STORIA DELL'INQUISIZIONE

LIBRO VI.

Il protestantesimo - Investigazioni sulla vita precedente dei convertiti - Speculazioni sull'opera di proselitismo delle due religioni opposte - Il caso di Johann Heinrich Hortsmann - La censura - Letteratura - Arte decorativa - « Pinturas obseras » - Il misticismo - Gli « Alumbrado » ed i « Dejado » - L'istruttoria di Maria Cazalla - Il molinismo - La Beata Dolores - Visioni e rivelazioni di Suor Maria Cipriana .

 

IL PROTESTANTESIMO

Le sorti dell'esiguo numero del Protestanti spagnoli naturalmente suscitarono le simpatie degli storici moderni. Si é scritto molto sul loro conto; i loro scritti vennero raccolti e ristampati con pietosa cura, tuttavia l'importanza del movimento é stata generalmente esagerata, poiché non sussiste mai un pericolo che il protestantesimo potesse avere una seria influenza nella Spagna del XVI Secolo, pervasa da una profonda ed incommensurabile fede cattolica. I moti di Valladolid e di Sevilla del 1558 e del 1559 erano solo degli episodi momentanei, che non lasciarono alcuna impronta nei sentimenti del popolo, sebbene paresse in quel tempo che la carriera del Santo Uffizio fosse prossima al tramonto.

Prima della ribellione luterana in Europa esisteva libertà di pensiero e di parola. Erasmo e gli altri scrittori e predicatori popolari dell'epoca, potevano senza il minimo scrupolo mettere in ridicolo l'ingordigia e la corruttibilità della Chiesa. Il Francescano Thomas Murner, il quale più tardi divenne il più acerrimo nemico di Lutero, flagellava con la sua eloquenza il Clero e gli Ordini religiosi, con molta violenza, sebbene con minore abilità dello stesso Erasmo.
Ben presto però si verificò il colossale movimento luterano nell'Europa occidentale; la Curia romana riconobbe di non aver oramai più dinanzi delle semplici disquisizioni di ecclesiastici, ma una vera e propria rivoluzione e di conseguenza quella libertà che fino ad allora, pur essendo ufficialmente vietata, era tollerata benevolmente, divenne d'un tratto eresia, non appena vi era sospetto che potesse minacciare il potere ed il patrimonio del Cattolicesimo.

Tuttavia solo nel 1521, la Curia ebbe coscienza della portata dei fatti e si rese conto di dover fare dei passi per stroncare spietatamente il movimento. Perciò la Santa Sede inviò, il 12 Aprile 1524, a mezzo dell'assemblea dei Grandi, un avvertimento a Carlo V, pretendendo dei rigorosi provvedimenti, allo scopo di impedire la propagazione del luteranesimo che era penetrato nella Spagna e stava per svilupparvisi.
Un caso tipico fu quello di Diego de Uceda di cui abbiamo già parlato in questo libro. Era un Hidalgo di Cordova di un'antichissima stirpe cristiana. Sebbene cortigiano si occupava di scienze ed essendo uomo profondamente religioso, ebbe anche l'idea di entrare nell'Ordine Geronimita. Essendo grande ammiratore di Erasmo, citava sempre i suoi detti e massime, attirando più volte degli ammonimenti su di sé. Nel Febbraio del 1528 viaggiava da Burgo a Cordova, passando la notte a Corezo, dove conobbe un certo Rodrigo Duran, il quale viaggiava in compagnia del proprio servo, verso Sevilla per imbarcarsi per le Indie occidentali.
Dapprima parlarono di dipinti e Diego citava i pareri di Erasmo; più tardi parlando di miracoli ai quali lo straniero non credeva si fece cenno a Lutero ed anche ad Erasmo.
Arrivato a Toledo il Duran denunciò de Uceda al Tribunale della nuova Inquisizione mentre il suo servo faceva da testimone. In seguito ad investigazioni, il de Uceda venne arrestato a Cordova e fatto ritornare come prigioniero a Toledo dove invano fece appello alla propria devozione ed offrì tutta la sua scienza al servizio della fede. Presentò testimoni che affermarono che egli abitualmente si recava quattro volte all'anno alla confessione, che aveva partecipato anche agli altri Sacramenti e che era una persona ineccepibile e di profondo convincimento religioso.

Ma tutto fu vano. Come abbiamo già descritto venne torturato e sotto le torture confessò, ma più tardi dovette naturalmente revocare la confessione e perciò gli venne inflitta una punizione umiliante, che distrusse tutta la sua carriera ed impresse una macchia indelebile su tutti i suoi discendenti.
In quella stessa epoca si verificò pure il caso di Pedro de Lerma, che era il capo della più distinta famiglia di Burgos. Egli era canonico della Cattedrale di Alcala ed era famoso come predicatore. Aveva passato molti anni alla Sorbona di Parigi, dove era divenuto Decano di quella Università. Casualmente gli capitarono tra le mani alcune opere di Erasmo, che ebbero un tale effetto su di lui che finì per farne qualche citazione nelle sue prediche. Venne denunciato all'Inquisizione, che lo gettò in un carcere e dopo lunga istruttoria nel 1537 pretese che rinnegasse pubblicamente le proprie prediche, in tutte le città dove aveva predicato e che dichiarasse di averle pronunciate sotto lo stimolo del Diavolo, per propagare l'eresia.

Lerma fu tanto umiliato che abbandonò immediatamente la Spagna, recandosi a Parigi, dove gli fecero solenni accoglienze. Ivi Morì nel 1545. Gli abitanti di Burgos che avevano mandato i loro figlioli alla Sorbona, perché egli vi era Decano, in seguito alla sua morte li richiamarono in patria.
Abbiamo già visto quale impressione abbia suscitato, nel 15 21, la propagazione della letteratura luterana, che a quanto sembra era molto ricercata o per lo meno era ben lanciata da eretici tedeschi. Una nave proveniente dall'Olanda e diretta a Valencia, venne sequestrata dai francesi e rimorchiata a San Sebastiano. Vi trovarono due quintali di libri con tendenza luterana che vennero pubblicamente bruciati. Otto mesi dopo, tre galere veneziane scaricarono nel porto di Granada un notevole quantitativo di libri dello stesso genere, ma il Corregidor li sequestrò, facendoli bruciare e poi mise in prigione il capitano e l'intero equipaggio.

I rapporti della Spagna con l'Olanda e la Germania erano troppo intensi, perché si potesse impedire l'entrata di eretici. Il primo caso rammentato dalla storia avvenne nel 1524, quando il Tribunale di Valencia condannò un olandese di nome Blay Estere. Lo stesso Tribunale, nel 1528, pose sotto accusa un pittore di Gent, di nome Cornelis, perché aveva osato dire che Lutero non era nemmeno un eretico, poi aveva negato l'esistenza del purgatorio, l'utilità delle messe e della confessione.
Egli non aveva lo spirito di un martire e si scusava con l'ubriachezza, assicurando che in Spagna avrebbe smesso quegli errori in cui era caduto nella Fiandra. Venne condannato all'ergastolo. Negli atti dell'istruttoria figurò anche un certo Jacob Torres, accusato pure di luteranesimo. Gli sforzi dell'Inquisizione per opprimere il luteranesimo rimasero sterili a lungo e questa attività si diresse per parecchio tempo principalmente contro gli stranieri.

Una delle personalità più notevoli fra questi era Hugo de Celso, un illustre dottore e scrittore della Borgogna. A quanto pare, nel 1532, egli fu posto sotto accusa a Toledo, ma senza reale convincimento, e quindi fu rilasciato; tuttavia più tardi i sospetti su di lui si rafforzarono e nel 1551 fu processato nuovamente e bruciato al rogo. Sebbene nemmeno Maria, Regina di ungheria, sorella di Carlo V, fosse priva di sospetto, il primo eretico di sangue spagnolo, di provata reità, fu Francisco de San Roman di Burgo, il quale da giovanotto aveva viaggiato per affari in Olanda e più tardi, capitato a Brema, fu convertito al luteranesimo.
Ne fecero un luterano talmente fervente, che, dopo diverse avventure, egli si incaricò persino di convertire Carlo V a Ratisbona. Siccome insisteva in questo esperimento, venne ammanettato e trasferito in Spagna, dove essendosi rifiutato di convertirsi venne arso al rogo. Egli fu il primo martire protestante spagnolo, Carranza stesso lo accompagnò al patibolo, persuadendolo a riabbracciare la fede cattolica, ma la plebaglia infuriata lo uccise a colpi di coltello, fatto non raro agli « autos da fé ».

Nello stesso tempo apparve anche un altro uomo, che venne calcolato luterano, sebbene egli probabilmente fosse un eretico indipendente da qualsiasi religione. Si seppe soltanto che era un giovane ricchissimo di Leberia, il quale, rinunciando alle ambizioni terrene, si dedicò allo studio delle Sacre Scritture, ritenendosi un nuovo apostolo di Cristo. Le sue varie pratiche eretiche non sono enumerate negli atti dell'istruttoria condotta dal Tribunale di Sevilla, il quale procedette al sequestro del suo patrimonio e poi lo liberò, dichiarandolo pazzo. Egli continuò la sua parte di apostolo ed alla seconda istruttoria al carcere e a portare il sanbenito.

Le sentenze miti dell'Inquisizione dimostrano che sino a quel punto non vi era motivo di accanirsi. Si sente molto parlare di attività missionaria di tedeschi e di altri eretici, ma questi fatti trovano poca conferma sinora nelle fonti storiche. L'unico caso di cui si trovano le tracce, pur di dubbia autenticità, é quello di Gabriel de Narbonne, trattato. nel 1537, dinanzi al Tribunale di Valencia. Era di origine francese, ma durante i quattro anni passati in Germania e in Svizzera, adottò le dottrine eretiche.
Come Frate questuante, in Spagna parlò liberamente della sua fede, a chiunque incontrasse. Quando venne arrestato, egli si professò con fervore propugnatore delle idee luterane ed implorò la grazia. Dopo un anno di detenzione e dopo essere stato minacciato di torture, confessò che gli eretici svizzeri lo avevano mandato in Spagna, come missionario. Egli asserì di aver viaggiata tutta la penisola, a piedi, dalla Catalogna alla Navarra, diffondendo le sue dottrine fra coloro che lo ascoltavano, ma principalmente fra i sacerdoti.

Se il Tribunale avesse creduto a questo racconto, lo avrebbe indubbiamente sottoposto a grandi torture, allo scopo di strappargli i nomi dei suoi complici, viceversa l'Inquisizione si accontentò di infliggergli il carcere perpetuo.
Sembra che la Santa Sede romana avesse l'intenzione di scuotere dal torpore l'Inquisizione spagnola, perché ravvivasse la lotta contro queste pericolose innovazioni. Nel 1551 Papa Giulio III mandò un Breve al Capo Inquisitore Valdes, con cui lo autorizzava a punire, col massimo rigore, il luteranesimo, senza riguardo alla posizione sociale dei colpevoli. Se ciò doveva essere un incitamento, ebbe ben poco effetto, poiché i casi di luteranesimo per qualche anno ancora figuravano assai scarsamente nell'attività dell'Inquisizione, inquantoché, secondo le indagini del dottor Ernesto Schaffer, i casi di luteranesimo, nominati negli atti di tutti i Tribunali, ammontavano sino a quell'epoca in tutto a 105 casi, fra i quali 39 si riferivano a cittadini spagnoli ed il resto a stranieri.

L'anno 1558 segnò il risveglio dell'attività dell'Inquisizione. Il Capo Inquisitore Valdes, il quale era quasi dei tutto caduto in disgrazia presso la Santa Sede, afferrò l'occasione per crearsi dei meriti. In fondo la preoccupazione che la religione cattolica fosse minacciata in Spagna, da qualche centinaio di protestanti più o meno ferventi, dispersi tra Sevilla e Valladolid, era ben assurda. Tuttavia Valdes riuscì a prospettare la questione, come estremamente pericolosa, dichiarando che non si poteva sapere quale sviluppo avrebbe potuto prendere il movimento. Indubbiamente lo fece per render indispensabili i propri servigi e non mancò di propagare sistematicamente le più fantastiche notizie. L'Abate Illescas preconizzava, probabilmente sotto l'impulso del Capo Inquisitore, la più terribile congiura, che avrebbe fatto divampare la fiamma della rivolta in tutta la Spagna, provocando la maggior disgrazia che mai avesse toccato un paese, se la repressione fosse tardata appena qualche mese.
Si cominciò a vocifetare di storie fantastiche, fra le quali, che nella casa di Cazalla si tenessero di notte convegni segreti, in cui si esaltavano le dottrine luterane. Il Legato di Venezia, Leonardo Donato, riferiva, nel 1573, che se questo movimento non fosse stato stroncato ai suoi inizi, avrebbe infettato tutta la Spagna. Anche l'inquisitore Pramo, verso la fine del secolo, asseriva che sarebbe sorto un immane incendio nella Spagna, se il Santo Uffizio non fosse intervenuto tempestivamente a soffocare la propaganda.

Naturalmente il Governo si preoccupò vivamente delle imprevedibili conseguenze di questo pericolo. Carlo V era moribondo nel suo palazzo di Justa, mentre Filippo era completamente impegnato nella Fiandra, con la guerra contro la Francia. Sua sorella, Infanta Giovanna, Reggente provvisoria, era una donna mediocre e così essa ed i suoi consiglieri seguivano con sentimenti di apprensione l'agitazione religiosa che divampava nella Francia e nella Germania, tanto più che in quei tempi le scissioni politiche erano generalmente precedute da torbidi nella religione.
Finché i disordini erano circoscritti a Sevilla, non vi era molto motivo di preoccuparsi, ma da qualche tempo si notavano infiltrazioni persino a Corte e nel movimento vennero coinvolte personalità di alto rango. Il momento pareva opportuno a Valdes per rafforzare la propria posizione. Quando la Principessa Juana, il 23 Marzo 1558, gli chiese di accompagnare la salma di sua madre da Granada al luogo di sepoltura, Valdes non vide di buon occhio la possibilità di allontanarsi dalla sua sede, temendo che in sua assenza i suoi avversari peggiorassero la sua situazione. Egli perciò trovò ogni sorta di scuse per rinviare il viaggio, dicendo persino che oltre al fatto che la sua presenza era indispensabile a Sevilla ed a Nurcia, per reprimere i moti eretici, non era assolutamente necessario compiere subito il trasporto della salma che avrebbe potuto essere rimandato al Settembre.
Evidentemente egli aveva esagerato la portata dei disordini di Sevilla, per evitare di essere allontanato. Quando Juana comunicò questi fatti al Consiglio di Stato, ottenne per tutta risposta che nessuno poteva impedire a Valdes di trattenersi nelle sue province.

Si può facilmente immaginare quanto a proposito gli fosse venuta la rivolta di Valladolid e quanto egli avesse gonfiata la questione, per suscitare maggiore impressione a Corte. La Suprema, in una lettera del 12 Maggio, annunciò a Filippo brevemente l'avvenimento, raggiungendo subito lo scopo voluto, poiché Filippo, che aveva già ordinato a Valdes di riprendere il proprio seggio vescovile, ritirò immediatamente questo ordine. Carlo V venne persuaso di approvare questa condotta. Il 27 Aprile Juan Vasquez gli comunicò l'arresto del dottor Cazalla e l'inquietudine che il provvedimento aveva suscitato, aggiungendo che era necessario provvedere con urgenza al rimedio e che il Capo Inquisitore e la Suprema si erano già messi al lavoro.
Carlo che aveva dedicato tutta la sua attività al debellamento dell'eresia, era irritatissimo da queste notizie. Egli era già completamente esaurito e stava pensando ad abdicare e questi avvenimenti venivano a turbare la quiete del suo spirito stanco.
Il 3 Maggio egli scrisse a Juana, pregandola di trattenere Valdes alla Corte, dove la sua presenza sarebbe stata tanto necessaria. Juana fece chiamare immediatamente Valdes, gli mostrò la lettera assicurandolo della rinnovata fiducia del Sovrano. Così egli si mise alacremente all'opera, fece arrestare un gran numero di eretici, inviando rapporti a Re Carlo.

Il 25 Maggio il Re, esagerando notevolmente il pericolo, pretendeva l'applicazione di norme draconiane, additando come esempio dei provvedimenti adottati da lui, in Olanda, in seguito ai quali i renitenti venivano arsi vivi ed i penitenti decapitati. Egli sollecitò anche Filippo a simili provvedimenti, il quale in Inghilterra aveva già dimostrata molta crudeltà, come se fosse stato regnante in quel paese, facendo compiere esecuzioni su degli eretici e persino su dei vescovi. Nella sua lettera a sua figlia, Carlo aggiungeva che era necessario lasciare ogni compassione e che se non si estirpava la eresia sollecitamente, nessun Re dopo di lui avrebbe potuto farlo.
Valdes oramai era padrone della situazione, ma per poterla sfruttare completamente, il 9 Settembre diresse una lettera a Papa Paolo IV, con una breve relazione sugli sviluppi del Luteranesimo a Valladolid e a Sevilla. Sottolineò il pericolo imminente, le fatiche dell'Inquisizione e la sua povertà che ostacolava l'opera.

Valendosi dell'argomentazione di Carlo V, fece notare che il luteranesimo si doveva considerare come una ribellione e siccome il moto si diffondeva fra le persone distinte, religiose e ricche, bisognava temere serie conseguenze se si fosse agito con tanta mitezza, come per i seguaci dell'Islam e con gli ebrei. Sarebbe stato opportuno un Breve papale, che avesse autorizzato a perseguire i colpevoli, permettendo in caso di bisogno di trasgredire ai limiti posti dalla legge.
La Santa Sede non tardò ad impartire le autorizzazioni richieste e l'Inquisizione si preparò alacremente a dare l'opportuno avvertimento al popolo, mettendo in evidenza i pericoli a cui si andava incontro, deviando dalla vera Fede. Non risparmiarono né denaro, né fatica per dare il massimo effetto possibile all' « auto da fé » dei 20 Maggio 1559 e già due settimane prima si annunciò solennemente il prossimo avvenimento.

Durante le due settimane che precedevano, 100 uomini armati sorvegliavano il palazzo dell'Inquisizione, poiché era corsa la voce che volevano assalire le prigioni ed incendiare i palchi preparati per il rito. Vennero innalzate delle tribune tutt'attorno alla Plaza, venne vietato a tutti, eccezion fatta per gli incaricati dell'Inquisizione, di montare a cavallo e di portare armi, sotto pena di immediata esecuzione. Da un raggio di trenta a quaranta miglia accorreva la gente, la quale non trovando più alloggio nella città, si accampava nei prati circostanti.
In testa al corteo portavano l'effigie di Leonor de Vivero, morta durante l'istruttoria. Era coperta dal velo vedovile ed aveva sul capo la mitria dipinta di fiamme. Seguiva la cassa che conteneva le spoglie mortali, destinate al rogo. Arrivato il corteo sulla Plaza, Agostino Cazalla venne fatto sedere in cima al palco gradinato, come capo degli eretici, accanto a lui suo fratello Francisco.

Melchor Cano iniziò subito la predica che durò oltre un'ora, poi Valdes invitò la Principessa Juana, il Principe Carlos, a fare il giuramento rituale di voler sempre proteggere e difendere l'Inquisizione. La folla approvò clamorosamente e si udirono urla « a morte, a morte! ». Cazalla, suo fratello ed Alonzo Perez vennero spogliati dagli abiti ecclesiastici, fu letta la loro sentenza ed indi essi furono consegnati alle autorità civili. Fatti montare su degli asini, vennero trasportati alla Plaza de la Puerta del Campora, dove vennero giustiziati. Ad eccezione di uno, non erano martiri nel vero senso della parola, poiché all'ultimo momento si mostrarono pentiti ed implorarono grazia.
Durante l'istruttoria Cazalla, dapprima cercava di salvarsi, negando di avere enunciato dei dogmi. Può darsi che egli fosse da principio negativo, poiché venne condannato alla tortura « in caput alineum », ma quando lo spogliarono giurò che avrebbe nominato tutti i suoi complici, compreso Carranza, del quale diceva lo avesse traviato all'eresia. Tuttavia il Tribunale non transigeva dal considerarlo come capo del movimento e nel pomeriggio precedente l' « auto da fé » inviarono nella sua cella il Frate Geronimita, Antonio della Carrera, per estorcergli altre rivelazioni. Risulta dai rapporti di Fra' Antonio, che il condannato fu trovato incatenato in una cella oscura, col piè de amigo alla gola. Salutò caldamente i suoi visitatori, ma quando seppe la loro intenzione, protestò vivamente, dicendo che non poteva fare altre deposizioni, poiché aveva già confessato tutto, contro sé e contro gli altri. Per due ore gli inquisitori lo interrogarono invano e poi gli comunicarono che doveva morire.

Nella solitudine della sua cella il disgraziato non si era immaginato il destino che lo attendeva, credendo che lo avrebbero riammesso in seno alla Chiesa e l'annunzio della sentenza di morte lo colpì come un fulmine. Secondo taluni, svenne e per un'ora non riprese conoscenza, altri riferiscono che non voleva credere alla realtà e continuava a domandare se non potesse sfuggire in qualche modo. Gli venne detto che se avesse fatta una confessione più esauriente, allora eventualmente lo avrebbero salvato, ma egli continuò a ripetere che aveva già detto tutto. Indi compì il rito della confessione, ottenne l'assoluzione e pregò sino alla mattina, ringraziando Dio, perché lo aveva messo a questa prova per la salvezza della sua anima. Lodò e benedisse ad alta voce il Santo Uffizio e tutti gli incaricati, dicendo che esso non era stato creato da mano umana, ma da quella del Signore, che egli accettava con rassegnazione la sentenza che era giusta e meritata, che non desiderava vivere oltre e che non avrebbe nemmeno accettata la vita che, come nel passato, anche nell'avvenire, non gli sarebbe servita ad altro che alla dannazione della sua anima. Ripeté tutto ciò quando al mattino entrarono nella sua cella, portandogli il sanbenito, che egli baciò, dicendo che lo avrebbe indossato con grande gioia. Dichiarò che se si fosse presentata l'occasione all'« auto da fé », avrebbe maledetto Lutero lanciandogli invettive e persuadendo anche gli altri condannati a prendere questo atteggiamento.

Nella sua esagerata esaltazione religiosa, mantenne tutto quanto aveva promesso e parlò con tanta eloquenza all'« auto da fè », che si dovette farlo tacere. Quando lessero le sentenze degli altri condannati, dall'infima gradinata gli venne incontro sua sorella, condannata a carcere perpetuo; si abbracciarono versando calde lacrime e quando il fratello venne trascinato via la ragazza cadde svenuta. Incamminato verso il brasero Cazalla continuò la sua opera di conversione, persuadendo principalmente l'eroico Herrezuelo, il quale rifiutò però sdegnosamente di abbandonare la sua fede. Egli era l'unico vero martire del gruppo, professando coraggiosamente la propria fede, nonostante ogni sforzo degli inquisitori per convertirlo ed il terribile destino che lo attendeva. Cazalla sprecò tutta la sua eloquenza invano, ma Herrezuelo non poteva nemmeno rispondergli, poiché aveva il piolo in bocca e soltanto con la sua stoica pazienza dimostrò la sua inderogabile decisione.

Quando venne incatenato al palo, un sasso gettato dalla folla lo colpì in faccia, ferendolo, ma egli, col capo grondante di sangue, rimase irremovibile. Allora un alabardiere lo ferì nel ventre, ma nemmeno questo lo scosse e quando accesero il rogo sopportò con eroica rassegnazione il tormento e finì la sua vita provocando generale stupore. Il caso più pietoso fu quello della giovane moglie di Cazalla, Leonor de Cisneros. Essa aveva appena ventitre anni e quindi cedette presto alla pressione degli inquisitori e venne conciliata e condannata al carcere perpetuo. Ma durante i lunghi anni trascorsi nella casa de la penitencia, il peso della sua tristezza divenne sempre più insopportabile ed essa era ossessionata dal ricordo del martirio del marito. Infine non poté sopportare il segreto tormento, e, pienamente consapevole del destino che la attendeva, confessò di essere tuttora eretica.

Nel 1567 venne posta sotto nuova istruttoria e sebbene i suoi parenti avessero fatto di tutto per salvarla, come recidiva non poteva sfuggire alla morte sul rogo.
Il 28 Settembre 1568, ella espiò l'eresia di dieci anni prima e venne arsa viva come recidiva ostinata.

I rimanenti condannati, per il movimento di riforma di Valladolid, vennero riservati per un'altra occasione solenne, cioè l'8 Ottobre. Filippo onorò della sua presenza l'«auto da fè » ed a capo scoperto e le mani guantate, prestò il giuramento di rito. Questa cerimonia era ancor più pomposa della precedente. Un ufficiale fiammingo, che era presente, stimava a duecentomila il numero degli spettatori e sebbene avvezzo a simili spettacoli, non poteva nascondere la sua commozione e compassione per i condannati. Oltre ad un moro e ad un ebreo, vennero inviati al patibolo 26 protestanti, ma anche questa volta soltanto pochi di essi ebbero la costanza di assurgere al martirio. 13 si conciliarono in tempo e vennero riammessi in seno alla Chiesa, oltre a Juana Sanchez, la quale era riuscita a procurarsi nelle carceri un paio di forbici e si era sgozzata con esse, ma prima di morire si convertì. La sua confessione però fu ritenuta incompleta e perciò ella venne bruciata in effigie. Carlos de Seso era rimasto fedele alla propria fede sino all'ultimo e, a quanto si riferiva, venne sorretto da due incaricati, quando lessero la sua sentenza, giacché non poteva stare in piedi per le terribili torture a cui era stato sottoposto.
Anche Juan Sanchez resisté eroicamente e quando accesero il rogo, la fiamma bruciò le corde che lo legavano al palo ed egli allora balzò dal brasero e si mise a correre tra le fiamme. Credevano che volesse confessarsi, ma quando portarono il confessore non lo guardò nemmeno. Secondo taluni egli venne gettato tra le fiamme dalle guardie, mentre altri scrivono che guardando in alto scorse il suo compagno de Seso che ardeva ed allora si gettò volontariamente tra le fiamme.

Fra' Domenico de Royas si mostrò spavaldo all'inizio e dopo la sua degradazione rivolse la parola al Re, assumendosi tutte le eresie. Ma quando lo trascinarono al patibolo, con la bocca spalancata dal piolo, cedette, dichiarando che voleva morire nella Fede romana ed allora venne strangolato. La stessa cosa successe con Pedro de Cavalla e Pedro de Sotelo, ai quali venne pure applicato il piolo alla bocca, per non aver mostrato pentimento: anche questi due si convertirono prima di salire al rogo. Così venne stroncato il protestantesimo latente a Valladolid.

Nello stesso tempo il Tribunale di Sevilla aveva non meno da fare, dopo la cattura di Julian Hernandez e Don Ponce de Leon. Gli arresti in breve divennero tanto numerosi che si dovette derogare dal regolamento che vietava di rinchiudere più di un colpevole in una cella, e si attendeva con impazienza che un « auto da fé » sfollasse le carceri. Per sollecitare il lavoro, la Suprema inviò, nel 1559 a Sevilla, Mune Brega, vescovo di Tarazona, antico inquisitore, perché aiutasse il Tribunale nel lavoro. Ma egli fu terribilmente crudele e voleva condannare tutti al rogo; perciò litigò con gli altri inquisitori che, generalmente, votavano contro il suo parere nella Consulta de fè.
Più volte la Suprema dovette intervenire, per cui l'azione venne ritardata. Finalmente, il 24 Settembre, venne solennizzato un « auto da fé ».

Come a Valladolid tutta l'antica Castiglia, così ora anche l'Andalusia dimostrò il suo zelo religioso, affollandosi in grandi masse a Sevilla. Già tre giorni prima del Rito il numero dei convenuti era talmente grande che la città non riusciva ad ospitarli e molti dovettero dormire sui campi. I palchi erano di grandissima dimensione e vennero riservati posti speciali per la Principessa Bejar e una sua amica, le quali, a quanto pare, erano venute a godersi lo spettacolo del supplizio del loro parente Juan Ponce de Leon.

Trentotto Frati e Gesuiti furono impiegati a preparare le sciagurate vittime al loro destino. Don Juan Ponce de Leon era la vittima di rango più elevato ed aveva sopportato due anni di carcere nella convinzione che un uomo del suo grado non avrebbe potuto essere arso vivo. Egli era un fervente protestante ed aveva fatto erigere una specie di chiesa sul suo podere, dove si tenevano segretamente delle funzioni religiose. Salì risoluto al palco degli accusati, alzò le braccia al cielo ed implorò Dio di farlo bruciare subito, con la moglie ed i figli, come martiri della propria fede, aggiungendo che se avesse avuto un colossale patrimonio, lo avrebbe dedicato tutto per diffondere la religione evangelica nella Spagna, ma quando seppe che effettivamente lo attendeva il brasero, finse di convertirsi e persino al patibolo sollecitò i suoi compagni a seguire il suo esempio e frattanto versava abbondanti lacrime. Infine fu gettato vivo sul rogo.

La vittima che seguiva era Juan Gonzales, il famoso predicatore, di origine mora. All'età di dodici anni era stato già punito a Cordova, per certe pratiche maomettane. Durante l'istruttoria rifiutò recisamente di tradire i suoi compagni e per tutta la notte rispose col canto dei Salmi di David, agli incitamenti dei frati. Persino al patibolo continuò i suoi discorsi eretici, con due sue sorelle, finché gli venne applicato il piolo alla bocca e tutti e tre vennero bruciati.
La vittima che destò il maggior interesse fu la ventiseienne Maria de Bohorques, figlia di Pedro Garcia de Xeres, distinto nobil uomo di Sevilla. Era una dama di grande coltura, versatissima nelle Sacre Scritture. Quando alla vigilia entrarono i Frati nella sua cella, li accolse cordialmente e non mostrò alcuna sorpresa nell'apprendere della sua condanna. Uno dopo l'altro entrarono Domenicani, Gesuiti, Francescani e Carmelitani, per il vano tentativo di convertirla, poiché essa rispose a tutti con citazioni della Bibbia e fu l'unica che difese fino alla fine la propria fede. Così passò la notte, finché non venne accompagnata al corteo. Sul palco dell'« auto da fè », Ponce de Leon si affaticò pure per convertirla, ma essa lo fece tacere dicendogli che era l'ora di meditare sul Redentore. Trattò i Frati come sgradevoli importuni. Tuttavia, alle tre del mattino, cedette alle persuasioni, ma ben presto ricadde nell'eresia e venne arsa viva.

A questo « auto da fè » vennero condannati complessivamente diciotto luterani oltre al fuggitivo Francisco de Zafra, condannato in effigie. Due fra i condannati erano stranieri, Otto luterani fecero tempestivamente l'atto di penitenza e furono riammessi in seno alla Chiesa Cattolica. Venne ordinata la demolizione di due case di proprietà di Luis de Abrego ed Isabel de Baena, dove erano stati tenuti dei convegni di eretici. Il suolo dove erano sorte le case doveva essere cosparso di sale.
Il lavoro venne continuato indefesso, tuttavia soltanto il 22 Dicembre 1570, riuscirono a raccogliere un certo numero di colpevoli da inviare alle galere. A questo « auto da fé », 26 sudditi stranieri vennero assolti e rilasciati come innocenti e ciò dimostra, meglio di tutto, l'audacia e la mancanza di scrupolo con cui gli inquisitori procedevano agli arresti.

Quando veniva arrestato qualcuno, sospetto di aver predicato le sue errate dottrine, gli si applicava immediatamente il piolo alla bocca per impedirgli di parlare. Fra questi, meritano di essere ricordati due o tre casi. Julian Hernandes abbandonò la sua tranquilla casa di Francoforte, con l'audace intento di recarsi in Spagna, a fare opera di proselitismo per la religione protestante. Rimase tre anni in carcere, ma sopportò coraggiosamente le infinite torture inflittegli ed ogni volta, quando lo riportavano nella sua cella, cantava degli inni di fede.
Si dice che egli non avesse smesso questi canti neppure quando il rogo fu acceso e di conseguenza gli posero il piolo per obbligarlo a cessare; un attimo prima che fosse giustiziato un frate gli tolse il piolo dalla bocca nella speranza che cedesse all'ultimo momento, ma egli gridò subitò : « Uccidetemi, uccidetemi », e le guardie lo trafissero con le lance.
L'unica graziata fu Dona Juana de Bohorques che era stata giustiziata al precedente « auto da fè ». Juana morì nelle carceri e così in realtà graziarono solo la sua memoria ed il suo buon nome. Gonzales de Montes asserisce che essa fosse morta per le atroci torture.

Sevilla come principale centro industriale della Spagna, naturalmente attirava un gran numero di commercianti e marinai. Ma i numerosi arresti di forestieri, i quali finivano assai spesso negli « autos da fè » fecero in breve diminuire l'affluenza e quindi tutto il movimento commerciale della città. Ad esempio, nel 1561, vennero arrestati tre stranieri, due francesi ed un inglese. Dei primi due non ci é dato di sapere molto, ma sembra che riuscissero ad ottenere la conciliazione, subendo soltanto una pena di carcere. Il terzo, tale Harry Burton, armatore inglese, non fece alcun segreto della sua fede protestante, nella quale era stato educato e perciò venne arrestato ed i suoi beni sequestrati. I proprietari delle merci imbarcate sulla nave del Burton, preoccupati della sorte del carico, inviarono nella Spagna un giovanotto di nome John Frampton perché esigesse la restituzione. Dopo vari mesi di tergiversazioni gli venne data la risposta che i suoi documenti erano incompleti. Ritornò a Londra e portò con se a Seviglia gli atti richiesti. Seguirono altri mesi di rinvii ed infine il Frampton venne gettato nelle segrete, col pretesto che si era trovato nei suoi bagagli un libro sospetto (si trattava della traduzione inglese di un'opera di Catone). Il giovanotto venne sottoposto ad un supplizio talmente terribile che ripetutamente svenne e quando non resse più alle torture, finalmente si dichiarò disposto a convertirsi alla religione cattolica.

Il Burton era più perseverante e perciò venne senz'altro arso. Il Frampton, dopo 14 mesi di carcere, scampò il pericolo con la sentenza di sequestro dei suoi beni, un anno di carcere e la perpetua espulsione dalla Spagna. Il Frampton valutò le sue perdite a 760 sterline inglesi ed il totale dei sequestri compiuti durante quell'« auto da fè » pare ammontassero a 50.000 sterline. Ciò é probabilmente un'esagerazione, tuttavia dimostra che l'Inquisizione non trascurava mai il lato materiale delle punizioni. Così il piccolo nucleo di protestanti di Sevilla venne quasi completamente distrutto ed agli « auto da fé » seguenti incontriamo anche un numero sempre minore di stranieri.
Con questo cessava la parte di attività dell'Inquisizione Spagnola riguardante la persecuzione dei protestanti. Filippo II diresse il 23 Novembre 1563 una circolare a tutti i Vescovi spagnoli che trattava a lungo degli sforzi compiuti dai luterani per propagare le loro dottrine in Spagna. La lettera diceva « In questi momenti difficili bisogna appoggiare in ogni modo l'Inquisizione, appostando dovunque delle spie che riferiscono le eventuali pratiche dei luterani. I vescovi devono sorvegliare attentamente le loro diocesi ed i predicatori limitarsi a porre in rilievo la santità della Fede cattolica, omettendo di menzionare gli eretici. Si doveva peraltro ordinare ai confessori che cercassero di convincere i penitenti ad accusare all'Inquisizione ogni persona sospetta di eresia ».

Ma tutti questi sforzi non fruttarono altre scoperte; il protestantesimo spagnolo non fu altro che un episodio, e non ebbe altro risultato con il suo soffocamento di rafforzare ancora più l'Inquisizione, escludendo la Spagna, nei secoli susseguenti, dal movimento di progresso intellettuale e commerciale dell'Europa. La sorte di Jualian Hernandes era una prova poco incoraggiante per coloro che intendessero introdurre nella Spagna opere letterarie di carattere eretico. Se talvolta qualche missionario si incaricava di questa opera la missione generalmente aveva breve durata.

Si vociferava dovunque che la propaganda avviata in grande stile non avesse avuto altro scopo che di porre in maggior rilievo l'importanza dell'Inquisizione e di giustificare la sua ingerenza nel commercio. Nel 1566, Don Francisco de Alvara, Delegato spagnolo in Francia, svolse delle indagini a Montpellier per chiarire in quale modo i libri eretici entravano nella Spagna e più precisamente nella Catalogna, dove viveva un gran numero di francesi.
Nello stesso anno, Margherita di Parma informò, dall'Olanda, Filippo che trentamila volumi delle opere di Calvino erano stati introdotti a Sevilla. Infatti la Suprema non tardò a dare ordini severi per il sequestro di questi libri.
Nel 1572 la Suprema comunicò a tutti i Tribunali che la Principessa di Bearn aveva tenuto un convegno con i luterani, in cui era stato deciso che alcuni membri travestiti venissero inviati nella Spagna, come missionari.

L'Inquisizione non tardò ad attivare le più severe misure precauzionali, ordinando a tutti i vescovi e prelati di stare all'erta nelle rispettive diocesi. Ma quantunque fosse fervente l'organizzazione del protestantismo, verso la fine del Secolo XVII si affievolì. L'ultimo caso di cui si ebbe sentore era nel 1603, quando il Principe di Anhalt introdusse a Sevilla un notevole numero di copie della Bibbia di Cipriano de Valera. Quando questo giunse all'orecchio della Principessa Caterina, sorella di Enrico IV, questa che aveva sempre incoraggiata la introduzione del luteranesimo in Spagna, inviò 300 copie dello stesso libro al Principe di Po, in Francia, chiedendogli se fosse stato possibile introdurre anche quel quantitativo in Spagna. Il principe indicò il nome di qualche famiglia fidata, ma la morte della principessa avvenuta nel 1604 pose fine a questo progetto.
Durante la guerra dei trent'anni i protestanti tedeschi avevano abbastanza da fare nel loro paese e non pensavano alla propaganda all'estero. E dopo la pace di Westfalia, l'entusiasmo e lo zelo religioso dei protestanti non era più tanto forte da poter promuovere un'opera difficile come l'introduzione di questa riforma in Spagna.

Fu uno strano episodio della guerra di successione che, quando nel 1706, l'Arciduca Carlo ed i suoi alleati britannici occuparono tutte le province appartenenti alla Corona aragonese e, con la temporanea occupazione di Madrid, sperarono nella completa vittoria, gli austriaci afferrassero immediatamente l'occasione per diffondere nella Spagna il Catechismo della religione anglicana ed altri libri del genere, che stavano in netto contrasto con la religione cattolica. Gli energici provvedimenti dell'Inquisizione, per affrontare questo attacco forniscono un'altra prova della sua fortissima organizzazione. Venne ordinata la più severa vigilanza alle frontiere e nei porti marittimi. La rivolta del popolo spagnolo, nello stesso anno, scacciò gli alleati, e non si sentì più parlare di movimenti di conversione svolti all'ombra delle spade. In generale lo sforzo di convertire la Spagna alla religione evangelica aveva suscitato assai più attenzione di quanta ne avrebbe meritato il significato di tutta l'impresa.

Un eretico di tempra eccezionale era Don Gaspar Centellas, di Valencia, distinto nobiluomo di grande erudizione. Durante l'istruttoria parò abilmente le accuse, ma quando il suo avvocato difensore gli sottopose alla firma l'atto di difesa, in cui era detto che egli ricosceva la Madre Chiesa Romana ed il Papa, come unica Chiesa di Dio, in cui voleva vivere e morire, rifiutò sdegnosamente la firma. Respinse ogni difesa e non diede nemmeno ascolto agli argomenti dei teologi che vennero incaricati di convertirlo. Non rimase dunque altro che bruciarlo, ciò che fu fatto, il 12 Settembre 1564. Suo fratello Miguel, comandante di Montesa, soffrì anche lui una lunga istruttoria, ma infine, nel 1567, fu assolto.

Sigismondo Arquer, conoscente di Don Gaspar, sebbene non fosse oriundo spagnolo, era suddito spagnolo. La sua istruttoria a Toledo, durò quattro anni, ma egli rimase ostinatamente negativo e quando, nel 1571, all' « auto da fé » venne consegnato al Tribunale civile sorse una strana discussione. Siccome il reato di eresia non era provato, il giustiziere, probabilmente corrotto dai parenti della vittima, si rifiutò di arderlo vivo e volle strangolarlo prima, ma la plebaglia, eccitata nel suo fanatismo religioso, si impadronì dell'Arquer che fu pugnalato e poi, moribondo, fu gettato tra le fiamme.

L'ultimo esempio di questo movimento fu, nel 1558, il caso del catalano Pedro Galles, conosciuto come il più grande scienziato della Spagna, in quell'epoca. Già, nel 1558, egli cominciò a respingere qualche dogma cattolico, sfuggendo tuttavia dal sospetto, poichè manteneva intimi rapporti con il Cardinal Arcivescovo Antonio Agustin. Nel 1563 abbandonò la Spagna, trasferendosi in Italia, dove si accentuarono le sue idee eretiche, che ebbero per conseguenza il suo arresto da parte dell'Inquisizione romana. Durante le torture perdette un occhio, tuttavia, convertendosi ancora in tempo, riuscì a salvarsi e nel 1580 ritornò in Spagna. Nel 1582 lo ritroviamo in Italia, dove si sposò e ricoprì la cattedra di filosofia all'Università di Genova. Nelle sue lezioni confutò alcune tesi di Calvino. Più tardi, abbandonata Genova, continuò la sua attività universitaria, a Nimes, ad Orange ed a Castres, sostenendo una fervente disputa col predicatore ugonotto.
Nel 1593 in compagnia della moglie e di due figliole era avviato verso Bordeaux, quando gli alleati improvvisamente lo arrestarono a Marmond, come ugonotto. Assieme alla sua magnifica collezione di manoscritti ed innumerevoli libri venne consegnato al Capitano Pedro Saravia, il quale era messo da Filippo II al servizio del Marchese Villars, Governatore di Guyenne. Il Galles non fece un segreto della sua fede ed il Saravia gioiva di poter estorcere da lui importanti chiarimenti, circa i suoi compagni di fede, ma il Governatore di Guyenne si rifiuto di consegnarlo all'Inquisizione si offerse di farlo strangolare e gettare in acqua egli stesso, ma non poteva assumere la responsabilità di estradarlo.
La giovane moglie di Galles disperatamente implorò i soldati di liberare suo marito e Saravia cominciò a preoccuparsi per il timore che Galles si liberasse prima che Filippo potesse intervenire. Ma l'intervento giunse a tempo e Galles venne consegnato al Tribunale di Saragozza, dove professò apertamente la sua fede e rifiutò di convertirsi. La sua fermezza valse a meritagli la grazia di Dio, inquantochè si ammalò nelle carceri e dopo il terzo dibattimento morì. Le sue ossa vennero bruciate all' « auto da fé » del 17 Aprile 1597.

Dopo la rivolta del 1558, soltanto pochi spagnoli parteggiavano ancora per il protestantesimo, restavano sempre gli stranieri a fornire del lavoro all'Inquisizione.
La Spagna in quell'epoca aveva la fama di un paese ricco, ciò che lo rendeva molto interessante agli stranieri. Inoltre il popolo spagnolo disprezzava le continue guerriglie praticate da francesi, fiamminghi ed italiani. Queste circostanze fecero sì che in tutte le maggiori città spagnole si stabilisse un gran numero di stranieri in cerca di affari, i quali si curavano ben poco delle questioni spirituali. Qualche istruttoria, svoltasi dinanzi al Tribunale di Toledo, nel 1570, si riferisce a tipografi francesi o fiamminghi i quali vennero gettati nelle prigioni di Toledo, Barcellona, Salamanca, Valladolid e Granada.

Il Conte Benavente, Vice Re di Valencia, nel 1600 stimò a 14 o 15.000 anime i francesi residenti in quella provincia ed inoltre ve ne erano molti anche nell'Aragona. Fra questi indubbiamente vi erano molti calvinisti, i quali nascondevano con cura la loro Fede e tuttavia la maggioranza era più o meno sinceramente cattolica. Ma questa devozione non era sufficiente per la valutazione spagnola. Infatti abituati a vivere in stretto contatto con gli eretici, non potevano odiarli con quel fanatismo che era generale negli spagnoli, perciò quasi tutti gli stranieri erano considerati sospetti ed i cattolici erano esposti al pericolo dell'arresto, non meno dei calvinisti. Jaques Zaharie, venditore di quadri sacri e rosari, di Burgos, udì un giorno alcuni spagnoli che criticavano la condiscendenza del Re Cattolicissimo, il quale permetteva a tanti eretici francesi di stabilirsi sul territorio della Spagna; il Zaharie non potè a meno di prendere la difesa dei suoi compatrioti, protestando che essi erano dei buoni cristiani.

Avendo un individuo osservato che non potevano essere buoni cristiani, dal momento che non andavano regolarmente alla Santa Messa e non praticavano la confessione, egli rispose che la confessione non aveva poi grande importanza. Per questa frase imprudente fu deferito al Tribunale, condannato alla prigione ed alla confisca di tutto il suo patrimonio. In questo stesso modo vennero trattati diversi artigiani e commercianti francesi e quando l'ambasciatore Saín Sulpíce presentò lagnanza a Filippo II per la crudeltà con cui si trattavano i suoi compatrioti, il Re rispose freddamente che l'Inquisizione non poteva fare alcuna parzialità, ma che avrebbe ugualmente parlato di ciò al Capo Inquisitore.

Un caso meno tragico fu quello dell'inglese Robert Fitzwilliam che venne condannato dal Tribunale di Sevílla a dieci anni di galera ed al carcere perpetuo. Egli venne arrestato il 25 Febbraio 1578, a bordo di un battello e nel 1582 la sua moglie Elen si presentò alla Corte di Madrid con una lettera di raccomandazione della Regina Elisabetta d'Inghilterra a Filippo II, con la preghiera di liberare il poveretto. In ogni altro paese sarebbe stato naturale la favorevole accoglienza di una simile domanda, ma nella Spagna era necessario il consenso del Santo Uffizio. Purtroppo mancano gli atti relativi a questa causa che indubbiamente però venne risolta favorevolmente, poichè l'affetto coniugale della fedele moglie commosse persino gli spietati Inquisitori, i quali nei diversi rapporti parlano nel tono di massimo rispetto ed ammirazione della bella signora.

Nel 1572, la Suprema ordinò che i francesi non dovessero più essere ammessi come insegnanti nelle scuole, poiché le esperienze avevano dimostrato che ciò era pericoloso. Man mano il solo contatto con gli stranieri cominciava ad essere pericoloso ed ognuno li sfuggiva. Nel 1568, l'inquisitore Moral nella sua relazione dopo la visita a San Sebastiano, espresse il desiderio che venissero castigati tutti coloro che mantenevano rapporti di amicizia con gli inglesi ed i francesi. D'altronde anche lo spagnolo che abbandonava il paese divenne sospetto e generalmente ogni suo passo all'estero era spiato da appositi incaricati.

All'« auto da fé » del 21 Luglio 1627 comparve un commerciante, il quale, durante la permanenza in Francia, aveva ascoltato una predica ugonotta ed aveva mangiato carne al venerdì. Venne condannato ad una ammenda di 1000 ducati e a tre anni di reclusione in un convento.
In simili circostanze il numero degli stranieri residenti in Spagna diminuiva rapidamente, mentre aumentava la miseria del paese, ogni modo si riscontra una forte diminuzione delle cause di protestanti d'innanzi all'Inquisizione.
A Toledo i casi di persecuzione della religione protestante, tra il 1575 ed il 1610, ammontarono complessivamente a 47. L'ultimo processo di questo genere avvenne nel 1648.
A Valladolid nei resoconti di 29 anni, cioè tra il 1622 ed il 1651, si trovano in tutto 18 casi, mentre al Tribunale di Madrid, fra il 1703 e il 1751, si trova un solo caso di protestantesimo.

Quantunque siano incompleti questi dati statistici, tuttavia attestano che attorno al 1600 era già fortemente scemato il numero dei colpevoli stranieri. Ma ciò non era conseguenza di civilizzazione o conciliazione, ma soltanto degli sforzi dell'Inquisizione che erano riusciti a creare una barriera tra la Spagna ed i paesi vicini, isolandola dalla civilizzazione europea. Questa barbara politica naturalmente danneggiò notevolmente il commercio con l'estero. Soltanto nel 1597 si fece eccezione con le città Hanseatiche. La Suprema dispose in quell'anno che quando le navi della Hansa entravano nei porti, cariche di merci, non si dovevano rivolgere domande all'equipaggio, circa la religione, ed era vietato anche di sequestrare il carico, salvo se l'equipaggio, durante la permanenza nel porto, avesse offesa la religione cattolica; ma anche in questi casi si doveva procedere soltanto al sequestro degli effetti personali del colpevole. Restò inalterato il diritto di controllare i carichi, ad evitare l'ingresso di libri proibiti.

Un trattato del genere venne concluso anche con l'Inghilterra e ratificato il 16 Giugno 1605 da Filippo III. Nel Novembre del 1604 un battello inglese, con un equipaggio di venti uomini, entrò nei porti di Messina e Palermo, per fare un carico di frumento. In quest'ultima città gli incaricati dell'Inquisizione visitarono la nave e quando l'equipaggio coraggiosamente dichiarò di essere protestante e di voler conservare la propria fede, fecero arrestare tutti. Gli inglesi fecero ricorso al Vice-Re, Principe Feria, il quale però non potè fare altro che scrivere una lettera privata al Re, avvertendolo che un simile procedimento avrebbe influito sfavorevolmente sulle trattative in corso con l'Inghilterra.
Più tardi gli inquisitori di Palermo tennero consiglio e decisero di rilasciare in libertà gli inglesi, a patto che si obbligassero di attraccare in un porto della Spagna e di presentarsi al Capo Inquisitore.

Le vessazioni contro gli stranieri ripresero ugualmente. Nel 1605 quattro inglesi vennero condannati a portare per due anni il sanbenito e relegati in remoti conventi, per essere istruiti nella religione cattolica. Essi riuscirono a fuggire, ma vennero arrestati a bordo di una nave francese, sprovvisti di sanbenito. Siccome il Tribunale non voleva sobbarcarsi le spese di mantenimento alle carceri, inviò i quattro arrestati in certi conventi dispersi nelle montagne e lontani dal mare, perchè vi facessero dieci anni di lavori forzati.
Queste inesatte crudeltà naturalmente ebbero delle gravi conseguenze nei rapporti internazionali della Spagna e con l'aggravarsi della situazione, nonchè negli evidenti interessi commerciali del paese, si rese necessario porre dei freni all'irresponsabilità dell'Inquisizione.

Il 15 Giugno 1605, Filippo ordinò che i sudditi inglesi non potessero essere imputati per azioni commesse prima della loro venuta in Spagna; che essi durante la loro permanenza nel paese non fossero obbligati a visitare le chiese, ma ove lo avessero fatto spontaneamente dovevano dimostrare profondo rispetto verso il Santissimo Sacramento. Incontrandolo sulla via dovevano inginocchiarsi, oppure cambiare direzione, o ritirarsi nella più prossima casa e se qualcuno fosse stato posto sotto accusa per violazione di queste norme, si poteva procedere soltanto alla confisca del patrimonio personale e non della nave, del carico, o di altra merce affidata ad esso. Il Re garantì con la sua parola d'onore che avrebbe mantenuto questi patti.

Il cardinal Arcivescovo di Madrid, nel 1608, approvò la linea di condotta del Re, ma dichiarò di sentire un profondo dolore, giacchè aveva appreso la conclusione della pace con l'Inghilterra, temendo il castigo di Dio che certamente avrebbe colpita la Spagna. La sua indignazione era aumentata dall'atteggiamento degli inglesi a Valencia, i quali praticavano apertamente i riti della loro religione, dando cattivo esempio alla popolazione di fedeli.
Alla scarsezza dell'armistizio con l'Olanda, nel 1621, naturalmente vennero revocati tutti i privilegi concessi agli Olandesi e quando, nel 1624, scoppiò la guerra contro l'Inghilterra, l'Inquisizione si accinse avidamente a ripulire la Spagna dagli Anglicani. Il Capo Inquisitore Pecheco co
municò al Sovrano che soltanto la concessione papale aveva reso possibile a Filippo III di iniziare il trattato di pace del 1605, ma ora che la pace era stata violata e quindi cessati i motivi della concessione papale, egli, Pacheco, come Capo Inquisitore, seguendo i dettami della propria coscienza era costretto a vietare ai cattolici di stringere amicizia con degli eretici ostinati e malvagi come gli inglesi e gli scozzesi e per ovviare all'inconveniente aveva deciso di espellere questi dal territorio del Regno di Sua Maestà.

Il Capo Inquisitore dunque emise un severo ordine, per ogni inglese e scozzese non cattolico, di abbandonare la Spagna entro venti giorni, informandoli che scaduto questo termine il Santo Uffizio li avrebbe inesorabilmente puniti. Dobbiamo supporre che Filippo non approvasse questa incursione dell'Inquisizione sul terreno dei poteri reali, poichè soltanto nel 1626 promulgò un proclama che vietava ogni contatto con l'Inghilterra ed ordinava la confisca di ogni merce inglese che non fosse importata per suo ordine.
Naturalmente l'Inquisizione, nella propria competenza, estese queste disposizioni procedendo all'arresto di ogni inglese che fosse sospetto di aver commesso la minima mancanza contro la religione cattolica.

Nel 1641 venne firmato il trattato commerciale con la Danimarca, alla quale venne concesso lo stesso trattamento già dato agli Inglesi. Il 30 Gennaio 1648 il trattato venne esteso all'Olanda a poco più tardi anche alle città Anseatiche.

Abbiamo già visto quanto fosse difficile far rispettare dall'Inquisizione le leggi interne e quindi non può stupire se il Santo Uffizio non teneva in gran considerazione anche gli impegni internazionali. Infatti, nonostante tutti i trattati, l'Inquisizione riusciva sempre a trovare qualche pretesto per sottoporre alla propria competenza giuridica l'odiato eretico straniero e certamente influiva su queste decisioni la cronica crisi finanziaria, nonchè la possibilità di sequestrare grossi patrimoni.

Nel 1625 venne arrestato un gran numero di sudditi inglesi a Malaia e l'Inquisizione procedette alla confisca dell'intero loro patrimonio. La stessa cosa avvenne a Sevilla nel 1622. Di un simile caso sono noti i particolari. Si tratta di George Penn, fratello dell'Ammiraglio Penn e di William Penn, fondatore della Pensilvanía. Questo gentiluomo non era affatto bigotto, diversamente non avrebbe sposato una cattolica in Inghilterra. Portò a Sevilla sua moglie; qui egli aveva una azienda bene avviata e nel 1643 fu arrestato dall'Inquisizione. Egli venne torturato fino a che confessò tutto quello che gli inquisitori volevano, cioè che era eretico e che aveva sposato ad Anversa una donna cattolica con l'intenzione di portarla in Inghilterra, per deviarla dalla vera fede ed educare i figlioli alla religione anglicana.
Pretesero dall'Inglese che abiurasse pubblicamente ad un « auto da fé » e che entro tre mesi abbandonasse la Spagna, mentre la moglie gli venne strappata e data in isposa ad uno spagnolo. Il patrimonio confiscato ad entrambi ammontava circa seimila sterline ed altre seimila affidate loro da altri. Il disgraziato ritornò in Inghilterra ridotto alla mendicità e con la salute gravemente menomata. Tentò di ottenere il risarcimento dei danni e così Carlo II, nel 1664, lo incaricò di recarsi come Legato nella Spagna, per dargli la possibilità di sollecitare sul posto i suoi diritti. Siccome però aveva già sessantatre anni, non arrischiò questo viaggio.

Un altro caso avvenuto poco dopo la conclusione del trattato di pace di Munster, illustra ampiamente la sovrana noncuranza dell'Inquisizione per i trattati internazionali. Paul Van Vechten, cittadino di Hoorn, venne arrestato ad Alicante. ìl Tribunale di Valencia aperse l'istruttoria nei suoi confronti, ma amici influenti dell'Olanda sollecitarono la sua liberazione ed Anthony Brunn, Ambasciatore d'Olanda, presentò lagnanza personalmente al Re.
Il Re scrisse il 15 settembre 1651 alla Suprema, sollecitando la revoca dell'accusa, dichiarando che il Van Vechten, come suddito delle Provincie Unite dell'Olanda, non apparteneva alla competenza dell'Inquisizione. L'Ambasciatore Brunn continuò le sollecitazioni ed allora Filippo, il 16 Dicembre, ripetè l'ammonimento fatto alla Suprema, sottolineando che non si dovevano provocare urti con l'Olanda. La Suprema finalmente si degnò di mandare le lettere del Sovrano al Tribunale di Valencia, ordinando di evadere la causa, cosa che fu fatta ed il prigioniero venne rilasciato, non senza però rimetterci buona parte dei suoi beni.

In quell'epoca, necessità politiche e diplomatiche rendevano desiderabile tanto alla Francia quanto alla Spagna l'alleanza con l'Inghilterra. Don Alonzo de Cardenas, Ambasciatore di Spagna a Londra, tentò nel 1653, di stringere un patto d'alleanza con Cromwell, ma il Lord Protettore d'Inghilterra pretendeva l'ampia estensione della protezione dei cittadini inglesi residenti nella Spagna. Fra l'altro esigeva che gli Inglesi che praticavano il commercio in Ispagna potessero tenere nelle lori case le proprie bibbie e potessero tenere servizi divini, secondo il loro rito, senza essere esposti al pericolo dell'arresto e della confisca dei beni.
Quando l'abbozzo di questo patto venne presentato a Filippo, egli chiese il consiglio della Suprema, dichiarando chiaramente che piuttosto avrebbe lasciato perdere tutto il paese ed anche l'ultima goccia del proprio sangue, prima di approvare una cosa che urtasse la devozione ed il servizio di Dio. Nella sua risposta la Suprema dichiarò che, tanto secondo le leggi canoniche, quanto secondo quelle delle varie città, il Sovrano non aveva diritto di accettare questi impegni e citò le parole di Gregorio XV il quale aveva obbligato l'Inquisizione ed il Sovrano stesso, sotto pena di gravi misure spirituali, ad espellere senza esitare tutti gli eretici dal paese. Dimostrò inoltre che questi eretici, assumendo al loro servizio persone cattoliche, le contaminavano con la loro eresia e che tutti coloro che sapevano di simili casi commettevano un peccato mortale se non li denunciavano immediatamente all'Inquisizione.

Questi argomenti non fecero altro che rafforzare il Re nella sua primitiva decisione e quindi il trattato fu respinto. Fu così che nella lizza per accaparrarsi l'amicizia dell'Inghilterra facilmente vinse la Francia.
Nel 1663 ripresero le trattative con l'Inghilterra, ma quest'ultima insisteva nelle condizioni poste da Crowvell e così Filippo chiese nuovamente il consiglio della Suprema che naturalmente era tuttora avversa. Dopo la morte di Filippo, il Trattato venne concluso, il 17 Settembre 1665, ed i privilegi garantiti vennero estesi a tutti i sudditi inglesi residenti in Spagna.
Un altro trattato con l'Inghilterra, firmato il 23 Maggio 1667, precisava ancor più chiaramente che era vietato di maltrattare gli Inglesi col pretesto della religione, oppure provocare qualsiasi manifestazione pubblica di ostilità, fino a che essi mantenevano un atteggiamento corretto. Su questa base vennero stabiliti i rapporti tra i due Reami.

Nei confronti della Francia la situazione era naturalmente diversa. Gli Ugonotti erano appena tollerati nel proprio paese e, quindi non potevano pretendere di essere maggiormente protetti all'estero. Essi potevano soffermarsi nella Spagna solamente se si dichiaravano cattolici. Ancora nel 1791, secondo un decreto di Carlos IV, venne installato un apposito ufficio notifica degli stranieri dove si tenevano una rubrica di tutte le persone entrate nel paese e della religione di ognuno. Coloro che volevano naturalizzarsi dovevano essere cattolici e fare il giuramento di fedeltà.
Gli Ugonotti che volessero soffermarsi in Ispagna dovevano chiedere un permesso di soggiorno provvisorio, che di tempo in tempo rinnovavano. Essi non potevano assumere impieghi ed esercitare professioni ed era loro proibito persino di entrare in servizio come servi. I contravventori venivano espulsi dal paese.

Quando però il trattato di pace del 1795 pose fine alla cruenta guerra con la Repubblica Francese e sorse la generale preoccupazione che fra poco si sarebbe venuti ad una rottura con l'Inghilterra, si manifestò il vivo desiderio del popolo di cessare la persecuzione dei Francesi, ma tanto i Tribunali civili quanto l'Inquisizione riconoscevano per Francesi soltanto coloro che portavano la coccarda tricolore, escludendo così dai privilegi gli Ugonotti. Quando scoppiò la guerra con l'Inghilterra si fece un altro passo avanti. Infatti Carlos ordinò ai suoi ambasciatori di comunicare alle potenze straniere che i loro sudditi avrebbero goduta una completa libertà religiosa, mentre, nell'Agosto 1797, vietava severamente all'Inquisizione di importunare qualsiasi straniero per questioni religiose.
Però data la mentalità che prevaleva, anche in seguito, negli ambienti della Corte, si può dubitare con buon diritto della sincerità di tale ordine.

Il territorio dell'Inquisizione in quel tempo si estendeva lungo il litorale, comprendendo le città di fiorente commercio, come Valencia ed Alicante, perciò lo straniero non cattolico evitava quel porti e, particolarmente dopo il 1785, quando si teneva il registro degli stranieri.
La Spagna divenne un paese che tutti cercavano di schivare per non andare incontro alle incognite dell'Inquisizione e coloro che vi si avventuravano ugualmente, arrischiavano meno, professando apertamente la loro fede non cattolica. che non celandola sotto delle menzogne. David Boronan, protestante francese, viveva a Bilbao e riuscì a farsi considerare un buon cattolico; in seguito volle convertirsi effettivamente e si rivolse al Tribunale di Longronno, per abiurare e chiedere la sua ammissione nella Santa Madre Chiesa.
Nel 1791 venne però posto sotto accusa, per aver finto di esser cattolico.

Il continuo timore dell'Inquisizione degli eretici, è vivamente rispecchiato da una delle ultime attività della Suprema, prima di essere sciolta. Nel 18I9 impartì precise istruzioni ai commissari dei porti marittimi di visitare ogni battello per scoprire l'eventuale contrabbando di libri proibiti. Gli eretici stranieri non vennero più perseguitati per le azioni commesse all'estero, ma se commettevano qualche mancanza in Spagna, provocando degli scandali, venivano arrestati e consegnati al Tribunale per l'istruttoria.

Vi era però un caso di eccezione in cui non si poteva impedire l'affluenza degli eretici nella Spagna. Le guerre susseguentisi incessantemente resero necessario di assoldare delle truppe mercenarie, senza poter far distinzione di religione. Come nel 1527: una banda di luterani tedeschi, sotto il comando di Georg Fronzberg, al servizio di Carlo V, saccheggiò Roma. Le rivolte del Portogallo e della Catalogna trasformarono la Spagna in un vero e proprio territorio di guerra e perciò le reclute, da qualunque luogo provenissero, erano bene accette. Invano l'Inquisizione additò ripetutamente i pericoli che ne potevano derivare. In un consiglio della Suprema tenutosi il 13 Novembre 1647, si rammentò che quattrocento soldati germanici, sbarcati a San Sebastiano ed avviato verso la Catalogna, vantavano addirittura la propria eresia dinanzi alla popolazione, distribuivano libri eretici ed ingiuriavano le Sacre Immagini.

Ma non era possibile rimediare ed anche quando cessò la guerra, l'istituzione dei reggimenti stranieri continuò ad eccitare la sensibilità dell'Inquisizione, che, man mano, era costretta a rinunciare al rigore applicato nei tempi del suo fulgore. Il 22 Aprile 1650 la Suprema infatti ritenne opportuno avvertire i Tribunali che quegli stranieri che si presentavano volontariamente per confessare i propri errori, invece di essere chiusi nelle prigioni, dovevano essere ben accolti ed il rito della loro conciliazione doveva essere tenuto nella sala di dibattimento, con l'omissione di qualsiasi punizione materiale, limitandosi alle penitenze spirituali. Aggiungeva peraltro che l'eresia, se pur congenita, era sempre un peccato mortale, per il quale si doveva infliggere un'adeguata penitenza.

Le disposizioni stampate, probabilmente nel secolo XVIII, contenevano precise istruzioni per i dipendenti dell'Inquisizione, che dovevano investigare sulla vita precedente del peccatore convertito, sui motivi e lo scopo della sua conversione, affinché l'Inquisizione potesse rendersi conto del valore di tale conversione e sapere se questa avrebbe veramente significato la salvezza dell'anima del peccatore.
Un caso originalissimo che figura nelle relazioni è quello di Johann Heinrich Hortsmann, di Borgenstreich, il quale durante la sua vita era riuscito a procurarsi i mezzi di sostentamento, facendo una vera speculazione sull'opera di proselitismo svolta dalle due religioni opposte. Nacque nel 1663 ed ebbe una rigida educazione cattolica dai Gesuiti di Praga. All'età di 25 anni cambiò religione a Dresda, frequentò l'Università di Wíttenberg e per molti anni vagò per la Germania vivendo delle oblazioni di brave persone che lo appoggiavano come un convertito. Passò anche in Inghilterra dove venne aiutato persino dagli Arcivescovi di Canterbury e di York. Di là passò in Svizzera e riuscì a provvedersi di che vivere nei Cantoni protestanti, dichiarandosi un cattolico pronto a convertirsi al luteranesimo. Viceversa nei Cantoni cattolici si dichiarò luterano in cerca della beatitudine cattolica. In quest'ultimo caso egli dichiarò di essere stato battezzato con il rito luterano, ma i teologi dichiararono che questo battesimo non era valido per la cristianità e che doveva rifarlo. Egli riuscì a trovare una distinta personalità che si assunse l'incarico di fargli da padrino, incoraggiandolo nella sua nuova carriera con un dono di trenta ducati; inoltre alcuni buoni cattolici fecero una colletta in suo favore. Il buon uomo visse di queste pratiche fino alla fine della sua vita, viaggiando tutta l'Europa e sfruttando la devozione del prossimo. In tal modo pare che egli si fosse battezzato ventun volte. Infine visitò la Spagna, ma qui ebbe fine la sua carriera avventurosa all'età di ottantanove anni. I suoi ripetuti battesimi a Valencia ed a Madrid suscitarono il sospetto e tutti i Tribunali vennero incaricati di investigare sul suo passato. Dopo un anno di indagini venne arrestato a Valencia nel 1751. Con apparente sin
cerítà raccontò la storia della sua vita; dapprima asseriva che le sue ripetute conversioni erano state fatte o scopo di lucro; più tardi però disse che, ritenendosi aggredito dal diavolo, sperava di poterlo scacciare con i ripetuti battesimi. La Consulta de fé lo dichiarò apostata ed eretico recidivo, che non aveva più diritto alla vita; tuttavia bisognava compiere degli sforzi per salvare la sua anima. Sotto l'impressione di questa sentenza l'Hortsmann si ammalò mortalmente, ma non volle saperne degli inquisitori che si sforzavano di convertirlo, e quando uno di essi gli disse che se voleva morire da calvinista gli stringesse la mano, dato che non poteva più parlare, egli lo strinse con tale forza che l'inquisitore dovette essere liberato. Morì quindi da eretico il 2 Febbraio 1752. Il suo corpo venne sepolto in terra non consacrata e la sua cassa riempita di calce viva. Le ossa vennero esumate un anno dopo e bruciate all'« auto da fé » del 20 Agosto e le ceneri disperse.


LA CENSURA


La censura della stampa era una delle importanti attività dell'Inquisizione, che ostacolò in non lieve misura lo sviluppo delle classi intellettuali spagnole. Da principio gli inquisitori non erano investiti del potere di eseguire la censura, ma a quanto pare non lo ritenevano come loro dovere. È vero che già nel 1490, l'Inquisizione fece bruciare un gran numero di bibbie ed altri libri religiosi ebraici e poco dopo ad un « auto da fé » di Salamanca fece fare un falò di seimila volumi che trattavano il giudaismo e la stregoneria; inoltre è risaputo che Ximenes fece bruciare a Granada un gran numero di manoscritti mori, ma queste erano azioni illegali delle quali non rendevano conto a nessuno.

Papa Alessandro VI, nel 1501, dichiarò che la censura della stampa era una funzione spettante ai Vescovi ed invitò i prelati della Germania di controllare l'attività letteraria. Sotto il regno di Ferdinando ed Isabella fu promulgata una legge che vietava la stampa, l'introduzione nel paese e la vendita di qualsiasi opera letteraria, senza preventivo esame e concessione. A Valladolid la censura venne eseguita dai giudici del Tribunale reale; a Toledo, Sevilla e Granada il compito era affidato agli arcivescovi ed a Burgos al Vescovo, il quale teneva un apposito censore con una paga molto modesta.

Prima dei movimento protestante vi era poca richiesta di servigi del censore, ma ben diversa divenne la situazione dopo la rivolta luterana che minacciò la stabilità del cattolicesimo in Spagna. Nel 1521 la Santa Sede ammonì la Spagna di impedire il contrabbando di opere luterane ed il Cardinale Adriano dichiarò subito che tale attività spettava all'Inquisizione. Così l'Inquisizione ad un tratto si appropriò il diritto e la facoltà di impedire la diffusione di scritti probiti. Diversi editti del 1530 e 1531 dimostrano che il Santo Uffizio non era rimasto inattivo su questo campo. Gli eretici facevano stampare i libri sotto pseudonimi e molte volte allegavano delle rassegne eretiche ai libri di cui era stata concessa l'importazione. Era dunque necessaria una vigile sorveglianza dei Tribunali per smascherare le astuzie della propaganda eretica.

Quando nel 1535 il Tribunale di Valencia, confessò di aver trascurato questo dovere, la Suprema impartì severissime disposizioni, perchè, in seguito, riprendessero l'attività procedendo al sequestro dei libri proibiti. Inoltre venne fatto obbligo ad ogni buon cattolico di denunciare tutti quei libri che avessero una tendenza anticattolica.
Sorse in seguito un enorme numero di critici dilettanti che considerarono un piacevole dovere di denunciare alle autorità ogni parola o frase che sembrasse minimamente sospetta. Il primo regolare indice venne stampato nel 1546 dall'Università di Louvain. Una copia di questo, venne inviato nel 1547 al Capo Inquisitore Valdes, che lo inoltrò alla Suprema. Questa lo fece ristampare, completandolo di una appendice in cui erano elencati altri libri vietati nella Spagna ed il 1° Settembre dello stesso anno inviò le copie ai vari Tribunali.

Questo era il primo indice spagnolo. Da quel tempo la Suprema aveva sistemata una apposita organizzazione, poichè risulta dalla rubrica delle paghe del 1545 che furono liquidati al dottor Alvaro de Moscoso 40 ducati per lavori del genere.
La Suprema rivolse tutta la sua energia per censurare le Sacre Scritture, di cui venivano pubblicate numerose edizioni in latino, che avevano pure il testo corretto, ma nelle note a margine vi erano osservazioni ed insegnamenti di tendenza eretica. Il 22 Ottobre 1557 Julian Hernandez compilò un nuovo indice che conteneva un gran numero di queste bibbie e che venne messo a disposizione dei Tribunali. Secondo l'Hernandez questi libri erano stati stampati a Venezia ed introdotti nel paese attraverso la Fiandra e la Germania. Vennero pubblicati manifesti in tutte le città e meticolosamente visitate tutte le librerie ed inflitte severe punizioni a chiunque avesse tenuto libri messi all'indice.

Nel 1558 venne compilato un supplemento all'indice che conteneva i libri destinati ad essere bruciati. Così man mano la Suprema raccoglieva materiale per il suo indice.
La preparazione di questo indice esigeva un faticoso lavoro. Fra l'altro lo scienziato dottor Francisco Sancho, lavorò per molti anni per incarico della Suprema e nel 1559 riferiva di aver già raccolto un materiale abbondante destinato all'indice.
La pubblicazione dell'indice era seguita dall'organizzazione di un organo di revisione che aveva il compito di perquisire tutte le librerie e biblioteche, le collezioni private, nonchè le biblioteche univesitarie e conventuali. Tutti i possessori di libri dovevano permettere questa perquisizione, sotto pena di un'ammenda di duecento ducati. E non soltanto i libri messi all'indice, ma anche quelli sospetti dovevano essere deferiti alla Suprema, con l'indicazione del nome e del recapito dei detentori.

Il 4 Settembre 1558 l'Infanta Juana, a nome di Filippo II, promulgò una severa prammatica che stabiliva la collaborazione delle autorità civili col Santo Uffizio, gettando così le basi di morte e confisca dei beni venne vietata la stampa e la diffusione di libri che non fossero previamente esaminati dal Consiglio Reale per l'approvazione. Per ovviare a qualsiasi ulteriore cambiamento del testo ciascun foglio del manoscritto doveva essere controfirmato da uno dei segretari della Cancelleria reale, il quale poi riassumeva in un elenco tutte le correzioni praticate che dovevano essere pubblicate in calce al libro, con indicazione della relativa pagina. Facevano eccezione soltanto i documenti ufficiali dell'Inquisizione.
Questa legge eccessiva venne confermata anche da Filippo IV, nel 1627, mentre nel 1804 Carlos IV ne vietò l'applicazione. Comunque la storia non rammenta alcun caso di applicazione della pena di morte per la violazione di tale legge. I rapporti stesi degli esami dell'Inquisizione dimostrano che venne pubblicato un gran numero di libri d'indole religiosa, che, nonostante le severe pene comminate dalla legge, non vennero mai sottoposti all'approvazione del Consiglio Reale.

Non era difficile assicurarsi la collaborazione della Santa Sede, per rendere più efficace la censura. La Suprema, il 9 Settembre 1558, richiamò l'attenzione di Paolo IV sulla propagazione della religione luterana ed accusò i confessori di aver trascurato di diffidare i fedeli alla consegna dei libri proibiti. Il 5 Gennaio 1599 il Pontefice ordinò con un breve a tutti i confessori della Spagna, di rivolgere durante la confessione la domanda se il penitente avesse letto o comunque avesse conoscenza di simili libri o della stampa e diffusione di essi. In questo modo le autorità papali, reali e dell'Inquisizione si unirono nello sforzo di liberare il paese dalla letteratura di tendenza eretica.
Ma la censura dell'Inquisizione evidentemente non si accontentò di vietare le opere degli eretici stranieri, alla cui attività originariamente era limitato il suo compito. Per questa ragione fu danneggiato notevolmente lo sviluppo intellettuale della Spagna poichè nella maggior parte dei casi venivano messi all'indice i libri, non già per il loro contenuto, ma per l'autore se non era ben visto dal Santo Uffizio.

Tuttavia bisogna riconoscere che a tale riguardo l'Inquisizíone spagnola era sempre ancora più blanda di quella romana. Nel 1564 venne pubblicato l'indice di Pio IV, conosciuto sotto il nome di indice di Trento. Questo sarà la base di tutti gli indici pubblicati in seguito e conteneva i libri vietati. Da questo provvedimento vennero colpite tutte le opere che contenessero errori, anche lievi e casuali.
L'Inquisizione spagnola aveva una linea di condotta più corretta, poichè in molti casi non procedeva senz'altro al divieto, ma procedeva alle correzioni del caso, dopo di che il libro poteva essere pubblicato con le omissioni stabilite.
La censura e l'aggiornamento dell'indice richiedevano un notevole impiego di lavoro ed un personale versato nelle lettere e nelle questioni religiose. Tutti i Tribunali, prelati ed Università vennero invitati a fornire informazioni che erano trasmesse al Maestro Francisco Sancho, il quale all'Università di Salamanca, in base ad un antico indice ne compilò uno nuovo. Tuttavia il Sancho non riuscì ad ultimare il lavoro, poichè dovette allontanarsi da Salamanca e propose come suo successore il dottor Diego de Vera.

La Suprema era già molto impaziente ed il 6 Settembre 1572 rimproverò aspramente i teologi dell'Università, per non aver messo a parte ogni altro lavoro, dedicando tutta la loro attività per preparare d'urgenza il nuovo indice. Nel 1575, a quanto pare, l'indice non era ancora pronto, poichè Lincenciado de Velarde, che era incaricato di ultimare il lavoro, venne ripetutamente sollecitato dalla Suprema. Finalmente l'opera apparve in due volumi come nuovo indice del Capo Inquisítore Quiroga.
Nei lunghi intervalli che intercorrevano tra una pubblicazione e l'altra dell'indice, i Tribunali vennero obbligati a tenere una nota provvisoria dei libri che man mano venivano vietati, aggiornando così l'ultima edizione dell'indice. Nel 1781 il Tribunale di Valencia venne solennemente rimproverata, perchè non sapeva che la traduzione francese di Robinson Crosué era stata vietata con decreto del 16 Gennaio 1755. Persino i librai erano obbligati a tenere aggiornato l'indice. A questo riguardo i Tribunali avevano l'obbligo di comunicare sollecitamente a tutte le librerie ogni nuova opera condannata.

La correzione delle opere avveniva in modo che il censore cancellava con una spazzola immersa nell'inchiostro tipografico le parole od i periodi incriminati, rendendoli così del tutto illeggibili. Quando il Tribunale del Messico si fissò di condannare all'indice tutti i ritratti di Juan de Palafox, Vescovo di Puebla, uomo pio, sui ritratti stessi la sua testa venne pure cancellata con questo procedimento. Molte volte la lunghezza dei periodi rese molto difficile questa semplice procedura poiché i fogli si attaccavano ed il libro diveniva illeggibile. In ogni modo questi giustizieri della letteratura non si preoccuparono del danno apportato al movimento ed al progresso intellettuale.

I librai e di compratori di libri erano continuamente esposti ad esami e perquisizioni eseguite in modo rude, ciò che era opprimente ed intralciava in notevole misura il commercio librario. La revisione delle librerie e delle biblioteche pubbliche e private, iniziata già nel 1530, venne continuata sporadicamente, fino al 1599, mentre in seguito a poco a poco, divenne una regola fissa e sistematica che veniva praticata dopo la pubblicazione di una nuova edizione dell'indice. Gli archivi della Suprema sono ricolmi di lettere e disposizioni che fanno testimonianza dell'indefesso fervore col quale veniva svolta questa opera.

Nel 1660 i Tribunali di Valencia, Barcellona e Murcia vennero istruiti di inviare alla Suprema la raccolta di libri del Governatore di Castiglia. Più tardi la Suprema diede disposizioni al Tribunale di Sevilla, perchè esaminasse la biblioteca di Fraé Diego Darina, verificando particolarmente se vi si trovassero le opere indicate da Montoya.
Allora ordinarono al Tribunale di Murcia di mandare al dottor Montoya i libri di Don Juan de Morces, ma la Suprema esigeva che le fosse mandata anche la biblioteca del confessore del Re per il controllo. Tutti questi erano collezionisti privati, che a causa del loro buon gusto e del loro entusiasmo per la scienza, venivano sottoposti a continue vessazioni ed umiliazioni e poi privati dei loro volumi più cari, che molte volte venivano danneggiati irreparabilmente nella rilegatura. Il solo fatto di possedere libri era già un motivo di sospetto e se i collezionisti privati erano trattati a questa stregua è facile immaginare come furono trattati i librai.

Nessuno poteva essere esente dalle conseguenze della campagna condotta contro la coltura e le scienze. Nel 1627 venne promulgato un decreto che ordinava ai librai, sotto pena di 40 ducati di ammenda, e della scomunica, di mandare al Santo Uffizio la nota dei libri vietati, in loro possesso. Nel 1618 venne ordinato al Tribunale di Sevilla di porre il sequestro su tutti i libri di Arías Montano. Persino l'Escuríal reale andava soggetto a queste norme umilianti. Quando apparì l'indice del 1612 il Priore di San Lorenza presentò una domanda alla Suprema, in cui veniva espresso il desiderio del Sovrano che non venissero asportati i libri proibiti della biblioteca reale che provenivano dalla biblioteca della Clausura e le cui chiavi erano custodite da lui e dal capo bibliotecario. Allora il Capo Inquisitore inviò Fra' Francesco de Jesus, perchè visitasse la Biblioteca e facesse rapporto. Ciò avvenne il 13 Novembre 1613 ed in seguito la Suprema emise il seguente ordine: « Tutti i volumi di indole puramente letteraria siano posti in una stanza a portata del Priore, del Capo bibliotecario e dei professori di Università; di questi vengano contrassegnati da un segno rosso quei volumi di autori che hanno avuto qualche opera condannata all'indice. Tutte le opere che trattano materia religiosa totalmente od in qualche punto, siano chiusi in un'apposita camera, in cui potranno essere letti soltanto dal Priore e dal Capo bibliotecario, ma anch'essi dovranno avere il permesso speciale della Suprema e del Capo Inquisitore. Questa camera dovrà avere due chiavi di cui una resterà al Capo bibliotecario e l'altra alla Suprema. Siano pertanto compilate due note, una delle quali resterà nella camera chiusa e l'altra verrà consegnata alla Suprema. Il Frate che attende alla farmacia di Corte è autorizzato a leggere i volumi che trattano di scienze mediche ».

Evidentemente la Suprema prendeva le precauzioni più vigorose ed accuratamente studiate per soffocare fin dall'inizio ogni tentativo di contaminazione spirituale.
In tanta rigidezza vi fu un piccolo sollievo quando nel 1616 il Capo Inquisitore Sandova visitò l'Escurial e permise anche ai professori di Università di poter leggere i libri trattanti materia religiosa, senza distinzione. La questione venne di nuovo sollevata nel 1632, quando venne pubblicato il nuovo indice di Zapata ed il Capo Inquisitore Sotomayor approvò le disposizioni del 1613. Ma quando uscì anche il suo indice, nel 1640 i Frati di San Lorenzo chiesero alla Suprema che la biblioteca reale non fosse sottoposta a nuovi ritiri di opere, come avrebbero voluto le disposizioni annesse al nuovo indice. La Suprema in una lettera diretta al Sovrano rispose che appunto perchè si trattava della biblioteca maggiore del mondo e perchè era di proprietà del Re doveva servire di esempio e non contenere nessuna opera contraria al Cattolicismo; quei volumi che secondo l'ordine del 1613 si trovavano relegati in una stanza separata avrebbero potuto rimanervi, ma a disposizione soltanto del Capo Inquisitore che avrebbe tenuto l'unica chiave.

Contro la severità dimostrata dagli Inquisitori nel campo della censura non tardò a manifestarsi un generale malcontento. Il potere dato ai revisori forniva un'occasione talmente propizia all'oppressione ed all'estorsione che queste cariche divennero molto ricercate. Le commissioni si moltiplicarono, finchè non scoppiò una ribellione generale contro queste spie e questi ricattatori, della letteratura. Ciononostante il severo controllo delle biblioteche pubbliche e private perdurò sino alla caduta dell'Inquisizione. Infatti negli annali dell'Inquisizione si trova ripetutamente cenno di provvedimenti inerenti alla censura. Così per esempio si trova una nota dei volumi della biblioteca di Juan Gualberto Gonzales che il Tribunale di Sevilla trasmise a quello di Madrid. In un'altra occasione il procuratore del Re richiese la nota della biblioteca del Marchese de Narros.

In seguito alle difficoltà finanziarie in cui l'Inquisizione venne man mano a trovarsi il lavoro della revisione veniva affidato ad incaricati che riscuotevano il compenso per il loro operato direttamente dalla persona colpita dal provvedimento.
Quando il proprietario di qualche collezione di libri moriva, l'Inquisizione interveniva immediatamente per esaminare la biblioteca. A quanto pare nel 1655 dovevano passare tutti i libri per le mani della Suprema, poichè alla morte di Don Alonzo de la Torre il Santo Uffizio ordinò al Tribunale di Valencia di inviargli l'intera raccolta libraria del defunto. Le disposizioni del 1707 limitavano questa intromissione soltanto al caso in cui l'eredità di libri venisse posta in vendita, per impedire che volumi proibiti fossero messi in circolazione.

La caccia ai libri proibiti per poco non portò ad un incidente internazionale. Quando il Console Olandese Leonard Schuck morì ad Alicante, venne incaricato il Console francese dell'esecuzione testamentaria. La casa ed i beni mobili vennero muniti di sigillo reale, ma l'incaricato dell'Inquisizione, presentatosi al Governatore, pretese che fossero tolti i sigilli e che gli venissero date le chiavi, per poter procedere alla compilazione dell'elenco dei libri e dei manoscritti, poichè, come disse, aveva avuto sentore che vi si trovassero degli esemplari proibiti. Il Governatore si rifiutò ma l'incaricato, di nottetempo, fece togliere arbitrariamente i sigilli, penetrò nella casa, preparò in fretta l'elenco e fece alla meglio rimettere i sigilli.
L'Ambasciatore d'Olanda presentò lagnanza al Sovrano Carlo IV ed il Ministro Urquijo, ostile all'Inquisizione, afferrò l'occasione per richiamare all'ordine severamente il Santo Uffizio, facendogli presente che con simili procedimenti si sarebbe creato una pessima fama all'estero.

La visita delle biblioteche dei defunti continuò anche dopo la Restaurazione. Nonostante il permanente rigoroso controllo, molti riuscirono a procurarsi dei libri vietati. I libri vietati erano generalmente prodotto di autori stranieri, poichè la Suprema già aveva soffocato la produzione spagnola. L'unico pericolo, quindi, contro il quale il Santo Uffizio doveva difendersi era l'importazione dall'estero. Se i provvedimenti per impedire l'entrata nei paese, di prodotti letterari vietati, non venivano impartiti ed eseguiti con la massima rigidità, non vi sarebbe stata più facilità di impedirne la circolazione.

Non è possibile stabilire con esattezza l'epoca in cui l'Inquisizione si assunse la censura della stampa, ma probabilmente questa attività risale alla prima invasione dei Luterani, avvenuta tra il 1557 ed il 1558.
La Suprema in una lettera diretta a Carlo V informava il Sovrano di aver dato istruzioni agli inquisitori di esercitare un controllo particolarmente severo nei porti marittimi e lungo la frontiera francese, ma che l'audacia degli eretici rendeva problematico persino questo provvedimento, ciò che era provato dalle quotidiane confische di libri vietati.
A poco a poco tutto il commercio di importazione della Spagna passava attraverso la sovrintendenza dell'Inquisizione, che faceva eseguire il lavoro di controllo da incaricati che non avevano stipendio, ma che estorcevano dai commercianti il loro compenso, sotto forma di una tassa fissa. Ciò ostacolò gravemente tutta l'attività commerciale della Nazione.

Particolarmente ne soffrì il commercio librario, che era considerato completamente alla mercè del Santo Uffizio. Nel Secolo XVI venne promulgato un ordine a tutte le autorità portuarie e di frontiera, che i pacchi di libri giunti dall'estero dovessero essere inoltrati alla Suprema senza essere manomessi. Così tutta l'importazione librarla cadde nelle mani della Suprema.
Un caso avvenuto a Barcellona, nel 1666, illustra ampiamente il danno provocato da questa meticolosità retrograda. Uno dei librai della città ordinò alcune copie di un'opera recentemente pubblicata. Gli Inquisitori ritrovarono il nome dell'autore nell'indice del 1641; era un filosofo e teologo germanico e quindi non esitarono a porre sotto accusa tutte le sue opere. La merce venne consegnata ai censori che dopo cinque mesi fecero un rapporto al Tribunale.

Lo scoppio della Rivoluzione Francese stimolò l'Inquisizione a raddoppiare la sua attività e vigilanza per eliminare i prodotti pericolosi della letteratura. Politica e Religione erano completamente fuse in quell'epoca e perciò l'Inquisizione aveva in gran terrore la propaganda rivoluzionaria, non meno di quanto avesse temuto nel Secolo XVI la propaganda antireligiosa.
Nel 1792 la Suprema ripete il severo ordine ai Tribunali di controllare con particolare scrupolo l'importazione dei libri francesi, dicendo che i francesi seminavano questo seme velenoso per far sorgere dovunque la rivolta contro la religione e la monarchia. Ad ogni ufficio doganale vennero posti due revisori, una dal Tribunale civile e l'altro dal Santo Uffizio. Essi procedevano, in collaborazione, alla visita di tutti i prodotti di stampe e manoscritti che entravano nel paese.

Così si schieravano le forze unite dell'Inquisizione e dello Stato, nella difesa della Religione e della Corona, ma purtroppo non lavoravano sempre in armonia. Evidentemente però anche questo controllo estremamente rigido, che avrebbe dovuto impedire l'importazione di qualsiasi libro eretico, non valse ad impedire l'entrata di scritti stranieri.
Dopo la Restaurazione, nello statuto del 1812, prevalse lo spirito reazionario ed il controllo dell'importazione libraria venne affidato esclusivamente all'Inquisizione. Quando una nave gettava l'ancora, prima che potesse scaricare la merce, salivano a bordo le varie commissioni: della sanità, della difesa nazionale e dell'importazione. Più tardi le commissioni della sanità e della difesa nazionale vennero riunite in una sola, mentre l'altra era composta dal commissario dell'Inquisizione e dal suo cancelliere. Siccome questi incaricati non erano pagati, pretendevano il compenso delle loro prestazioni direttamente dai proprietari della nave.
Quando essi avevano visitato gli effetti dell'equipaggio e dei passeggeri, mettevano delle guardie per sorvegliare che non venissero scaricati i libri vietati da loro rinvenuti. Quando scaricavano il carico del bastimento, la commissione faceva aprire ciascun collo e se vi trovava dei libri, naturalmente controllava che non fossero di autori figuranti sull'indice. Finalmente venne richiamata l'attenzione del Re sulle dannose conseguenze che questo sistema di controllo aveva sul commercio spagnolo.

In seguito, nel 1632, venne fatto pervenire a tutti i porti un proclama del Re, in cui egli dichiarava che le continue vessazioni allontanavano gli esportatori stranieri che mandavano merce in Spagna e che questo portava alla decadenza ed alla completa rovina del commercio, poichè su ogni bastimento erano tante le commissioni all'arrivo che il compenso delle commissioni d'ispezione finiva a divenire proibitivo.
Era inevitabile che l'atteggiamento provocante delle commissioni portasse a frequenti divergenze. Così avvenne per esempio in Sardegna, nel 1616, quando in seguito ad una lite l'Inquisitore scomunicò il Governatore, mentre il Vice Re per risposta espulse dall'isola l'inquisitore. L'espulsione venne comunicata solennemente al popolo, ciò che provocò tanta impressione nei membri dell'Inquisizione, che non osarono più riunirsi e fuggirono nelle montagne.

La lotta più accanita si svolse però a Bilbao e durò più di cento anni. Come porto di maggior traffico della Spagna, la popolazione naturalmente protestò contro gli innumerevoli gravami che l'Inquisizione infliggeva sul traffico portuario. Era appena istituito il provvedimento per la censura dei libri che già nel 1560 arrivarono numerose lagnanze alla Suprema per le tasse illegalmente estorte.
Bartolomeo de Robres, libraio di Alcala, denunciò di aver fatto importare, attraverso Bilbao, quaranta casse di libri che poi aveva fatto inoltrare per mezzo di carretti nella sua città. Ciascun libro venne esaminato e timbrato per cui la commissione aveva percepito un real per ogni timbro; poi invece di stendere un certificato unico, per tutta a spedizione, ne aveva fatto uno per cassa, computando quattro reales per ciascun certificato. La Suprema inoltrò la lagnanza al Tribunale di Longrono, allegando una tabella di tariffa e ordinando che l'eccedenza venisse restituita alla parte lesa. Non soltanto i libri, ma tutti i commercianti subivano dei danni per l'apertura dei pacchi. Nonostante le ripetute ammonizioni della Suprema gli incaricati continuavano a riscuotere tasse su ogni collo, qualunque merce contenesse.

Finalmente un decreto reale del 1607 soppresse tutte le tasse imposte dalle commissioni ai commercianti. Ma nessuno osservò questo decreto e perciò la città di Bilbao presentò, nel 1609, un'energica protesta al Sovrano. Il Tribunale di Longrono, interpellato al riguardo, dichiarò che la lagnanza era esagerata e che il lavoro compiuto dalle commissioni era faticoso e che d'altra parte le tasse erano sempre state pagate e quindi dovevano essere pagate anche in seguito. Seguì un altro decreto reale che vietava nuovamente l'imposizione delle tasse, ma non ebbe maggior successo del primo. Finalmente entrambe le parti avversarie si decisero a passi estremi. Nel 1667 il Tribunale civile diede istruzioni ai commercianti di non pagare tributi, mentre la Suprema ordinò ai propri incaricati di riscuoterli ad ogni costo. Il litigio ebbe per risultato che la Suprema fece sequestrare le merci vendendole ad asta pubblica e poi mise sotto accusa alcuni commercianti, lasciandoli però in libertà mediante un congruo pagamento. Tanto l'Ambasciasciatore inglese, quanto quello olandese protestarono per la violazione del trattato di commercio, per cui il Consiglio Reale di Castiglia ordinò il 15 Maggio 1669 che nessuno potesse riscuotere tasse per la visita ai bastimenti. Questo severo ordine era una probabile conseguenza dell'energica protesta dei due ambasciatori. Sarebbe inutile descrivere oltre le fasi alterne di queste discordie, che continuarono con uguale accanimento di entrambe le parti per molti decenni. La Suprema non volle cedere e preferiva inimicare mezza Europa con la Spagna, anziché pagare qualche centinaio di ducati di stipendio ai propri dipendenti. Mentre il traffico delle altre merci, benchè molto diminuito, continuava sporadicamente, l'importazione dei libri era completamente soffocata. Infatti quando la Suprema nel 1648 chiese un rapporto da tutti i porti settentrionali, l'Ammiraglio Villareal dichiarò che da otto anni non era entrato nemmeno un libro dal porto di Bilbao e nello stesso modo fu risposto dagli altri porti, ad eccezione di San Sebastiano, dove però erano passati libri in quantità esigua.

Tuttavia la lotta continuò, attizzata da nuove proteste degli Ambasciatori d'Inghilterra e di Francia, ai quali da parte sua la Suprema rinfacciava il grande contrabbando di opere letterarie eretiche. Ciò era una dichiarazione di ostilità tuttavia la Suprema istruì segretamente gli incaricati di non proceder più a sequestri di merci, ma di fare una nota secondo il tonnellaggio delle navi, per poi stabilire una tariffa su questa base.

Barcellona era più fortunata di Bilbao. L'opposizione del Vice Re e l'intervento del Banco Regio ebbero ragione degli sforzi del Santo Uffizio. Già nel 1719 una rapporto delle autorità civili dichiarava che non vi era più traccia di abusi della commissione di inquisitori. Ma nelle altre città fioriva pienamente questa attività del Santo Uffizio. A Cadiz la gente di mare chiamò il Santo Uffizio, Santo Ladrocinio, sebbene, tanto là quanto a Malaga, fosse già stabilito il sistema di corruzione, per mezzo del quale venne eliminato ogni difficoltà che ostacolava l'importazione, anche di libri vietati.
Frequentissime erano le lagnanze a Valencia e ad Alicante e, considerata la corruttibilità degli incaricati, si può supporre che più di uno abbia largamente profittato del potere assoluto, sia rinunciando alla visita di qualche nave, sia col protrarre queste visite a tempo indeterminato.

Nel 1705 la Suprema inviò a tutti i Tribunali severe disposizioni riguardo la necessità del permanente controllo per impedire il contrabbando dei libri proibiti. Ordinò che fossero visitate non soltanto le balle, le casse, i barili, le bottiglie, i bagagli personali e principalmente le carte da gioco, ma anche i letti e gli scaffali dei marinai e che ciò fosse fatto col massimo tatto e con abilità per evitare l'avversione contro queste visite. Se fosse sorta qualche discussione la commissione doveva far rapporto direttamente alla Suprema.

Nel 1801 la Suprema pretese dai Tribunali un rapporto particolareggiato sulle tasse riscosse. La risposta arrivata da Valencia dimostra chiaramente che la Commissione trattava la questione puramente dal lato finanziario. Effettivamente le tasse percepite a favore dell'Inquisizione dalle navi non erano che una forma di introito oramai stabilito come regola fissa.
Quando la Cortes di Cadiz nel 1813 ebbe il sopravvento sull'Inquisizione, emanò un decreto secondo il quale venivano aboliti tutti i tributi percepiti nei porti marittimi a favore dell'Inquisizione.

Durante la Restaurazione naturalmente le visite delle navi vennero riprese, tuttavia, impedite talvolta dall'opposizione del proprietario della nave o dalle proteste dei Consoli stranieri. Nell'intento di riorganizzare tutto il sistema la Suprema indisse un referendum tra i Tribunali; ne risultò che, mentre nei porti settentrionali la ríscossione delle tasse procedeva normalmente, in quelle meridionali il sistema era già molto in decadenza. Le navi non venivano più visitate; la commissione, dove poteva riscuoteva ugualmente la tassa. Però le continue proteste dei Consoli rendevano sempre più difficile la riscossione e quando la Suprema ordinò alla commissione di Cadiz di estorcere il pagamento, questa non riuscì a vincere la resistenza dei Consoli, i quali la rinviarono ognuno al proprio Ambasciatore. La questione era sopita per parecchio tempo, finchè, nel Gennaio del 1811, il Ministero della Marina presentò lagnanza al Capo Inquisitore, essendo stato costretto a versare otto reales per la visita di due casse. Questa diede lo spunto alla Suprema per far prevenire al Sovrano una lunga consulta, proponendo una radicale riorganizzazione del sistema di incasso dei tributi, prospettando al Re l'enorme importanza della questione, per la Religione e per lo Stato.

Questo progetto faceva risorgere tutte le antiche disposizioni nella loro più rigida forma, anzi agli effetti dei libri si pretendeva che i pacchi contenenti delle opere letterarie venissero sigillati con ceralacca ed inviati per mezzo di una persona fidata alla Suprema, unitamente all'importo della tassa relativa. Non è possibile sapere l'atteggiamento assunto dalla Cortes di fronte alle nuove esagerate pretese della Suprema, poiché prima che essa potesse prendere posizione, la rivoluzione del 1820 pose fine all'esistenza del Santo Uffizio.

Le limitazioni imposte dalla censura alla scienza ed alla cultura erano mitigate da permessi speciali che l'Inquisizione rilasciava a persone desiderose di leggere libri vietati. Naturalmente questi permessi vennero rilasciati soltanto a persone di indubbia devozione. La Bolla del 1536, di Papa Paolo III, comminò la scomunica a tutti coloro che senza il permesso del Pontefice avessero letto dei libri luterani. Ciò dimostra che già in quell'epoca si rilasciavano permessi speciali e che questa facoltà era riservata al Papa. Questa prerogativa era molto preziosa e gli incaricati della Curia, ai quali era affidata, erano esposti a molte tentazioni, contro le quali in quei tempi corrotti solo rare volte essi resistevano. In questo modo sempre più si moltiplicava il numero delle persone in possesso di simile permesso speciale, ciò che controbilanciava alquanto la severità con cui venivano applicati i divieti.

Il primo di questi permessi venne rilasciato per iscritto dall'Inquisizione spagnola, sotto Papa Paolo V, al principio del Secolo XVII. Da alcuni esemplari di simili permessi si può dedurre che si rilasciavano soltanto parziali, e che si era molto cauti nel concederli. Nemmeno Filippo IV aveva un permesso generale; infatti, nel 1640, scrisse al Capo Inquisitore Sotomayor che durante il riposo estivo si era dilettato con la lettura della « Storia » del Guicciardini e venne immediatamente ammonito che questo libro era all'indice, perciò il Sovrano chiese il permesso di poter leggere questo ed altri libri che non avevano argomento religioso, dichiarando che diversamente non avrebbe nemmeno chiesto il permesso.

Un permesso particolare venne rilasciato nel 1614 al Padre Gullo Savel per poter leggere libri cattolici scritti in lingua inglese; a quanto pare bastava che un'opera fosse scritta in inglese per essere subito all'indice. Secondo il Llorrente verso la fine del Secolo XVIII era tutt'altro che facile procurarsi un permesso simile. Quando qualcuno lo chiedeva, il Capo Inquisitore raccoglieva segretamente informazioni sul postulante e questi, se erano favorevoli, doveva dichiarare lo scopo della sua domanda, precisando il genere di libri che intendeva leggere. Se il permesso veniva rilasciato ciò era soltanto, per un ristretto numero di libri e per una determinata categoria. Soltanto eccezionalmente venivano rilasciati permessi che autorizzavano oltre alla lettura, di conservare il libro. Indubbiamente venne osservato un gran rigore e una massima cautela nel rilasciare i permessi; tuttavia nella pratica applicazione molto dipendeva dalla disposizione della Suprema e di quella personale dell'Inquisitore. Talvolta erano larghi nelle concezioni, tanto che il Cuesta, nel 1747, scriveva che avendo fatto una statistica approssimativa, la maggior parte delle persone che avevano ottenuto permessi non erano già scienziati, ma semplici curiosi frivoli, di ambo i sessi.

Molti presentavano soltanto una domanda verbale per la lettura di un determinato libro, mentre altri, che vedevano che i permessi venivano rilasciati anche a persone che non avevano particolari ragioni per essere autorizzate, calcolavano che il permesso fosse generale e se ne valevano senza richiederlo. Dato l'enorme numero delle richieste rivolte alla Suprema, questa si trovò nella necessità di rinviare i postulanti ai Tribunali delle loro città dove essi dovevano precisare la loro età, gli studi compiuti e la professione. Durante la Restaurazione questi dati dovevano essere completati con indicazioni sulla moralità e sulle opinioni politiche del richiedente. Da questo fatto si rileva che nelle concessioni venivano favoriti i conservatori.
I casi di violazione di legge non erano frequenti e dopo la repressione del tentativo di riforma, a quanto pare, l'attività intellettuale nella Spagna era talmente paralizzata che non vi era neppure la richiesta del « frutto proibito ».

Ma l'Inquisizione, per valorizzare la propria opera aveva tutto l'interesse a far apparire che così non fosse. Nel periodo dal 1780 al 1820 furono messi all'indice in tutta la Spagna non più di trecento volumi. Ciò è spiegato anche dal fatto che tra il 1808 e il 1815 l'attività dell'Inquisizione era quasi completamente sopita. Il fatto poi che dal 1801 al 1806 si verificarono 101 casi, dimostra lo zelo del Governo di Carlos IV, con cui intendeva sopprimere la stampa.
Questa collaborazione tra lo Stato e l'Inquisizione riuscì, come si è detto, a paralizzare per quasi tre secoli lo sviluppo intellettuale della Spagna. Fra il XIII ed il XVI Secolo non vennero vietate bibbie; i motivi transitori che avrebbero potuto rendere necessario questo provvedimento erano cassati. Di conseguenza si facevano molte traduzioni di bibbie, particolarmente tedesche; in seguito la diffusione di queste bibbie, compilate con criteri di riforma religiosa, risvegliarono i divieti del Santo Uffizio. Ancora prima che fossero introdotti gli indici il Capo Inquisitore Tavera rilasciò permesso alla Principessa Soma, moglie dell'Ammiraglio di Napoli, di leggere una bibbia in lingua italiana e conservarla nella propria casa. Tuttavia il permesso era limitato ad un anno. Il trattamento riservato dall'Inquisizione alle bibbie parve stimolare la curiosità degli intellettuali. Nel 1747 il Capo Inquisitore Cuesta lamentava il desiderio generale di leggere le bibbie straniere, fenomeno che faceva sì che i divieti avessero il loro effetto soltanto col basso popolo, che non era il condizioni di leggere in lingue straniere.

Nel 1791 Víllanueva asseriva che coloro che prima ricercavano avidamente le bibbie oramai le consideravano con ripugnanza e la maggior parte degli individui dimostrava una assoluta indifferenza. Papa Clemente XI con una Bolla vietò l'uso della bibbia ai laici e soltanto 44 anni dopo la Congregazione dell'indice permise l'uso delle bibbie scritte nella madre lingua ed approvate dalla Santa Sede. La stessa gelosia si manifestò nei confronti di tutta la letteratura ecclesiastica allo scopo di evitare che il popolo fosse troppo erudito in questioni spirituali.
Nel 1570 il Gran Consiglio della Suprema propose al Capo Inquisitore di vietare la stampa del catechismo in versi. Effettivamente rimasero pochi campi in cui la Inquisizione non avesse esteso l'attività della sua censura. Al Gran Consiglio del Laterano si fece un cenno a certi libelli che calunniavano personaggi in vista e che diminuendone il prestigio minacciavano la quiete pubblica; Clemente VII nel suo indice del 1596 estese la protesta contro le calunnie dirette alla memoria di magnati e prelati.

Nel 1687 il Tribunale di Toledo che era in lite con la casa nobiliare El Paular fece sequestrare quattro suppliche dirette dall'avversario al Sovrano, colpendo con quattro anni di esilio il tipografo Lucas Antonio Bedmar, che le aveva stampate. La motivazione data dal Tribunale era che questi ricorsi erano scandalosi, offensivi, menzogneri e calunniatori, nel confronti delle persone che vi figuravano, ma nessun cenno era fatto che gli scritti fossero offensivi per la religione e tutto era soltanto un mezzo efficace per debellare un nemico.
Ancor meno concernevano l'eresia le controversie tra la Corona e la Santa Sede, tuttavia l'Inquisizione vi ebbe sempre la sua ingerenza. Nel Medio Evo i Pontefici si immischiavano molte volte nei privilegi dei Sovrani, fatto che venne tollerato dalle monarchie che non sentivano molto stabile la loro posizione. Ma quando nel Secolo XVI queste monarchie scelsero la forma di Governo dell'assolutismo, naturalmente divennero renitenti di fronte a queste intromissioni della Santa Sede ed il movimento di riforma, che divise l'Europa in due campi ostili, diede occasione ai Sovrani rimasti fedeli a Roma, di avanzare delle pretese in compenso del loro appoggio. I Sovrani spagnoli ostentavano sempre una resistenza contro le pretese dei Pontefici e sebbene essi nel corso del Secolo XVI imponessero al loro popolo la rigida obbedienza alle Autorità Ecclesiastiche, pretendevano decisamente il riconoscimento dei diritti Sovrani; diritti che in molti casi erano in netto contrasto con le idee del Vaticano.

Quando Melchor Cano, nel 1555, per desiderio di Carlo V compilò un memoriale, in cui flagellava con le più pungenti espressioni le pretese della Curia romana e Papa Paolo IV lo citò a Roma per sottoporlo ad istruttoria, l'Inquisizione spagnola si schierò decisamente dalla parte del Sovrano e non mise all'indice il memoriale incriminato. Roma non aveva mai esitato a valersi dell'efficace mezzo dell'indice per appoggiare i propri poteri e così vietò con particolare accanimento gli scritti che sostenevano le prerogative dei Sovrani.
Era impossibile per il Re di appoggiare opere che difendevano la Corona e l'Inquisizione, almeno per molto tempo appoggiava con la massima energia la Corona, se non proprio per lealtà, perchè ciò le dava occasione di ostentare la propria indipendenza di fronte all'odiata Congregazione romana.
Dopo che l'Inquisizione aveva stabilito in questo modo la propria indipendenza, ricusava di accettare la sentenza di Roma, in merito a qualsiasi libro.

Quando Roma emanava un divieto l'Inquisizione spagnola faceva rivedere dal proprio censore il libro incriminato e decideva in base alla sua relazione se doveva accettare o rifiutare la deliberazione della Santa Sede, ma in qualunque senso decidesse era stabilito che lo facesse per propria iniziativa e non per volontà di Roma. La Curia Romana invano protestava. Questa continua controversia finalmente si risolse in un tacito accordo, secondo il quale, quando la Congregazione romana metteva un'opera all'indice, inviava al Nunzio un breve perchè lo trasmettesse alla Suprema; questa faceva esaminare l'opera incriminata, dal proprio censore e se la trovava effettivamente eccepibile, promulgava un editto di divieto.
Una volta, quando il Nunzio tentò di derogare da questa usanza e fece affiggere nel cortile del proprio palazzo il Breve, prima di averlo presentato alla Suprema, quest'ultima fece togliere l'affisso, punì la persona che lo aveva esposto e portò la questione dinanzi al Sovrano, chiedendo che fosse ammonito il Nunzio di attenersi in seguito alle norme stabilite.

Avveniva talvolta che il Papa mandasse dei Brevi simili al Sovrano, il quale in questi casi chiedeva al Pontefice di concedere che venissero promulgati a nome dell'Inquisizione. Nella Sicilia, per esempio, non si poteva pubblicare alcun Breve papale, prima che il Vice Re avesse dato il permesso apponendo la propria firma. In ogni modo l'Inquisizione non tendeva altro che alla completa indipendenza da Roma e quando la ebbe ottenuta la Corona non potè più fare assegnamento sul suo appoggio. Nel Secolo XVIII l'Inquisizione, nel caso delle opere di Macanas, Barcley e Le Vayer, prese posizione contro i diritti sovrani. Nel primo caso si trovò di fronte Filippo V, il quale, debole Sovrano, cedette subito; non così negli altri due casi, quando Carlos III fece sospendere il Capo Inquisitore Bonifac e prese severe misure per evitare le ingerenze dell'Inquisizione nei suoi poteri e restringere nei giusti limiti le attività della censura.

In seguito, il 18 Gennaio 1762, venne promulgata la « Prammatica del Execuator » che ordinava che nessuna Bolla, Breve o Lettera papale diretta a qualunque Tribunale o Capitolo potesse essere pubblicata prima che il Nunzio l'avesse presentata al Sovrano per il benestare.
Il 18 Agosto dello stesso anno un altro decreto reale circoscrisse ancor più la censura dell'Inquisizione. Ma entrambi i decreti vennero revocati nel 1763, su influenza di Padre Eleta, confessore del Sovrano, il quale valendosi delle inclinazioni superstiziose del Re, fece apparire la perdita della Avana come prova delle ire celesti.

Nell'epoca seguente, Stato ed Inquisizione si allearono di nuovo contro il comune nemico, costituito dalla rivoluzione. Lo Stato si valse di nuovo dell'Inquisizione come mezzo politico sebbene anche esso avesse una propria censura bene organizzata.
Ancora più stretta divenne questa alleanza durante la rivoluzione che veniva a minacciare le basi dell'istituzione monarchica. Grande era la preoccupazione che l'opinione pubblica potesse essere contaminata al punto di trascinare il popolo a vie di fatto. Era dunque necessario che il governo riunisse tutti i fattori di potenza di cui poteva disporre e Carlos IV non tardò a spianare la via per una rinnovata attività dell'Inquisizione, dichiarando che la divulgazione di idee rivoluzionarie era un'eresia, errore dogmatico, contrastante con le dottrine di Pietro e Paolo.

L'Inquisizione infatti non tardò a realizzare una pratica applicazione di questa direttiva e promulgò un editto che vietava qualunque importazione di carta stampata dalla Francia. Veniva raddoppiata la vigilanza tanto da parte dello Stato quanto da quello del Santo Uffizio per impedire l'importazione di libri, particolarmente dalla Francia, e per molti anni si escogitarono i mezzi più svariati per tenere il popolo nella ignoranza di quanto avveniva oltre i Pirenei.
Ma tutto fu inutile. Libri e giornali vennero contrabbandati su vasta scala dalla Francia ed avviata una estesa propaganda delle teorie dei diritti dell'uomo.

Quando la crisi arrivò al colmo, con l'esilio della famiglia reale e con l'entrata delle truppe napoleoniche, il terreno era sufficientemente preparato per realizzare il nuovo ordi namento politico. Nel 1810 una Cortes appositamente convocata introdusse il suffragio universale, mentre a Cadiz proclamarono la libertà di stampa. Tuttavia era tanto profondamente radicato il tradizionale principio della necessità di una censura che l'editto con cui il 22 Febbraio 1813 in cui veniva soppressa l'Inquisizione, dichiarava che le funzioni di censura passavano al Vescovi ed ai Tribunali Civili. La nuova legge sulla stampa stabiliva il controllo dello Stato su qualsiasi opera stampata. Per questo veniva dato il potere ai censori vescovili, ma il progetto non ebbe mai una applicazione pratica.

La Restaurazione del 1814 ridiede la facoltà di censura all'Inquisizione che, non appena riorganizzata, si pose energicamente a sopprimere la letteratura rivoluzionaria. La Suprema il 28 Ottobre 1814 invitò tutti i Tribunali a preparare al più presto possibile un elenco di tutti i libri, libelli e simili scritti, stampati nei rispettivi distretti, con indicazione dell'autore e del luogo di pubblicazione. In questo modo vennero vietate 183 pubblicazioni, compresi 35 quotidiani. Tuttavia l'editto del 15 Luglio 1815 qualificò deficiente questo provvedimento.

Risulta dall'epistolario della Suprema che in quell'epoca si sorvegliava rigorosamente e permanentemente la stampa e durante la breve rinascita dell'Inquisizione la maggior parte della sua attività era impiegata nella censura e principalmente sugli scritti politici. I fuggiti fedeli allo statuto che cercarono riparo dinanzi alla vendetta dei reazionari, con i modesti mezzi a loro dispozione facevano il possibile per avviare una propaganda in favore dei propri ideali. Questa propaganda aveva molta affinità con quella svolta dai riformisti nel Secolo XVI e non minore fu la preoccupazione del Santo Uffizio, tanto più che questa volta il pericolo era assai più grave, poichè gran parte del popolo parteggiava per i fuggiaschi.
Sebbene l'Inquisizione evitasse meticolosamente di invadere nella censura il campo della moralità, tuttavia si interessò di allontanare dal pubblico tutto ciò che avrebbe potuto portare una decadenza morale. L'Inquisizione era autorizzata a questi provvedimenti dall'indice di Trento e dal Breve di Clemente VIII che ordinava di vietare tutte le pubblicazioni immorali e illustrazioni e dipinti pornografici.
Tuttavia gli autori riuscivano ad eludere tali divieti e così per esempio la « Celestina », di Francisco de Royas, fu stampata in trenta edizioni, nel Secolo XVI, poichè la popolarità dell'opera era tanto grande che, nonostante il suo testo un po' scabroso, venne adottato come libro scolastico. Solamente nel 1640 venne ordinata la cancellazione di cinquanta righe mentre nel 1790 l'intero volume venne messo all'indice.

Verso la fine del Secolo XVI la censura venne estesa anche alle opere d'arte e principalmente ai dipinti che raffiguravano i Santi, se nella figurazione mancava la dignità. La prima traccia di questa attività si trova nella relazione del Capo Inquisitore Moral, nel 1568, fatta dopo l'esame della Clausura di San Sebastiano. In questa relazione il Capo Inquisitore menziona di aver inflitto, una punizione a Gracia de Caldiere, per averla trovata in possesso di un dipinto scandaloso. La Suprema osservò che sarebbe stato meglio inviare subito alla commissione dei censori il dipinto e che in ogni caso il diritto di decisioni in tali casi competeva ad essa.

Nel 1751 venne emessa una « Carta acordada » che ordinava l'allontanamento di alcune figure da un drappo di tela, sulla quale era dipinta la Crocifissione e la Santa Trinità e dove il censore aveva scoperto dei simboli delle dottrine luterane. Così pure vennero messe all'indice dodici incisioni in legno, che raffiguravano la Passione, con la dicitura in latino ed in francese. Nel 1649 la Suprema espresse la più profonda indignazione, perchè su alcune statue di Santi erano stati appesi dei nastri che avrebbero dovuto raffigurare delle ali d'Angelo. Alcune settimane dopo vietarono ogni rasoio o coltello che portasse sul manico l'immagine di Cristo o della Santa Vergine, vennero sequestrati tutti gli esemplari in commercio e fu ordinato agli uffici doganali di impedirne l'importazione.

Quando l'Inquisizione ebbe ultimato la parte più importante del proprio lavoro con l'eliminazione della letteratura, protestante, islamica ed ebraica, dedicò la propria attività in altra direzione. Nel 1787 il Tribunale di Valencia pose sotto accusa Francisca Lâzarus per certe canzoni immorali. Nel 1803 Goya, il maggiore pittore dell'epoca, offese la sensibilità di qualche inquisitore. Venne arrestato e posto sotto accusa, ma dietro intervento di Carlo VI lo lasciarono in libertà.

Una delle ultime azioni del Tribunale di Valencia fu la proibizione, nel 1820, del libro « Rime e prose » del Dottor Tomaso Crudili, libro che fu dichiarato immorale ed irriverente verso la religione. Inoltre mise all'indice un libro intitolato « Il Zibaldone », per il suo contenuto osceno. La censura dell'Inquisizione non risparmiò nemmeno il Teatro. Nel 1817 si rappresentava, le sere del 9 e 10 Ottobre, al Teatro di Valencia, la tragedia « La Obstinacion de un padre », ma, a quanto pare, il lavoro provocò la disapprovazione del Santo Uffizio, poichè il 13 dello stesso mese il manoscritto dovette essere consegnato alla censura. Nel 1815 la Suprema ordinò al Tribunale di Madrid di esaminare il testo dell'opera « El Hombre de Mal Genio y Buen Corazo » e permise la rappresentazione soltanto quando il procuratore del Tribunale dichiarò che non vi era nulla da eccepire.

La censura si estese anche agli oggetti d'arte decorativa. Nel 1793 il Tribunale di Valencia aprì un'istruttoria per una certa tabacchiera, sulla quale era riprodotto un quadro scandaloso e la quale, a quanto si asseriva, era di proprietà di Don Gíacínto de Castro, Governatore. La preoccupazione per la pubblica moralità andò ad una tale esagerazione che il 2 Ottobre 1815 la Suprema, d'accordo col Tribunale di Madrid, promulgò un decreto con cui ordinava ai parrucchiere della città di allontanare dalle loro vetrine le bambole di cera, poiché riteneva che queste facessero troppo apparente mostra di grazie femminili.
Gli artisti e i venditori di quadri erano tenuti sotto un rigoroso controllo e, poche settimane prima della sua caduta, la Suprema ordinò al Tribunale di Sevilla di aprire una istruttoria contro Juan Rodriguez e Domingo Alvarez de Cadiz. Contro il primo, perchè aveva dato il nome Diana ad un suo dipinto e contro il secondo per aver esposto il quadro che con la sua posizione e nudità sollevava generale scandalo. Essi vennero citati a comparire dinanzi al Tribunale di Sevilla, per subire una rimprovero e per essere avvertiti che in caso di recidiva sarebbero stati puniti con l'espulsione e cinquecento ducati di ammenda.
Sei mesi dopo multarono Pasqual Franciní, per due « Pinturas Obseras », di duecento ducati e, siccome negli atti relativi si parla di rilasciarlo in libertà, evidentemente egli fu anche carcerato. Siccome aveva dichiarato di essere povero il Santo Uffizio con magnanimità ridusse la multa inflittagli. Qualche mese dopo il Tribunale di Madrid condannò Santiago Schmidt e suo figlio Giuseppe ad una ammenda di ottomila reales per aver venduto all'Ambasciatore di Prussia dei quadri indecenti.

Indubbiamente in questo caso l'immunità diplomatica salvò l'acquirente dall'essere posto sotto accusa, poichè il possesso di oggetti qualificati immorali era « Calidad de Officio » e le note dell'Inquisizione sono piene di persone che avevano acquistato tabacchiere, orologi, mazzi di carte od altri oggetti sui quali erano riprodotte figure o scritti indecenti. Così pure le porcellane, le maioliche vennero sottoposte a censura. Indubbiamente la maggior parte degli oggetti sequestrati era effettivamente indecente. La purificazione promossa da tali procedimenti difficilmente compensava l'inconveniente dello spionaggio e della violazione di domicili, praticati dagli incaricati dell'Inquisizione, che, soltanto con questi mezzi, poteva entrare in possesso dei dati relativi all'esistenza di tali oggetti.

Tuttavia non è dubbio che venissero sacrificate molte pregevoli opere d'arte, dall'ingordigia degli inquisitori, i quali averbbero dovuto distruggerle, ma non si sa se effettivamente questa parte dell'operazione venisse eseguita. Nel 1805 a Valencia dichiararono che l'incisione in rame intitolata « Seduzione di Venere » doveva essere distrutta. Infatti fu cancellata l'opera, e la lamiera venne consegnata all'Alcade, perchè la restituisse al proprietario. Innumerevoli libri vennero poi danneggiati essendone state strappate le illustrazioni ritenute sconvenienti.

Così la censura abbracciò tutta la letteratura cominciando dai libri più eretici di Lutero e Calvino, fino alle edizioni popolari delle Sacre Scritture. La censura infatti era un potente mezzo tra le mani dell'Inquisizione, per l'oppressione dell'evoluzione del pensiero e per ostacolare il progresso. Di pari passo procedette la censura dello Stato organizzata con la legge del 1558 che venne poi perfezionata con una interminabile teoria di nuovi regolamenti. Le vessazioni a cui erano esposti gli autori e gli artisti da parte di entrambe le commissioni di censura ebbero un effetto sommamente deleterio sullo sviluppo della cultura generale e delle arti. Gli autori erano scoraggiati, poiché non sapevano mai se le loro opere, frutti di anni di lavoro, avrebbero ottenuto o meno il permesso di pubblicazione. L'attività dell'editore era ancora più pericolosa, poichè il libro, pubblicato col permesso delle autorità statali, poteva essere in qualunque momento vietato dall'Inquisizione che procedeva poi alla distruzione di tutta l'edizione, senza compensare in alcun modo il danneggiato. Così lo Stato e la Inquisizione, sia quando lavoravano d'accordo, sia nei casi di divergenze di vedute, paralizzavano completamente la scienza e la letteratura spagnola, che già nel XVI Secolo promettevano di assurgere ai più alti fasti.

Accanto all'oppressione dell'arte e della scienza l'Inquisizione rese impossibile qualsiasi sviluppo commerciale ed industriale; giustificando così il detto, diffuso nelle altre nazioni, che l'Africa cominciava dai Pirenei.

IL MISTICISMO

La credenza che con una profonda meditazione e concentrazione di pensiero, l'anima possa sollevarsi al Creatore e riesca persino a stabilire una comunicazione con Dio, era divulgata già dai tempi antichi fra le più svariate razze che popolavano la Terra. Passando dall'estasi allo stato di incoscienza, l'anima veniva illuminata dei misteri divini e poteva bearsi delle rivelazioni dell'universo occulto. Il mistico credeva di poter conoscere il mondo di là e disporre di un potere soprannaturale. San Paolo santificò con le proprie esperienze questa credenza. Tertulliamo stabilisce l'influenza dello Spirito Santo sull'individuo devoto, in enunciazioni che hanno una strana rassomiglianza con quelle manifestate in epoche successive nella Spagna.

Questa gioia celeste venne data con particolare grazia a coloro che la meritavano con la disciplina dei sensi. Le virtù della preghiera fervente, in cui l'anima diventa insensibile verso le cose terrene, vennero insegnate da un gran numero di mistici, fra i quali i più rinomati sono : Richard Saint Victor, Joachím Flora, San Bonaventura, John Tauler, John Rysbrock, Henry Suso, Henry Herp e John Gerson. Se possiamo prestar fede al Cardinale Jacques de Vietry, le suore di Liegi, nel Secolo XIII, si abbandonarono in forte misura alle voluttà mistiche. Egli scrive di una di esse che frequentemente attraversava venticinque stati di estasi giornalmente, mentre altre passavano degli anni coricate a letto, completamente perdute nel divino amore.
Richard Rolle, eremita di Hampul, che poco mancò venisse beatificato, conosceva completamente i piaceri congiunti alla fusione dell'anima con Dio. Questi miracoli spirituali della psicologia moderna sono stati spiegati come fenomeni di ipnotismo e suggestione.

La deliberazione del Gran Consiglio di Vienna del 1312, nella cosiddetta « Questione delle Dottrine di Immortalità », di Begghardt, venne introdotta nel testo della legge canonica e così resa nota nel mondo dei teologi. ,
In Ispagna l'Inquisizione per un pezzo non si curò del misticismo, ma col tempo lo considerò pericoloso e lo annoverò tra le attribuzioni dei suoi Tribunali.
Era inevitabile che ciò avvenisse. Il mistico, che si considerava in diretta comunicazione con Dio, ed il quale riteneva che la meditazione spirituale e la concentrazione nella preghiera fossero i più devoti riti, diveniva naturalmente proclive a considerare con indifferenza, anzi con disprezzo, i riti della Chiesa. Siccome l'elevazione spirituale doveva essere una diretta ispirazione di Dio, l'individuo che si sentiva toccato da questa grazia divina era proclive a non tener conto delle prescrizioni della Santa Sede, ritenendosi pari allo stesso Sommo Pontefice, che pure doveva agire sotto l'impulso delle stesse forze soprannaturali.

Questa ideologia aveva un certo sapore di luteranismo, ma l'Inquisizione si rese conto di questo pericolo soltanto quando la larga diffusione di questi concetti minacciò di togliere grandi masse di fedeli al controllo spirituale delle autorità ecclesiastiche. Si distinguevano due categorie di mistici « alumbrado » cioè colui che riconosceva soltanto la superiorità dell'elevazione interiore ed il « dejado » ossia il silenzioso meditatore, che si abbandonava completamente a Dio, lasciando libero corso agli impulsi, frutto dell'estrazione meditativa e professava che tutto ciò che viene da Dio non può essere peccato.
Il vero senso di ciò che avveniva già da tanti secoli, non fu afferrato dalla Chiesa, fino a che non si presentò il pericolo del riformismo, nelle sue molteplici manifestazioni. Quando le sue ideologie vennero confrontate si considerò il protestantesimo come un naturale sviluppo del misticismo.

Il maggior problema del misticismo era quello di poter distinguere il buono dal pericoloso, giacché le visioni, le rivelazioni e le estasi potevano essere non soltanto grazie divine, ma anche opera del demonio. Non era possibile trovare prova per differenziare l'origine dei fenomeni.
La Chiesa, legata alle dottrine che enunciavano i poteri ultramondani, doveva confessare apertamente di non essere in grado di distinguere se questi fenomeni avessero origine dal Cielo o dall'Inferno. Il Beato Jùan de Avila ammoniva seriamente i devoti di tenersi lontani da simili errori. Tuttavia anch'egli trascurò di dare qualsiasi indicazione circa gli effetti differenti tra le illusioni demoniache e le grazie divine.

Anche Arbiol indica la fonte incerta di queste manifestazioni come il massimo pericolo sulla via di perfezionamento spirituale che provocava la perdizione di innumerevoli anime. Oltre alle visioni ed alle rivelazioni divine, il misticismo aveva anche un'altra caratteristica, che lo rendeva particolarmente pericoloso alla Chiesa e ripugnante ai teologi. Osuna dice che la teologia mistica è molto superiore a quella teorica e scientifica, poichè per valersene non occorreva nè istruzione nè sapienza, ma soltanto fede, amore e grazia divina.

Nel processo messo nel confronti di Maria Cazalla, uno dei capi di accusa consisteva nel fatto che essa e suo fratello, il Vescovo Cazalla, avrebbero messo in ridicolo Aquinas, Scotus e numerosi altri teologi. All'istruttoria di Geromino de la Madre de Díos venne presentato tra le prove un suo scritto che confrontava la teologia mistica a quella scientifica, a tutto danno di quest'ultima. Egli diceva : "Le dottrine della teologia scientifica sono perfettamente compatibili col peccato, poichè i suoi maestri enunciano le virtù, ma non le praticano. Essi stessi si rotolano nel peccato del quale incolpano gli altri. Sono dei farisei e la contaminazione è tanto generale che difficilmente si potrà trovarne uno puro".

Nel Medio Evo la Spagna non era turbata da fantasticherie mistiche. Tuttavia l'esaltazione promuoveva lo sviluppo del fanatismo, attizzato pure dall'Inquisizione, con la persecuzione dei mori e degli ebrei. Nel 1527 Osuna rammenta un uomo santo, il quale già da cinquant'anni era dedicato alla meditazione ed all'abnegazione. Già nel 1449 Francisco de Villalobos rammentava gli ispiratori, i quali provenivano dall'Italia e che, secondo lui, avrebbero dovuto essere rinsaviti con la frusta, con la fame e con la prigione.

Ciò dimostra che il misticismo si era manifestato nella Spagna; la divulgazione era facilitata dalle Beate, che erano donne dedicate alla vita religiosa, senza entrare in un ordine; avevano generalmente di elemosina ed erano considerate come profeti ispirati da facoltà soprannaturali. Fra queste emergeva in quell'epoca la Beata da Piedrachíta, che, sebbene nelle epoche successive avesse molti emuli, in quei tempi costituiva un fenomeno assolutamente nuovo. Essa era figlia di un contadino fanatico, praticò con passione il misticismo dedicandosi completamente all'astrazione meditativa, in cui godeva la più intima comunione con Dio, fra le braccia del quale si assorbiva nel divino amore.
Talvolta asseriva che Cristo era con lei, altre volte diceva di essere lei stessa Gesù Cristo, oppure la sua sposa. Molte volte comunicava con la Santa Vergine ed in questi casi parlava come se fosse lei la Madre di Dio. La sua fama si divulgava sempre più ed essa era adorata; molti consideravano la sua attività una pura superstizione e ne pretendevano l'arresto, ma Ximenes, che aveva la parola decisiva, dichiarò che la Beata era irradiata della saggezza divina ed anche Ferdinando che la visitò ripetutamente riconobbe di credere nella ispirazione della donna.

In questo caso non vi era ancora traccia della sensualità, ma vi era un'altra ramificazione del misticismo, che lo rese particolarmente pericoloso alla Chiesa ed odioso ai teologi. Nel 1512 Ximenes informò Fra' Antonio de Pastrana di aver incontrato una donna che era completamente invasa dal demonio. Egli si occupava esclusivamente di cose spirituali e non si era mai curato delle donne, perciò scrisse immediatamente a Madre Juana de la Cruz per chiedere la sua collaborazione.
Guadalajara e Pastrana divennero così il centro di un gruppo di mistici ed il fatto, nel 1521, attirò l'attenzione del Santo Uffizio.

La prima propagratrice delle dottrine mistiche, a quanto pare, fu una sarta, di nome Isabel de la Cruz, la quale col suo spiccato talento emergeva nello spiegare le Sacre Scritture e dal 1512 era a capo del movimento, sino a che non venne sostituita da Francisca Hermandez.
L'ordine di San Francesco contava in quei tempi già numerosi mistici. Il guardiano Francescano di Oscalona, Juan de Olmillos si trovava in permanente stato di estasi quando somministrava i Sacramenti e durante le sue prediche che erano piene di incomprensibili esagerazioni. Quando venne trasferito a Madrid, la sua presenza attirò gran folla nella chiesa, per spiare le sue convulsioni e tutti lo considerarono santo.

Durante le istruttorie dell'Inquisizione queste aberrazioni provocarono non poca confusione. Tuttavia non v'è dubbio che la gran maggioranza dei mistici spagnoli fosse costituita da persone assolutamente virtuose. Ma le esaltazioni spirituali, trascorse in promiscuità sessuale, minacciavano continuamente la sensualità e coloro che ritenevano di camminare sulla giusta via, ad un tratto si accorgevano che il corpo tradiva lo spirito. L'esperienza era antica, quanto lo stesso misticismo e gli eloquenti ammonimenti di San Bonaventura, rivolti ai confratelli, dimostrano che egli doveva essere stato testimone di molte cadute.

Gran numero delle istruttorie svolte attorno al misticismo si occupavano della strana personalità di Francisca Hernandez, che successe ad Isabel de la Cruz, nella direzione dei mistici. A quanto pare essa aveva delle qualità molto seducenti, che faceva valere di fronte ai suoi svariati ammiratori.
Francisco de Osuna era il primo scrittore spagnolo che si fosse occupato di misticismo ed apparteneva ai seguaci della scuola di Santa Teresa.
Francisco Ortíz, un Francescano virtuoso, era grande ammiratore della Hernandez. Un altro genere di ammiratore era però Antonio de Medrano, il quale la conobbe nel 1516, quando studiava all'Università di Salamanca. Francesca Hernandez era bella e povera, ma durante la sua lunga carriera era sempre stata sovvenzionata dai suoi ammiratori, sebbene si dichiarasse sposa di Cristo. Essa non viveva in modo ascetico, era raffinata nella scelta dei commestibili e dormiva in un morbido letto, che divideva senza alcun scrupolo con i suoi ammiratori di sesso maschile.
Per condurre questa vita aveva bisogno di mezzi e perciò, assieme al Medrano, persuasero un disgraziato giovane, di nome Calero, a vendere i suoi beni paterni e a dividere il ricavato fra i mistici che Francisca raccoglieva attorno a sè.
L'autorità Vescovile aprì un'istruttoria che ebbe per conseguenza l'esilio di Medrano e della Hernandez. Quando la strana copia si stabilì a Valadolid nel 1519 venne posta sotto accusa dal Tribunale dell'Inquisizione. In quei tempi però l'Inquisizione non era ancora impressionata dal misticismo al punto di condannare severamente questa eccentrica forma di devozione, perciò si accontentò di vietare al Medrano di restare oltre con la donna. Questo divieto venne però astutamente eluso. Il Tribunale, in seguito, per dare esecuzione alla sentenza, inviò il Medrano a Navarrete. La Hernandez venne tenuta sotto sorveglianza, ma aveva tale fama di santità che il Cardinale Adriano le chiese delle preghiere a favore di se stesso della Santa Madre Chiesa.

Nel 1525 l'Inquisizione la arrestò di nuovo sotto accusa di mantenere relazioni sospette con uomini e quando la rilasciarono dovette giurare che non si sarebbe più abbandonata a confidenze sconvenienti. Intanto Medrano contínuava la sua carriera di mistico a Navarrete, teneva colloqui con lo Spirito Santo e si dichiarava infallibile. Nel 1526 anch'egli venne arrestato dal Tribunale di Longrono, ma dopo 18 mesi di prigione venne rilasciato con una semplice diffida. Il fatto di essere sfuggito ad una condanna più grave lo stimolò a maggiore audacia e in breve ritornò fra gli ammiratori della Hernandez, per cui, nel 1530, venne di nuovo posto sotto accusa dal Tribunale di Toledo.
Vi erano sufficienti prove che il contatto fra le due persone era di carattere perverso al massimo punto. Tuttavia l'uomo negò recisamente, dichiarando di essere un preferito di Dio per cui nemmeno la donna più scellerata, nè tutti i diavoli dell'Inferno, lo avrebbero potuto indurre ad una azione immorale. Ma la grazia divina lo aveva pervaso soltanto dopo aver conosciuta Francesca. Egli era capace di star coricato con una donna, a letto, senza sentirne il minimo desiderio, perciò egli si dilettava in modo del tutto innocuo con la Hernandez, abbracciandola, ciò che le procurava piacere. Aggiungeva di essere fermamente convinto ch quella donna fosse immune da ogni peccato sensuale e terreno e di considerarla superiore a qualsiasi Santo del Cielo ad eccezione della Santa Vergine.

Quando però il buon uomo venne sottoposto alle torture confessò tutto quanto volevano sapere da lui, ammettendo di aver divulgato fra il popolo la santità di Francisca soltanto allo scopo di procurarle maggiore fama e i mezzi per il sostentamento di entrambi. Confessò di essere geloso degli altri ammiratori della Hernandez, tra i quali nominò Valderrama, Diego de Villa Real, Munos, Cabrera, Gumíel, Ortiz e Sayavedra, nonchè il fratello di quest'ultimo, volendo dimostrare con ciò il numero ed il ceto di coloro che erano avvinti dal potere mistico e dalle grazie della donna. Confessò inoltre che la Hernandez gli aveva insegnato che l'uomo e la donna devoti potevano abbracciarsi senz'altro ignudi, poichè non era l'abito, ma l'intenzione che importava.
A questo punto l'Inquisizione si decise di agire con rigore, e con la sentenza del 21 Aprile 1532, dichiarò che il Medrano era eretico irreparabile, un truffatore ipocrita, che aveva unicamente lo scopo di procurarsi danaro per una vita dissoluta; perciò egli doveva confessare pubblicamente all'« auto da fé » tutti i suoi peccati e poi ritirarsi in un convento, per tutta la vita, evitando qualsiasi contatto con Francesca, sotto pena spettante ai recidivi.

La personalità avvincente di Francisca Hernandez ebbe maggior rilievo nell'influenza che essa riuscì ad esercitare su un carattere infinitamente superiore di quello del Medrano. Francisco Ortiz era uno dei membri più promettenti del grande Ordine Francescano, conosciuto in Spagna come uno dei migliori predicatori. Sebbene non fosse mistico, le sue dichiarazioni, fatte dal pulpito, avvicinavano pericolosamente l'estremo limite che divideva le due tendenze. Nel 1523 conobbe la Hernandez, ed i suoi sentimenti verso la donna sono caratterizzati dalla ostinata dichiarazione che fece dinnanzi all'Inquisizione, durante l'istruttoria svolta a suo carico. « Non v'è parola, quantunque fervente essa sia, che esprima soltanto in minima parte quel sacro amore, tanto puro e dolce, forte e potente, pieno di grazia divina che fa sciogliere ogni anima ed ogni cuore. Posso chiamarla la mia vera madre, la donna del mio cuore, e per mezzo di lei spero che al terribile giorno del Giudizio potrò essere fra i degni. Potrei chiamarla anche mio amore, poiché amando lei non amo che Dio stesso ».

La purezza dei sentimenti di Ortiz, nella sua relazione con Francesca, non può essere messa in dubbio, dal momento che la stimava tanto; tuttavia i suoi superiori vedevano di mal occhio e con crescente inquietudine l'aberrazione dell'uomo che era considerato come uno dei più valorosi sostenitori dell'Ordine. Invano gli ordinarono di cessare ogni contatto con la donna; egli rispondeva irritato che doveva ubbidire a Dio e non agli uomini e che se gli avessero proibito di vedere la donna adorata, si sarebbe fatto piuttosto trasferire ai Certosini.
Per ottenere la separazione dei due i Prelati Francescani persuasero l'Inquisizione ad arrestare la Hernandez. Il provvedimento però ebbe la conseguenza inattesa che l'Ortiz in una sua predica, dinnazi alla nobiltà della città, accusò aspramente l'Inquisizione per l'immane peccato di aver arrestata la Santa donna. Una simile predica sobillatrice era senza precedenti e Ortíz venne posto immediatamente sotto accusa, non per essere punito, ma per ottenere che migliorasse e divenisse ragionevole. Egli però, ostinato, mantenne ferma la propria opinione, per quasi tre anni.
La Regina Isabella invano intervenne due volte, per sollecitare la sua liberazione, come pure Papa Clemente VII invano la pretese con la sua lettera del 1 ° Luglio 1531, diretta al Cardinale Manrique, adducendo che Ortiz non aveva altra colpa che di aver protestato contro l'arresto di quella Santa donna.

Finalmente nel 1532 egli subì una trasformazione nell'anima e lo stesso violento stimolo, che precedentemente lo aveva indotto a protestare, lo spinse ora a dichiarare che Dío gli aveva dato la grazia di potersi rendere conto dei propri errori e così ritrovare la pace e l'equilibrio dello spirito. La sentenza lo sospese per cinque anni dalle funzioni sacerdotali, inoltre lo relegò per due anni nella clausura di Torrelaguna, sottraendolo così completamente all'influenza di Francisca. Il condannato si presentò immediatamente nella clausura, sebbene diverse bolle papali lo avessero esonerato da ogni castigo ed i suoi superiori lo avessero sollecitato di non ritirarsi. Egli rimase irremovibile, dichiarando che la solitudine gli era divenuta cara. Così egli rimase nella clausura fino alla sua morte, avvenuta nel 1546, venerato e ammirato da tutti i confratelli.

A quanto pare anche Francisca venne trattata con estrema mitezza, nonostante le precedenti istruttori e la deposizione sfavorevole di Medrano. Essa venne rinchiusa unicamente per essere separata da Ortiz e in realtà non si trattò di prigione, ma soltanto della reclusione in una camera nel palazzo di Gutierre Perez de Montalvo, dove era curata dalla propria governante Maria Ramírez. Probabilmente ottenne questi favori con la sua prontezza nell'accusare i suoi amici di un tempo, fra i quali il Vescovo di Troy Juan Cazalla, Pedro Cazalla, la loro sorella Maria, nonchè Lupe de Ruida.
L'istruttoria di Maria Cazalla è degna di rilievo, poiché rispecchia la caratteristica confusione di quei tempi nell'individuare il misticismo e il riformismo. L'accusata risiedeva a Guadaljara e si era recata di frequente dal Pastrana, presso il quale si radunavano le donne per udire la spiegazione della Sacra Scrittura. Quando il procedimento venne iniziato contro questo gruppo, nel 1524, anch'essa venne arrestata, ma presto rilasciata. Per sei anni rimase indisturbata, allora la deposizione di Francisca Hernandez le procurò una nuova istruttoria.

Mazia Cazalla era luterana; essa esaltava Lutero, negava la libera volontà, metteva in ridicolo la confessione, biasimava la teologia scientifica e dichiarava priva di valore l'assoluzione. Era mistica poichè stimava Isabel de la Cruz più di San Paolo e anteponeva il matrimonio alla verginità. Scriveva lettere traboccanti di illuminismo e faceva spiegazioni delle Sacre Scritture ai propri discepoli. Essa venne arrestata il 1 ° Maggio 1532 e la sua causa, come il solito, si protrasse all'infinito. Come eretica venne torturata ed il 12 Dicembre 1537 fu pronunciata la sentenza che, sebbene il procuratore non avesse dimostrata la sua eresia, le risultanze sospette dell'istruttoria esigevano che abiurasse pubblicamente nella chiesa parrocchiale e che troncasse per sempre i suoi rapporti con gli altri sospetti mistici. lnoltre dovette pagare cento ducati di ammenda.

Questi casi dimostrano che la grande divulgazione dell'illuminismo e del luteranesimo esigevano una energica opera di repressione e che ciò non si restringeva esclusivamente alla Castiglia. Nel 1533 Miguel Galba Procuratore del Tribunale di Lerída in una lettera diretta al Cardinal Manrique dichiarò che soltanto la vigilanza dell'Inquisizione aveva potuto impedire che il Regno Unito della Spagna fosse infestato dai seguaci delle due eresie. L'arguto Melchor Cano sapeva citare ed interpretare brani della Sacra Scrittura in modo da dimostrare la giustizia delle dottrine degli alumbrados, e difendeva le aberrazioni di Begghardt e di Pedro Luis Arcarase, sostenendo gli accusati che comparivano agli « auto da fé ».

In questa incertezza di criteri dell'Inquisizione, dipendeva da un puro caso che qualcuno venisse giudicato santo, o condannato come eretico. La stessa Santa Teresa, regina dei mistici Spagnoli, era relegata in un convento, assieme a Sant'Jago, Patrono della Spagna, sotto la sorveglianza di Nunzio Soga, che era stato accusato di aver approfittato della sua veste religiosa per commettere delle perversità. Si pensava già ad avviare l'intero gruppo nelle Indie, in una colonia riservata a simili colpevoli. Senonchè Filippo II si interessò della questione e ottenne la liberazione della Santa donna, che, senza questo intervento, sarebbe passata alla storia come una delle cosiddette « Beatas Revelanderas ».
Quando'essa, nel 1575, fondò il convento delle Carmelitane Scalze a Sevilla, tutte le monache vennero considerate alombradas. L'Inquisizione fece un enorme putiferio quando accompagnata da una scorta armata venne a visitare il Convento, senza trovarvi alcunchè che offrisse un capo di accusa. Così dunque quando in seguito fu sottoposta alla censura dell'Inquisizione una  Vita di Santa Teresa, i censori tennero il responso in sospeso per dieci anni.

Il venerando Luis de Granada non venne beatificato, perchè Melchor Cano dichiarò che i suoi libri erano pieni di dottrine alumbradas e di cose avverse alla fede; Alonzo de la Fuente, energico persecutore dell'illuminismo, cercò di metterlo sotto accusa, dicendo che i suoi libri propagavano le dottrine alumbradas, in forma tanto astuta, che soltanto i competenti potevano accorgersene. Papa Gregorio XIII nel 1582 gli scrisse, in tono di alta lode, incitandolo di proseguire nella sua opera per il rafforzamento dei deboli, per la felicità dei forti e per la gloria della Santa Chiesa. Quando nel 1588 morì venne qualificato come uomo di vita santa e, a quanto pare, egli apparve ad un devoto credente vestito del manto della gloria, sul quale rifulgevano innumerevoli stelle, le anime da lui salvate coi suoi scritti.

Anche Ignazio de Loyola era proclive al misticismo e la preghiera da lui insegnata differenziava di poco dalle meditazioni dei mistici.
Probabilmente l'impossibilità di differenziare tra eresia e santità spiega il frequente atteggiamento titubante dell'Inquisizione. La Suprema, nel 1530, diede disposizioni a tutti i Tribunali che venisse affisso dappertutto l'elenco dei libri proibiti, che doveva comprendere le opere che trattavano l'illuminismo ed il misticismo.

Arma potentissima - la censura su i libri - senza la quale il Papato non avrebbe potuto combattere le nuove dottrine, sostenere l'edificio della Chiesa e rinvigorire efficacemente la fede.

Favorita dall'invenzione della stampa a caratteri mobili (1455) nell'arco di nemmeno un secolo si registrò in tutta Europa una enorme diffusione del libro ( Manuzio a Venezia, a inizio '500, aveva esteso questa diffusione capillarmente con le sue edizioni spartane, economiche, con prezzi molto popolari).

La diffusione iniziò in forma autonoma, senza controllo, e mise nell'inquietudine i maestri conservatori. Iniziano così le prime voci dove si invita "a vigilare sulla gioventù e punire coloro che diffondono questi testi perniciosi, che creano turbamento sia ai giovani sia alla società. Sono da combattere. Questi testi bruciateli !!"


A questo punto la Chiesa prese seri provvedimenti nel tentativo di controllare quanto veniva stampato. Cosicchè, ogni edizione doveva riportare nel retro del frontespizio l'autorizzazione ecclesiastica alla stampa. O meglio riportare la locuzione latina "Nihil obstat quominus imprimatur", che per brevità si usava semplicemente dire "Imprimatur"). Quelli che non riportavano l'Imprimatur, erano considerati libri clandestini e venivano inclusi in un lungo elenco.
Per opera del Santo Uffizio sotto Paolo IV (siamo nel periodo di forti tensioni e di diffusione di idee contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica, e in particolare le idee della Riforma protestante), nel 1559 viene creato l’Indice dei Libri Proibiti (Index librorum prohibitorum). Chiaramente era la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: paradossalmente si giunse persino a proibire il possesso di copie della Bibbia in volgare di cui molte copie sequestrate finirono sul rogo. Poteva essere letta solo su specifica licenza, concessa solo a chi conosceva il latino e non alle donne.


Secondo alcuni storici, a partire da questo anno 1559 la detenzione di libri proibiti divenne il capo di imputazione più frequente nei processi per eresia.
(Famoso a tal riguardo il libro di C. Ginzburg, "Il formaggio e i vermi". (Einaudi, 1976) una storia di una realtà quotidiana proprio negli anni sopra accennati. Ci narra di un mugnaio friulano finito ingenuamente dentro un lungo processo dell'Inquisizione, e poi mandato al rogo per il solo fatto di possedere e di aver letto alcuni libri proibiti. La sua difesa al suo kafkiano processo, è una cosmogonia popolare che apre la porta ad aspirazioni utopistiche di rinnovamento sociale, ad attese millenarie di giustizia.)

Con questa repressione del "sapere" l'Italia sprofondò subito nell'ultimo posto fra le nazioni civili d'Europa perché decaddero le università e tutti gli altri centri di studio, furono tarpate le ali alla scienza, vennero imposti limiti ristrettissimi al pensiero e il genio italico non riuscì più e solo raramente a produrre importanti opere in ogni campo del sapere.


L'ordine religioso che, più di ogni altro, contribuì alla restaurazione cattolica fu quello dei Gesuiti, fondato da IGNAZIO LOPEZ di LOYOLA con lo scopo di propagare la fede ciecamente obbedendo all'autorità pontificia. L'ordine fu istituito il 15 agosto del 1534 e cominciò la predicazione nel giugno del 1537; la sua regola, fissata in cinque capitoli, fu presentata, per mezzo del cardinale Contarini, a Paolo III, che, il 27 settembre del 1540, con la bolla Regimini militantis Ecclesiae, autorizzò l' istituzione dell'ordine, il quale si proponeva di combattere l'eresia a tutta oltranza e con tutti i mezzi possibili.

Ma proprio nel 1540 un Domenicano, di nome Alonzo de la Fuente, iniziò una lotta accanita contro i Gesuiti, accusandoli in un lungo e confuso memoriale, diretto a Filippo II, in cui raccontava che recatosi casualmente nel suo villaggio natio, accanto a Cíudad Rodrigo, vi aveva trovato un Gesuita, di nome Gaspar Santos, molto stimato per la sua vita irreprensibile, che aveva continui contatti con certe beate mistiche. Il Fuente continuava dichiarando di aver svolto opera di conversione presso queste alumbradas e di averne fatte rinsavire alcune. Faceva pure un accenno in cui vagamente attribuiva al Gesuita Santos di aver istigato delle idee mistiche in quelle donne. Il memoriale non ebbe alcun effetto, ma il Domenicano non si scoraggiò e volle continuare la lotta in Portogallo. Infatti inviò diverse lettere alle autorità ecclesiastiche portoghesi, accusando i Gesuiti di aver propagato nella Spagna l'illuminismo. Egli diceva, fra l'altro, che i Gesuiti insegnavano che la contemplazione della Passione di Cristo veniva sempre premiata con i più sublimi doni spirituali, compresa l'infallibilità e che il piacere sensuale non era un peccato, mentre in realtà queste visioni e rivelazioni dei Gesuiti erano da attribuirsi all'opera del Demonio, da essi evocato con stregonerie.

Ma l'Ordine Gesuita in quel tempi aveva un gran potere. Il Capo Inquisitore, Cardinale Henry, inoltrò i memoriali del Fluente alla Inquisizione spagnola, con la preghiera di infliggere una punizione esemplare allo sfacciato Frate.
Gli scismatici in nessun modo volevano riconoscere di essere in errore e ciò appare chiaramente dal fatto che un calzolaio, di nome Juan Bernai, obbedendo ad una rivelazione, si rivolse a Re Filippo II per informarlo dell'ingiustizia commessa a Llerenna e per domandargli perché non fosse intervenuto. Questa audacia del calzolaio gli fruttò sei anni di galera e duecento scudisciate.

Si giunse al punto che tutti i reati che venivano portati dinanzi ai Tribunali venivano attribuiti al misticismo, compresi gli stati di incoscienza, le pretese rivelazioni e le perversità sessuali.
La persecuzione dei mistici finì ad essere considerata come una delle funzioni più importanti dell'Inquisizione. Dopo lunghi preparativi, l'11 Luglio 1579 venne tenuto un « auto da fe », al quale comparirono, fra gli altri imputati, 15 alumbrados, 10 uomini e 5 donne. Gli uomini, ad eccezione dello sfortunato calzolaio, erano tutti ecclesiastici, compreso Hernando Alvarez, contro il quale si presentarono non meno di 146 testimoni. Degno di rilievo in quell'occasione è il fatto che non si fece alcuna allusione agli stati di incoscienza od alle aberrazioni sessuali, come venne fatto in precedenza, sebbene Paramo, circa vent'anni dopo, parlando degli alumbrados, desse un particolare risalto a queste ultime colpe ed ai pericoli che potevano rappresentare attraverso i contatti del confessionale, tra i preti e questi esaltati.

Che questo pericolo non fosse puramente immaginario è provato dal caso di Fra' Juan de la Cruz. Era questi un Francescano espulso dall'ordine, il quale era talmente convinto della verità delle dottrine mistiche che, nel 1605, compariva dinanzi al Tribunale di Toledo, con un memorandum in cui asseriva che il contatto sessuale fra persone spiritualmente elevate, promuoveva la purificazione e l'elevazione dell'anima e dava il massimo beneficio spirituale, se non era congiunto al desiderio del peccato.
Venne posto immediatamente sotto accusa e si trovarono senza difficoltà sei testimoni che provarono che il de la Cruz insegnava e diffondeva le sue dottrine. La semplice seduzione nel confessionale, se il colpevole riconosceva che il fatto era una colpa, veniva punita con relativa mitezza; invece la questione delle dottrine errate era assai più seria e perciò il disgraziato Juan de la Cruz, che sostenne fino all'ultimo la verità delle sue idee, subì una severa punizione. Lo schiacciarono letteralmente sotto le umiliazioni. Egli venne flagellato, a porte chiuse, in un convento e poi condannato a sei anni di segregazione cellulare.

Il 20 Settembre 1615 Padre Geronimo venne processato per aver sostenuto che l'anima umana può raggiungere un grado di perfezionamento in cui può sembrare un'imperfezione il domandare qualche cosa a Dio. Tuttavia ii Tribunale dapprima non fece altro che interrogare alcuni testimoni e probabilmente non avrebbe disturbato Geronimo nel corso della sua carriera, se non avesse scritto un libro. Egli credeva di seguire una ispirazione interna quando nel suo fervore mistico scrisse la sua opera, che sottopose alla critica di diversi dotti teologhi. Già le copie manoscritte dell'opera godevano una larga richiesta e dovunque se ne sollecitava la stampa. Infine Geronimo sottopose l'opera al Consiglio Reale, per ottenere il permesso. Attese circa sette mesi, ma poi, nel 1616, osò sollecitare la pratica alla Suprema.
Già qualche settimana prima tre censori avevano dato parere sfavorevole sul lavoro e perciò la Suprema ordinò al Tribunale di Toledo di procedere all'arresto del Geronimo ed al ritiro dei suoi scritti.
Nonostante le implorazioni del suo vecchio padre l'istruttoria venne protratta sino al Settembre del 1618 per cui egli dovette subire una prigionia di ventisette mesi, che minò non poco la sua salute. Nel frattempo mantenne inalteratamente il suo punto di vista, sebbene molte volte implorasse umilmente con pianti, chiedendo una punizione, dicendo che piuttosto avrebbe sopportato le pene dell'inferno che commettere la colpa di fare dichiarazioni che potevano offendere i suoi compagni di fede. Ma tutto ciò a nulla valse ed egli venne condannato a comparire come penitente all' « auto da fé » del 2 Settembre 1618 e di riconoscere pubblicamente i sessantuno errori trovati nel suo libro. Per tutta la vita gli venne vietato di fare prediche e di scrivere opere di argomento religioso. Venne internato per un anno in un lontano convento ed espulso per altri cinque anni da Madrid e Toledo. Un editto affisso in pubblico ordinò la consegna di tutti i suoi scritti. Con ciò egli venne son soltanto pubblicamente marchiato di eresia, ma tutta la sua carriera fu distrutta ed egli venne completamente privato della possibilità di guadagnarsi i mezzi di sostentamento. Tuttavia fu sua prima cura, giunto al luogo della sua reclusione, di ringraziare umilmente la bontà degli Inquisitori. Sette mesi dopo si rivolse di nuovo al Santo Uffizio, informandolo di essere indebolito ed ammalato, che avevano praticato quattro volte il salasso e che per amor di Dio, pregava la Suprema di condonargli la rimanenza della pena, perchè potesse appoggiare il vecchio padre. Ma nessuno ascoltò questa preghiera e Padre Geronimo perì miseramente.

Non è ben chiaro perchè il Tribunale dell'Inquisizione non abbia trattato nello stesso modo, Francisca de Osuna, Luis de Granada, San Pedro de Alcantara, Santa Teresa e San Juan de la Cruz i quali per le loro presunte colpe avrebbero potuto seguire la stessa sorte dell'infelice Geronimo, anzi la loro salda fede, che non avrebbe permesso loro di piegarsi ad abiurazioni, li avrebbe portati probabilmente al rogo; questa è ancora un'altra delle innumerevoli prove della irregolarità di giudizio dei Tribunali del Santo Uffizio.

Maggior rigore mostrò il Tribunale di Valladolid nel 1620 quando vennero posti sotto accusa per misticismo, Juan de Gabana, Parroco di San Martin de Valverrí e Geroníma Gonzales, distinta vedova. Il sacerdote morì nelle carceri e siccome era rimasto saldo nella sua fede, venne arso al rogo in effige. La donna fu meno costante e perciò la Suprema ordinò che fosse torturata, ma essa potè salvarsi dal supplizio, poiché morì prima.
Il culto del misticismo era già troppo profondamente radicato nei riti religiosi della Spagna, perchè potesse facilmente essere estirpato. Ma nemmeno l'Inquisizione aveva la necessaria fermezza per poter procedere con uniforme rigore. Nel frattempo il cielo di Seville si annuvolò, ciò che rese possibile all'Inquisizione di pescare nel torbido ed operare numerosi arresti.

Abbiamo già visto quanto fiorisse il misticismo a Sevilla, sotto la protezione dell'Arcivescovo Cardinale Royas. Mentre Padre Geronimo attendeva a Toledo la condanna, un mistificatore, assai audace, godeva la venerazione dei fedeli. Un sacerdote di nome Fernando Mendes aveva fama di vivere santamente; quando leggeva la messa cadeva in deliquio e gridava come un forsennato; insegnava ai suoi seguaci di rivolgere a lui le loro preghiere, come se egli fosse un Santo. Chi poteva avere un pezzetto del suo manto lo conservava come una reliquia. Egli raccoglieva attorno a sè le beate che, dopo la messa, si riunivano nell'oratorio, togliendosi sfrontatamente gli abiti e mettendosi a danzare, ebbra del divino amore. A qualche penitente femminile il mistificatore inflisse la pena di alzarsi le gonne in sua presenza.
I suoi discepoli non si reclutavano esclusivamente nelle classi sociali basse, poichè, a quanto dicono le cronache, qualche mattina vi erano non meno di trenta carrozze ad attendere dinnanzi al convento francescano, dove Fernando Mendes si era ritirato.
Questo isterismo collettivo si propagò in tutta Sevilla e la maggior parte della popolazione vi fu trascinata. Il Capo Inquisitore non poteva far altro che stabilire 76 forme di aberrazione, dichiarando che non si sarebbero manifestate con una simile propagazione a Sevilla se coloro che in principio le avevano tollerate avessero riferito all'Arcivescovo in quale stato si trovava il suo gregge.
Le 76 aberrazioni vennero considerate tutte come mancanze commesse a danni della fede, sebbene gran parte di esse costituisse piuttosto dei reati appartenenti alle competenze delle autorità civili. Tuttavia l'intero materiale venne deferito all'Inquisizione. Porto Carero esaminò i casi, uno ad uno, e dimostrò che una parte di essi era identico alle dottrine accettate dalla Chiesa, mentre altri nulla avevano a che fare con la Fede. Egli pregò il Cardinale Arcivescovo di fare giustizia con cautela, senza provocare scandalo e di far esaminare i capi d'accusa da persone dotte e scientificamente qualificate, ma non da Domenicani, poichè i mistici accusati erano per lo più guidati da Francescani e Gesuiti e, data la permanente ostilità fra i vari ordini, i Domenicani indubbiamente avrebbero approfittato di colpire i loro più grandi nemici.

Il povero vecchio Arcivescovo che morì nel Dicembre dello stesso anno, naturalmente non fece nulla. L'editto venne pubblicato il 4 Giugno e con ciò gli ambienti più religiosi di Sevilla furono presi di mira, come covi di eretici. Il misticismo era divenuto una moda, principalmente fra le donne, dalle più alte sfere fino alle più modeste popolane e così un'intera falange di persone accorse per ottenere la generale assoluzione promessa a coloro che si fossero presentati entro trenta giorni.
Una lettera datata il 15 Luglio da Sevilla riferisce che l'inquisitore si era stabilito col suo segretario nella chiesa di San Paolo, dove dormiva e mangiava, adempiendo il suo dovere dalle cinque del mattino fino alle dieci di sera, ma ciononostante non potè evadere nemmeno un ventesimo dei postulanti e quindi si rese necessario di prolungare il termine per altri trenta giorni. Lo scopo dell'editto era piuttosto un ammonimento che non una punizione e ciò sembrava sufficiente, per ritornare verso uno stato di normalità.
Tuttavia con questo provvedimento Sevilla non venne ancora purificata dal contagio. Qualche anno dopo all'« auto da fé » tenuto il 28 Febbraio 1627 figurarono due noti mistici, il Maestro Juan de Villapando, sacerdote di una parrocchia della città e Madre Catalina de Jesus una beata Carmelitana. Incurante dell'editto del 1623 il Villapando aveva continuato a tenere le congregazioni di entrambi i sessi, che gli obbedivano ciecamente, tanto nelle questioni mondane come in quelle spirituali. Egli venne accusato di non meno di 275 aberrazioni e venne colpito di una ammenda di duecento ducati, mentre Madre Catalina, che già da trentotto anni era in stato di esaltazione, venne rinchiusa per quattro anni in una clausura, e poi internata a Sevilla e colpita da duecento ducati di ammenda. Essa era accusata di mantenere una relazione scandalosa con un sacerdote, probabilmente con il Villapando stesso, che onorava come suo maestro e padre spirituale. Contro di lei si presentarono 148 testimoni e la sua condanna dimostra già una certa severità che fino a quel tempo non si era riscontrata, trattandosi di mistici.

Le sentenze si inasprirono sempre di più e ad un « auto da fé » del 1630 vennero bruciati otto alumbrados vivi e sei in effigie. Di questo « auto da fé » non si hanno altri particolari ad eccezione che Bermino nota che le vittime rimasero ostinate fino alla fine. Comunque sia stata la cosa, il fatto prova che l'illuminismo era ormai considerato come eresia e l'ostinazione portava al patibolo. L'ostinatezza, infatti, cambiava in vera e propria eresia, ciò che diversamente era appena un sospetto di colpevolezza, inquantochè significa disobbedienza alle decisioni della chiesa. Questa materia è trattata in un'interessantissima relazione del Santo Uffizio, pubblicata nel 1640.

Quest'opera descrive le abituali prove di colpevolezza emerse contro i confessori e predicatori alumbrados. Questi insegnavano, sotto il velo delle autotorture, la sensualità; taluni asserivano che il tenere relazioni indecenti con una donna e coricarsi con lei erano atti virtuosi, con cui si schiacciava il Diavolo e si debellavano le seduzioni; così pure era quando la penitente veniva spogliata nuda e appoggiata al muro con le braccia a mo' di Crocefisso, mentre gli altri particolari vengono risparmiati al lettore. Da questo si dimostra che il misticismo semplice era tollerato, finchè non era complicato con le pazzie dell'illuminismo, principalmente per quanto concerneva le relazioni tra i due sessi. La politica dell'Inquisizione non era uniforme a questo riguardo; per un pezzo tollerarono che molti innocui mistici godessero in pace l'adorazione dei loro discepoli, ma se scoppiava qualche scandalo o si veniva a sapere che lo scopo delle pratiche era qualche trucco o bassezza, allora facilmente venivano posti sotto accusa.

Un simile caso fu quello di Donna Luisa de Colmanares, conosciuta comunemente sotto il nome di Madre Luisa de Carion, suora del convento di Santa Clara che, settantatreenne, aveva trascorso 53 anni al convento. Essa non era propriamente alumbrada, ma apparteneva ai mistici della scuola di Santa Teresa. Non vi è motivo di dubitare che Madre Luisa avesse fatto delle finzioni consapevolmente, poiché non era che una povera vecchia ignorante, la quale in istato ipnotico aveva delle visioni, come molti altri.
Filippo IV la stimava molto e persino i pontefici mantenevano corrispondenza con lei. Gli oggetti sacri e benedetti da essa erano molto ricercati e la loro vendita dava un notevole profitto.
Nel 1635 l'Inquisizione pensò improvvisamente di aprire una istruttoria nei suoi confronti. Il movente di questa decisione era alquanto oscuro, ma più probabile sembra la supposizione che gli avversari del Principe Olívares, come si usava a quei tempi, avessero cercato di sfruttare per scopi politici la venerazione generale di cui era oggetto la vecchia suora. Tuttavia i preparativi vennero fatti con una caratteristica cautela. Juan Santos, seniore degli inquisitori di Valladolid, ottenne l'ordine di esaminarla. Non fu difficile trascinare la povera ignorante in una falsa discussione di teologia, che ebbe per conseguenza il suo arresto.

La fecero sedere in una carrozza assieme alla parente di un inquisitore, ma il suo ingresso a Valladolid fu piuttosto trionfale che non quello di una imputata. Apparve una strana luce nel cielo che gradualmente assunse la forma di un crocefisso e la popolazione si riunì in grandi masse, cosicché a nulla valse la precauzione con la quale avevano deciso di trasferire la donna a Valladolid di nottetempo. La folla era tanto numerosa che a stento si riusciva a fenderla con la carrozza e tutti cercavano di strappare qualche brandello delle vesti della suora, considerandolo come preziosa reliquia. La installarono nel convento delle Agostiniane, dove le suore la ricevettero con grande rispetto, dichiarando che Madre Luisa era chiamata a figurare negli annali della Chiesa come la più grande Santa. Quando si annunciò che sarebbe stata nella chiesa tutti corsero a renderle omaggio.

I Francescani accettarono ufficialmente la sua difesa e la popolazione di Valladolid, con a capo il Vescovo, fece un tal dimostrazione in suo onore che il Tribunale cominciò ad esitare e la Suprema dovette inviare un commissario straordinario. Non fu difficile muovere la vecchia a riconoscere la propria eresia, poichè era deficiente ed ignorante.
La condanna preventivamente ordinata venne preceduta da un editto, del 23 Ottobre 1636, col quale venne ordinato a Madre Luisa di consegnare tutta la sua corrispondenza, i ritratti, i Crocifissi, i rosari, ecc. di cui possedeva una tale quantità che fu necessaria adattare una camera speciale alla Parrocchia di San Míguel, per depositarli.
La povera vecchietta era cieca, sdentata e completamente esausta della vita isterica, cosicchè queste peripezie la scossero al punto di causarne la morte, avvenuta nel Novembre. Ciò naturalmente non impediva la continuazione della causa ed il Tribunale si irritò molto quando apprese che il Vescovo l'aveva sepolta senza chiederne il permesso. Quando lo chiamarono a risponderne egli minacciò una sollevazione generale, ma il Tribunale non cedette, fece riesumare il cadavere, stese un certificato di identità e poi con particolare permesso della Suprema lo fece riseppellire.

A quanto pare non vi fu una sentenza formale in questa causa. I Francescani minacciavano di presentare lagnanza al Pontefice, ma vennero derisi. L'importanza della personalità di Madre Luisa era ormai cessata, ma i suoi ammiratori veneravano ancora la sua memoria; ne è prova il fatto che il Santo Uffizio, nel 1638, vietò che si menzionasse oltre la presunta Santa.

Se non vi fosse stato un motivo politico che provocò la sua accusa, si può supporre senz'altro che Madre Luisa sarebbe stata santificata. La sua carriera non era più eccezionale di quella della sua coetanea, Beata Anna Maria de Jesus, una madrilena, nata nel 1565 e morta nel 1624. Era una suora dell'Ordine mercedes e la sua biografia è stata scritta dallo storico ufficiale di Filippo IV, il quale dice che essa già da bambina dava indizi della sua futura santità. All'età di quattro anni pregava già continuamente e a sei anni ebbe visioni e rivelazioni. Essa asseriva di avere l'anima permanentemente illuminata da Dio, il quale le aveva manifestato inequivocabilmente la sua Santa volontà.

Questi mistici di vita santa, che erano in rapporti diretti con Dio, ottenevano una tale influenza che oggi non si potrebbe nemmeno immaginare. Erano numerosi e le loro rivelazioni venivano accettate senza riserve cosícchè, a poco a poco, l'intera Spagna era avvolta in un nembo di misticismo, e si desideravano più le indicazioni celesti che non i consigli della saggezza degli uomini. Quando la causa della Monarchia spagnola cominciò a vacillare, Filippo IV si lamentò ripetutamente che le descrizioni delle visioni, comunicategli dai Domenicani, lo turbavano molto. Queste rivelazioni, diceva il Sovrano, meritavano molta attenzione, particolarmente quando si trattava che Dio gli aveva ordinato di punire coloro che lo avevano servito fedelmente e di innalzare quelli che avevano mal meritato.

Ma la spiegazione di questa insensata superstizione la troviamo nel fatto che egli si consultò con un altro mistico, per avere indicazioni, pregandolo di intercedere presso Dio, perchè la sua mente fosse illuminata.
Maria de Jesus conosciuta sotto il nome di Suor Maria de Agreda, alla quale Filippo si rivolse per consigli, era tanto sicura della benevolenza del Sovrano che non temeva l'Inquisizione. Questa donna viveva in una meditazione spirituale, fin dall'età in cui poteva appena valersi del proprio intelletto ed era in permanente comunicazione con Dio, con la Santa Vergine e con gli Angeli. La sua fama era diffusa per tutto il paese ed i suoi scritti, dei quali diceva fossero ispirazioni, formano ancora oggi una parte della letteratura religiosa riconosciuta.
Essa riuscì tanto bene a cattivarsi la fiducia di Filippo, da divenire la suprema consigliera. Per 22 anni, cioè fino alla sua morte, che precedette di quattro mesi la morte del Re, quest'ultimo manteneva con lei una continua corrispondenza. La sua influenza era quasi illimitata, ma a quanto pare non ne abusò mai. I suoi consigli erano generalmente intelligenti e non tendevano mai ad apportare dei vantaggi materiali per il convento del quale essa era Superiora.
Finchè la Spagna era invasa dalle « Beatas Revelendares » e da una falange di più o meno coscienti mistificatori, i casi conosciuti come misticismo si trovavano in numero relativamente scarso nel Secolo XVII. Mentre la Spagna perseguitava il misticismo, Roma rimaneva relativamente indifferente, poiché in Italia questa manifestazione non si era sviluppata fino a una mania collettiva che avrebbe dovuto essere repressa per gli eccessi di immoralità in cui molte volte degenerava.
Il Cardinale Scabría, membro della Congregazione dei Santo Uffizio, in una sua opera in cui tratta i soliti malanni dei conventi di monache, scrive che queste molte volte si illudevano di avere visioni celesti e rivelazioni di Dío e dei Santi, persino i loro confessori si lasciavano talvolta influenzare al punto di scrivere degli interi volumi su queste rivelazioni e di sostenerle con tale accanimento da meritare la punizione dell'Inquisizione.

Molte volte in queste esaltazioní mistiche entrava la sensualità; inquantochè molti asserivano che l'attività sessuale non era peccaminosa, ma anzi al contrario virtuosa. Simili casi si erano verificati persino al Santo Uffizio ed anche fra donne le quali dichiaravano di avere soltanto dei contatti spirituali, mentre i confessori insegnavano che erano azioni benemerite ed autotorture. Bernino dice che al principio del Secolo XVII l'illuminismo si divulgò largamente in Italia. Un caso avvenuto nel 1640, a Firenze, sollevò molto stupore; il Canonico Pandolfo Ricasoli, membro onoratissimo della casa baronale dei Trappola, uomo dotto e ricco, venne arrestato con la sua principale complice, Faustina Mainardi. A quanto pare essi avevano fondato con altri la setta degli illuministi, ai quali il Rícasoli insegnava che tutte le azioni scurrili conducevano alla purezza, se erano fatte con l'anima concentrata in Dio. Questa setta si vantò di avere particolari rapporti con i poteri divini e si dichiarò immune da ogni peccato.

Questa attività continuò per otto anni, quando l'Inquisizione ne ebbe sentore ed allora il Ricasoli si presentò al Santo Uffizio, accusandosi spontaneamente. Il 28 Novembre 1641 fu tenuto un grande « auto da fé » nel refettorio del convento di Santa Croce al quale presenziavano, un Granduca, il Cardinale Medici, il Nunzio ed altre notabilità. Uno dei colpevoli, Serafino de' Servi, era morto in carcere e gli altri abiurarono le loro dottrine. Il Ricasoli e la Mainardí vennero condannati all'ergastolo, mentre altri due imputati vennero condannati a parecchi anni di carcere sotterraneo.

Nemmeno in Italia erano ignoti i mistificatori, come si rivela dal caso di Francesco Giuseppe Borri, figlio degenere di nobili milanesi. Roma divenne ben presto pericolosa al nuovo profeta e perciò egli, nel 1655, trasferì la sua attività a Milano, dove fondò una setta mistica segreta insegnando ai membri le preghiere spirituali ed inducendoli a far voto di sacrificare il proprio sangue nell'interesse della loro santa causa e, quanto più pregevole, il loro intero patrimonio. L'inquisitore di Milano, apprese la costituzione di questo nuovo gruppo e ne fece arrestare alcuni componenti. Il Borri dapprima tentò di provocare una sommossa, ma più tardi ritenne più opportuno fuggire. Incominciò una nuova carriera nell'Europa settentrionale e, come uomo pratico dell' alchimia e della scienza scientifica, ebbe un successo che persino Cagliostro avrebbe potuto invidiargli. Strasburgo ed Amsterdam presto dovevano pentirsi di averlo accolto. Ad Amburgo, Cristina di Svezia lo provvide di mezzi, perchè potesse compiere il suo grande lavoro. Federico III, Re di Danimarca, spese ingenti somme per lui e lo nominò persino suo consigliere politico, ma in questa posizione egli suscitò l'odio dell'erede al Trono e quando questi prese la successione il Borri fu costretto a fuggire.

Ma le molte sette non potevano diffondersi, senza essere scoperte. Nel 1682 l'Inquisizione ad un tratto si vide costretta a vietare ogni conferenza. Il famoso Pelagini venne posto sotto accusa, ma a quanto pare fu trattato con mitezza poiché il Belleri che era uno dei principali suoi collaboratori, trasferitosi in Valcamonica venne nominato dal Vescovo, missionario di tutta la regione. Comunque la repressione di tutte queste pazzie venne ordinata da Roma soltanto quando l'attenzione delle superiori gerarchie ecclesiastiche venne richiamata da un altro pericolo.

Miguel de Molinos era uno spagnolo che dopo essersi addottorato in teologia a Coimbra, nel 1665 venne a Roma, in occasione di una beatificazione. Ivi emerse ben presto come confessore e padre spirituale. Papa Innocenzo XI lo stimò tanto da assegnargli un appartamento nel proprio palazzo. Le signore dell'alta aristocrazia affidavano a lui la cura delle loro anime e la sua fama si propgò per tutta l'Italia, perciò la sua corrispondenza assunse dimensioni veramente eccezionali. A quanto dicono le cronache, al suo arresto venne trovato in possesso di ventimila lettere, fra le quali duecento della Regina Cristina di Svezia e duemila dalla Principessa Borghese. Il Molinos, nelle sue dottrine, abbandonò i riti di estasi e visioni, avvicinandosi piuttosto agli ideali bramici che sostenevano l'annientamento dei sensi e dell'intelletto nel mistico silenzio della morte, nella quale non esisteva più parola, pensiero e desiderio e nel quale stato l'anima assurge a Dio, divenendo perfetta.

Tutto ciò venne permesso al Molinos che in mezzo alla generale approvazione, insegnò le sue dottrine per vari anni, mentre il Pelagini era stato espulso per la stessa attività. Tuttavia una carriera luminosa, come quella del Molinos, non poteva continuare a lungo senza suscitare invidie e gelosie, che erano tanto più pericolose inquantochè venivano saggiamente mascherate. Si venne a sapere che in diversi conventi monacali di Roma, i confessori dei quali accettarono le idee Molinos, le suore avevano gettato in disparte i rosari e si dedicavano esclusivamente alle meditazioni spirituali. Questi sintomi non mancarono di preoccupare vivamente le autorità ecclesiastiche che cominciarono a vedere minacciati il potere ed i redditi della Chiesa.

Accusare di eresia una persona che godeva generale stima ed aveva fondata la sua vita su solide basi, come Molínos, poteva sembrare un'audacia. Non può dunque meravigliare che l'iniziativa venisse assegnata ai Gesuiti, come l'ordine più potente e meno trattenuto da pregiudizi sociali. Le ostilità vennero iniziate da Gottardo Bell'Uomo, un Gesuita che nel 1678 scrisse un'opera, esaminando il valore della preghiera normale e di quella mistica.
L'opera venne presentata all'Inquisizione, con opportuni suggerimenti di procedere contro Molínos. Quest'ultimo era stato avvisato da varie parti della bufera che stava per scatenarsi e cercò di parare il colpo mostrando un atteggiamento volutamente remissivo.
Il 16 Febbraio 1680 scrisse una lunga lettera al Generale Gesuita Oliva, nella quale chiedeva scusa, dichiarando di non aver mai aggredito l'Ordine dei Gesuiti, verso il quale serbava sempre il massimo rispetto, al punto che, quando a Valencia era stato proibito ai Gesuiti l'insegnamento della teologia, era stato lui l'unico a opporsi alla disposizione e venire in aiuto dell'Ordine. Egli sapeva che già da alcuni anni i più eminenti Gesuiti lo perseguitavano come eretico per i suoi scritti e le sue prediche, ma non era affatto risentito per questo atteggiamento e pregava solo Dio di proteggere coloro che lo avevano accusato.

Pare che i partiti opposti per molto tempo rimanessero equilibrati, poiché passarono otto mesi prima che in base alle prove raccolte l'Inquisizione si ritenesse autorizzata a procedere all'arresto di Molinos. Si diceva che la Regina Cristina facesse valere tutta la sua influenza per assicurare al Molínos un trattamento migliore di quello riservato generalmente ai carcerati. I particolari dell'istruttoria non sono noti, ma siccome l'Inquisizione Romana si valeva delle torture, si può supporre che il Molinos vi sia stato sottoposto. Comunque l'istruttoria non poteva finire altrimenti che con l'accusa formulata, in base a numerose prove, fra le quali ne figuravano di assurde, come quella che egli avesse regalato ad una persona la camicia che indossava, quando dalla Spagna si era recato a Roma, dicendo che questa sarebbe stata una reliquia dopo la sua morte.

Comunque la sua condanna era inevitabile. Il 20 Agosto 1687 l'Inquisizione firmò il decreto della condanna che enumerava 68 colpe ed in cui il Molinos venne qualificato eretico, persona sospetta, che suscitava scandalo, essendo rinnegatore di Dio. Tutti i suoi scritti vennero messi all'indice e venne ordinata la consegna ai Vescovi od agli Inquisitori delle opere che si trovassero in circolazione, allo scopo di bruciarle.
Alla vigilia dell' « auto da fé » il Molinos venne trasferito, sotto scorta, dalle carceri dell'Inquisizione alla Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, dove la cerimonia doveva aver luogo. Al mattino, in una camera accanto alla Sagrestia, lo mostrarono ad alcuni notabili, curiosi di vederlo e contro questo fatto egli protestò vivamente, dimostrando pure di non sentire alcun pentimento. Ciò era dimostrato anche dall'atteggiamento tenuto in seguito dal Molinos e che può essere spiegato con la calma spagnola, ma ancora più con la quiete del suo spirito che lo induceva ad accogliere con la massima indifferenza la morte del mistico, che egli tanto ferventemente additò come il supremo bene, al suoi discepoli.

Quando venne invitato ad ordinarsi il pranzo egli si scelse una lista che avrebbe potuto accontentare il più fine buongustaio. Saziatosi, si coricò per riposare, finchè venne svegliato per occupare il suo posto sul palco, dove, nonostante i ceppi, il suo comportamento assomigliava piuttosto a quello di un giudice che non a quello di un accusato.
La grande chiesa si riempì sino all'ultimo angolo. Erano presenti tutte le notabilità di Roma, compresi 23 Cardinali, e la grande piazza, dove erano eretti i palchi, e le vie laterali erano gremiti di una folla enorme. Non era l'indulgenza di quindici giorni, proclamata in omaggio dell'avvenimento, a raccogliere tanta folla, poiché a Roma in quel tempo si impartivano quasi quotidianamente le indulgenze. Il popolo era tanto stimolato dalla curiosità morbosa, che sorse un serio conflitto all'ingresso della chiesa, contro le guardie svizzere e non si potè evitare spargimento di sangue.

Quando venne letta la lunga sentenza, con tutti i particolari dei misfatti commessi da Molínos, il popolo ripetutamente interruppe la lettura, gridando : « Al rogo, al rogo ». La sentenza concludeva sulla colpevolezza dell'imputato, dichiarandolo eretico, per la divulgazione di false dottrine. Siccome però egli aveva mostrato pentimento, implorando grazia e perdono, gli venne ordinato di abiurare pubblicamente l'eresia e fu condannato al carcere a vita, con l'imposizione di portare il sanbenito. La sentenza venne eseguita e, a quanto è dato di sapere, il Molinos passò i suoi giorni in continua degenza fino alla sua morte, avvenuta il 28 Dicembre 1696.

La persecuzione del molínismo trovò un nuovo stimolatore nel Cardinale Ottoboni, quando egli sotto il nome di Alessandro VIII successe a Papa Innocente. Il Bernini scrive che quest'uomo sembrava esteriormente un Angelo e che le sue dichiarazioni lo mettevano sotto la luce dell'Apostolo. Egli disse che l'individuo più insensato del mondo era l'eretico, il quale quando abiurava la vera fede veniva privato dal destino, della ragione. La sua prima cura fu quella di licenziare dal proprio servizio tutte le persone ritenute da lui sospette di molinismo, facendole imprigionare. Il suo pontificato durò per fortuna soltanto sedici mesi, cosicché egli ebbe soltanto un'occasione limitata per dar sfogo al suo fervente fanatismo.

Ma nonostante tutti questi provvedimenti si trovavano ancora molti seguaci del molinismo che si dedicavano all'erotismo mistico. sotto il velo di sublime spiritualità. Nel 1696 si parlava molto a Roma del caso del Sacerdote Evangelista Pietro Paolo di San Giovanni, il quale era stato già sotto istruttoria a Napoli ed a Toledo. Egli si beava degli stati di incoscienza, in mezzo ad una schiera di ammiratori. Insegnava che si poteva fare la comunione anche senza preventiva confessione e che quando l'anima si univa a Dio, qualsiasi cosa commettessero le parti più vili del corpo, non sarebbe stato un peccato. Confessava sinceramente di aver commesso fatti immorali al massimo, con le sue ammiratrici, cercando poi di dimostrare che queste, ciononostante, erano pure come la Santa Vergine. Venne condannato al carcere permanente e ad una quantità di rigorosi esercizi spirituali.
La condanna di Molinos e le 68 tesi a lui attribuite naturalmente suscitarono grande interesse fra i seguaci del misticismo. Tuttavia, molto probabilmente, nella Francia la questione non sarebbe stata pubblicamente trattata se la persona, che figurava come la più eccelsa rappresentante di queste dottrine, non avesse provocato, per ragioni personali, un procedimento a proprio carico. Questa persona strana era Jeanne Marie Bouvieres de la Mothe Guyon, la cui autobiografia illustra vivamente il martirio spontaneo che dovette sopportare nella lotta per liberare l'anima dai legami terrestri.

Questa donna aveva la facoltà di provocare miracolose guarigioni ed il suo potere sui demoni era illimitato. Vi erano dei tempi in cui la grazia divina la invadeva in tale misura e provocava in essa una tale tensione che ella non poteva far altro che stare muta, coricata a letto e poteva alleggerirsi soltanto dividendo con altri l'esuberanza della grazia divina.
Non è nostro compito dilungarci nella storia della sua persecuzione, iniziata dai parenti di lei e continuata da Bossuet, sino a che Jeanne Marie venne condannata a ritirarsi in un convento e più tardi nella Bastiglia di Víncennes. In ogni modo la sua influenza stimolò Fenelon a seguire il misticismo suscitando una mortale inimicizia fra lui ed il suo amico Bossuet.
Una commissione che nel 1694, stabilì 34 errori del misticismo ed il relativo documento venne firmato anche da Fenelon. Noaílles, Arcivescovo di Parigi, lo firmò pure ed invitò il Fenelon a partecipare alla persecuzione della Guyon. Il Noaílles ottenne pure l'appoggio dei Gesuiti, che promisero di aiutarlo al massimo grado.
L'Inquisizione spagnola che per tanto tempo aveva continuato da sola la lotta contro il misticismo, prese atto con soddisfazione
del procedimento dell'Inquisizione romana contro il Molinos. L'arresto di Molínos venne eseguito nel 1685 dal divieto dello scritto religioso « Guida », che per nove anni era stato in libera circolazione nella Spagna. L'editto di divieto dichiarava che l'opera conteneva delle tesi sospette, che offendevano le persone devote, che era pieno dell'eresia degli alumbrados e che infine il titolo era ingannevole, poiché il libro trattava esclusivamente la vita spirituale.
Anche il Tribunale di Sevilla non rimase inattivo al riguardo e già il 24 Aprile 1687 procedeva all'arresto di uno dei canonici del Capitolo di San Salvador, Josè Luis Navarro de Luna Medina, il quale aveva avuto un attivo scambio di corrispondenza con Molinos e gli aveva inviata la propria autobiografia, per chiedere istruzioni circa la cura del proprio spirito. Il Navarro era stato privato già in precedenza della facoltà di confessore, e come tale egli lo scelse per sè e per la propria famiglia. Il Navarro più tardi soffrì quattro anni di carcerazione e non gli vennero risparmiate nemmeno le torture, cosicchè in fine cedette e confessando tutto chiese la conciliazione e la riammissione nella Madre Chiesa.

Poco tempo dopo, l'8 Maggio 1692, all'« auto da fé », venne accusata una donna di nome Anna Raguzza, come alumbrada e molinista. Essa veniva da Palermo, come missionaria, per convertire gli scellerati; si disse sposa di Cristo; aveva rivelazioni e visioni ed inoltre la particolare convinzione di poter giudicare lo stato di coscienza delle persone dall'odore che emanavano. Riuscì a cavarsela con due anni di prigione, dopo di che venne esiliata per sei anni dalla Spagna.

MOLINISMO

La condanna di Molínos a quanto pare stimolò l'Inquisizione ad una maggiore attività nella repressione del misticismo. Infatti gli annali del Santo Uffizio da quell'epoca contengono numerosi casi che invece di illuminismo venivano definiti molinismo. Passiamo riferire di un caso che merita più ampia trattazione, non soltanto per la distinta posizione della persona colpevole, ma anche perchè ci rivela quella strana promiscuità della sensualità e dell'elevazione dell'anima che era conosciuta sotto il nome di molinismo. Questa era una forma di autoillusione che portava uomini e donne a delle orgie sfrenate, nella credenza di vivere in unione con Dio, nella sublimità del misticismo.
Nelle abili mani degli scismatici il limite fra il buono ed il cattivo si spostava pericolosamente e non mancavano argomenti con i quali ognuno poteva convincersi che qualunque azione istintiva fosse buona e santa.

Il Llorrente dà un resoconto particolareggiato del movimento molinista che diede parecchio da fare ai Tribunali di Longrono e Valladolid. Juan de Causadas, canonico di Tuedela, era un entusiasta seguace di Molinos e diffuse le sue dottrine ovunque. Egli venne bruciato a Longrono, non si sa se per aver negato Dio o per ostinazione. Suo nipote Juan de Longas Frate Carmelitano Scalzo era anche uno scismatico e nel 1729 venne condannato a duecento scudisciate e dieci anni di galera. Però, a quanto pare, questa severa condanna non intimorì i suoi discepoli.

Tra questi la più distinta era Dona Agueda de Luna, la quale nel 1712 entrò nell'Ordine Carmelitano, dopo di aver goduta già fama di santità. I suoi stati di ipnosi ed i miracoli compiuti vennero divulgati dal priore del convento ed anche dai Frati, per i quali risultò un ottimo affare la domanda di intervento dei numerosi ammiratori della santa donna. Juan de la Vega era il più fervente mistico, dopo Juan de Çausadas. Gli amici di Madre Agueda fondarono un convento a Corella, del quale essa divenne Superiora e non tardò a far conoscere profondamente a tutte le suore le teorie e le regole del molinismo. Solo Juan de la Vega ebbe cinque figli da Madre Agueda, i quali vennero strangolati subito dopo la nascita e sepolti in prossimità del convento, assieme agli altri frutti degli illeciti amori delle suore.

Dopo una prolungata attività immorale, Madre Agueda venne finalmente denunziata al Tribunale di Longrono ed arrestata assieme ai suoi complici e seguaci. Venne svolta una rapida istruttoria, ma la donna morì durante le torture nel 1743, mentre i frati e le suore vennero relegati nei conventi. Sebbene l'Inquisizione avesse già stabilito una norma di procedimento contro questi casi, non fu possibile estirpare la generale credulità che venne sfruttata dai vari mistificatori.
Una delle ultime attività del Tribunale di Cordova fu, il 19 Giugno 1818, la condanna a prigione della Beata Francísca de Paula Caballero y Garrida de Lucane, mentre la sorella Maria Domínga venne condannata soltanto alle carceles medias. La Beata fece anche qui dei miracoli, ebbe rivelazioni ed a quanto pare potè trovare credito, perchè la Suprema, in un'altra istruttoria, ordinava che fossero iniziate delle indagini, non soltanto a carico delle due sorelle, ma anche contro altre sette persone. Però questi mistici ebbero la fortuna che nel 1820 scoppiò la rivoluzione che fece cessare ogni procedimento a loro carico.
Quando il Tribunale di Cordova venne sciolto, nelle carceri si trovarono soltanto due prigioniere che erano le due beate di Lucena.

Mentre l' Inquisizione era blanda verso coloro che considerava soltanto dei traviati, procedeva col massimo rigore contro quelli che sfruttavano la credulità del popolo. Questa credulità era tanto generale ed illimitata che l'attività delle beate era molto facile e redditizia. Il popolo addirittura pareva desiderasse essere mistificato e non vi era balorda menzogna che non fosse creduta.
La punizione dei mistificatori e la pubblicazione delle mistificazioni non valsero ad impedire la credulità, nè la continuazione degli inganni, cosicchè dopo un certo tempo tutto il paese fu invaso da questo elemento dannoso, costituito per la maggior parte di donne. Era la più umiliante peste spirituale, che contaminava tutte le classi sociali ed era opprimente la constatazione che alcuni dei casi più audaci godevano l'approvazione della Santa Sede.

L'Inquisizione compì un salutare lavoro, con gli infiniti sforzi per sopprimere questa prostituzione del misticismo e, se non riuscì completamente nell'intento, tuttavia impedì che la religiosità divenisse un mezzo di bottino per un gruppo di donne isteriche.

Non vale la pena di enumerare tutti i casi abominevoli, tuttavia uno è di maggiore interesse. Maria de los Dolores Lopez, conosciuta sotto il nome di Beata Dolores, svolse per quindici anni un'attività scandalosa, ma molto proficua. Essa aveva iniziato la carriera a dodici anni, allontanandosi dalla casa paterna. La sua cattiva fama era largamente diffusa e per dieci anni continuarono a pervenire all'Inquisizione denunce sulla vita dissipata che conduceva. Finalmente nel 1799 uno dei suoi confessori, per alleggerire la propria coscienza, accusò se stesso al Tribunale di Sevilla. Durante la istruttoria le risultanze portarono all'arresto della Beata Dolores, che dichiarò al Santo Uffizio che già all'età di quattro anni aveva avuto manifestazioni della grazia di Dio. Disse di essere in contatto stretto con la Santa Vergine e che nel Cielo era stata sposata a Gesù, mentre San Giuseppe e Sant'Agostino facevano da testimoni. Asserì di aver liberato milioni di anime dal purgatorio e affermò molte altre pazzie del genere, aggiungendo che la cattiva azione non era una colpa, quando era fatta per volontà di Dio.

 

Questa donna dunque non era soltanto un'audace mistificatrice, ma anche una eretica. I più esimi teologhi dell'epoca sprecarono la loro scienza ed eloquenza per questa donna. Fra' Diego de Cadiz, il primo oratore di quei tempi, si affaticò per mesi, invano, per convertirla, ma infine non potè far altro che proporre di arderla viva. Anche la minaccia fu vana; Madre Dolores asseriva di essere destinata da Dio a morire da martire, dopo di che entro tre giorni avrebbe provata la propria innocenza.
Durante l' « auto da fé » fu necessario metterle un piolo in bocca, per impedirle di pronunciare ad alta voce imprecazioni e sacrilegi. Tuttavia, come avvenne molto spesso, sulla via verso il brasero, i suoi nervi cedettero; scoppiò in lacrime e chiese il confessore. Con ciò ottenne il privilegio di essere strangolata prima di essere gettata alle fiamme.

Analoghi avvenimenti si manifestarono anche a Madrid nelle più alte sfere sociali. Suor Maria Clara Rosa de Jesus, conosciuta per Beata Clara, ottenne una grande fama con le sue visioni ed azioni miracolose. Era paralizzata e non poteva scendere dal letto, quando annunciò che, per ordine particolare dello Spirito Santo, avrebbe dovuto entrare nell'Ordine dei Cappuccini. Pio VI le diede la dispensa di poter compiere il rito nella propria casa. Anastasio de Puyal, più tardi Vescovo di Calahorra, chiese il permesso di poter erigere un altare nella sua camera, dove quotidianamente si leggeva la messa somministrando i Sacramenti all'ammalata, mentre si dichiarava che essa non si alimentava di altro. Tutte le grandi Dame della Corte chiedevano la sua intercessione nei loro malanni, sacríficandole grandi somme.
Bisogna lodare l'Inquisizione per il fatto che provvide a far cessare questo sistematico ricatto, facendo arrestare, nel 1801, Suor Maria, assieme alla madre, il confessore e gli altri complici. Non fu difficile provare la loro colpevolezza e così nel 1803 tutti vennero condannati all'internamento nelle proprie case.

Per trecento anni e sino al suo scioglimento, l'Inquisizione invano si sforzò di por fine alla speculazione basata sulla credulità degli uomini. Fece tutto quanto stava nelle sue facoltà, ma l'universale desiderio di conoscere cose miracolose, per poter dimostrare l'intromissione di poteri celesti nelle azioni umane, era talmente diffuso e profondamente radicato, da risultare impossibile persino al Santo Uffizio un efficace controllo.
Maria Raffaela Quiroga, detta Suor Maria Cipriana, che si fece suora nel 1829, nella Clausura di San Jose, annunciò ben presto di aver visioni e rivelazioni, dopo le quali si presentavano sul suo corpo delle ferite di bruciature. La sua fama cominciava a divulgarsi e le sue vesti imbevute di sangue erano ricercatissime, come amuleti di guarigione.
Quando dopo la morte di Ferdinando VII, nel 1833, scoppiò la guerra carlista, i clericali che erano partigiani di Don Carlo scorsero un mezzo utile in suor Maria Cipriana. La persuasero a profetizzare il successo del pretendente al trono e di fornire prove della origine illegittima della giovane Regina Elisabetta. Come era successo nel caso di Maria di Portogallo anche questa volta la suora si arrogò una parte pericolosa nella politica, al punto che si rese necessario un intervento delle maggiori gerarchie statali per allontanarla. Infatti nel Novembre del 1835 Suor Maria Cipríana venne allontanata dal convento e portata in una casa privata, dove fu affidata alle cure della madre e di un sacerdote. Vennero incaricati tre medici di esaminare le sue ferite e tutti e tre dichiararono che si trattava di autolesioni che potevano guarire presto se nessuno si fosse indebitamente intromesso. Infatti le ferite si rimarginarono ed il fatto venne ufficialmente constatato il 21 Gennaio 1836. Allora Suor Cipriana cedette e fece piena confessione: disse che un frate Cappuccino di nome Firmin de Alcala le aveva dato un corrosivo con l'istruzione di ungersi le mani, i piedi, i fianchi e la testa e che i dolori che avrebbe patito sarebbero stati una salutare penitenza per lei.

Venne aperta istruttoria, ma il frate Firmin saggiamente scomparve. Indi venne pronunziata una sentenza, con la quale venne sciolto il convento ed il Vicario espulso per otto anni da Madrid, mentre la suora mistificatrice venne internata nella cella di un convento.
Passarono gli anni e Suor Maria Cipríana era quasi dimenticata, quando nella reazione del 1841 si presentò l'opportunità di utilizzarla di nuovo. Nel 1845 le innalzarono il convento di Gesù, nel quale entrò con le ferite riaperte e con tutta la fama di santità, camminando sotto un baldacchino come una Sovrana. D'accordo con Padre Fulgenzio, confessore del Principe Consorte e con il fratello Manuel Quiroga, che fece nominare Cavaliere, essa divenne il potere occulto all'ombra del Trono.
Il dottor Argumoza, che aveva curato a suo tempo le sue ferite, venne posto sotto accusa e ricomparve anche Fra' Firmin Alcala, per occupare il Seggio Vescovile di Cuenza. Nel 1849 venne insinuato che egli avesse costretta la Regina Isabella ad esonerare Narvaes ed il suo Gabinetto. Ma nel 1850 il Narvaes venne chiamato nuovamente al potere ed egli fece immediatamente internare in un remoto convento la Suora, il fratello di lei, Padre Fulgenzío ed alcuni altri complici.

Però la donna venne ben presto richiamata e la sua influenza si accrebbe in modo che il Narvaes non potè più nulla contro di lei. Il suo successore Bravo Muríllo per poter aver pace persuase il Nunzio Brunelli ad inviare la Monaca a Roma, ma ciò non giovò molto, poiché essa ritornò ben presto, più potente che mai, munita della benedizione speciale di Pio IX. Sotto la sua direzione, verso la fine del regno di Isabella II, una vera camarilla dominava il paese e provocò la rivoluzione del 1868, che mutò la monarchia per qualche tempo in repubblica.

Con la caduta di Isabella, suor Maria Cípriana scomparve, per ritirarsi in un convento di cui era Abbadessa. Là visse in un quieto ritiro sino alla sua morte avvenuta il 27 Gennaio del 1891 nella più grande serenità, avendo essa ottenuta da Papa Leone XIII una speciale benedizione inviata per telegrafo.

L'Inquisizione era in grado di opprimere gli ebrei, scacciare i mori, ed estirpare il protestantismo, ma non riuscì mai a sradicare gli abusi del misticismo, che viveva non soltanto approfittando del fervore religioso, ma valendosi della differenziazione delle tesi di fede, riconosciute dalla Chiesa sin dalle sue origini.
L'Inquisizione si valeva di una critica molto severa e minuziosa, di fronte alle più distinte personalità. Alcuni casi che qui rammentiamo caratterizzano l'irragionevole pedanteria del Santo Uffizio. Il più notevole di questi è il caso del frate Luis de Leon, il quale era non soltanto il più esimio teologo di quei tempi, ma anche insuperabile predicatore ed autorevole scrittore della letteratura castigliana.
Oltre ad essere molto colto ed intelligente egli era attivo e dinamico; si dedicò all'insegnamento ed in pari tempo trovò modo di prendere parte a concorsi e polemiche, dedicandovisi anche durante i periodi di vacanza. A trentaquattro anni ricopriva già il seggio professorale di Tomaso Aquinas e più tardi quello di Durandus.

Nelle polemiche di teologia solo rare volte ci si atteneva alla buona fede, anche se si trattava di questioni di poca importanza. Perciò l'Inquisizione trovò in queste dispute un terreno molto favorevole, per far valere il proprio potere, non appena una sola parola od espressione poteva essere eccepita nel corso delle discussioni. Ogni professore ed ogni teologo, perciò, dedicandosi a tale attività, camminava pericolosamente sull'orlo di un baratro, in cui poteva essere spinto in qualunque momento da qualche nemico. Era poi molto facile all'Inquisizione di aggrapparsi ad una espressione poco ponderata, pronunciata nel calore della disputa e talvolta nemmeno ben compresa, per costituire un capo d'accusa. Così avvenne anche con Luis de Leon ed altri tre professori di Salamanca. I due principali fautori della persecuzione di De Leon erano i suoi colleghi Leon de Castro e Bartolomeo de Medina. Il primo, piuttosto anziano, era professore di Lettere e frequentemente era entrato in discussione con il de Leon, uscendone quasi sempre sconfitto.
Bartolomeo de Medina era ancora giovane, ambiziosissimo per spingersi innanzi nella carriera, ma più d'una volta era stato richiamato all'ordine da Luis de Leon, ciò che fece sorgere una sorda ostilità nel Medina, alimentata dall'odio tradizionale esistente tra Domenicani e Gesuiti.

Non era difficile trovare un appiglio per una vendetta. In quell'epoca sorsero discussioni interminabili su una bibbia in lingua latina fatta pubblicare con note proprie dal de Leon, che secondo alcuni conteneva nelle note una tendenza eretica. I professori ed i teologi si riunivano ripetutamente, per discutere l'opera in ogni suo minuto particolare. Il Medina, che allora non si era ancora addottorato, non prese parte a queste sedute, ma Leon de Castro e Luis de Leon ebbero occasione di urtarsi. Nel Dicembre del 1571, de Castro e Medina presentarono formale denuncia contro il de Leon, al Tribunale di Valladolid, accusandolo di aver volontariamente introdotte delle note eretiche nella Bibbia. Si trovarono anche diversi altri testimoni ed infine si poterono contare complessivamente tredici accusatori. Luis de Leon, avvisato da amici del pericolo cui era esposto, il 6 Marzo 1572, comparve dinnanzi a Diego Gonzales, già inquisitore a Carranza, con una copia dell'edizione incriminata, pregandolo di farla esaminare e dichiarando nel contempo che si sarebbe sottomesso completamente al giudizio della Chiesa, rettificando senz'altro le tesi che queste avesse trovato eccepibili.

Sarebbe noioso descrivere ogni svolgimento della causa che si protrasse per degli anni. Dopo qualche tergiversazione il de Leon venne arrestato ed invitato a scegliersi un patrono teologo ed egli scelse subito il Dottor Sebastiano Perez, professore della Regia Università, ma il Tribunale, invece di accettare, gli assegnò un difensore che egli non conosceva nemmeno. Quando Luis de Leon apprese il gran numero dei capi d'accusa che, col passare del tempo, aumentavano sempre, si avvilì completamente. Era ammalato ed esaurito e la speranza della liberazione svaniva sempre più. Sebbene fisicamente affranto, la sua lucidità di mente rimase intatta fino alla fine.
Il 27 Gennaio venne tenuta un'assemblea per discutere ancora la tesi dell'aiuto divino nelle debolezze umane, questione intricata discussa accanitamente per diversi secoli, da Gesuiti e Domenicani, sino a che la Santa Sede tacitò entrambe le parti, senza peraltro dare ragione nè all'una, nè all'altra.
Anche questo contribuì a dilungare la soluzione della causa. Frattanto il de Leon, il 12 Marzo 1575, chiese i carismi religiosi, sentendo prossima la propria fine. Siccome da tre anni egli era considerato eretico e perciò gli era negata la somministrazione dei Sacramenti, la sua domanda venne inoltrata alla Suprema, la quale laconicamente rispose che avrebbe desiderato che l'affare de Leon fosse finalmente risolto. Il disgraziato professore, il 20 Agosto, chiese udienza, ma fu soltanto visitato nella sua cella, dove egli si lamentò amaramente di essere da molto tempo ammalato, febbricitante, senza nessuno che lo curasse, all'infuori di un ragazzo, suo compagno di carcere.

Un giorno era svenuto dalla fame, non avendo nessuno che gli desse da mangiare, pregava dunque l'inquisitore di permettergli che un frate del suo ordine venisse a portargli conforto. Questa sua domanda non venne respinta, ma accolta soltanto a condizione che il suo confratello sarebbe rimasto sino alla fine della sua vita, con lui nelle carceri. Così svaniva anche questa speranza e Luis de Leon morì affranto nel Novembre dello stesso anno.

I predicatori erano esposti non meno dei professori alla persecuzione, per qualche frase imponderata pronunciata nei loro discorsi. Se una persona dell'uditorio trovava qualche cosa da eccepire nella predica, non doveva che denunciare l'oratore. Se appena sussisteva l'ombra del sospetto l'Inquisizione non mancava di porlo sotto accusa. Così avvenne nel 1580, quando venne denunciato il frate Geronímita Juan de Toledo, per aver detto in una predica, tenuta dinanzi a Filippo II, che il potere reale era tanto perfetto da dare al Re il diritto di appropriarsi di tutti i beni dei suoi vassalli e persino dei loro figli. Questa dichiarazione di esagerata devozione monarchica sarebbe rimasta senza conseguenza se l'oratore, in seguito, non avesse accennato all'enorme rendita dei Vescovi, incolpandoli di sciupare enormi patrimoni e dicendo che sarebbe stato meglio che il Re ed il Papa avessero imposto la povertà apostolica ai ricchi Vescovi.

Durante l'istruttoria il de Toledo cercò di mitigare l'asprezza di queste sue dichiarazioni, ma con poco risultato. La Consulta de Fé votò contro di lui, e la Suprema lo condannò ad abiurare pubblicamente, in giorno di festa, dal pulpito e ad essere internato per due anni in una clausura, dove avrebbe dovuto essere sottoposto ad una specie di tortura spirituale.

La severità di questa sentenza dimostra con quanto rigore l'Inquisizione si mise a censurare le prediche, anche quando nell'espressione incriminata difficilmente si sarebbe potuto stabilire lo spirito eretico. Le formalità prescritte per l'abiurazione rendevano molto umiliante questa cerimonia. Il colpevole doveva dichiarare dal pulpito di aver pronunciato le dannate espressioni e siccome gli inquisitori gli avevano ordinato di revocarle, egli riconosceva di doverlo fare, come figlio obbediente della Chiesa, e in esecuzione di tale ordine dichiarava, per volontà sua, di aver effettivamente fatto dichiarazioni contrarie alla Sacra Scrittura e confessava di non aver saputo quello che stava dicendo, di non conoscere le conseguenze di quanto asseriva, ma ora che gli avevano fatto comprendere di aver commesso una vera eresia, si sentiva profondamente pentito e domandava scusa a Dio ed alla Santa Chiesa Romana ed implorava misericordia dall'Inquisizione.
Un cancelliere presente alla abiurazione metteva a verbale ogni parola, rilasciando ufficiale certificato che il procedimento era avvenuto secondo le prescrizioni.

Negli atti del Tribunale di Valencia, nell'epoca tra il 1780 ed il 1820, cioè prima della caduta dell'Inquisizione, la metà di questi casi si ferma alla prima deposizione d'accusa. Era naturale che questa categoria di colpa fosse aumentata in quei tempi, data la contaminazione di idee filosofiche liberali ed antireligiose divulgata nella Spagna dalla propaganda estera, nel Secolo XVII, eludendo la censura alle frontiere. La guerra napoleonica inondò letteralmente la Spagna di questa letteratura e le truppe francesi ed inglesi, che attraversavano il paese, non mancavano di fare la più attiva propaganda di eresia.
Dopo la restaurazione tutti gli sforzi dell'Inquisizione vennero concentrati nell'estirpazione delle conseguenze di questa propaganda. Le punizioni in quell'epoca non erano più molto severe, ma l'istruttoria stessa era abbastanza penosa, poiché l'imputato veniva chiuso nelle segrete, i suoi beni sequestrati, la sua carriera spezzata, ed egli stesso rimaneva per sempre sotto la vigilanza speciale dell'Inquisizione.

Due casi caratteristici di questo genere erano quelli di Julían Bolego e Míguel Villaviciose, commercianti di Cadiz, avvenuto nel 1818, i quali vennero condannati dal Tribunale di Sevilla a dieci anni di esilio. In quei tempi avveniva molto spesso che la Suprema intervenisse a commutare la sentenza in senso favorevole all'imputato e anche in questo caso i due accusati ebbero ridotta la loro pena da dieci a due anni. Entrambi erano ammogliati e la sentenza significava per loro la completa rovina. Valendosi di ogni mezzo a loro disposizione riuscirono infine ad influenzare la Suprema, al punto che dopo sei mesi ebbero condonata l'intera pena e poterono ritornare al loro paese.

In questo modo l'Inquisizione, sino alla sua caduta, controllava il pensiero ed il discorso di ogni persona nelle questioni egualmente grandi e piccole , per far sentire ad ogni singolo uomo di essere esposto ai capricci di una potenza invisibile che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto chiamarlo a rispondere, distruggendo tutta la sua esistenza.

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