di parteggiare per gli ebrei.
Queste cifre potrebbero sembrare esagerate, specialmente per quanto riguarda la riesumazione dei peccati dei morti, se non vi fossero tante prove a conferma del lavoro in grande stile, eseguito con molto zelo dall'Inquisizione.
Questo audace ed irriverente procedimento, era basato sulle disposizioni del 1484, che ordinava di porre sotto accusa persone morte anche cinquant'anni prima, da buoni cattolici.

Considerata l'attività esuberante dei Tribunali di Ciudad Real e di Toledo, può apparire davvero superfluo che Torquemada, nel 1485, abbia dato nuove disposizioni, nelle quali ammoniva che l'accusa dei vivi non doveva impedire i processi contro i morti, perciò bisognava esumare i cadaveri e confiscare i beni dei deceduti.
Al grande, « auto da fé » del 15 Marzo 1488 lessero la sentenza che condannava un gran numero di morti, i cui poderi vennero confiscati, le ossa riesumate ed arse. Con questo procedimento vennero condannati migliaia di morti e gli eredi si trovarono privati della loro legittima proprietà. Questi giudizi procedevano sempre nella dovuta forma e senza contrasti, poiché nessuno degli eredi osava presentarsi a difendere il congiunto morto.

Se i morti non si potevano torturare, era sempre possibile disonorare pubblicamente la loro memoria. Le sentenze pronunciate sui morti erano ancora di maggior effetto di quelle dei vivi. Veniva dichiarato solennemente che il defunto aveva vissuto ed era morto da eretico. Il tenore dell'editto era il seguente:
« Ordiniamo che il giorno dell'auto da fé, l'effigie, raffigurante la persona, venga posta sul patibolo con in capo la mitria dei condannati e indosso un « sanbenito » su cui sia scritto il suo nome; poi si proceda all'esumazione delle ossa, perché possano essere distinguibili dalle spoglie mortali dei fedeli Cristiani e vengano consegnate alla giustizia, per essere bruciate, in espiazione dei loro gravi peccati. Se vi fosse iscrizione o stemma sulla loro tomba, venga cancellato, perché non rimanga traccia sulla terra, del peccatore. Inoltre ordiniamo che i suoi figli e nipoti, del ramo maschile, vengano interdetti in eterno dai pubblici uffici, dal montare a cavallo e dal portare armi »
.
Infatti non permisero mai a questi discendenti di portare qualsiasi abbigliamento fine, di seta o di panno, gioielli d'oro, d'argento o di corallo, né qualsiasi abbigliamento di gala.

L'esecuzione in effigie rimase anche in seguito, una delle principali attrattive degli « auto da fé ».
Alla grande solennità di Madrid, nel 1680, vennero portate alla testa del corteo le immagini di trentaquattro peccatori, però se ne bruciarono soltanto due. Esse avevano la mitria fiammeggiante sul capo, e sul petto una tabella, con i rispettivi nomi. Seguivano inservienti che portavano le cassette delle ossa riesumate.
A Granada, nel 1721 non vennero bruciati dei vivi, ma soltanto l'effigie di sette persone ed il cronista occasionale ci riferisce che lo zelo degli inquisitori non era inferiore nel dare alle fiamme i fantocci, che nell'esecuzione dei vivi. Nel corteo i fantocci erano portati dagli inquisitori, dall'Alguasil e dai segretari. Eccitati dall'esempio e dopo la lettura della sentenza, i ministri della Cancelleria reale si precipitavano dai palchi e giubilando portavano le effigi fino al « brasero » dove venivano bruciate. Ancora nel 1752 vennero portate in corteo le effigi di sei fuggiaschi e di una donna morta.

Dalla descrizione di questi fatti e del modo con cui si svolgevano le cause dell'Inquisizione, si rileva che il Santo Ufficio era ben lungi dall'essere quell'istituzione benefica, per la quale vorrebbero gabellarla alcuni scrittori del tempo ed anche moderni. In realtà esso agiva contro i principi della giustizia. La colpevolezza dell'imputato veniva stabilita a priori e mentre l'Inquisizione appoggiava con ogni cura l'accusa, la difesa era talmente falsata, che in fondo non era altro che una pura formalità. Il giudice, che molte volte era anche l'accusatore, era difeso dallo scudo dell'impenetrabile segretezza e doveva rispondere esclusivamente davanti alla Suprema.

LA SENTENZA

Il lavoro più importante del Tribunale era la compilazione della sentenza, che decideva le sorti dell'accusato. In ogni singolo caso, quando all' « auto da fé » si dava lettura della sentenza, non si tralasciava di dare il massimo rilievo alla gloriosa missione del Santo Uffizio, nonché all'inaudita scelleratezza dell'accusato, dimostrando come egli avesse meritata la punizione.
La sentenza era di due specie, con meritos e sin meritos. La prima descriveva particolareggiatamente le male azioni dell'accusato, mentre la seconda non conteneva che un accenno al carattere del reato.
La lettura della sentenza talvolta assorbiva molto tempo. Nel caso di Magdalena de la Cruz, la Beata truffatrice, la lettura della sentenza al Tribunale di Cordova durò dalle sei dei mattino fino alle quattro del pomeriggio.

La descrizione dei reati era seguita dalla sentenza « Cristi Nomine Invocato », dopo la quale gli inquisitori, se ritenevano che l'accusa fosse completamente provata dal Procuratore, dichiaravano l'imputato reo di eresia.
Ai carcerati, generalmente, non veniva comunicato, sino al mattino dell'« auto da fé », il destino che li attendeva ed a tale riguardo si osservava tale segretezza che quando, quindici giorni prima della cerimonia, a suon di tamburo e tromba veniva annunciato l' « auto da fé », gli artigiani, occupati nei diversi preparativi, non potevano più nemmeno avvicinare il palazzo dell'Inquisizione, per evitare che i detenuti potessero apprendere qualche cosa.
Al grande « auto da fé » di Lima, nel 1639, a quanto si diceva durante il proclama, chiusero l'aiutante negro del giustiziere in un luogo dove non potesse sentirlo, per evitare che riferisse qualche cosa ai prigionieri. Agli artigiani occupati alla preparazione delle mitrie, dei sanbenitos e dei Crocifissi, assegnavano pure una camera particolare, dove potevano lavorare isolati e li facevano giurare la segretezza. Il sistema dell'improvvisa rivelazione era caratterizzato anche da una proposta avanzata nel seno della Suprema, di evitare il raduno dei prigionieri nel cortile del palazzo il giorno delle esecuzioni, poiché questo portava generalmente a scene di disperazione, da parte dei congiunti che si trovavano fra gli spettatori; inoltre di far portare al condannato la prima colazione, come di costume,
in modo da fargli credere, fino all'ultimo momento, che quello era un giorno normale.

La disperazione provocata dall'incertezza che si protraeva senza limite, ebbe talvolta delle conseguenze tragiche, come per esempio nel caso di Diego Gonzales nel 1644 a Valladolid.
Al mattino del tragico giorno, quando il guardiano entrò nella sua cella, per portargli la colazione lo trovò semisvenuto in una pozza di sangue. Egli si era ferito una mano, con un chiodo, nel terrore di essere arso vivo e nella speranza di dissanguarsi.
Il Llorrente racconta un caso analogo di cui fu testimone nel 1781, quando un nobiluomo francese, di nome Michel Maffredes Rieux, si impiccò nella propria cella, ossessionato dall'insopportabile incertezza del suo distino.

Nell'Inquisizione medievale, gli inquisitori dopo di aver pronunziata la sentenza, avevano sempre il diritto di mitigarla o di renderla più severa, prima dell' « auto da fé ». Ciò era possibili, perché essi in realtà non avevano responsabilità di fronte ad alcuno, essendo l'unica autorità superiore la lontana Santa Sede di Roma. Viceversa l'Inquisizione spagnola aveva un'altra posizione, poiché la Suprema la teneva sotto una disciplina sempre più rigorosa.
Quanto alla severità dei Tribunali, in un primo tempo non si può generalizzare, perché tutto dipendeva dal carattere e dalle inclinazione dell'inquisitore. È certo però che le vedute proclive alla blandizia si manifestarono sempre più verso il declinare dell'Inquisizione.
Non era così in Francia, nonostante questo paese si considerasse di una civiltà molto superiori alla primitiva Spagna.
Per esempio Duval de Saucourt consigliere della Corte di Abbeville, che era ostile all'Abbadessa Villanourt, accusò il di lei nipote, un giovanotto di diciannove anni. Non seppe provare altro contro di lui che una volta non aveva levato il cappello al passaggio di una processione, deridendo i partecipanti e cantando canzoni immorali. Indubbiamente il giovane era di debole moralità e questa sua fama diffusasi nell'Abbazia di Abbeville, fu sufficiente perché fosse condannato alla recisione della lingua, alla mutilazione della mano destra e ad essere arso vivo.

Il condannato ricorse al Parlamento di Parigi, il quali, con quindici voti contro dieci, approvò la sentenza, però con il cambiamento che la mutilazioni fosse preceduta dalla decapitazione, ciò che venne eseguito il 1° Luglio del 1766. Gli annali dell'Inquisizione spagnola non riferiscono più ripugnante crudeltà di questa.
L'Inquisizione si vantava di non fare alcuna differenza fra le diverse posizioni sociali ed a questo riguardo effettivamente le sue norme segnano un contrasto favorevole di fronte ai Tribunali civili. Infatti la legge spagnola usava molti riguardi ai privilegi della nobiltà e comminava delle pene assai più miti che non alle classi medie ed inferiori. All'Inquisizione però la cosa era invertita, poiché era adottato il principio che per i reati commessi contro la fede spettasse alla nobiltà una pena più severa che non al proletariato. D'altronde è vero che usavano un riguardo del tutto particolare per i membri della Chiesa, verso i quali dimostravano la massima indulgenza, principalmente per evitare lo scandalo che avrebbe menomata l'autorità della Chiesa.

Da questi casi caratteristici dell'Inquisizione si rileva che il Santo Uffizio aveva sempre alla mano qualche formula, che si poteva applicare per ogni eventualità. Finché il potere della Suprema non si era sviluppato al punto di esercitare un controllo esteso sui vari Tribunali, l'applicazione di queste formule dipendeva dal temperamento dell'inquisitore, poiché la segretezza lo difendeva da ogni responsabilità. Anche quando le sentenze dell'Inquisizione potevano apparire blande, vi era immancabilmente la malignità, con la quale si aveva cura che restasse sull'individuo e sulla sua famiglia un perpetuo disonore.
Fra le punizioni più leggere era la più diffusa la rampogna. Pochi accusati potevano evitarla, quantunque risultasse chiara la loro innocenza. Quanto liberamente si sia fatto uso di questa punizione é dimostrato dai verbali del Tribunale di Toledo. In tutti i casi in cui non si poteva dimostrare la colpevolezza, l'imputato veniva solennemente rampognato ed ammonito per l'avvenire.
La facoltà di riprendere l'avvocato difensore faceva parte dei privilegi del Capo Inquisitore che vi rinunciava solo rare volte. La severità del castigo dipendeva dall'inquisitore, il quale, in seguito alla continua pratica, aveva una grande abilità nell'intuire subito il punto debole dell'imputato e vi colpiva senza pietà. Vi erano molti accusati che temevano più la rampogna che non l'ammenda e non vi é da stupirsi se qualcuno discuteva con gli inquisitori per peggiorare la sua posizione in modo da essere punito con una ammenda, anziché con la rampogna.
Poco si é trovato negli incartamenti dell'Inquisizione del testo di queste rampogne, tuttavia casualmente se n'é trovato uno compilato con circostanziata fraseologia.
Era stato steso dal giureconsulto Juan de Menosca, già presidente della Cancelleria di Granada. Era rivolta contro un individuo incolpato di aver detto che il convincimento nella Fede era una cosa
puramente soggettiva. Per questa sua osservazione, il Menosca lo rampognò per dieci pagine, scritti fittamente con pungente beffa. Il colpevole era indubbiamente una persona poco intelligente, ma la sua mancanza tuttavia non valeva una simili valanga di parole.

Il puro sospetto dell'eresia era sufficiente per essere qualificati colpevoli. Il castigo, sia nella sala di dibattimento che all'« auto da fé », era sempre accompagnato da grande pompa e solennità. L'imputato doveva giurare davanti al Crocifisso, con una mano sul Vangelo, abbracciare la religione Cattolica, di detestare e di condannare ogni genere di eresia; fare solenne voto che sarebbe rimasto sempre fedele alla Religione della Santa Madre Chiesa e figlio ubbidiente del Papa e che avrebbe sempre rispettati i voleri della Santa Sede. Inoltre doveva giurare che avrebbe sopportato, con umiltà e rassegnazione, la pena inflittagli. Trattandosi di casi piuttosto gravi l'imputato doveva giurare che qualora non avesse mantenuto il suo voto, si sarebbe considerato come recidivo, sopportando con pazienza la pena comminata per questo reato.

Si é già parlato dell'esilio, come di una delle abituali pene inflitte dall'Inquisizione. Nella sua forma usuale, l'esilio menzionava città e paesi dove era vietato al condannato di soffermarsi. Sull'elenco del divieto figurava generalmente anche Madrid, l'attuale residenza dell'imputato e diverse altre città, generalmente quattro o cinque, dove l'attività del colpevole era conosciuta.
Sebbene questa pena fosse molto comoda per l'Inquisizione, tuttavia poteva considerarsi molto irragionevole, poiché mentre per qualche colpevole non significava che un piccolo inconveniente, apportava ai commercianti ed agli industriali la completa rovina. Ma simili considerazioni non influivano affatto sulla decisione dei giudici e soltanto nelle relazioni del Tribunale di Toledo si riscontrano centosettantadue condanne all'esilio.
La durata dell'esilio era sempre determinata e variava da qualche mese sino a vita, ma per lo più si stabiliva per qualche anno.
L'Inquisizione non infliggeva frequentemente l'espatrio, ma quando lo credeva opportuno non esitava ad applicarlo.

La giurisdizione reale durante il Regno di Alfonso X aveva ordinato che le case dove gli eretici tenevano riunione passassero senz'altro di proprietà della Chiesa. Ma quando nel Secolo XIII si provvide a stabilire delle norme di procedura giuridica, fu emanata la disposizione che ogni casa, in cui si trovassero degli eretici, doveva essere demolita, poiché la maledizione gravava persino sull'area, che così non era più adatta per erigervi abitazioni.
Questa disposizione venne accettata dalla Chiesa ed adottata da tutti i paesi che avevano aderito all'Inquisizione.

Anche l'Aragona la riconobbe e quando nel 1340 venne bruciato il Francescano Bonaneto, mentre i suoi discepoli erano dispersi per il mondo, il loro convento, a Villafranca de Panades, venne raso al suolo.
Quando il diritto di sequestro passò nelle mani dell'Inquisizione, pareva che le opportunità finanziarie prendessero il sopravvento sullo zelo religioso, poiché durante un processo del 1539, svoltosi contro numerosi ebrei, rivelatosi che nella casa dove tenevano i loro convegni, era stato profanato un Crocifisso, il Tribunale aveva chiesto immediata autorizzazione per poter demolire da casa e costruirvi una Cappella; da Suprema rispose con molta ponderazione, rivolgendo diverse domande circa il valore, da posizione e l'abitabilità della casa e siccome in quei tempi si trovava a corto di mezzi, confiscò da casa allo scopo di tenervi gli « auto da fé » ed altre cerimonie del genere.

Un altro saggio provvedimento venne preso dalla Suprema nel 1565, inquantoché impedì da demolizione di una casa di gran valore, che poi risultò non essere nemmeno di proprietà degli accusati. Al grande « auto da fé » del 14 Luglio 1632, che venne onorato dalla presenza di Filippo IV, fra le vittime arse vive ad rogo vi erano anche Miguel Rodriguez e sua moglie, Isabel Nunez Alvarez. Nella casa da doro abitata non solo erano state tenute adunate di eretici, ma era stata flagellata una statua di Cristo, che in seguito sudò sangue e parlò ben tre volte ai suoi profanatori che la bruciarono.

L'indomani dell'esecuzione l'Inquisizione iniziò le pratiche per la demolizione dello stabile, ma il suo legittimo proprietario, Barquero, giureconsulto che godeva di una stima universale, sollevò protesta e non si calmò fino a che non gli fu versata una somma a titolo di indennizzo. Dopo di ciò non si perdette tempo ed il Capo Inquisitore Cristobad Ibarra, accompagnato dall'Ammiraglio di Castiglia, dal Principe di Medina e da altri nobili, da un gran numero di inservienti ed operai, nonché da un distaccamento di alabardieri, marciò, con le bandiere spiegate e a suon di tamburo, dinanzi alla casa, dove il segretario dell'Inquisizione diede lettura del proclama del Tribunale di Toledo, che ordinava da demolizione della casa in cui era stata oltraggiata da statua di Gesù Cristo. Indi, sempre ad suono dei tamburi, gli operai si avventarono contro da casa, con tale zelo che la sera stessa non ve n'era più traccia. Tutto il popolo aiutò a rovesciare i muri, a trasportare i mattoni e partecipò ai vari lavori di demolizione. Il fondo però non rimase vuoto; fecero una colletta e vi costruirono un convento di Cappuccini che venne nominato « Paciencia », in ricordo della santa sopportazione dimostrata dall'effigie del Redentore, sotto il barbaro insulto dei profanatori.

LE PENE

La flagellazione era uno dei mezzi di punizione preferiti dagli inquisitori e veniva inflitto molto frequentemente e senza pietà. All'« auto da fé » di Saragozza, del 6 Giugno 1585, di 79 penitenti ne vennero flagellati 22; a Valencia, nel 1607, su 42 penitenti, 24 subirono la stessa sorte. Considerando che sull'elenco dei dipendenti del 1746, José Garcia Bentura figurava come notarlo de acoteciones, cioé Cancelliere delle flagellazioni, con uno stipendio di 2.500 reales, si potrà farci un'idea dell'importanza che aveva questa pena nella Giustizia dell'Inquisizione. Si può facilmente immaginare che la flagellazione, particolarmente se inflitta alle donne, aveva un effetto eccitante sulla folla.

Il numero generalmente prescritto d'elle scudisciate era duecento, sebbene in taluni casi si limitassero anche a cento. Probabilmente le duecento scudisciate significavano l'estremo limite di quanto poteva sopportare un disgraziato individuo, indebolito dalla lunga prigionia. Non vi era pietà, né per l'età, né per il sesso. All'« auto da fé » di Valencia, il 7 Gennaio 1607, Maddalena Conteri, una bambina mora, tredicenne, dopo di aver patita la tortura, venne ancora condannata a cento scudisciate. Il moro Jaime Chulayla, di settantasei anni, ne ebbe altrettante dopo la tortura. Pure cento scudisciate furono inflitte all'ottantaseienne Francisco Marquino, sospetto di stregoneria, mentre la sessantenne Maddalena Cahete venne flagellata, poiché il suo mal di cuore impediva di eseguire su di lei la tortura alla quale era condannata.

Con i progressi del Secolo XVIII questa pena venne inflitta sempre più rare volte e solo dietro particolare ordine del Capo Inquisitore. Durante la Restaurazione, tra il 1814 ed il 18 20, fra i « votos secretos » non figura più la deliberazione di questa pena, poiché se anche fosse stata proposta la Suprema l'avrebbe vietata.
Il Clero naturalmente non era soggetto all'onta della flagellazione coram populo e la pena veniva applicata soltanto entro le mura dei conventi.

La verguenza, ossia vergogna, equivaleva alla flagellazione, con l'omissione delle striscie di cuoio.
I colpevoli venivano condotti in corteo attorno alla città, denudati sino ai fianchi, col « píè de amigo » alla gola per indicare la loro colpevolezza, mentre il Messo comunale annunziava ad alta voce la sentenza. Naturalmente questa pena era considerata più mite della flagellazione, che sostituiva talvolta, per l'eccessiva debolezza o l'età avanzata del penitente che non avrebbe potuto sopportare le frustate.

La verguenza era particolarmente umiliante per le giovani donne, ma sembrava tuttavia più umana della gogna, poiché in questo caso la penitente non era esposta alla lapidazione da parte della rude folla.
La verguenza venne applicata relativamente di rado. Durante i rigorosissimi « auto da fé » del 1721 e 1727 la proporzione dell'applicazione di questa pena rispetto alla totalità dei penitenti fu di 13 su 97.

Il mordaza, o morso, come abbiamo visto era considerato come un mezzo che aumentava notevolmente il sistema di torture di cui faceva parte. Talvolta veniva applicato insieme alla flagellazione ed alla verguenza, quando il penitente era un ostinato rinnegatore di Dio o provocatore di qualche scandalo. Lo strumento veniva applicato anche agli « auto da fé » per gli eretici ostinati ed incorreggibili, quando ci si preoccupava che durante il tragitto, dalle carceri al luogo di esecuzione, essi potessero suscitare un'impressione nociva sulle persone di non troppo solida fede. L'applicazione non era frequente, sebbene nell'epoca in cui l'Inquisizione temeva la diffusione del protestantismo se ne sia fatto parecchio uso; così nel grande
« auto da fé » di Sevílla, nel 1559, il mordaza venne applicato a dodici vittime.

La galera, come punizione per idee in disaccordo con la Fede, sembra ancora più crudele della flagellazione. La pena era di origine spagnola, sconosciuta ancora nell'antica Inquisizione e, quanto pare, fu l'avarizia e lo spirito risparmiatore di Ferdinando a farne sorgere l'idea. Vedremo in seguito quanto siano stati d'accordo il Sovrano e il Santo Uffizio nel risolvere il problema di provvedere all'alimentazione dei condannati al carcere perpetuo. Ferdinando, i cui estesi possedimenti della Sicilia esigevano il mantenimento di una poderosa flotta, pensò di utilizzare ai remi delle sue galere i prigionieri sani e forti. Il servizio di galera era tanto spietatamente severo che gli antichi fuaros aragonesi lo vietarono, sotto pena di una forte ammenda.

Soltanto la Cortes di Tarzona. nel 1552, permise ai giudici di infliggere il servizio di galera, come pena contro i banditi. All'incirca nello stesso tempo Ferdinando si rivolse all'Inquisízíone, la quale non era soggetta ad alcuna legge, per accordarsi circa l'utilizzazione degli ergastolani di cui traboccavano le carceri, per rifornire le scarse file dei galeotti. Siccome il principale pensiero dell'Inquisizione era quello di impedire la ricaduta dei colpevoli, il Sovrano la autorizzò a commutare l'ergastolo in un'altra pena duratura, come la deportazione in colonia o all'eterna schiavitù sulle galere reali, dove col lavoro forzato i condannati avrebbero potuto rendere servigi al paese.

Non può esservi dubbio che l'Inquisizione si sia valsa largamente di questa vantaggiosa proposta, quando si pensi alla facile occupazione di Napoli, nonostante gli scarsi mezzi finanziari. Anzi sembra che l'ingordigia dei Tribunali dell'Inquisizione, di liberarsi dal peso finanziario costituito dai detenuti, abbia spinto i giudici ad arruolare a questi servizi degli individui di debole costituzione, del tutto inadatti, poiché la Suprema fu costretta a dichiarare, nel 1506 che gli uomini di età superiore ai sessant'anni, i sacerdoti e le donne non potevano essere utilizzati a tali scopi.

La Inquisizione si valeva del suo potere, riservandosi di condonare totalmente od in parte la condanna alla galera: questo era un altro mezzo di forti introiti per la tesoreria, poiché questo condono era concesso ai condannati che potessero pagare forti somme o che avessero parenti disposti a riscattarlo.
Lo dimostra il caso di Andres de Frias, il quale era stato condannato alla galera; il poveretto, trovandosi in condizioni fisiche miserevoli, chiese che gli venissero condonati gli ultimi due anni di galera, ma trattandosi di un individuo privo di mezzi la Suprema, interpellata, negò la grazia, dicendo che la colpa del Frias era assai grave, poiché egli aveva ucciso, a Roma, il Procuratore dell'Inquisizione dottor Puente ed in seguito non aveva fatto penitenza. Il condannato tuttavia neppure in tale occasione volle fare la confessione del reato addebitatogli; il condono fu quindi rifiutato ed il disgraziato morì di patimenti.

Abbiamo già visto come coloro che facevano confessioni e deposizioni incomplete fossero condannati alla flagellazione e molte volte anche alla galera, mentre il buen confidente, ossia spontaneamente confesso, veniva lusingato con promesse di indulgenza. Tuttavia, nel 1573, la Suprema promulgò una Carta accordata, con cui ordinava che anche fra questi buenos confitente si dovessero destinare alle galere coloro che avessero costituzione fisica adatta. Tale disposizione venne confermata nel 1591. Il Santo Uffizio non si macchiò mai di un'indegnità più grave di questa e la vasta applicazione di questi ordini é dimostrata dai rapporti degli inquisitori di Saragozza, diretti a Filippo, con i quali richiamavano la sua attenzione sul loro zelo, essendo riusciti a provvedergli trentanove galeotti, per sette anni e questo nell'Aragona dove la condanna alla galera sarebbe stata vietata, persino per i più gravi reati.

Nei settantadue « auto da fé », tra il 1721 ed il 1727, dei quali abbiamo particolareggiate descrizioni, vennero condannate 97 persone alla galera e soltanto sette al servizio coloniale. Alle colonie venivano inviati i condannati di condizione sociale più elevata, ma verso la fine del Secolo XVII, quando l'Inquisizione cessò di fornire uomini alle galere reali, questi vennero inviati a Bada jos, Oran, Ceuta ed in altre guarnigioni o colonie di lavoro. L'abolizione, venne gradualmente e fu completa solamente ai principi del Secolo XVIII ed allora i condannati, senza distinzione, vennero tutti deportati in colonia.
Con la scomparsa delle galere e data l'enorme quantità di condannati, si pensò all'istituzione, sia in colonia che nel paese stesso, dei bagni penali che contenevano ogni specie di lavori forzati. Nel 1742, il Tribunale di Toledo condannò Fafael Nunez Hernandez, per certi reati, ad otto anni di esilio, dei quali cinque anni li dovette passare al servizio reale nelle malsane miniere di idrargirio, ad Almeden.

Le ultime condanne alla galera, rintracciabili nelle cronache, sono avvenute nel 1745, quando Nicolas Serrano venne condannato a Toledo, per bigamia, ad otto anni di galera, mentre Miguel Gutierrez e Francisco Garcia vennero condannati, a Valladolid, per aver protetto gli ebrei, a dieci anni della stessa pena. Dopo queste sentenze le condanne alla galera a quanto sembra scomparvero definitivamente e nemmeno per la bigamia se ne fece più uso, come risulta da una sentenza dei Tribunale di Valencia del 1781.
Per le donne l'equivalente della pena di galera era il servizio di infermiera, negli ospedali o negli istituti correzionali.

Non é certo un vanto per l'Inquisizione romana di aver adottato la pena della galera, seguendo l'esempio spagnolo. Carena asserisce che l'applicazione di questa pena era la più frequente contro ogni genere di reati.
Sembra assurdo che la conversione alla Santa Religione Cattolica, la quale era sempre raffigurata come una pietosa madre, che accoglie benignamente i suoi figlioli traviati, fosse considerata come fa
cente parte della condanna e come una punizione. Tuttavia era così e la Suprema insorgeva, senza esitazione, contro coloro che condannavano la conciliazione. Sarebbe difficile trovare un esempio più caratteristico. Nel perverso fanatismo, di questa coercizione.

L'apostata o l'eretico che si allontanavano dalla Chiesa, dopo che essa li aveva ricevuti in seno, per mezzo del battesimo, potevano essere riammessi, soltanto se rinnegavano apertamente tutti i loro errori ed imploravano la conciliazione.
All'inizio dell'Inquisizione, quando l'editto della misericordia fece presentare migliaia di penitenti che confessarono i loro peccati ed implorarono la conciliazione, il rito era relativamente semplice.

Secondo le descrizioni di Jan Andrea, del 1484, l'Inquisizione si atteneva alle seguenti formalità. Gli inquisitori dichiaravano che il penitente era stato un apostata eretico, il quale seguiva il rito e le funzioni degli ebrei, provocando con ciò contro sé la punizione di legge. Ora però, come dichiarava e confessava, si era convertito e desiderava ritornare alla Santa Religione, col cuore puro ed i sentimenti sinceri ed era pronto ad accettare la punizione da infliggersi ed implorava di essere conciliato con la Santa Romana Chiesa.
Alla fine dell' « auto da fé » seguiva la sconfessione della vita precedente del peccatore. Ciò era rassomigliante al « de vehementí ajuratio » e il colpevole doveva dichiarare che in caso di ricaduta si sarebbe sottomesso alla punizione stabilita dalle leggi canoniche. Infine il peccatore otteneva la regolare assoluzione, mentre il giorno seguente gli veniva letto il solenne ammonimento che in caso di recidiva sarebbe stato arso vivo.

Come risulta dalla descrizione dell' « auto da fé » di Madrid,del 1632, questo rito era di grande effetto. I penitenti venivano condotti dinanzi all'inquisitore che, mentre si inginocchiavano, leggeva loro un breve catechismo e ad ogni domanda i penitenti dovevano rispondere : « Sì, credo ». Indi il Segretario leggeva ad altavoce la formula dell'assoluzione ed il Capo Inquisitore solennemente la impartiva. Seguivano le preghiere di rito, mentre il coro della Cappella reale cantava il Miserere ed il Cappellano dell'Inquisizione colpiva con la sua bacchetta la spalla di ciascun penitente. Infine il Capo Inquisitore recitava i salmi e le preghiere, mentre gli incaricati levavano il drappo nero di cui era stato coperto il Crocifisso, in segno di lutto. L'assunzione terminava col canto di altri inni liturgici.
Sembrava una beffa, nelle funzioni solenni, che la conciliazionenon venisse negata nemmeno alle effigie dei morti, ma siccome discuteva le azioni dell'Inquisizione, era universalmente riconosciuta la
sua teoria, secondo la quale in seguito alla esumazione delle ossa, lo spirito dell'eretico sarebbe stato presente al processo fatto alle sue azioni terrene e si sarebbe raccolto, cercando una nuova vita oltremondana, in seno alla Fede. Siccome egli non poteva comparire in carne ed ossa la conciliazione veniva fatta in effigie, poichè si aveva bisogno di emettere una sentenza di confisca per i suoi beni.

Il processo si svolgeva regolarmente e naturalmente doveva terminare con l'assoluzione, mentre l'Inquisizione non trovava nulla di sconveniente nel fare la parata per le vie, con l'effigie dei morti e di eseguire la solenne commedia della conciliazione dinanzi al popolo.

Nemmeno la tenera età del penitente impediva all'Inquisizione di praticare la conciliazione. All'« auto da fé » di Madrid, nel 1632, venne conciliata una bambina dodicenne, di nome Catalína Mendes, la quale venne condannata ad indossare il sanbenito ed a sette mesi di carcere. A Toledo nel 1659 vennero conciliate due bambine, ebree portoghesi, di dieci anni, Beatriz Jorje ed Anna Pereira; alla prima tolsero immediatamente il sanbenito, mentre alla seconda inflissero la confisca dei beni e quattro mesi di carcere.

La pena dell'ergastolo venne inflitta a quegli eretici i quali dovettero essere forzati a chiedere la conciliazione con la Chiesa. Effettivamente così avevano ordinato il Papa ed il Re, prima ancora che l'Inquisizione fosse organizzata e l'istituzione si attenne rigidamente a questa legge. Ma l'ergastolo si dimostrò ben presto fonte di disaccordi, poiché per quanto lauti fossero i guadagni dell'Inquisizione, questi prigionieri da mantenere portavano un forte carico di spese.
Torquemada, con le sue disposizioni del Dicembre 1484, affidò la manutenzione delle carceri ai tesorieri, ciò che dimostrava che i Sovrani riconoscevano i loro obblighi, ma, nella perpetua confusione di quei tempi, non facevano regolari versamenti a questo scopo. È ben vero che Ferdinando, dietro preghiera degli inquisitori, ordinò al proprio tesoriere di costruire un ergastolo, ma giustamente dobbiamo dedurre che quest'ultimo evitava saggiamente di dar seguito a quest'ordine come a quello relativo al mantenimento dei prigionieri.

Nel 1492 quando il Tribunale condannò Brianda de Bardaxi a cinque anni di prigione, essa venne internata nella torre del Castello Saliana e più tardi venne trasferita al « Santo Sepolcro » di Saragozza. Il fatto é che in principio, nella mancanza di carceri, i i detenuti venivano rinchiusi in castelli, ospedali, conventi ed anche nella propria casa, ma ciò solo transitoriamente, perché l'Inquisizione pregò il Sovrano che il Tesoriere facesse costruire un'apposita prigione per ogni Tribunale, con piccole capanne ed una cappella, dove i prigionieri avrebbero potuto udire la Messa ed attendere ognuno al proprio mestiere. Col ricavato dei prodotti confezionati dai detenuti si sarebbe potuto alleviare la grave spesa che incombeva all'Inquisizione per la cura ed il mantenimento dei carcerati. Fu a questo punto che l'inconveniente venne ovviato con l'invio di molti prigionieri al servizio delle galere reali.

Dove le carceri esistevano la disciplina doveva essere blanda, poiché nel 1512 la Suprema promulgò una disposizione generale, con la quale autorizzava i Tribunali a permettere ai miserabili ergastolani l'accattonaggio, a turno, nella città. Unica condizione era che essi non dovevano togliersi il sanbenito ed alla sera dovevano rientrare in carcere ad un'ora fissata. Più tardi però furono smessi gli sforzi di mantenere il sistema carcerario e probabilmente per ragioni economiche, Ximenes ordinò, nel 1514, che i penitenti conciliati trascorressero il periodo di penitenza nella propria abitazione.
In tal modo il bottino rimase all'Inquisizione, mentre la spesa del mantenimento venne appioppata interamente alle disgraziate vittime, rendendo loro quasi impossibile provvedere al proprio sostentamento, tanto più che l'obbligo di vestire il sanbenito faceva sì che la popolazione li sfuggisse.

Indubbiamente sarebbe stato un dovere dell'Inquisizione provvedere alle carceri, dove avrebbe potuto collocare questi miserabili, anche per evitare una contaminazione del popolo. Ma questo dovere veniva trascurato e l'Inquisizione diede chiaramente a comprendere ai propri detenuti che dovevano andare a mendicare se non volevano morire di fame. Che la morte di fame non fosse una cosa insolita risulta dal piano di riforma di Carlo V, nel 1518.
La Suprema, nel 1570, si mise all'opera per realizzare questa riforma, tanto necessaria. Ordinò ai Tribunali di affittare degli stabili per adibirli a carceri, sino a che non fosse possibile di acquistare degli edifici. Inoltre dovevano assumere personale fidato per le cariche di carcerieri. Non é possibile stabilire con certezza se tutti i Tribunali abbiano eseguito questo ordine o meno, ma probabilmente avevano ottemperato e con ciò venne cambiata anche la denominazione delle carceri. Il « carcel perpetua » divenne « casa de la penitencia » o « de la misericordia ».
L'Inquisizione ostinatamente rifiutava di addossarsi il gravame del mantenimento dei propri detenuti, imponendo ad essi di provvedere con i propri mezzi. Dove vi erano carceri si trovava solo un esiguo numero di prigionieri, sebbene le condanne alla prigione fossero molto frequenti. Filippo nel 1461 si occupò persino dell'opportunità di liberarli in massa.

Ma il progetto reale non si realizzò e gran parte dei detenuti guadagnò la sua vita tagliando la legna. La cosa si sviluppò a tal segno che i commercianti di legnami sollevarono protesta, dichiarando che la presenza di costoro provocava scandalo dovunque. Effettivamente i commercianti in legname avevano perduto metà dei loro guadagni, mentre i condannati, che erano usciti seminudi dalle carceri, si erano presto arricchiti.
Nonostante questa mancanza di rigore l'Inquisizione simulava di aver mantenuto l'antico rigore, secondo il quale era qualificato l'abbandono delle carceri come ricaduta. Praticamente però la mancanza non consisteva nell'abbandono delle carceri, che, come abbiamo visto, era non soltanto tollerato, ma incoraggiato dall'Inquisizione, ma nel fatto che i prigionieri usciti si liberassero del sanbenito.

È caratteristico il caso di Juan Gonzales, il quale fuggì, il 3 Luglio 1645, dalla « casa de la penitencia » di Valladolid. Non appena uscito ricuperò il denaro prestato prima di essere arrestato, ma poi perdette tutto al gioco, si ubbriacò, andando a dormire sotto le mura del convento Carmelitano. Il giorno seguente, svegliatosi, temendo di essere punito, gettò il sanbenito e si mise a vagare in cerca di lavoro. Arrivò così ad Irun, col progetto di varcare la frontiera verso la Francia, ma un sacerdote che lo aveva visto a Valladolid lo riconobbe e lo consegnò alla polizia. Così venne rinchiuso di nuovo nelle segrete di Valladolid.
Il Procuratore sosteneva che la fuga e l'abbandono delsanbenito lo avrebbero qualificato come un ostinato rinnegatore, che doveva essere adeguatamente punito, tuttavia egli venne condannato solo a cento scudisciate ed alla continuazione del carcere perpetuo.

Con la rinnovazione delle persecuzioni degli ebrei le condanne al carcere aumentarono notevolmente. All' « auto da fé » di Granada, del 21 Dicembre 1720, vennero condannate 27 persone alle carceri, mentre nei 61 « auto da fé », tra il 1721 ed il 1727, furono condannati all'ergastolo 740 individui. È difficile immaginare come si sia provveduto al collocamento di tanti prigionieri, poiché, verso il 1750, soltanto tre tribunali avevano proprie carceri, cioè quelli di Cordova, di Granada e di Muncia. Ciò non voleva dire che gli altri non avessero delle carceri, ma soltanto che non avevano detenuti, mancando i mezzi per mantenerli.

Effettivamente in quei tempi la detenzione penitenziaria era quasi abolita, ma sarebbe avventato asserire che negli anni del tramonto dell'Inquisizione questo genere di punizione fosse cessato. La durata della carcerazione venne diminuita, come la severità, anche per non aggravare la posizione dell'Inquisizione di fronte al popolo, che già era stanco del suo predominio.
Nel Medio Evo la Chiesa riconosceva come degna punizione dell'eretico soltanto l'ergastolo.
Ben presto però la giustizia comprese che l'esecuzione letterale di questo principio cozzava contro un'impossibilità materiale. Bernaldes scrive che soltanto a Sevilla sino al 1488 vi erano 5000 conciliazioni ed eretici condannati all'ergastolo. Ma dopo quattro o cinque anni vennero tutti liberati, vestiti del sanbenito. Col tempo tolsero anche il sanbenito, per impedire che nel paese si vedesse questo spettacolo che troppo ricordava al popolo l'esistenza dell'eresia.

A Barcellona, appena sistemato il Tribunale, si stabilì una differenza tra le varie condanne all'ergastolo. Alcune venivano promulgate "cum misericordia", altre "absque misericordia".
La mancanza di disciplina provocò l'opposizione delle autorità che professavano principi più severi. Nel 1590, mentre Ximenes era ad Orano, la Suprema tenne un Consiglio a questo proposito, dove, a quanto si diceva, l'unico rappresentante dell'opposizione era il sostituto provvisorio di Ximenes, Principe Arcivescovo Royas.
Non si sa quale decisione sia stata presa, ma probabilmente essa favoriva i punti di vista più blandi, poiché nel 1616, Ximenes e la Suprema ritennero necessario che ogni sentenza che infliggeva il carcere e l'abbigliamento con sanbenico, fosse di carattere permanente, in rispondenza alle leggi canoniche.

La tendenza a diminuire la durata della carcerazione ottenne il sopravvento verso la metà del Secolo XVI e Simancas riferisce che la pena di carcerazione permanente venne ridotta a tre anni, supposto che il penitente mostrasse un vero pentimento. La durata della carcerazione venne ridotta principalmente per motivi economici, poiché questo diritto, come molte altre dispense, si mostrò una fonte di introito.
Così, per esempio, una donna mora, di nome Daimiel, condannata all' « auto da fé » di Toledo, a sei mesi di carcere, dopo solo un mese di detenzione presentò un ricorso per essere rimessa in libertà e, come era d'uso, disse che suo marito avrebbe pagato quanto gli inquisitori desiderassero. La questione fu ben presto risolta, inquantochè il marito della Daimiel si accordò sul pagamento di quattro ducati, con l'inquisitore Pedro Alonzo, importo che fu
destinato alle spese di un « auto da fé ».

Per la pena di carcere non vi era limite di età giovanile, al disopra del limite di Toledo, ad esempio, condannò per protezione di ebrei, Pedro Garcia, figlio undicenne di un operaio di Aguda, alla carcerazione. All' « auto da fé » di Cuenza, per questo stesso reato, venne ordinata la dodicenne Escolastica Gomez ed il quattordicenne Diaz Jorje, pure alla carcerazione, mentre il 30 Ottobre 1701 un ragazzo sedicenne fu condannato all'ergastolo.


IL SANBENITO


Il sanbenito ossia l'abbigliamento dei penitenti era sempre connesso alla conciliazione e formava parte integrante della sentenza detta carcel y abito. Non era questa un'invenzione dell'Inquisizione spagnola, sebbene difficilmente si possa accettare la dichiarazione di uno storico spagnolo, secondo il quale il sanbenito avrebbe avuto le sue origini sin dalla colpa di Adamo ed Eva, quando i peccatori per ordine di Dio si prepararono degli indumenti colle pelli di animali, corrispondenti ai saco bendito, in uso allora presso i Tribunali.
L'abbigliamento di tela da sacco, cosparso di cenere, portato dai penitenti nelle epoche primordiali della Chiesa, non era più in uso, ma era inevitabile che i penitenti dell'Inquisizione fossero distinti da un abbigliamento particolare. Sin dall'inizio dell'istituzione, nel Secolo XIII, questo abbigliamento era contraddistinto da due croci gialle, una sul petto ed una sul dorso. Questo abito, chiamato originariamente saco bendito, divenne nota sotto l'Inquisizione col nome abbreviato di sanbenito.
All' « auto da fé » di Toledo, il 4 Dicembre 1486, 700 penitenti dovettero indossare, e tenerlo per un anno, questo abito, sotto pena di essere considerati recidivi. La pena era assai più rigorosa per coloro che avevano chiesto la conciliazione solo dopo la sentenza. Nel 1490 Torquemada ordinò che i penitenti portassero per tutta la vita un sanbenitilo di panno nero o grigio che pendeva sul petto e sul dorso ed era contrassegnato con una croce rossa.

Questo capo di vestiario si doveva portare al disopra degli abiti, come marchio di vergogna, e perciò era considerato come punizione molto severa. Nel 1514 Ximenes fece sostituire la croce con l'« Aspa de San Andres » ossia croce di Sant'Andrea. Infine le disposizioni del 1561 prescrissero un abito di panno o di tela giallo, contrassegnato con due croci di Sant'Andrea, rosse. Coloro che si presentavano all' « auto da fé » indossavano invece un sanbenito nero, sul quale erano dipinte delle fanciulle e talvolta dei demoni, che spingevano gli eretici nell'inferno.
Nei primi periodi dell'Inquisizione il portamento del sanbenito era considerato equivalente alla carcerazione permanente. Quando l'eresia era di poca importanza e la conversione sincera e spontanea, il sanbenito era considerato solo come simbolo che si doveva indossare durante l' « auto da fè » ; cionostante chi lo indossava era macchiato di perenne vergogna.

All'« auto da fé » del 15 Marzo 1722 vennero condannati a due mesi di carcere e ad un pari periodo di sanbenito, due bambini quattordicenni, Manuela Diaz e Maria di Mondeza.
Dal fatto che nella sentenza era esplicitamente detto che i penitenti non dovevano presentarsi in pubblico, senza il sanbenito, si può dedurre che non fosse obbligatorio nella propria casa. L'abbandono del sanbenito era calcolato come una grave mancanza, punita come la mancata osservanza della penitenza e bisognava confessarlo all'editto della fede, come gli altri peccati.

Vi fu un'occasione in cui questa mancanza veniva commessa su larga scala ed impunemente. Durante la ribellione di Palermo contro l'Inquisizione, nel 1516, i penitenti gettarono via, in massa, i sanbenitos. Quando si ristabilì l'ordine ed il Tribunali riprese il funzionamento si fecero vari tentativi per ripristinare il sanbenito, ma senza risultati.
Quantunque sia stata spietata l'imposizione del sanbenito, questo genere di punizioni era un'eredità della vecchia Inquisizioni; soltanto l'astuzia spagnola lo rese ancora più crudele per fomentare l'odio contro l'eresia. Ciò consisteva nel fatto di aver conservato nelle chiese i sanbenito dei morti, con l'iscrizione dei nomi e dei relativi peccati commessi in vita dai defunti, per marcare di vergogna i discendenti.
Questa usanza si diffusi solo gradualmente. Nel 1512 la Suprema portò una decisione, secondo la quale per volontà del Re e del Primate Arcivescovo i sanbenitos dei penitenti del Campo de Calatrava dovevano essere esposti al pubblico nelle chiese, ad eccezione di quelli di coloro chi si erano presentati duranti il periodo dell'indulgenza.

L'uso si ira diffuso anche in Sicilia, dove divenne uno dei principali moventi della ribellione del 1516, durante la quali i sanbenitos vennero strappati dalle pareti delle chiese. La ripugnanza generale assunse tali proporzioni che verso la fine del Secolo non era più possibile ripristinarla.
L'Inquisizione curava tanto meticolosamente questo marchio di vergogna perenne, che quando i sanbinitosi esposti nella chiesa si sciupavano col tempo i le iscrizioni divenivano illeggibili si provvedeva a rimpiazzarli con altri.
Originariamente i sanbinitos erano esposti solamente nelle Cattedrali delle città nelle quali risiedeva l'Inquisizione, ma più
tardi gli inquisitori ritennero che in questo modo il marchio di vergogna non fosse abbastanza vicino ai discendenti delle vittime e perciò ordinarono che i sanbenitos venissero esposti nelle chiese parrocchiali da cui avevano dipeso i singoli colpevoli.

Nel 1519 la Suprema ordinò il trasferimento di certi sanbenitos a Cuenza, ma l'ordine venne eseguito con una certa riluttanza, al punto che nel 1529 dovette essere ripetuto. Allora Lope de Leone ed Alvaro Hernandez, residenti a Belmonte, presentarono una domanda alla Suprema, nella quale dicevano che le loro mogli erano già conciliate con la chiesa ed avevano già fatto il loro periodo di sanbenito. Pregavano perciò che i loro sanbenitos, anziché a Belmonte, venissero esposti a Quintanar, luogo di nascita di entrambe. La Suprema rispose il 15 Aprile del 1529 di aver già ordinato al Tribunale che i relativi sanbenitos venissero appesi sulle mura dei palazzi delle due donne, in un luogo ben visibile al pubblico, perché tutti potessero vedere che esse erano conciliate con la Chiesa.
Sebbene gli interessati riuscissero a rinviare a lungo l'esecuzione dell'ordine, tuttavia il 9 Novembre del 1548, i sanbenitos delle due signore vennero esposti nella chiesa di Belmonte.

Le stesse chiese, a quanto pare, non vedevano di buon occhio questo disonore dei luoghi consacrati. A Cuenza venne tentato di nascondere i sanbenitos, ma il Tribunale presentò una lagnanza alla Suprema, la quale ordinò ai curati delle chiese di curare che, nemmeno nelle ricorrenze festive, venisse appeso qualche cosa davanti ai sanbenitos, in modo che essi rimanessero sempre visibili al pubblico.

Nella seconda metà del Secolo XVIII pare sia diminuito lo zelo dei Tribunali per questa usanza, poiché sebbene tenessero molti « auto da fé » soltanto in poche chiese venivano esposti i sanbenitos. La Suprema non tardava ad ordinare ai Tribunali di compilare un elenco dei conciliati, esponendo nelle chiese un numero corrispondente di sanbenitos e rispettivamente rimpiazzando con nuovi quelli sciupati.
In considerazione della grande importanza di tale procedimento agli effetti del servizio divino la Suprema esigeva un elenco completo entro quattro mesi. Questa disposizione scosse alquanto la noncuranza dei Tribunali, ma solo transitoriamente poiché nel 1691 la Suprema fu costretta a ripetere l'ordine rilevando che da molto tempo non avevano esposti nuovi sanbenitos nelle chiese e che i vecchi erano molto sciupati e le iscrizioni illeggibili.

Ciò può far credere che l'antica usanza fosse prossima al tramonto. Nella Cattedrale di Madrid si eseguivano opere di restauro e durante i lavori furono messi a parte i sanbenitos, in una camera dell'Inquisizione. A lavoro ultimato il Tribunale dichiarò al Capo Inquisitore Beltram che non si sarebbe leso né il servizio divino, né il pubblico, se questi sanbenitos non venissero più appesi. Beltram approvò, dichiarando che se il Capitolo non si fosse opposto, non v'era difficoltà a cessare questa esposizione.
Risulta effettivamente da un'annotazione in calce ad una lettera, che i sanbenitos non erano più esposti.

Non si può supporre che quando la Corte di Cadiz, il 22 febbraio 1813, soppresse l'Inquisizione, avesse fatto eccezione ai sanbenitos che rievocavano tanti terribili ricordi. Un decreto promulgato nello stesso giorno conteneva la disposizione che nessuna punizione doveva colpire di vergogna i parenti ed i discendenti. Il decreto rilevava il modo con cui si conservavano nei luoghi pubblici i ricordi delle punizioni e non soltanto portavano vergogna a molte famiglie di condannati, ma altre persone che portavano gli stessi nomi, senza essere imparentati con i condannati, causando danni allo loro reputazione. Perciò si ordinava che entro tre giorni venissero allontanati da tutte le chiese i sanbenitos, i ritratti, le iscrizioni e qualunque altra cosa che ricordasse l'azione dell'Inquisizione. (Si era come detto nel 1813 !)

Ma la situazione interna della Spagna non era ancora tale da garantire l'incondizionata esecuzione di questo ordine; in ogni modo le autorità francesi, durante l'occupazione, non tollerarono l'esposizione dei sanbenitos, nelle città da esse governate.
Quanto agli altri luoghi si può fare qualche deduzione dell'atteggiamento di Maiorca che accettò con giubilo lo statuto di Cadiz, allontanando immediatamente i sanbenitos dalla Cattedrale di San Dimingo. Però li avevano conservati accuratamente, poiché durante la restaurazione del 1814 poterono essere di nuovo esposti.
Ma poi durante la rivoluzione del 1820 queste insegne della vergogna vennero strappate dai muri, se ne fece un falò, e gli stessi edifici dell'Inquisizione vennero demoliti.

L'usanza di esporre nelle chiese gli habitelli o sanbenitos sembra che sia passata dalla Spagna in Italia. È un vanto dell'Inquisizione romana di aver disapprovata questa barbara usanza, fatto che risulta da un decreto del 1627, con il quale venne ordinato alla Chiesa di allontanare e di bruciare in segreto i sanbenitos esposti nella chiesa di Faenza.

PROCEDIMENTI ECCLESIASTICI
CONTRO GLI ECCLESIASTICI

Nei paesi in cui l'influenza teocratica era molto forte non era possibile che si dimostrasse blandizia nei confronti dei traviati ecclesiastici. Tuttavia la Chiesa si sforzava sempre di nascondere al pubblico le debolezze dei sacerdoti, che avrebbero grandemente diminuito il rispetto verso di essi e perciò temeva assai più lo scandalo che non lo stesso peccato. L'Inquisizione estendeva la sua giustizia tanto al clero, quanto agli ordini religiosi, e questa giustizia era in accordo con la politica generale della Chiesa.
Si nascondevano gelosamente al popolo le aberrazioni dei sacerdoti ad eccezione della provata eresia. Invece di rinchiuderli nelle carceri preventive, o segrete, generalmente li collocavano in qualche convento o clausura, dove la loro presenza non destava sospetti.

Come condannati, essi non erano esposti all'umiliazione del pubblico « auto da fé » e le relative sentenze venivano lette nella sala di dibattimento, a porte chiuse; non dovevano portare l'abito di penitenza prescritto ai laici. Per le mancanze più gravi, generalmente, venivano confinati in appositi conventi e questa pena era molto variabile secondo la gravità del caso. Il colpevole doveva ritirarsi per sei mesi, od un anno, in una cella, entrava per ultimo nel coro e nel refettorio, eventualmente veniva sospeso da tutte le funzioni, oppure, era sottomesso alla zurra de rueda cioè ad un provvedimento disciplinare, al quale prendevano parte tutti gli abitanti del convento e persino i terziari.
A seconda della gravità del reato la punizione poteva consistere semplicemente nell'essere relegati nel convento, oppure nell'essere rinchiusi in una cella del convento stesso, dove il colpevole subiva una blanda carcerazione. Se però possiamo prestar fede al Llorente, nemmeno questo genere di punizione era molto desiderabile per il condannato. Egli descrive il caso di un frate, il quale si era reso colpevole di aver infranto la segretezza della confessione e perciò venne condannato a cinque anni di ritiro in un convento. Non appena gli fu comunicata la sentenza egli pregò, con insistenza, di essere racchiuso piuttosto in un carcere segreto poiché, come Provinciale ed Ispettore, aveva avuto già occasione di constatare quale trattamento fosse riservato, da parte dei confratelli, ai condannati inviati
alla loro misericordia. Aggiunse che se avesse dovuto ritirarsi nel convento vi sarebbe certamente morto.
La domanda venne respinta, ed il presagio del frate si avverò, poiché in tre anni egli morì.
La declaratio verbale pubblica era una funzione importante. Il colpevole camminava alla testa del corteo, portava sul capo la mitria ed indossava il sanbenito, ma entrambi gli venivano levati, appena egli arrivava sul palco, perchè tutti potessero vedere la sua tonaca ecclesiastica e la tonsura. Le cronache narrano che all'esecuzione di fra' Josè Pimiento, accusato di aver protetto gli ebrei, il 25 Luglio 1720, si radunò un'immensa folla, poiché sin dal 1623 non era dato di vedere una « declaratio ».
L'« auto da fé » venne tenuto nella cattedrale di San Paulo, e dopo la lettura della sentenza gli incaricati trascinarono il colpevole al patibolo eretto sulla Plaza de San Francisco, dove il Vescovo di Lynopolis, sostituto dell'Arcivescovo, celebrò la funzione.
La lingua e le mani del condannato vennero cosparse di pece, la tonsura era scomparsa, poichè gli avevano rasato il capo. Ad una ad una lo spogliarono delle sue onorificenze, poi lo consegnarono ai superiori del suo ordine che lo spogliarono degli abiti e gli misero il sanbenico e la mitria fiammeggiante. Indi lo portarono nel cortile, lo consegnarono al giustiziere della città, il quale lo condusse al brasero per arderlo.


IL MARTIRIO AL ROGO


Secondo il Vangelo di S. Giovanni (XV,6) Gesù disse: "Chi non rimane in me è gettato via
come il tralcio che inaridisce, e vien poi raccolto e gettato ad ardere sul fuoco"

La condanna di un essere umano alla morte sul rogo, come punizione di una semplice aberrazione spirituale, è talmente ripugnante e contrastante con le dottrine di Cristo, che la Chiesa moderna da tempo tenta liberarsi dalla responsabilità di una simile atrocità. L'argomentazioni da essa portata ha un sembiante di attendibilità, inquantochè gli ecclesiastici, la Corte intellettuale e persino l'Inquisizione stessa, non hanno mai proceduto all'esecuzione degli eretici, che é sempre stata eseguita, almeno formalmente in base alla legge civile.
La pena di essere arsi vivi non è omologata in nessuna legge canonica od altra legge della Chiesa. La prima esecuzione di questa pena che rammenti la Storia è del 1017, quando Robert nella devota Francia fece bruciare Caterina d'Orleans. L'immatricolazione nelle leggi non era avvenuta prima della sentenza di Pedro II, Re di Aragona, pronunciata a carico de Waldenses, nel consiglio di Genova nel 1197.
Nella Castiglia fu accettata da Alfonso il Saggio, nel 1255, per punire i cristiani che avevano abbracciata la fede ebraica o maomettana. Nel 1331, Federico II la introdusse nello statuto della Sicilia, mentre nel 1238 col decreto di Cremona venne diffusa in tutto il Regno.

Così poco alla volta questa pena venne a fare parte integrante delle leggi dei paesi cristiani e il sadico entusiasmo delle folle vi contribuì non poco.

L'Inquisizione, sotto la cui influenza gli eretici venivano condannati al martirio del rogo, non pronunciava questa sentenza, ma dichiarava soltanto che essi erano degli eretici, senza speranza di conversione e perciò il loro peccato li allontanava dalla Madre Chiesa, la quale non voleva saperne più di loro e perciò li consegnava alla giustizia civile per l'opportuna punizione. L'inquisizione ostentava la finzione di condannare soltanto il peccato, lasciando il compito di condannare il peccatore al giudice civile e mentre dichiarava di perdonare al colpevole, chiedeva ipocritamente al giudice di risparmiargli la vita e di non spandere il suo sangue.

Questo sistema venne ancora escogitato da Papa Innocenzo III, prima, dell'avvento dell'Inquisizione, allo scopo di preservare la Corte intellettuale da qualsiasi passo errato e per consegnare il basso clero colpevole alle autorità civili.
Il rinvio di questa responsabilità al potere civile non fu praticato, perché la legge stessa che comminava la morte al rogo per l'eretico, fu ritenuta crudele, poiché la Chiesa stessa insegnava che il procedimento era principalmente religioso ed inoltre metteva in vista la completa indulgenza per coloro che portavano la legna al palo.
Ma anche negli altri paesi agivano come nella Spagna. L'Inquisizione cedeva l'eretico ostinato e recidivo alla giustizia civile, la quale aveva il dovere di condannarlo e di giustiziarlo. Uno scrittore dell'epoca, descrivendo l'« auto da fé » di Toledo, del 14 Agosto 1486, illustra la lettura delle sentenze e come i condannati venivano trascinati immediatamente al patibolo, dove li bruciavano in modo che non vi rimanesse nemmeno un pezzo di osso, ma non fa nemmeno un cenno della formalità dell'intervento del Tribunale civile.

Nelle sentenze degli Inquisitori di quell'epoca mancava generalmente la solita implorazione di grazia. Per esempio nella sentenza di Mencia Alonzo, a Guadalupe, íl 24 Novembre 1485, non solo manca l'invocazione, ma il dovere degli incaricati civili vi é ben precisato, come attività ausiliaria al giudizio, del Tribunale del Santo Uffizio. La sentenza termina con queste parole
« Come parte del corpo del Diavolo e come scomunicata, questa donna sia portata al patibolo perché la Giurisdizione civile di questa città faccia giustizia secondo le usanze del Regno. »
Analoghe disposizioni erano date nel 1547, da Papa Paolo III e nel 1555 da Giulio III.
Non si doveva temere che il Tribunale civile fosse riluttante nell'eseguire la sentenza, poiché i giudici erano obbligati con giuramento all'obbedienza verso l'Inquisizione. L'inquisizione considerava le sentenze delle autorità civili come una formalità insignificante, perciò ancora prima dei preparativi per l'« auto da fé », consegnava loro l'elenco dei condannati perché lo copiassero e preparas
sero le sentenze in pergamena.

È vero che l'ingordigia spinse il Reale Alguasil di Saragozza a pretendere una parte dei patrimoni confiscati, per i propri servigi, nonché per il prezzo della legna, ma Filippo II respinse decisamente questa pretesa, dichiarando che le esecuzioni erano provocate da sentenze civili e non da quelle dell'Inquisizione. Queste erano naturalmente soltanto vane parole. La Suprema nel suo consiglio del 7 Aprile 1690 stabiliva che fosse sufficiente la consegna della nota dei condannati all'autorità civile, perché essa procedesse senza indugio all'esecuzione, dato che in caso contrario i funzionari civili rischiavano di essere posti sotto accusa, come protettori di eretici.

Col tempo i cardinali dell'Inquisizione romana, vennero presi da scrupoli e perciò, per alleggerire la loro coscienza, Papa Pio V, il 9 Ottobre 1567, emise un decreto col quale li autorizzava a presenziare alle sanguinose esecuzioni, senza commettere irregolarità, ma ciò riguardava esclusivamente l'Italia.

Diversa era la cosa con la terribile Bolla « Si de protegendis », che venne emessa dal Papa il 1° Aprile 1569, e colla quale rinviava alla giustizia civile la repressione dei reati di alto tradimento, nonché le ingiurie e le minacce rivolte contro i dipendenti dell'Inquisizione.
Questa Bolla venne promulgata in tutto il mondo e l'Inquisizione spagnola ne profittò particolarmente e ne fece preparare annualmente una nuova edizione, secondo le usanze della Castiglia.
Pare che verso il 1605 siano sorte nuove incertezze. Il Breve di Leone X era quasi caduto nell'oblio, perciò venne sottoposta la preghiera, a Papa Paolo V, di estendere anche sulla Spagna il decreto emesso da Pio V nel 1567, e fu ripetutamente confermato con il breve del 1605 e 1607.

Nello sforzo di estirpare l'eresia le norme che davano la direttiva all'Inquisizione spagnola erano assai più spietate di quelle dell'antica Inquisizione. Infatti l'Inquisizione medievale mandava al patibolo soltanto gli eretici recidivi ed ostinati, mentre coloro che si convertivano, sia pure all'ultimo momento, venivano proposti alla grazia. Ma un poco alla volta si rese evidente che queste conversioni semiforzose erano molte volte finte, la ricaduta venne considerata come prova di eresia e quindi meritevole della pena di morte. Il caso di Frà Bonato, capo spirituale dell'esigua Comunità Francescana della Catalogna, serve da esempio per questo trattamento. Egli negava ostinatamente la sua colpa, sino a che le fiamme lambirono metà del suo corpo; solo allora la sua resistenza cedette, fece voto di convertirsi e venne rilasciato in libertà, ma qualche anno dopo si seppe che praticava ancora l'eresia e perciò nel 1335 venne arso vivo.

Le numerose condanne al rogo, praticate nel primo mezzo secolo di esistenza dell'Inquisizione spagnola, non potevano ammettere l'osservanza delle antiche norme. Il tempo utile per confessare ed implorare la conciliazione fu ridotto al giorno in cui veniva letta la sentenza in aula di dibattimento, ma in seguito fu esteso al momento in cui la sentenza stessa veniva letta all' « auto da fé ».
Divenne uso quindi di sospendere il procedimento sino a che quelli la cui sentenza era stata letta all' « auto da fé » manifestassero il loro pentimento. Essi vennero allora rinviati alla competenza dell'Inquisizione e se facevano completa confessione venivano riammessi nel seno della Madre Chiesa, con una adeguata punizione. Simili casi erano molto frequenti. All' « auto da fé » di Cordova, il 12 Aprile 1722, quattro colpevoli dichiararono il loro pentimento prima ancora che la lettura della sentenza fosse terminata. Così pure Ines Alvarez Pereira, condannata come partigiana degli ebrei, dichiarò durante la lettura della sentenza di voler confessare e convertirsi, di conseguenza venne rimandata nelle carceri.

Diego Lopez Duro, povero venditore di tabacchi, il quale era condannato per giudaismo, si convertì sul palco del patibolo, e venne riammesso nella comunità cristiana, previa una pena carcerarla. Però nel 1700, un giorno in cui ascoltava la Messa, si appartò dai compagni detenuti e dichiarò ad alta voce dinanzi al Sacerdote che mentiva, perché la religione di Mosé era l'unica. La folla lo avrebbe ucciso sul luogo, se non lo avessero subito portato fuori, per salvarlo dal linciaggio, ma non vi era grazia per lui. Gli inquisitori si affaticarono a lungo per salvare la sua anima, ma egli resistette ostinatamente, fino alla fine e venne anche bruciato il 28 Ottobre del 1703, all' « auto da fé » di Sevilla, ed il suo martirio rimane un esempio perenne della tenacia con cui gli ebrei sono attaccati alla loro fede; é questo attaccamento che ha reso impossibile l'estirpazione del giudaismo.

Il procedimento generalmente in uso era quello di strangolare coloro che fingevano il pentimento dopo la lettura della sentenza e la terribile visione della morte sul rogo produsse tante conversioni durante il cammino verso il brasero, che l'essere arso vivo era una eccezione. Durante i primi tre « auto da fé » che vennero tenuti a Barcellona fra il 1488 ed il 1489, tutti i convertiti espressero il desiderio di morire nella religione cattolica e quindi vennero strangolati tutti prima di essere arsi. Al grande « auto da fé » di Valladolid del 21 Maggio 1559, durante il quale vennero suppliziati il dottor Cazalla ed altri protestanti, 14 si convertirono alla religione cattolica, ma fra questi uno, che era conosciuto come ostinato eretico, venne arso vivo, mentre gli altri furono strangolati.
La debolezza della natura umana soltanto rare volte diede esempio di individui eccezionali che seppero resistere al martirio delle fiamme.

Nel 1674 la Suprema si sentì indotta a calmare i dubbi del Tribunale di Granada dichiarando che questi procedimenti severi erano sempre in uso al Santo Uffizio. Perciò coloro che non si fossero convertiti prima della lettura della sentenza non avevano diritto alla grazia né di essere riammessi nella Chiesa, ma era viceversa dovere della giustizia reale di eseguire senz'altro la sentenza. Con ciò il corpo del condannato era definitivamente perduto sebbene fosse forse possibile salvare la sua anima.

All'« auto da fé » di Cordova il 12 Aprile 1722, Antonio Gabriel de Torres Zavallos si convertì immediatamente dopo la lettura della sentenza. Arrivato al patibolo, fra abbondanti lacrime ed altre manifestazioni di pentimento, professava ad alta voce la sua fede cattolica, glorificando Dio e il Santo Uffizio. Egli stesso pretese di essere arso vivo per procurare piacere a Dio ed offrire un olocausto per i peccati commessi. Il suo desiderio venne però respinto ed egli venne strangolato rendendo l'anima a Dio per l'edificazione del popolo.

Si può dubitare che lo strangolamento preventivo avesse effettivamente salvato la vittima dalla terribile morte tra le fiamme. I giustizieri spagnoli asserivano di avere tanta abilità nel maneggio del garrote da poter prolungare per diverse ore la lotta con la morte, quando non venivano corrotti per svolgere un lavoro rapido. Però vi era molto più della pura mancanza di abilità nell'incidente avvenuto durante l'« auto da fé » del 29 Giugno 1654, a Cuenza, incidente che offrì occasione a Bartolomé Lopez di dimostrare il suo eccezionale coraggio. Egli aveva dichiarato la sua conversione dopo la lettura della sentenza e perciò venne condannato ad essere strangolato e poi arso sul rogo. Al patibolo, mentre vedeva la poca abilità di Pedro Alcalà nel garrotare Violante Rodriguez ed Anna Guavre, gli disse « Amico Pedro, se non dimostrerai più abilità con me, farai meglio a bruciarmi vivo. »

Secondo i rapporti della Giustizia dell'Inquisizione vi erano molti casi in cui la resistenza o per ostinazione, gli eretici difendevano i propri errori, rendendo vani i benevoli sforzi dei giudici per salvar loro l'anima, con la conversione. Questo spirito eroico, che piuttosto soffriva il martirio che rinnegare l'idea ritenuta giusta, non era molto frequente, ma gli annali dell'Inquisizione ricordano i casi delle ignote e dimenticate vittime, la cui costanza e noncuranza di torture e persuasioni li condusse alla morte fra le fiamme, dando con ciò prova della nobiltà che sa talvolta rivelare la natura umana, sia che si tratti di musulmani, ebrei, protestanti o mistici.

L'Inquisizione, con discorsi pieni di retorica, si premuniva dal pericolo che il coraggio di taluni eretici nell'affrontare il rogo, apparisse al popolo sotto la luce di un martirio e dava ad intendere che costoro, essendo in relazione coi diavolo, potevano fare delle stregonerie sul proprio corpo, per essere immuni dal dolore. In omaggio alla giustizia bisogna però riconoscere che l'Inquisizione, dopo aver sfogate le prime ire agli albori della sua esistenza, tentava seriamente di redimere le anime delle sue vittime e faceva di tutto per evitare la loro eterna dannazione attraverso la morte sul rogo.
Le disposizioni del 1561 ordinavano agli inquisitori di fare tutto quanto stava in loro potere, allo scopo di persuadere gli accusati alla conversione, in modo da evitare almeno che essi morissero senza aver riconosciuto Dio.
Nelle due settimane che precedevano l' « auto da fé » gli accusati venivano chiamati ripetutamente in udienza, dove venivano sottoposti a serie persuasioni, perché confessassero e si convertissero. Un dotto inquisitore nel 1630 si affaticò a lungo per convertire due protestanti, l'uno inglese, l'altro francese, i quali continuavano a ripetere ostinatamente di essere stati educati nella religione riformata e di non voler saper nulla di quella cattolica. La loro insistenza andò fino al punto che pretendevano il rimpatrio, oppure la chiamata di scienziati dotti nella loro fede, poiché essi, non essendo istruiti nelle questioni religiose, non potevano entrare in discussione su questo argomento.
Allora l'inquisitore fece chiamare dei teologi, perché convertissero i due ostinati e quelli, dopo non poca fatica, vi riuscirono. Diedero loro dei libri religiosi che essi divorarono addirittura; venne rinviata l'istruttoria e, mentre si raccoglievano dei testimoni, i due divennero buon cattolici.

Un caso strano avvenuto all' « auto da fé » di Sevilla, il 5 Luglio 1722, dimostrò tuttavia che dopo la consegna del colpevole alla giustizia civile l'Inquisizione considerava terminato il suo compito.
Vi erano quattro ebrei ostinati, due uomini e due donne; nove teologi con undici dipendenti dell'Inquisizione si affaticarono invano per convertirli, entro i tre giorni fissati a tale scopo. Essi non dimostrarono pentimento, nemmeno dopo la lettura della sentenza e perciò vennero consegnati alle autorità civili. Là finalmente i due uomini e la donna più anziana cedettero, dichiarando di volersi convertire e quindi furono strangolati ed arsi. La donna più giovane, di nome La Almiranta, davanti al patibolo chiese udienza al delegato delle autorità e gli disse che desiderava far deposizione ed incolpò effettivamente diversi ebrei; quindi venne internata nelle carceri reali. Il fatto venne comunicato al Tribunale dell'Inquisizione, il quale però rispose di non aver più nulla a che fare con questa donna. Essa venne tenuta in carcere sino al 17 e quando la portarono di nuovo al patibolo essa si mostrò più ostinata che mai, inquantoché dichiarava che i suoi compagni erano morti come cattolici e perciò maledetti dal Dio degli ebrei; che essa aveva finta la conversione, soltanto perché le sue ceneri, che erano sacre, non venissero mescolate con quelle dei compagni traditori. Naturalmente non le fu risparmiato il martirio che tanto aveva invocato.

In casi eccezionali la resistenza a quanto pare era considerata come un privilegio per essere strangolati preventivamente. All' « auto da fé » di Valladolid, il 29 Maggio 1691, cinque donne ostinatamente renitenti vennero condannate per protezione di ebrei. Esse dichiararono di avere un'età tra i ventiquattro ed i ventisette anni; erano molto belle, tanto da suscitare la generale compassione. Quando furono consegnate all'autorità, due di esse cedettero, mentre le altre restarono nelle loro fede, ma ciononostante tutte cinque vennero strangolate prima di essere arse.
Molto spesso avveniva che prima che si potesse giungere alla conversione l'imputato moriva nelle carceri. In tal caso i cadaveri venivano gettati sul rogo.

All' « auto da fé » di Granada, il 13 Maggio 1725, fra sette persone gettate al rogo, sei erano morte precedentemente nelle carceri. il tentativo di suicidio nelle carceri veniva severamente punito, perché era considerato come una manifestazione di eresia.

II negativo, ossia l'individuo che negava l'eresia di fronte alla sua colpevolezza già provata, era classificato fra i peggiori miscredenti e gli spettava la condanna a morte. Questi individui erano i veri martiri, principalmente perché coloro che si appoggiavano rigidamente alle leggi negavano ad essi, negli ultimi istanti della loro vita, i conforti religiosi. Così dunque lasciavano fino all'ultimo momento la possibilità di somministrare i Sacramenti alle vittime moriture, benché in base al principio degli inquisitori il sangue del martirio fosse il più efficace fra tutti i Sacramenti.
Vi erano pure i diminutos cioè coloro che facevano una confessione incompleta; queste confessioni erano calcolate come false.

Quando la riforma costrinse la Chiesa ad una lotta per l'esistenza, il cui esito nessuno poteva prevedere, si rivelò una tendenza ad applicare misure più severe nell'oppressione. Il dogmatico, cioé la persona che portava a perdizione non soltanto la propria anima, ma tentava di trascinare con le sue errate dottrine anche altri, poteva ritirare le proprie dichiarazioni e conciliarsi con Dio, ma mai con il rappresentante terreno di Dio. Simanca descrive giustamente il timore, misto ad odio, suscitato dai maestri delle nuove dottrine; l'Inquisizione stabiliva che per costoro, massimi eretici, non vi fosse possibilità di conciliazione, né di assoluzione, poiché quotidianamente traviavano delle anime cristiane.
Colui che insegnava l'eresia era un assassino, se pur non uccideva con la spada, ma con il veleno delle sue dottrine; uccideva l'anima e non il corpo, e tentava di trascinare alla eterna dannazione, perciò meritava la punizione più severa, ma soprattutto ai propagatori dell'eresia luterana non si doveva perdonare in nessun caso.

Eppure la Chiesa aveva sempre manifestato di voler riaccogliere nel proprio seno i figli traviati, che rinnegassero tempestivamente i propri errori ed implorassero grazia. Quando, nel 1558, si scoprì l'agglomeramento dei protestanti, a Valladolid, l'intera Spagna venne presa da grande eccitamento. Si nota infatti dalle cronache che in questo periodo quel Tribunale ebbe un lavoro veramente enorme.
Tuttavia Papa Paolo IV comprese che anche l'eccessiva severità poteva rappresentare un pericolo ed impartì disposizioni che autorizzavano l'Inquisizione e la Suprema ad essere più blande.
Così. divenne un principio nella giustizia dell'Inquisizione, che il Capo Inquisitore e la Suprema potessero trattare con maggiore indulgenza i dogmatici, salvo gli ostinati ed i recidivi, ma ciò non si riferiva ai protestanti. Infatti all' « auto da fé » di Sevilla, il 5 Luglio 1560, Pedro de Alpuin, che professava dottrine protestanti, nonostante avesse confessato ed invocata la grazia e la conciliazione, fu atrocemente torturato ed il suo corpo fu arso.

La forzata conversione dei mori nella Castiglia nel 1502, non che di quelli dell'Aragona, nel 1525, aumentò notevolmente il numero dei finti cristiani, il battesimo dei quali serviva unicamente allo scopo di poterli sottomettere alla giustizia dell'Inquisizione. Si trattava per lo più di vassalli della nobiltà, la quale non potevano privarsi dei loro servigi. I numerosissimi arresti mettevano in serio pericolo tutto l'andamento dell'agricoltura, in quelle vaste e fertili regioni.
Questo era soltanto uno dei numerosi esperimenti per sistemare i vari e difficili problemi creati dalla permanenza dei mori in Spagna. Si può facilmente immaginare, con simili leggi, quanto numerose sano state le esecuzioni fra i mori. Al grande « auto da fé » del 1680, a Madrid, 180 mori salirono al patibolo. Altrettanti vennero condannati all'« auto da fé » di Granada il 23 Gennaio 1683.
Il caso che riportiamo ora caratterizza eloquentemente i contrasti e la mancanza di logica della Giustizia dell'Inquisizione.

Primo de Alcala nacque a Cuba, da antica famiglia Cristiana, nel 1687. Sebbene educato per la carriera ecclesiastica, egli diede ben presto prova di tendere alla leggerezza di cui era invasa questa colonia. Egli si aggirava sul litorale del mare dei Caraibi, prendendo parte ad ogni genere di imprese disoneste. Nel Messico falsificò la sua fede di nascita, per poter essere consacrato sacerdote ancora in minore età. Nella colonia olandese Curaçao si dichiarò convertito al giudaismo, nella speranza di poter estorcere qualche centinaio di dollari agli ebrei. Dopo grandi stenti e privazioni finalmente cadde nelle mani dell'Inquisizione di Cartagena, dove si convertì e venne inviato nella Spagna, perché si ritirasse in un convento. Però fuggì presto dal suo luogo di clausura, ma venne catturato a Xeres ed internato in un'altra clausura, dove tentò di ottenere l'aiuto di alcuni nuovi cristiani accusati di falsa testimonianza. Ma i suoi tentativi non riuscirono. Finalmente riuscì a fuggire e riparò a Lisbona, dove lavorò per un armatore olandese, il quale gli promise di portarlo in Jamaica. Ma d'un tratto fu invaso da una resipiscenza che lo spinse a recarsi a Sevilla, per costituirsi all'Inquisizione. Dapprima si dichiarò cristiano, ma dopo pochi giorni cambiò idea e si disse ebreo, rimanendo ostinatamente su questa asserzione, senza nemmeno difendersi. In seguito venne condannato come recidivo, all' « auto da fé » del 25 Luglio 1720, e per i tre giorni che precedevano la sanguinosa cerimonia, in tutte le chiese si pregava per la salvezza della sua anima ed allora un altro cambiamento si verificò in lui; dichiarò che la grazia particolare di Dio lo aveva convertito e che ora era cristiano; se non fosse stato recidivo, con questo avrebbe potuto salvarsi, ma così l'unica cosa che potevano concedergli era lo strangolamento preventivo, dopo di che sarebbe stato bruciato e le sue ceneri disperse. Il rogo venne acceso alle cinque del pomeriggio, ma durò fino al mattino, finché il suo corpo non fu completamente incenerito. Venne osservato che dal suo corpo non si sprigionava il solito odore di bruciato. Allora Hermandad de la Caridad chiese le sue ceneri, per dar loro sepoltura cristiana, essendo egli morto da cristiano, ma gli inquisitori respinsero la domanda, ordinando che le ceneri, secondo la Prammatica reale e la legge dello Statuto Apostolico, venissero disperse per i campi.

Verso la fine del Secolo XVII fu fermamente stabilito che la conciliazione e la grazia fossero rifiutate soltanto a coloro che non facevano una tempestiva confessione o che erano recidivi. Tre casi avvenuti all'« auto da fé » di Valladolid, il 13 Giugno 1745, stanno a dimostrarlo. Luia de la Vega, il quale nel 1701 era stato conciliato, più tardi venne condannato come ostinato rinnegato, il quale negava insistentemente il proprio peccato. Miguel Gutierrez e Fran cisco Garcia vennero conciliati nel 1699, il primo, e nel 1706 il secondo; essi si erano convertiti pentendosi, ma vennero colpiti dall'indispensabile punizione di carcere, l'imposizione del sanbenito, dieci anni di galera e duecento scudisciate, ciò che era una sentenza di dubbia blandizia, ma, siccome il reato cadeva sotto le leggi canoniche, non era permutabile.

Verso la fine del Secolo XVIII, gradualmente scompariva la conciliazione ed il Llorrente scrive che sotto il Regno di Carlos III (1759-1788) la si ritrova solamente nelle relazioni di dieci « auto da fé ».

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