YASSER ARAFAT E ARIEL SHARON
DUE VOLTI

di LUCA MOLINARI

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qui a fondo pagina quella di ARAFAT



(PUBBLICATO SUL NUMERO DI MAGGIO 2002 DELLA RIVISTA "BONEWS")

Se si è il premier democraticamente eletto di uno stato e si avalla la violenza di massa del proprio esercito che speso sconfina nella pulizia etnica si è forse meno colpevoli e deprecabili di fronte alla comunità internazionale rispetto a se si è il leader di un'organizzazione dal passato terroristico e non ancora istituzionalizzatasi in uno stato nazionale?

La risposta a questo interrogativo appare scontato. Quasi che fosse una domanda retorica di ciceroniana memoria, ma nei fatti non lo è si deve constatare che vengono regolarmente adottati due pesi e due misure a seconda di chi siano i personaggi presi in esame.

Siamo di fronte ad una delle tante domande apparentemente senza risposta che la drammatica involuzione della crisi mediorientale impone di affrontare alle coscienze democratiche di tutto il mondo.
Il primo ministro israeliano e leader della destra più nazionalista Ariel Sharon e il leader palestinese Yasser Arafat non sono che i due volti della stessa tragedia figlia della stessa violenza. Non è possibile disgiungere le storie personali e le azioni di entrambi da una fitta rete di tragedie e violenze che fanno si che entrambi si lascino dietro una scia di sangue e di lutti lunga oltre mezzo secolo. Sono l'incarnazione vivente della tragedia di due popoli, Israeliani e Palestinesi, condannati a condividere la stessa terra.

In un diverso contesto temporale e geografico saremmo di fronte a due loschi figuri che, al pari di novelli bravi manzoniani o pistoleri del Far West, non esisterebbero a risolvere la loro contesa in duelli all'ultimo sangue. Una nuova edizione di una sfida all'ok corral che si concluderebbe e risolverebbe solo con l'uccisione di uno dei due da parte dell'avversario. Ormai tra Sharon e Arafat il dramma della Palestina è diventata una contesa personale che va ben al di là del decennale scontro tra israeliani e palestinesi. Le presenti condizioni storiche, invece, ne fanno i leader riconosciuti delle due parti in lotta. Da loro e dalle loro scelte dipende il futuro di una delle zone più martoriate di un mondo sempre più inquieto che, a oltre dieci anni dalla fine della guerra fredda, stenta a trovare un nuovo equilibrio. Sono accomunati da un odio reciproco e dall'accettazione della violenza come strumento per risolvere la crisi di cui sono protagonisti. Ciò che li divide è la percezione che le diplomazie e i centri di potere internazionale, soprattutto quelli internazionali, hanno delle loro azioni e delle loro responsabilità.

Ariel Sharon è il criticato, ma rispettato primo ministro di uno stato democratico. Gode dell'immunità internazionale e nessuna corte internazionale ha mai minimamente pensato di incriminarlo per atti contrari al genere umano. Le sue azioni sono considerate legittimate dal voto del suo popolo. Viene ricevuto nei vertici e nei consessi internazionali e agisce liberamente come qualsiasi capo di governo. Controlla e utilizza sia la diplomazia, sia la forza, bruta ma legittima dell'esercito del suo paese.
Yasser Arafat, invece, è asserragliato nel proprio quartiere generale sotto la costante pressione militare israeliana. Da oltre trent'anni non dorme mai più di una notte nello stesso letto per paura di essere assassinato su indicazione di uno dei suoi tanti nemici.

Mentre l'attività militare israeliana viene percepita e inquadrata nell'ottica dell'azione di un esercito in guerra e quindi vi si applicano tutti gli schemi interpretativi e giustificativi della guerra, ogni azione terroristica di natura islamica viene in qualche modo imputata ad Arafat. Non possiamo non dimenticare come nelle tragiche ore di quell'11 settembre scorso in cui i kamicaze di Bin Laden portavano il loro vile attacco agli Stati Uniti, nelle sedi del potere palestinese si stesse con il fiato sospeso augurandosi che si trattasse di atti terroristici riconducibili a gruppi dell'estrema destra americana. La grande paura era quella di essere omologati agli atroci assassini seguaci di Bin Laden.

Mai nei palazzi del potere di Tel Aviv, i consiglieri ed i collaboratori di Sharon hanno temuto di essere paragonati dall'opinione pubblica occidentale a feroci assassini. Quei feroci assassini che già nella storia si erano macchiati di quel vergognoso crimine noto sotto il nome di pulizia etnica. Ossia l'eliminazione fisica dei propri nemici per il solo fatto appartenere a quel dato popolo o di professare quella data religione come strumento per risolvere in maniere radicale un conflitto.
Sharon ed i leader nazionalisti israeliani hanno dalla loro parte il fatto di essere stati eletti in regolari elezioni. Si sentono così non solo garantiti, ma anche legittimati a compiere atti che, in altri contesti, farebbero urlare allo scandalo, al genocidio e al crimine di guerra.

Come già scritto da Massimo Fini, non troviamo molte differenze tra un Milosevic che nelle guerre balcaniche degli anni '90 ha autorizzato la deportazione forzata e l'eccidio di centinai e centinaia di musulmani e croati suoi avversari, e un Sharon che ancora solo un anno fa in un'intervista a Le Monde ribadiva di essere contento e di entusiasmarsi ogni qualvolta sottraeva anche un solo ettaro ai palestinesi.

Civili assassinati sotto i colpi dell'artiglieria di Tel Aviv. Rastrellamenti di massa e conseguenti deportazioni in veri e propri campi di concentramento di donne e uomini inermi. Rai aerei per radere al suolo interi villaggi. Sono queste le immagini tristemente famose che, da Sarajevo a i territori occupati accompagnano tutte queste compagne di epurazioni e di pulizia etnica.

Il generale Ariel Sharon non è certo nuovo ad avallare e giustificare operazioni militari di questo genere.
La sua biografia militare e politica è piena di odio verso l'eterno nemico palestinese. Un odio che si fonda sulla convinzione che solo l'eliminazione totale dei rivali si possa risolvere la crisi mediorientale e, cosa che più sta a cuore a Sharon, garantire la sicurezza di Israele e dei coloni. Deriva da questi atteggiamenti la fama di "falco" su cui si basa il consenso quasi granitico di cui il primo ministro gode in patria e che è confermato dall'assenza di polemiche per dall'impiego dei riservisti (cioè civili richiamati alle armi) al posto dei militari di leva nelle operazioni più delicate.
Tutti uniti dietro a Sharon fino alla vittoria finale.
Benché abbia smesso di indossare l'uniforme Sharon continua ad essere un uomo di guerra il cui massimo cruccio continua essere quello di non aver ucciso Arafat quando ne ebbe l'opportunità oltre venti anni fa.

Passati gli anni, cambiati i tempi, il pallino fisso del vecchi guerriero rimane lo stesso: togliere di mezzo ed eliminare definitivamente dalla scena l'antico nemico palestinese.
Entrato giovanissimo nell'esercito israeliano l'attuale primo ministro, nel 1948 guidò i commando specializzati dietro le linee arabe per dissuadere i palestinesi che minacciavano Israele a lasciare le loro case. Così facendo furono provocati più attentati e attacchi contro i coloni di quelli che si volevano evitare. ha combattuto in tutte le guerre, aumentando conflitto dopo conflitto la sua fama di "macellaio" e di "duro".
Ha anche un pregio, forse l'unico, quello di essere un nazionalista pragmatico e non fanatico. È per questo che in molti hanno sperato che il vecchio leone trovasse la forza di guidare il suo popolo alla pace. Come il nazionalista De Gaulle aveva saputo amputare la Francia dell'Algeria riuscendo dove i radicalsocialisti Mitterand e Mendes-Frances avevano fallito, così si poteva pensare che il falco Sharon fosse capace di fare ciò che tante colombe avevano lasciato incompiuto. Invece no. È prevalsa l'anima più radicale e spregiudicata del leader del Likud.

Quella stessa anima che il 6 giugno del 1982 aveva spento l'allora Ministro della difesa del Governo Begin, Ariel Sharon a lanciare l'operazione "Pace in Galilea", campagna militare che voleva eliminare "ogni presenza fisica o simbolica" dei palestinesi in Libano. In occasione di questa sporca guerra che Sharon fu al centro delle maggiori polemiche per i massacri di civili compiuti nei campi di Sabra e Chatila da forze militari operanti in zona controllata dall'esercito palestinese.
Non mancarono le polemiche e ben 400.000 israeliani, pari al 10 % della popolazione totale, manifestarono contro quella barbarie.
Il Ministro israeliano fu accusato di quel massacro, ma poi completamente assolto da una commissione d'indagine israeliana. Ma ancora una volta la comunità internazionale non intervenne al livello ufficiale. Non furono inviasti osservatori dell'Onu, non furono minacciate sanzioni a Israele e, soprattutto, nessun governo chiese l'intervento di tribunali o corti di giustizia internazionali come invece avvenuto in altri casi, da ultimo il Kosovo. Il tutto fu considerato come uno degli aspetti esecrabili, ma normali della guerra. Ancora una volta due pesi e due misure.

Anche la biografia di Yasser Arafat non è certo priva di connivenze con la violenza. Non siamo di fronte né a un Gandhi né a un Mandela, leader che portarono alla vittoria i loro popoli in maniera pacifica, con la sola forze della ragione e della diplomazia e a costo di gravi sofferenze personali.
Arafat è più simile a un Ochalan, il capo dell'indipendentismo curdo. Entrambi non hanno rifiutano gli attentati come strumento per denunciare al mondo la sofferenze dei propri popoli oppressi, cercando così solidarietà e appoggio internazionale per riscattarne le sorti e l'onore.
È un capo carismatico e un guerriero che non ha mai smesso di indossare la divisa e di ragionare in termini militari.

Uomo di furbizia levantina è sopravvissuto sia fisicamente, sia politicamente a lungo; talmente a lungo da essersi guadagnato il soprannome di "il vecchio". Troppo a lungo tanto che per molti osservatori è sopravvissuto a se stesso. Il mistero ne accompagna l'attività fin dalla nascita tanto che o è certo neppure il luogo di nascita. Gerusalemme per le carte ufficiali, Gaza o Il Cairo per la voce popolare.
Imbraccia il mitra all'età di quindici anni, nel 1948 quando combatte contro gli Israeliani a Gerusalemme nella prima guerra arabo-israeliana. Uomo ambiguo, capace di tanti voltafaccia e cambiamenti repentini, nel 1989, quaranta anni dopo questa prima esperienza militare, riconosce ufficialmente e solennemente lo Stato di Israele nel corso di una sessione straordinaria dell'Onu.

La sua vita privata è tutt'una con quella del combattente. Esattamente come quella del suo nemico numero uno Ariel Sharon. Diffida dei leader dei paesi arabi al punto che sostiene che tocchi direttamente ai palestinesi combattere per la propria causa. Nel 1959 fonda Al Fatah, organizzazione di guerriglieri che vuole portare la rivolta nei territori occupati. Nel 1965 la prima delle tante azioni terroristiche contro Israele. Si apre quel lungo ventennio durato fino alla fine degli anni '80 caratterizzato da atti di terrorismo internazionale per denunciare le condizioni di vita dei palestinesi. È lo stesso Arafat ad essere collegato e legato a questi eventi che seminano lutti e tragedie. Punto massimo di tensione si raggiunge alle Olimpiadi del 1972 quando, cittadella olimpica di Monaco di Baviera, un commando terroristico tiene ostaggio la delegazione sportiva israeliana. 17 morti, di cui 11 israeliani, 5 fedayin e 1 poliziotto tedesco e 2 arrestasti. Fu questo il bilancio dell'azione antiterroristica delle forze di polizia tedesche.

Il punto di forza di Arafat è di avere capito da anni che l'esistenza di Israele è un dato di fatto che va riconosciuto d cui partire per sbrogliare la matassa mediorientale. Il limite maggiore non avere fatto crescere un successore capace di raccoglierne l'eredità e non essere stato capace di coinvolgere tutte le anime dell'indipendenza palestinese su posizioni non violente e moderate. La colpa più grande aver sempre tenuto un rapporto ambiguo con quei settori palestinesi collusi con il terrorismo. Ambiguità frutto di quella politica di alternanza tra "l'ulivo e il mitra" di cui parlò alle Nazioni Unite in un ormai lontano 1974 ancora ben viva nel 1991 quando, in piena Guerra del Golfo riconosceva le ragioni di Saddam Hussein paragonando l'occupazione irakena del Kuwait a quella israeliana delle alture del Golan.

Da queste doppiezze e da questi tentennamenti deriva la diffidenza di ampi settori del mondo occidentale verso il leader palestinese a cui si continuano a chiedere prove di fedeltà e chiarezza. Quegli stessi settori di opinione pubblica e di diplomazia pronti a essere indulgenti a giustificare le brutali azioni militari ordinate da Sharon.

Ecco la risposta alla nostra domanda iniziale. Due pesi e due misure a seconda di chi sia il soggetto preso in questione. Due diversi metri di giudizio: comprensivi e disponibili nei confronti di un capo di governo, sempre diffidenti al limite della paranoia verso un leader carismatico dal passato terroristico.
Passa dalla volontà e dalle decisioni di questi due uomini il futuro che più che capi di stato spesso hanno agito con l'ambiguità dei giocatori di poker e con la boriosa violenza degli spadaccini, al soluzione della drammatica crisi mediorientale. Soluzione che non può prescindere dal riconoscimento di un duplice diritto. Quello di Israele di vedere riconosciuta la propria esistenza e garantita la propria sicurezza e quello dei palestinesi di avere, finalmente, una propria terra su cui far sorgere uno stato autonomo, libero, indipendente e sovrano.

Questo al comunità internazionale deve tenerlo bene presente e smettere di fare discriminazioni fra i due, utilizzando gli stessi canoni di giudizio per entrambi i soggetti in campo.


Articolo di LUCA MOLINARI

Francomputer  ringrazia
Pluralisticamente accettiamo altre tesi - pro e contro
Non per partito preso o per attribuire torti o ragioni 
ma perchè è giusto cercare di capire

ARAFAT: UN BILANCIO POLITICO

arafat: un bilancio politico

Giovanni De Sio Cesari
( http://www.giovannidesio.it/ )

Struttura: Parametri di giudizio - Palestinesi  Israele  - Collocazione internazionale 
Terrorismo - Settembre Nero - Libano - Intifada - Guerra del Golfo - Trattative

Secondo intifada - Politica interna - Conclusione

 

 

PUNTO DI VISTA E PARAMETRI DI GIUDIZIO

 La morte di Arafat è stata seguita da tutto  il mondo con generale partecipazione umana  per la fine di un uomo che nel bene e  nel male aveva per tanto tempo rappresentato tutto un popolo. Come ben raramente è avvenuto nella storia tutto il mondo finiva con l’identificare l’intero popolo palestinese nella sua persona

La sua vita si è spenta in  una asettica clinica straniera:  qualche gruppo ebraico mostrava un indecoroso spettacolo di  giubilo  ma tutto il suo popolo lo ha pianto sinceramente: una folla immensa si è impadronita del suo corpo  e come nelle antiche usanze della sua gente, è stato seppellito fra le grida e gli spari come si addice a un eroe, a un grande capo. Per tanti anni è stato uno dei primi attori della scena internazionale (da più tempo di tutti, escluso Castro) ed ora non si sa chi prenderà il suo posto ma si sa pure che nessuno, qualunque sia il successore, riuscirà  ad avere il suo carisma e il suo ruolo

 Al di la di ogni comprensibile partecipazione umana ed emotiva  noi vogliamo tentare di tracciare un bilancio della sua azione politica: per un discorso rigoroso che non sia semplice effetto di  impressioni emotive e preferenze personali,   dobbiamo però fissare  dei chiari parametri: porre un punto di vista e dei criteri di giudizio

 Per il primo punto il discorso ci pare chiaro. La sua azione va vista al punto di vista dell’interesse del suo popolo: non possiamo cioè vedere la sua azione non solo dal punto di vista dei suoi nemici (gli Israeliani) ma nemmeno da quello degli Americani o dell’Unione Sovietica e nemmeno , si badi bene, della sinistra europea che  gli è  stata  sempre favorevole e delle varie correnti  e governi arabi con cui non sempre facili sono stati i rapporti. Il punto di vista, ribadiamo deve essere quello del popolo che egli rappresentava e che in lui si riconosceva, non di altri.

 Per quanto riguarda i parametri dobbiamo tener presente che vogliamo valutare un uomo politico. non  un profeta o un filosofo. La politica è l’arte del possibile, non del giusto in sé. Il politico persegue il miglior bene POSSIBILE (o almeno il minor male possibile) non il bene in sè. La sua azione si valuta “a posteriori” considerando se egli ha visto giusto in un momento in cui il popolo era incerto e confuso sull’andamento del reale processo storico e se quindi ha fatto le scelte giuste .

 Possiamo dire che Augusto  fu un grande politico perchè comprese la giusta formula di governo poi durata per secoli in un momento in cui i Romani erano in disaccordo e incerti . Volendo fare un esempio più vicino  quando la Francia si arrendeva  e il governo di Vichy collaborava con i nazisti sicuro della loro vittoria, De Gaulle da Londra lanciò la lotta che poi si manifestò vittoriosa 

Un gran politico non segue passivamente l’ opinione  generale ma mostra il cammino da fare.

Pertanto nel caso di Arafat dobbiamo esaminare  se, dal punto di vista dei palestinesi,  la sua azione si è rivelata “con il senno di poi”  utile  e proficua

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RAPPORTO CON I PALESTINESI

Innanzi tutto bisogna porsi il problema del rapporto tra la sua personale azione politica e quella in generale dei  Palestinesi . Arafat in effetti si muove su un binario che risulta sempre ambiguo: le azioni spesso più significative  furono operate da organizzazioni che agivano  in modo autonomo : cio avvenne nel terrorismo degli anni 70 e  avviene ora nella seconda intifada. Tuttavia, pur formalmente dichiarandosi non  responsabile,  egli tuttavia, proprio perché veniva considerato il rappresentante dell’insieme del popolo palestinese , in realtà, fu sempre considerato responsabile. La sua politica può ricordare  quella del nostro Cavour: ad esempio nel caso della spedizione dei Mille potè dirsi formalmente contrario ma poi la aiutò segretamente e potette,  a un certo punto,  essere tacitamente autorizzato dalla Francia ad accorrere nel sud per  svuotare  la spedizione garibaldina della sua  carica rivoluzionaria. Ma tale particolare gioco diplomatico non riuscì mai ad Arafat che invece fu sempre imputato della responsabilità di tutto quello che facevano i Palestinesi. anche di quello che  egli non aveva voluto o aveva contrastato: il fatto è  che egli, per troppo tempo, è stato visto all’estero come l’unico interlocutore per tutto il suo popolo.  Pertanto noi considereremo l’insieme delle azioni portate avanti dai palestinesi senza considerare analiticamente quanto di esse siano effettivamente riconducibili alla sua persona. Sarebbe questo una distinzione praticamente impossibile  data la insormontabile  difficoltà  di discernere realmente  i sottili e aggrovigliati fili che legano i complessi equilibri all’interno del mondo palestinese.

 Noteremmo d’altra parte che questa è un pò una costante della politica araba: credere di potersi muovere nei mille labirinti di sottili furbizie. Si è fatto il paragone  a questo proposito fra il suk e il supermercato: l’arabo si muove abilmente nel suk dove ogni attore dice cose diverse da quelle che  pensa , che chiede 100 per avere realmente 10. Ma l’Occidentale  è abituato al supermercato  dove il prezzo è ben chiaro e scritto  sulla merce. Non comprende più il gusto e l’abilità della trattativa e getta facilmente all’aria tutta la trattativa se questa gli appare poco chiara, giudica imbroglio quello che per l’arabo è solo abilità negli affari.

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RICONOSCIMENTO DI ISRAELE

Nel 1964 prende la guida del  OLP con il fine dichiarato di distruggere lo stato di Israele. In effetti gia  in quell’anno il fine  poteva sembrare irrealistico ma dopo la guerra dei Sei Giorni del 67 apparve a tutti, chiaro ed evidente , che Israele non avrebbe mai potuto essere distrutta. La  OLP invece anche dopo il 67 non volle accettare un fatto ormai divenuto inevitabile. Ci sembra questo l’errore fondamentale  politico di Arafat: non si tratta di affermare che gli Arabi fossero o meno nel loro diritto o che non avessero subito una storica ingiustizia  ma semplicemente constatare  che del punto di visto politico ( cioe del “bene possibile”)  continuare la lotta per la distruzione di Israele fu un errore politico fatale: dopo tanti anni, tanti lutti, tante tragedie i Palestinesi possono aspirare al massimo  a ciò che gia avevano prima del 67  e comunque avrebbero potuto avere, con non molta difficoltà, anche dopo il 67. Intere generazioni di Palestinesi invece sono state  nutrite nella speranza  (forse giusta ma vana, irrealistica) che un giorno sarebbero tornati nelle terre occupate da Israele  la quale  si sarebbe dissolta  come un brutto sogno al sorgere del sole

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LA COLLOCAZIONE POLITICA INTERNAZIONALE

 La causa palestinese divenne popolare e fu sempre sostenuta dalla sinistra europea. Fu assimilata alla causa del lotta di liberazione dal colonialismo, alla lotta sociale contro il capitalismo , fu avvicinato al comunismo. In realtà si tratta di assimilazioni del tutto illegittime e fuorvianti. La Palestina non può in nessun modo essere   assimilata a una colonia europea come il Congo o l’Angola, la lotta dei feddayn non ha nessuna connotazione anticapitalista: gli arabi non sono il proletariato come gli Israeliani non sono la borghesia. Tanto meno  fra i palestinesi hanno mai avuto fortuna correnti marxiste ( anche se alcuni terroristi si dichiararono tali ). La questione palestinese è del tutto atipica , praticamente non ha riscontro nel resto del mondo perchè mai è accaduto nel mondo moderno che un popolo si trasferisse in massa  in un territorio non proprio, fondando un proprio stato come hanno fatto gli ebrei di Israele.

Tuttora vedo campeggiare una strana scritta su un muro vicino all'università “  W la Palestina  Rossa” quasi che gli attentati fossero opera di rivoluzionari comunisti e non di  integralisti religiosi che sognano una repubblica islamica in Palestina e non certo il comunismo.

Ma a prescindere ora dalla illegittimità della assimilazione questa scelta di campo è stata negativa per i palestinesi. Ha reso possibile agli Israeliani presentarsi come  i rappresentati delle democrazie occidentali, la colonna avanzata della lotta al comunismo. D’altra parte l’Unione Sovietica si è mostrata  poi incapace di  sostenere realmente gli arabi nella loro lotta. Quindi la collocazione pure posta da Arafat si è rivelata alla prova dei fatti una collocazione nella parte sbagliata. 

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IL TERRORISMO

 Dopo il 67 per più di un decennio  le organizzazioni palestinesi praticarono ampiamente il terrorismo a livello internazionale  colpendo in tutto il mondo interessi israeliani ma commisti con essi anche quelli europei e americani  e soprattutto uccidendo anche civili del tutto estranei appartenenti a paesi neutrali .  

E’ stato detto che comunque  questi attentati  posero all’attenzione del mondo il problema palestinese che altrimenti sarebbe stato dimenticato

 Sarà pure vero che questi fatti misero in primo piano il problema palestinese ma, a nostro parere, in modo del tutto negativo allontanando ogni soluzione positiva per problema stesso. E’ vero che la causa palestinese divenne molto popolare presso i gruppi della sinistra cosi detta antagonista: ogni manifestazione studentesca, ogni contestazione inneggiava alla causa palestinese e i giovani mettevano la kafia palestinese che divenne  quasi un simbolo di tutta una generazione. Ma valutiamo la cosa realisticamente da un punto della opportunità politica. La politica estera dei paesi occidentali non era certo guidata dai leaders della contestazione ma dai partiti  al governo che si opponevano ad essi (e lo stesso dovevano fare i partiti all’opposizione se volevano candidarsi a partiti di governo). La causa palestinese diveniva quindi ,è vero, mondiale ma dalla parte sbagliata, dalla parte perdente.  Si dice che le Brigate Rosse avessero rapporti con i palestinese: noi non crediamo che sia vero ma certamente il fatto che la cosa fosse creduta dimostra come l’opinione pubblica vedesse i Palestinesi nella stessa ottica del terrorismo interno, impopolare e soprattutto  perdente. I Palestinese vennero visti come  dei pericolosi rivoluzionari non solo in Occidente ma anche nello stesso mondo arabo: non ci sembra che il terrorismo del OLP abbia sortito effetti positivi per il popolo palestinese. D’altra parte lo stesso OLP abbandonò la pratica terrorista  rendendosi  conto della sua inutilità e dannosità

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SETTENBRE NERO

 Dopo il 1967 i è Palestinesi tentarono di fare della Giordania una base per la lotta contro Israele. Essi sottovalutarono la capacità di reazione e le forze del re Hussein. Sfidarono l’autorità costituita credendo di averne facilmente ragione. Ma la legione araba, formata da fedeli  di origine beduina, non si lasciarono certo intimidire. Non  esitarono un momento a sparare con l’artiglieria  pesante contro i quartieri  controllati dai palestinesi: nel settembre del 70 ( Settembre Nero) si fini in un bagno di sangue e,  ironia della sorte, gli scampati all’eccidio dei Giordani si rifugiarono in Israele. Pure in questo l’azione del Olp fu imprudente, velleitaria e si risolse in un grande danno per  la causa palestinese.

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Il LIBANO

 Cacciati sanguinosamente  dalla Giordania i fedayn si riversarono nel Libano con l’intenzione di fare di essa la nuova base contro Israele. Pure in questo caso  il Olp di Arafat commise un grave  errore di valutazione. Il loro intervento  infatti trascinò il Libano in una lunga e terribile guerra civile. I palestinesi  dopo alterne vicende furono ancora una volta sanguinosamente  sconfitti: i campi dei palestinesi  furono espugnati a cannonate dai miliziani maroniti.  Alla fine con l’intervento prima dei Siriani i e poi degli stessi Israeliani i combattenti palestinesi  dovettero anche fuggire dal Libano.

Quando poi ci fu un orribile attentato  contro il governo di unità nazionale di Geamyel, di cui furono accusati i  palestinesi , i miliziani entrarono nei campi d Sabra e Chatila e compirono un terribile massacro. Di esso in qualche modo furono  tenuti responsabili le forze israeliane perchè non erano intervenute: tuttavia a parte ogni polemica sullo svolgersi degli  avvenimenti , dobbiamo notare che, dolorosamente,  i palestinesi in questo caso si affidavano proprio  all’aiuto dei loro storici nemici contro i propri connazionali arabi. Ci sembra questo proprio un segno del fallimento della politica nel Libano  che costò tante sofferenze ai  Palestinesi : la maggior parte dei caduti palestinesi si ebbe proprio in questo settore mentre nel complesso gli israeliani riaffermarono la loro  preponderanza ed  ebbero modeste perdite e danni : In tutto si calcola che circa 150.000 persone persero la vita.

Da queste vicende soprattutto apparve chiaro ancora una volta  la assoluta impossibilità   di una vittoria militare su Israele.

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 LA PRIMA INTIFADA

Abbandonando la lotta propriamente militare i palestinesi passarono a quella che viene chiamata intifada (lotta delle pietre). il lancio di pietre contro l’esercito spesso finiva con la reazione violenta dell’esercito israeliano e un certo numero di ragazzi fu gravemente ferito o ucciso.  Per la mentalità occidentale coinvolgere dei giovanissimi  in questo tragico gioco appare inaccettabile: tuttavia la intifada ebbe dei risultati sull’opinione pubblica mondiale,  anche moderata, perchè comunque appariva qualcosa di diverso dal terrorismo o dalla lotta armata. Anche la fine della guerra fredda apriva un clima più favorevole all’unica soluzione possibile della questione palestinesi: la coesistenza di due stati distinti

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LA PRIMA GUERRA DEL GOLFO.

 Allo  scoppio della guerra  seguita all’invasione del Queit, Arafat, quasi unico fra i leaders arabi si pronunciò a favore di Saddam Hussein.  Anche questa fu  una scelta del tutto errata e controproducente. I palestinesi esultarono al passaggio dei famosi missili  SCUD che andavano a colpire Israele: e questo rafforzò comunque l’idea che degli arabi palestinesi  non ci si potesse fidare. L’Iraq fu facilmente sconfitto dagli occidentali con la approvazione di quasi tutto i governi arabi e i palestinesi subirono una ulteriore scacco politico e diplomatico. Ancora una volta Arafat sceglieva la parte perdente: non si poteva certo credere che l’Iraq sarebbe stato in grado di respingere gli americani e in seguito affrontare anche Israele.

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 LE TRATTATIVE

Tuttavia  in seguito si aprirono le trattative che culminarono dopo infinite difficoltà  negli incontri di Camp David di negli accordi di Oslo, nel premio Nobel per Arafat e Rabin   che sembrarono aprire definitivamente  alla soluzione il problema palestinese, alla pace generale.

 Arafat ebbe l’indiscusso merito di far  togliere dal programma palestinese la distruzione dello stato di Israele riconoscendo un dato di fatto ormai incontestabile. I dirigenti in esilio tornarono in Palestina. Ia Olp si trasformò in Autorità Nazionale Palestinese, si inizio una prima amministrazione autonoma, si posero le basi per il sorgere di uno stato Palestinese,  per uno stato autonomo

Tuttavia purtroppo le cose sono andate diversamente  e i Palestinesi hanno conosciuto i giorni più neri e dolorosi della loro pur sempre drammatica storia. Cosa è successo? Perché invece della pace è esploso la più sanguinosa delle lotte fra arabi e israeliani?

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LA SECONDA  INTIFADA

E’ opinione corrente che alla fine Arafat non è stato in grado o non ha avuto il coraggio di firmare l’accordo con gli Israeliani. In verità noi riteniamo che, in effetti, dopo  l’assassinio di Rabin, con l’avvento alla  direzione di Israele di correnti politiche piu oltranziste l’accordo presentato da Israele effettivamente non fosse equo, non presentava garanzie sufficienti : possiamo dire quindi che la “colpa” del fallimento sia imputabile più al governo israeliano che  ad Arafat

La passeggiata-provocazione di Sharon poi sulla spianate delle moschee fece precipitare la situazione e deliberatamente.  Attentati raccapriccianti si sono abbattuti sugli Israeliani  che hanno risposto con la rioccupazione delle zone autonome, con la uccisione più o meno mirata  di esponenti  palestinesi e soprattutto con un controllo ferreo sul tutto il popolo palestinese che ha reso la vita simile a un lungo e terribile incubo. Attualmente i Palestinesi si trovano nel momento più buio della sua loro storia. Disastrati economicamente, praticamente prigionieri nelle loro  città, con il terrore di  una morte improvvisa che può venire in qualunque momento e inaspettata per le secuzioni mirate o per  azioni di rappresaglia. 

In tutto questi ultimi tre terribili anni Arafat, praticamente prigioniero degli israeliani, ha contemporaneamente  condannato gli attentati terroristici e non ha fatto mai niente in concreto per evitarli. In questo modo non è stato inteso ne dagli arabi ne dagli israeliani: qualunque cosa Arafat volesse intendere, le sue affermazioni sono state considerate dagli uni e dagli altri solo come dei discorsi diplomatici. di circostanza  Gli arabi hanno continuato a fare attentati pur riconoscendo la autorità Arafat e d’altra parte gli israeliani hanno considerato Arafat responsabili degli attentati stessi.  Arafat ha mantenuto il suo ruolo di leader indiscusso, è vero: ma questo è stato rovinoso per il suo popolo. Sarebbe stato necessario prendere una posizione chiara: poteva essere a favore del terrorismo o contro di esso ma la sua ambiguità ha alimentata la tragedia.

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 POLITICA INTERNA

 IL LAICISMO .Arafat aveva portato i Palestinesi su un terreno propriamente laico. La lotta dei palestinesi  non aveva mai assunto la caratteristica di guerra islamica: ad essa partecipavano anche i cristiani di Palestina e d’altra parte trovava sostenitori in Occidente nella sinistra laica e nel mondo del comunismo reale. Ma negli ultimi anni anche questa scelta originaria del partito di Arafat si è andata perdendo: la iniziativa politica è passata a correnti integraliste islamiche quali soprattutto HAMAS . Fortunatamente queste hanno sempre preso ampiamente le distanze del terrorismo del tipo di al-qaeda. Tuttavia la ispirazione laica di Arafat si è andata perdendo senza che egli facesse veramente  qualcosa per contrastare un tale evoluzione.

 LA CORRUZIONE: sono insistenti  le voci su un tesoro personale che Arafat avrebbe accumulate all’estero e certi “strani” avvenimenti avvenuti intorno al momento della sua morte potrebbero esserne una conferma. Ma forse sono solo voci malevoli:  pero è di pubblico dominio  che molti esponenti della Anp si sono arricchiti. E’ vero che in tutto il mondo nelle classi dirigenti molti prendono tangenti e certo in Italia  non dobbiamo meravigliarci della cosa. Tuttavia trattandosi di classe rivoluzionaria, di condizioni particolarmente tragiche  la corruzione assume aspetti e caratteristiche ben  più gravi . Anche se personalmente Arafat non avesse preso nulla per sé, è tuttavia sua responsabilità politica oggettiva avere permesso la corruzione.

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 IN CONCLUSIONE

 

Possiamo abbozzare un giudizio complessivo che non ci sembra possa essere positivo Arafat è stato il simbolo del suo popolo ma solo perchè si è mantenuto in bilico con grandissima abilità fra le varie fazioni, contentando un pò tutti senza prendere mai una posizione netta. Ma cosi non ha saputo ne vincere la guerra ne fare la pace.

Sotto con la sua guida i palestinesi sono passati da un disastro all’altro. I palestinesi chiamano "al-Nakba" (la catastrofe) la formazione dello stato di Israele ma dopo di essi a quanti altri "al-Nakba". sono stati condotti dalla guida di Arafat. in Giordania, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Dopo quaranta anni di lutti e tragedie i Palestinesi possono ottenere al massimo la creazione di un loro stato ACCANTO a quello israeliano cosa che avrebbero potuto ottenere pacificamente e facilmente già 40 anni fa se fossero stati guidati in modo più realistico. Inoltre anche a causa anche della corruzione del gruppo dirigente le conquiste di un moderno laicismo sono andate perdute per dare spazio a un estremismo religioso che certo non promette nulla di buono anche se e quando ottenessero una loro autonomia politica.

Naturalmente questo giudizio riguarda non l’uomo nella sua totalità ma solo la sua politica, intesa come arte del possibile nei limiti e nel senso che abbiamo prima indicato:soprattutto con il “senno di poi”

Ne tanto meno con questo si vuole affermare che gli altri attori della tragedia (Israeliani, europei americani, paesi arabi, paesi comunisti ) abbiano avuto una politica felice. Ma si tratta di altri argomenti che qui non trattiamo 

Su

 

UN ALTRO INTERVENTO

YASSER ARAFAT

 

di Antonio Gaito

Esiste una disputa sul giorno e sul luogo di nascita di Yasser Arafat, il quale afferma di essere nato il 4 agosto 1929 a Gerusalemme, mentre il certificato di nascita ufficiale afferma che sia nato in Egitto, a Il Cairo, il 24 agosto 1929.

Nasce in una importante famiglia originaria di Gerusalemme, gli Husseini. Il suo vero e completo nome è Mohammed Abd al-Rahman Abd al-Raouf Arafat ma è stato anche conosciuto con un altro appellativo, quello usato in guerra, ossia Abu Ammar.

Trascorsa l'infanzia al Cairo e poi a Gerusalemme presso uno zio (dopo che la madre morì quando lui aveva quattro anni, il padre essendo invece un commerciante di successo), entrò praticamente da subito nelle fazioni in lotta contro la costituzione dello Stato israeliano. Il diciannovenne Yasser, dunque, fin da subito prende parte alla lotta palestinese.

Intanto, studia ingegneria civile all'università del Cairo dove, nel 1952, si unisce alla Fratellanza musulmana e alla Lega degli studenti palestinesi di cui diviene anche il presidente. Consegue il diploma di laurea nel 1956. Allo scoppio della guerra per il controllo del canale di Suez è sottotenente dell'esercito egiziano. Ormai facente parte del gruppo di leader del nascente movimento palestinese è un personaggio scomodo, ricercato dalle autorità israeliane. Per evitare l'arresto abbandona l'Egitto per il Kuwait, dove nel 1959, fonda, con altri importanti componenti delle fazioni ribelli, "al-Fatah". Questa organizzazione riesce a convogliare nelle sue fila centinaia di giovani palestinesi e a creare un movimento consistente ed incisivo. Dopo la sconfitta nella guerra araba contro Israele nel 1967, al-Fatah converge nell'OLP, "l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina": nel febbraio '69 Arafat diventa presidente del Comitato Esecutivo del Consiglio Nazionale della Palestina.

Con il suo carisma e la sua abilità politica, Arafat indirizza l'OLP verso la causa palestinese allontanandola dai disegni panarabi. Allo stesso tempo, la crescita del suo ruolo politico corrisponde a maggiori responsabilità militari: nel 1973 diventa Comandante in capo dei gruppi armati palestinesi.


Nel luglio 1974, Arafat decide una svolta importante dell'OLP, rivendicando per il popolo palestinese il diritto all'autodeterminazione e alla creazione di uno Stato palestinese; a novembre, in uno storico discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite, Arafat chiede una soluzione pacifica, politica, per la Palestina, ammettendo implicitamente l'esistenza di Israele.

Nel 1983, nel pieno svolgimento della guerra civile libanese, sposta il quartier gnerale dell'OLP da Beirut a Tunisi e, nel novembre di cinque anni più tardi, proclama lo Stato indipendente di Palestina. Inoltre, chiede il riconoscimento delle risoluzioni ONU e chiede di aprire un negoziato con Israele. Nell'aprile 1989 è eletto dal Parlamento palestinese primo Presidente dello Stato che non c'è, lo Stato di Palestina.

E' un periodo rovente, che vede l'esplosione delle sue tensioni sotterranee nella Guerra del Golfo, scatenata nel 1990 dagli Stati Uniti contro Saddam Hussein, reo di aver proditoriamente invaso il vicino Kuwait. Arafat, stranamente (forse accecato dall'odio nei confronti dell'Occidente e soprattutto nei confronti degli Stati Uniti), si schiera proprio con Saddam. Una "scelta di campo" che gli costerà cara e di cui lo stesso Arafat avrà di cui pentirsi, soprattutto alla luce degli avvenimenti legati all'11 Settembre 2001 (attentato alle Torri Gemelle). Una mossa, insomma, che gli ha attirato sospetti consistenti di avere le mani in pasta nelle frange terroristiche che pullulano in Medio Oriente. Da qui, l'incrinarsi della sua credibilità come controparte sul piano delle trattative con Israele.

Ad ogni modo, Arafat è sempre rimasto, piaccia o non piaccia, l'unico interlocutore attendibile, a causa di un fatto molto semplice: è l'unica personalità che i palestinesi riconoscono come loro portavoce (e questo è vero almeno fino a qualche anno fa ed escludendo le solite frange estremistiche). Pur essendo accusato da più parti di essere fomentatore del terrorismo e della linea integralista insomma, per altri Arafat è sempre stato invece sinceramente dalla parte del pace. I negoziati fra Israele e palestinesi condotti da lui, d'altronde, hanno avuto una storia travagliata, mai conclusa.
Un primo tentativo si fece con la conferenza per la pace in Medio Oriente a Madrid, poi con trattative segrete portate avanti dal 1992, fino agli accordi di Oslo del 1993.

Nel dicembre dello stesso anno, per Arafat arriva un importante riconoscimento dell'Europa: il leader palestinese è ricevuto come capo di Stato dal Parlamento europeo, al quale chiede che l'Unione diventi parte in causa del processo di pace. Un anno più tardi, nel dicembre 1994, riceve il Nobel per la pace "ex ecquo" con importanti esponenti dello Stato israeliano, Yitzhac Rabin e Shimon Peres. Nel frattempo, il leader palestinese si è trasferisce Gaza, dove guida l'Autorità Nazionale Palestinese (Anp).

Oggi, la sua eventuale successione, all'interno di un quadro che vede le istituzioni dell'Anp assai fragili e poco consolidate, delinea potenzialmente scenari da guerra civile palestinese che rischiano di alimentare ancora di più il terrorismo internazionale.

In questa realtà, gruppi fondamentalisti e fautori del terrorismo più sanguinario come quelli di "Hamas" suppliscono all'assenza di uno Stato con attività di proselitismo, ma anche di assistenza, istruzione islamica e solidarietà fra famiglie. E' grazie a questa rete di supporto e di guida che Hamas riesce a condizionare i suoi adepti fino a portarli al sacrificio di se stessi nelle famigerate azioni suicide.
Sul piano della sicurezza dunque, sostiene lo stesso Arafat, non è possibile poter controllare tutte le frange di terroristi con un poliziotto ogni cinquanta palestinesi, in questo trovando supporto e consensi anche in parte dell'opinione pubblica israeliana.

Antonio Gaito


NOTA: - Arafat è stato più volte in Italia, a Roma, non senza trovare difficoltà e provocare dissensi nella stessa maggioranza di governo. Il 15 settembre 1982 è ricevuto al Quirinale dal presidente Pertini e ha incontri col ministro degli esteri Emilio Colombo tra le proteste di Psdi, Pri e Pli (ma Spadolini non lo riceve); il 23 dicembre 1988 si incontra col presidente del consiglio De Mita e col ministro degli esteri Andreotti e poi è ricevuto dal papa; il 4 aprile 1990 si incontra con il presidente Cossiga al Quirinale, con i presidenti delle due Camere (questa volta anche Spadolini lo riceve), con il presidente del consiglio Andreotti e il ministro degli esteri De Michelis, con i segretari della Dc e del Pci (ma non con La Malfa); prima di partire, ottiene un'udienza in Vaticano con il Papa.

Nel 1992 la pace sembra ancora una volta molto vicina. Ma le grandi incomprensioni restano e i rapporti si fanno sempre più difficili, con la richiesta dei Palestinesi di un ritiro totale israeliano dai territori palestinesi occupati.
Un altro accordo di pace avviene davanti a un Clinton soddisfatto, e viene siglato il 31 agosto 1992 tra Arafat e Rabin. Sembra esserci un riconoscimento reciproco quando il presidente dell'Olp con la mano tesa attraverso tutta la scrivania è andato a stringere la mano del primo ministro israeliano Rabin.
IYZHAK RABIN (vedi), fu poi assassinato il 4 novembre 1995; non da un palestinese nemico, ma da un giovane estremista ebreo, mentre partecipava a un raduno pacifista a Tel Aviv; aveva 73 anni
Il resto non è più storia ma cronaca dei nostri giorni e la lasciamo ai quotidiani.

 

 

Aggiornamento Novembre 2004
Yasser Arafat, ricoverato dal 29 ottobre in un ospedale militare parigino, muore l'11 novembre.
Il 12 novembre il feretro di Arafat, dopo la cerimonia funebre al Cairo, viene trasferito a Ramallah.

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