LA PESTE NERA - IL COLERA

le più diffuse, terrificanti e oscure epidemie di tutti i tempi
che non hanno insegnato nulla...

 

vedi anche le pagine dei MIRACOLI
di ieri e di oggi >>>

..... e questo vale anche per oggi, nei nostri tempi
ANNO 2020....anno del CORONAVIRUS....
(MOLTO SIMILE ALLA "SPAGNOLA" DEL 1918)

DI CUI PARLEREMO IN QUESTE PAGINE>>>>>>>>>>>>>
....quando molti potenti si illudono di esser loro a portare..... la " Corona "
( gli hanno dato proprio un bel nome !!!)


Dalla "Danza Macabra" di Simone Baschenis (1539
Chiesa San Vigilio, Pinzolo (TN)

Chi lo avrebbe mai detto, a certi potenti, che hanno pure loro la vita legata un banale Virus?
Andiamo dentro in un sofisticato missile per andare sulla Luna....
e poi un banale virus ci fa entrare dentro in una banale cassa per andare al crematorio,
lasciando ville, castelli, vacanze ai Caraibi, champagne, gioielli
e un Rolex lasciato sul comodino perché la misura del tempo..... é andata nel forno.

 

MA PARTIAMO ORA DA MOLTO LONTANO
dalla terribile "Peste nera"


ANNO 1347 - 1350

Nel mese di ottobre del 1347, 12 navi mercantili genovesi giungono nel porto di Messina, con a bordo alcuni marinai morti ed altri in fin di vita. Le navi provengono dalla città di Caffa, in Crimea, dove i genovesi hanno costituito una base commerciale.
La città di Caffa è assediata da quasi tre anni dai tartari guidati da Khan Djanisberg, anche se alcune navi riescono ad entrare ed uscire dal porto, consentendo agli assediati di resistere per lungo tempo. Ma fu proprio su quelle navi in quarantena che si diffuse il morbo.

E questo morbo era "LA PESTE". Provocata dal bacillo Pasteurella Pestis, scoperto poi da Alexandre Yersin solo nel 1894 a Honk Kong. Ma la malattia all'epoca non era nuova, fu descritta da Procopio ancora nel VI secolo. La malattia è provocata dal bacillo della peste, Pasteurella Pestis, scoperto poi durante un'epidemia a Hong Kong. L'agente patogeno scatenante avviene attraverso la puntura della pulce annidata nel pelo dei ratti. E dove questi nella sporcizia prolificano, a loro volta infettano gli umani. Soprattutto proprio sulle stive delle navi che per mesi navigano o stanno alla fonda nei porti.

Ma non dimentichiamo che le pulci si annidano anche nel pelo dei cani e dei gatti, che non sono questi direttamente portatrici dell'infezione all'uomo, ma sono le stesse pulci (che annidate, vivendo anche 30 giorni) si trasferiscono poi anche sui ns. vestiti, coperte, i ns. letti e altro se viviamo nella sporcizia e non facciamo prendere aria alla casa e fare le dovute pulizie, offrendo così la possibilità alla pulce di pungerci e infettarci.
Le pulci presenti nei topi, quando questi muoiono, si trasferisco sugli umani.

Alla fine del mese di settembre si diffonde improvvisamente anche nelle vicinanze di Caffa tra l'esercito tartaro il morbo letale che fa strage di soldati, allentando notevolmente la morsa dell'assedio.
Ben presto, però, la malattia raggiunge anche i cittadini che stanno difendendo Caffa, e muoiono a migliaia.
I marinai genovesi, che riescono a ripartire dalla città, fuggono ma hanno già contratto il morbo, e conducono le loro navi fino alle coste del Mediterraneo toccando terra nel porto siciliano.
I malati - punti dalla pulce - presentano degli strani rigonfiamenti all'inguine e sotto le ascelle, di colore nero, trasudanti sangue e pus.
Anche il resto del corpo è pieno di macchie nere, causate dall'emorragie interne che provocano dolori lancinanti che poi portano alla morte entro 5 giorni. L'emorragia interna é il sangue che blocca il proventricolo, che è una piccola sacca dell'esofago. Con un coinvolgimento anche dei polmoni.

In altri casi la febbre molto alta e l'emorragia polmonare provocano il decesso in sole 24 ore.
Viene chiamata la "peste bubbonica" mettendo piede sul continente europeo dopo essersi diffusa nel medio e nell'estremo oriente.
La malattia si presenta in due forme: una che inquina il sangue e viene trasmessa per contatto, con i sintomi dei bubboni e delle macchie nere, l'altra, più violenta, che interessa le vie respiratorie, come un banale raffreddore, che quindi si trasmette più facilmente per via aerea. Basta uno sternuto per innondare i vicini presenti.

Quando gli abitanti di Messina si accorgono che gli improvvisi casi di morte sono da ricollegarsi all'arrivo delle galee genovesi, le cacciano immediatamente dal porto e dalla città, spingendole verso altri lidi con il loro carico di morte. Ma è ormai troppo tardi.

Oltre che in Italia, ben presto in tutta Europa si diffonderà il contagio mortale per campagne, paesi e città e molti piccoli centri verranno completamente spopolati, rimanendo deserti.
La peste provoca dei cambiamenti nella stessa compagine sociale. Perfino nei rapporti d'affari.
Gli uomini, incontrandosi, provano paura e sfiducia reciproca.
Vengono messe in pericolo non solo le attività economiche e sociali ma anche le amicizie e i legami parentali e famigliari. Tutti prendono delle distanze da tutto e da tutti. Nelle città e nei paesi le strade sono vuote; i negosi tutti chiusi, i commerci di ogni genere annullati; l'unico rimedio e quello di chiudersi in casa per non avere contatti con persone contagiate.
Si affievoliscono sensibilmente la solidarietà, la compassione ed il rispetto verso il prossimo.

Il terrore di contrarre il morbo tocca anche sacerdoti e religiosi. Infatti dopo che alcuni di essi sono morti rapidamente per essersi accostati ai malati per assolvere al loro compito spirituale, sono pure loro andati - e non sempre- al cimitero.
Questo perché molte abitazioni rimangono piene di cadaveri senza che neppure i famigliari abbiano il coraggio di dar loro sepoltura per non infettarsi.

Fino al 1350 sulla popolazione di tutta Europa si poserà un'oscura ombra di morte, che riempirà la vita di una paura continua, in un agghiacciante sospetto reciproco.
Gli uomini più acculturati o più intraprendenti tenteranno di reagire con i metodi di prevenzione e cure più impensate o, talvolta, scatenando una caccia crudele ai presunti colpevoli.
Alla fine -passata la grande tragedia- parte della società medievale riuscirà a risorgere anche se un po' diversa.
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UNA TRAGEDIA che colpi' l'Europa tra il 1347 ed il 1350.
In Italia raggiunse l'apice nel 1348 causando sconvolgimenti che cambiarono radicalmente l'esistenza dei sopravvissuti. Ma anche dove in alcune contrade sembrava scomparsa, ci fu una ricomparsa della malattia che continuò fino al 1350.

 

FU QUESTRA TRAGEDIA CHIAMATA "LA PESTE NERA".

La peste è una malattia infettiva di origine batterica causata dal bacillo Yersinia pestis. È una zoonosi, il cui bacino è costituito da varie specie di roditori e il cui unico vettore è la pulce dei ratti (Xenopsylla cheopis), che può essere trasmessa anche da uomo a uomo se questi vivono nella sporcizia.

Qui un' altra pagina con un elaborato di ENRICO BUTTERI ROLANDI

Verso la fine del XIII secolo si arrestò la crescita demografica che fino a quel momento aveva caratterizzato l'Europa ed ebbe inizio una grave crisi economica che si protrasse per circa un secolo e mezzo. Le cause principali di questa depressione, o almeno quelle più appariscenti, furono essenzialmente tre: le pestilenze, le guerre e i mutamenti climatici.

Per quanto riguarda il clima, in realtà gli esperti tendono ad escludere che nel periodo considerato si sia verificato un eccessivo raffreddamento rispetto al passato; sembra invece che semplicemente si sia registrato un inaspettato incremento delle precipitazioni, con piogge troppo abbondanti proprio in corrispondenza delle semine autunnali e primaverili e nei periodi immediatamente precedenti il raccolto. Si trattò di un elemento ulteriore che andò ad aggiungersi allo squilibrio già in precedenza creato dalla crescita demografica: e la produzione dei terreni, coltivati ancora con tecniche arretrate, non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutta la popolazione.

Per quanto riguarda le guerre, esse portarono a saccheggi, incendi e devastazioni, oltre a sottrarre uomini alle attività lavorative e produttive. Mentre nelle epoche precedenti si era trattato di episodi saltuari che non avevano ostacolato comunque una rapida ripresa, nel XIV secolo si venne a creare una situazione anomala poiché diverse regioni europee furono teatro di operazioni militari praticamente senza sosta.

Ad aggravare poi questa situazione critica, proprio in questo periodo si incominciò a fare frequente ricorso ad eserciti mercenari, in cui i soldati utilizzavano sistematicamente il saccheggio come strumento per alimentare ed integrare il loro compenso.

Poi arrivò anche la pestilenza, proprio nel XIV secolo - -fra il 1347 e il 1350 - e si registrò la più diffusa e terrificante epidemia di tutti i tempi che non soltanto provocò con il suo passaggio migliaia di vittime, ma rimase endemica ricomparendo periodicamente ora in una regione ora in un'altra anche dopo l'intervallo di tempo compreso tra il 1347 ed il 1350 durante il quale la peste devastò l'intera Europa, raggiungendo l'acme in Italia nel 1349-50.

E' impossibile determinare quanti furono i morti provocati da questa sciagura, ma si può affermare che mai in precedenza un contagio aveva provocato tanti danni: mentre nel passato era stato possibile porre rimedio ai bruschi cali demografici per le guerre, con maggiori nascite, ma dopo la peste del 1348 il recupero fu ostacolato dal carattere frequente delle epidemie che fecero la loro ricomparsa a intervalli di 1-2 anni. Chi ha provato a fare una stima delle vittime ritiene che sia morta una percentuale compresa tra il trenta e il cinquanta per cento della popolazione.

Conoscendo che la popolazione totale era allora di circa 2-300.000.000, i morti furono ca. 60-100 milioni.

La peste ebbe origine in oriente, con ogni probabilità in Cina, e si diffuse con grande rapidità, raggiungendo nella primavera del 1347 la prima città europea: si trattava di Caffa, in Crimea, che a quel tempo era un centro di commercio dei Genovesi. Nell'estate dello stesso anno 1347 l'epidemia aveva già raggiunto Bisanzio e quasi tutti i porti dell'Europa orientale. Dalle zone colpite numerose persone cercarono di emigrare e di raggiungere aree dove fosse possibile sfuggire al contagio, favorendo così inconsapevolmente la sua diffusione.

Ben presto dunque la peste raggiunse i porti occidentali, in particolare la Sicilia, Genova, Pisa e Venezia, e di qui si diffuse in tutta l'Europa.
L'Italia fu il paese in cui il morbo si manifestò con maggiore violenza, lasciando segni indelebili e conseguenze che faranno sentire il loro peso anche nei secoli successivi, tanto che qualche storico ha avanzato la proposta di fissare proprio il 1348 come simbolica data della fine del Medioevo. La paura, la sofferenza e la drammaticità della situazione emergono in modo chiaro e sconvolgente dai racconti dei cronisti dell'epoca.

La prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita dall'epidemia nell'Ottobre 1347 fu - come accennato - la Sicilia. Racconta il francescano Michele da Piazza nella sua Historia Siculorum che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che raggiunsero il porto di Messina. Quando i Messinesi intuirono da chi aveva avuto origine il contagio cacciarono le navi, ma ciò non bastò a fermare la peste: da questo momento la morte poteva arrivare improvvisamente in ogni luogo. La paura e l'incertezza del domani determinarono un imbarbarimento dei costumi e la moderazione lasciò il campo a comportamenti estremi.


Sentimenti come il rispetto e la compassione si affievolirono sempre di più sostituiti da egoismo e timore tanto nei confronti dei vivi quanto nei confronti dei morti. Si cercava di non avere contatti con altre persone che potevano essere infette e numerose città sbarrarono e vietarono - creando una zona rossa - l'ingresso a chi proveniva da una zona già colpita dalla malattia; tuttavia le numerose eccezioni introdotte a questi divieti non consentirono di evitare i contatti con i malati favorendo il diffondersi dell'epidemia.

Il fatto poi che in certe città la peste giungesse dopo essere stata importata da un altro Comune accese una forte conflittualità tra le città non ancora colpite con quelle dove il morbo si era già manifestato e questo infiammò i rancori che già esistevano fra città e città per altri motivi.

Così un medico di Padova, dove il morbo era stato portato da Venezia, pose in apertura del suo Regime contro la peste questa preghiera: "O tu vera guida, tu che determini ogni cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno, risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fa' sì che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse piuttosto Venezia e le terre dei saraceni …".

Se tra Comuni diversi la situazione era già tesa, tra coloro che abitavano in una grande città le cose non andavano meglio. Il carattere improvviso e letale della malattia e il terrore di contrarre il morbo da una persona infetta giustificavano il sentimento di sfiducia nei confronti del prossimo. Gli stessi religiosi, che avrebbero dovuto portare gli estremi conforti a chi stava per morire a causa del morbo, nella maggior parte dei casi, per la paura di infettarsi, non svolgevano più il proprio compito e ciò contribuiva ad aggravare la situazione poiché uno dei timori più grandi era allora proprio quello di morire senza essere riusciti a confessarsi e a ricevere l'estrema unzione.

Racconta il canonico Giovanni da Parma che "molti si confessavano quando erano ancora in salute. Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l'ostia consacrata e l'olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano ad una qualche ricompensa. Ma poi quasi tutti i frati mendicanti e i sacerdoti di Trento sono morti …".
Se anche chi cadeva malato avesse avuto qualche possibilità di riprendersi superando la fase critica della malattia, il suo destino era segnato per il fatto che egli veniva abbandonato da tutti, non soltanto dagli amici, ma addirittura anche dai familiari. In molte delle opere letterarie che ci parlano del periodo della peste è presente il riferimento al fatto che la moglie non volesse più vedere il marito e addirittura il padre non volesse più avere nulla a che fare con i figli nel caso in cui fossero stati colpiti dalla malattia.

Gli ammalati rimanevano abbandonati nelle case da cui arrivavano le invocazioni di aiuto che però rimanevano inascoltate, mentre i parenti più stretti, pur piangendo, si mantenevano a distanza. Emblematico è il racconto di Marchionne di Coppo Stefani, cronista fiorentino, che riferisce:
"… moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti barando gli diceano: "Io vo per lo medico" e serravano pianamente l'uscio da via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone e poi senza cibo, accompagnato dalla febbre si venia meno. Molti erano, che sollicitavano li loro che non li abbandonassero, quando venia alla sera; e' diceano all'ammalato: "Acciocchè la notte tu non abbi per ogni cosa a destare chi ti serve, e dura fatica lo dì e la notte, totti tu stesso de' confetti e del vino o acqua, eccola qui in sullo soglio della lettiera sopra 'l capo tuo, e po' torre della roba".
E quando s'addormentava l'ammalato, se n'andava via, e non tornavan più. Se per sua ventura si trovava la notte confortato di questo cibo la mattina vivo e forte da farsi a finestra, stava mezz'ora innanzichè persona vi valicasse, se non era la via molto maestra, e quando pure alcun passava, ed egli avesse un poco di voce che gli fosse udito, chiamando, non gli era risposto, non era soccorso. Imperocchè niuno, o pochi voleano intrare in casa, dove alcuno fosse malato".

Se a Firenze capitava che spesso i malati rimanessero rinchiusi nelle proprie case a morire, racconta il cronista Lorenzo de Monacis a Venezia, invece, "il governo cittadino decise di incaricare degli addetti affinché passassero per le strade e nelle case a raccogliere i moribondi e i morti, che comunque rimanevano abbandonati per giorni, e li portassero nelle isole di San Marco Boccalama o di San Leonardo Fossamala o a Sant'Erasmo, dove poi sarebbero stati seppelliti in grandi fosse comuni. Fa rabbrividire il pensiero che "molti spiravano su queste imbarcazioni e molti che ancora respiravano rendevano l'anima soltanto dentro queste fosse".

Ogni famiglia dovette sopportare lutti gravissimi: ad esempio, Francesco Petrarca dovette subire la morte di un figlio e della tanto celebrata Laura, il cronista senese Agnolo di Tura perse addirittura cinque figli.
Quelli inferti dal destino e dalla malattia erano colpi che in tempi normali avrebbero gettato in una disperazione insanabile chiunque, ma, in questo periodo particolare, una quotidianità che continuamente riproponeva l'evento della morte ne rese l'idea così familiare da provocare un aumento del coraggio e della resistenza di chi doveva sopportare la scomparsa di un congiunto. In sostanza, era così facile contrarre la malattia e morire che la priorità era sopravvivere e solo in un secondo momento si poteva eventualmente pensare agli altri, compresi parenti ed amici.

Nell'Introduzione alla Prima Giornata del Decamerone di Boccaccio leggiamo: "E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano."

Per evitare poi che la popolazione fosse travolta da una disperazione e da una depressione sempre maggiori, molti comuni decisero di vietare che si celebrassero i funerali con l'ordinaria cerimonia e, soprattutto, che si suonassero a morto le campane poiché, per usare ancora le parole di Marchionne di Coppo Stefani, all'udirle "sbigottivano li sani, nonché i malati".

Agnolo di Tura riferisce: "E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo".

Si credeva che la malattia fosse una sorta di castigo inviata da Dio allo scopo di punire la depravazione dei costumi che aveva caratterizzato quest'epoca. Si poté così assistere ad un riaccendersi del fervore religioso della popolazione che portò ad una ripresa del movimento penitenziale nel sud della Francia e nelle città del centro e del nord Europa: una moltitudine di persone scendeva nelle piazze e per le strade, si recava in processione nelle chiese della città e si flagellava pregando e invocando il nome di Cristo e della Vergine Maria affinché proteggessero il mondo che sembrava prossimo alla fine. Ma nel farlo, queste persone entrando fra di loro in contatto ne contagiavano altre.


La mancanza di sufficienti conoscenze mediche determinava poi l'impotenza di fronte alla malattia ed un senso di frustrazione che spingeva a cercare qualcuno a cui fare risalire la causa e la responsabilità del contagio: si pensava che, individuando e punendo i responsabili, ("morte all'untore") l'ira divina si sarebbe placata.

Così, come sempre accade, la colpa dell'epidemia venne fatta ricadere sui "diversi" dell'epoca, gli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi delle città e spesso le processioni dei flagellanti si concludevano con una vera e propria caccia agli Ebrei che venivano trucidati senza tenere conto del fatto che anche questi ultimi morivano di peste proprio come tutti gli altri.
Si trattò della più grande persecuzione che il popolo ebraico dovette subire, prima dell'olocausto del XX secolo. Il fenomeno delle processioni dei flagellanti e delle cacce agli Ebrei non interessò comunque, almeno in questo periodo, l'Italia e le autorità cercarono di contenerlo, pur con grande fatica, anche nelle zone in cui si verificò a causa di alcune connotazioni eterodosse che portarono ad una sua condanna da parte prima dell'Università di Parigi e poi del Pontefice.

Durante le frequenti epidemie successive al 1348 si diffuse il culto di San Rocco, che, così vuole la tradizione, mentre si recava in pellegrinaggio a Gerusalemme da Montpellier, incontrò a Roma la peste nera e qui si fermò circa tre anni per assistere i malati. Mentre tornava nella propria città fu vittima egli stesso della peste nei pressi di Piacenza, ma grazie all'aiuto di un cane e di un angelo riuscì a guarire e a riprendere la sua strada. Ma anche lui fu chiamato "untore". Morì dopo cinque anni di carcere, ingiustamente accusato di spionaggio e aver diffuso la malattia.

Di fronte ad uno scenario apocalittico come quello creato dalla peste, la reazione di gran parte della gente paradossalmente non fu quella di deprimersi e di pregare pentendosi dei propri peccati in vista di una imminente fine del genere umano, ma racconta il Boccaccio nel suo Decamerone che, dopo una prima fase di disperazione e smarrimento, mentre alcuni cercavano di condurre un'esistenza morigerata e di evitare il contatto con altre persone per sfuggire alla malattia, "altri in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case facendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere".

La situazione dei costumi non cambiò neppure quando ormai il peggio era passato e i sopravvissuti, invece di ringraziare Dio per averli risparmiati tenendo una condotta conforme agli insegnamenti cristiani, secondo quanto riportato dal cronista fiorentino Matteo Villani nella sua Cronaca, "… trovandosi pochi, e abbondanti per l'eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e disonesta vita che prima non avieno usata, però che vacando in ozio usavano dissolutamente il peccato della gola, i conviti, le taverne e dilizie con dilicate vivande, e giuochi, scorrendo alla lussuria senza freno, trovando ne' vestimenti strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti li arredi".

In realtà la degenerazione dei costumi era già iniziata prima del diffondersi dell'epidemia, ma fu questo evento a provocare una crescita del tenore di vita e del gusto per il lusso, tanto che proprio solo nel periodo successivo alla peste furono introdotte nuove imposte nelle città per frenare il fenomeno.

Dopo la grande paura nel '50 regnava il desiderio di divertirsi, dovuto anche alla possibilità di sfruttare la grande quantità di sostanze di cui ciascuno poteva disporre, dopo averle ereditate da coloro che erano stati portati via dal morbo. Il già citato Marchionne di Coppo Stefani racconta lo stupore dei sopravvissuti diventati improvvisamente ricchi ed il loro desiderio di abbandonarsi al lusso in queste parole: "Il tale che non aveva nulla si trovò ricco, che non pareva che fusse suo, ed a lui medesimo pareva gli si disdicesse. E cominciorno a sfoggiare nei vestimenti e ne' cavagli e le donne e gli uomini".
Una teoria affascinante, anche se messa fortemente in discussione, sostiene che proprio la peste, favorendo la formazione di ingenti patrimoni e provocando al tempo stesso una riduzione delle possibilità di investimento, abbia creato i presupposti per il sorgere di un periodo come il Rinascimento: il complesso delle condizioni createsi fece sì che il denaro - piuttosto di finanziare attività produttive - venisse utilizzato per abbellire i palazzi dei ricchi, o per l'acquisto di magnifiche opere d'arte dei grandi artisti dell'epoca.

Molti erano morti senza neppure avere il tempo di fare testamento, anche perché, nella maggior parte dei casi, erano gli stessi notai ad evitare di recarsi nelle case in cui vi era un malato di peste o addirittura a fuggire dalle città per paura di contrarre la malattia. A volte, vista la gran quantità di lavoro, un notaio coraggioso si limitava a prendere semplici appunti per trascrivere successivamente le ultime volontà in un testamento canonico senza però averne poi il tempo, colto anch'egli da morte improvvisa. E' bene sottolineare che nell'Italia e nella Francia del XIV secolo la competenza a redigere testamenti efficaci era riservata esclusivamente ai notai, per cui si venne a creare una grande confusione che continuò a produrre i suoi effetti anche nel periodo successivo alla fine della peste con centinaia di cause che produssero il blocco dell'attività dei tribunali. Molti - insediatisi in case e terreni, andavano affermando di essere gli eredi di tizio e di caio anche se non avevano in mano nulla.

Come i notai, anche la maggior parte dei medici optò per la fuga dalla città, che dal loro punto di vista - isolarsi - era l'unico valido mezzo per evitare il contagio, lasciando il campo libero a curatori improvvisati che vendevano a peso d'oro i loro inefficaci rimedi. Anche Guy de Chauliac, medico personale di papa Clemente VI, tentato, ammise: "Io per paura del disonore non osai fuggire. Tormentato continuamente dalla paura, cercai di proteggermi alla meno peggio …".


La scelta di fuggire e di isolarsi, condivisa peraltro anche da vari vescovi, di chi soprattutto in quel momento avrebbe dovuto assistere le vittime della peste si può comprendere pensando al fatto che coloro che avevano svolto il proprio dovere avevano a loro volta contratto la malattia morendone. Chalin de Vinario, altro medico avignonese vicino al papa, espone in modo chiaro quella che era l'idea (egoistica) prevalente tra i dottori: "Noi siamo il prossimo di noi stessi. Nessuno di noi è accecato da una tale follia da occuparsi più della salvezza degli altri che della propria, tanto più trattandosi di una malattia così rapida e contagiosa spesso non vi è scampo".

Ad approfittare della situazione venutasi a creare furono soprattutto gli ordini religiosi e le confraternite che mai come in questo periodo riuscirono ad accumulare ricchezze grazie ai lasciti testamentari di chi, sentendosi ormai vicino alla morte, cercava in questo modo di ottenere - con la sollecitata confessione dei propri peccati - la salvezza della propria anima con l'entrata in Paradiso.
Tale arricchimento non fu comunque indolore poiché molti uomini di chiesa che avevano continuato ad occuparsi dei bisognosi - nel '49 e '50 - morirono pure loro di peste, tanto che in molte diocesi i vescovi furono costretti a consacrare sacerdoti giovani che non avevano ancora terminato gli studi necessari, e anche tra i laici, appartenenti alle confraternite che assistevano gli ammalati, le perdite furono altissime, come per esempio nelle Scuole veneziane della Carità e di San Giovanni dove morirono circa trecento confratelli.

Gli apparati pubblici si trovarono invece ben presto in ginocchio in quanto non soltanto la malattia aveva provocato la morte di gran parte dei contribuenti riducendo drasticamente le entrate, ma aveva messo in pericolo lo stesso funzionamento dello Stato. L'elevata mortalità rischiò di bloccare l'attività degli organi pubblici che non riuscivano a raggiungere il quorum necessario per adottare delle decisioni. Questa situazione di stallo portò a Bologna addirittura ad un tentativo di colpo di stato represso con la forza.
Contribuiva poi al dissesto delle casse dello Stato il fatto che la morte o la fuga di medici, notai, insegnanti e militari di professione, obbligava le città a reclutare personale anche forestiero con una vertiginosa crescita dei compensi dovuta alla sproporzione tra domanda ed offerta.

Una conseguenza importante della elevata mortalità è costituita dal fatto che prima della peste nel momento in cui la crescita demografica aveva raggiunto il suo apice le città erano diventate tutte un groviglio di case catapecchie. Mentre dopo la peste lo spazio a disposizione di ogni persona era cresciuto enormemente. Questo fatto, unito alle maggiori possibilità economiche di gran parte della popolazione, portò alla riunione in un'unica struttura di più abitazioni e alla creazione di grandi palazzi: i sopravvissuti volevano vivere in spazi più ampi e per questo avviarono una risistemazione edilizia che mutò radicalmente il volto delle città.

Tuttavia, la ricchezza improvvisamente raggiunta si rivelò a lungo andare un'illusione. Le possibilità economiche dei sopravvissuti all'epidemia subirono una crescita non soltanto grazie ai lasciti dei defunti, ma anche grazie ad un aumento dei compensi spettanti a tutti i lavoratori, compresi quelli che svolgevano le mansioni più umili. Era normale: la morte di molti lavoratori aveva provocato una diminuzione dell'offerta rispetto alla domanda e di conseguenza un aumento dei salari. Nell'arco di pochi anni la crescita dei costi di produzione determinò un vertiginoso aumento del costo della vita andando ad annullare tutti i vantaggi creati dal precedente aumento della ricchezza.

Ad influire poi sull'andamento dei prezzi c'era anche la grave crisi attraversata dal settore agricolo determinata non soltanto dalla scarsità di manodopera, ma anche dalla scarsa produttività dei terreni per delle ricorrenti siccità.
In generale, la grande peste del 1348-50 non soltanto determinò cambiamenti radicali nell'aspetto delle città o nei patrimoni dei sopravvissuti, ma, cosa ben più importante, mutò il modo di pensare degli uomini del tempo. Il gusto per il lusso e per il divertimento diffusosi subito dopo il contagio, nasceva dal fatto che l'esperienza della peste aveva evidenziato in modo drammatico l'incertezza del domani, tanto che ai più sembrava senza senso preoccuparsi del futuro investendo i propri averi in nuove attività produttive o nell'educazione dei figli. Il patrimonio veniva così utilizzato essenzialmente per il soddisfacimento del proprio piacere personale e il capitale accumulato in conseguenza della peste venne nella maggior parte dei casi sperperato.

Tuttavia, gli effetti della nuova concezione della vita nata durante l'infuriare del flagello non furono del tutto negativi: se certamente non si può attribuire esclusivamente alla grande peste il merito del rinnovamento culturale che caratterizzò il periodo successivo, essa, cambiando la mentalità dei sopravvissuti, diede comunque un contributo fondamentale al sorgere di quelle che saranno tra le epoche più fiorenti della nostra storia, cioè l'Umanesimo ed il Rinascimento.

di ENRICO BUTTERI ROLANDI
Bibliografia
* La società italiana prima e dopo la "peste nera", di Antonio Ivan Pini - Ed. Società pistoiese di storia patria, Pistoia 1981.
* La peste nella storia: epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea, di William Hardy McNeill - Ed. Einaudi, Torino 1982.
* A peste, fame et bello libera nos Domine: le pestilenze del 1348 e del 1400, di Alberto Cipriani - Ed. Società pistoiese di storia patria, Pistoia 1990.
* Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, di Ovidio Capitani - Ed. Patron, Bologna 1995.
* La Peste Nera e la fine del Medioevo, di Klaus Bergdolt - Ed. Piemme, Casale Monferrato 1997.


Questa pagina
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di
http://www.storiain.net

 

*** In Europa la terribile peste non risparmiò neppure i grandi della terra, morirono dogi, duchi, re, prelati, ricchi e poveri. E se prima c'era gia' un caos dinastico voluto dai poteri terreni, il "flagello dei poteri divini" (così chiamato dai preti) portò dentro alcune dinastie la desolazione. Il caos divenne ancora più complesso in Italia. Un Paese dove la morte non aveva risparmiato sia i recenti come gli antichi contendenti.

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IL COLERA

(di Manzoniana memoria")

anni 1628 - 1631

Sono gli anni che Eserciti di varie nazionalità in lotta marciarono in lungo ed in largo in tutto il Nord Italia. Francesi, spagnoli, tedeschi e.... gli italiani stessi tra di loro nei vari ducati. Tutti combatterono gli uni contro gli altri; coinvolsero le popolazioni civili e desolarono intere regioni e province. E ciò…..solo per ampliare i domini territoriali ed aggiungere allori di gloria ai monarchi dell’epoca assetati di potere e di ricchezza.

Tutti gli eserciti in lotta razziarono quanto più poterono causando il parziale abbandono delle campagne e delle città da parte delle popolazioni indifese ed il progressivo impoverimento del territorio soggetto alle loro esigenze di saccheggio.
Con la morte e i saccheggi che colpì in tutte le combinazioni possibili in unione oltre alle carestia provocate dalle stesse guerre, iniziarono i tumulti popolari anche per il tremendo morbo del colera; portata secondo le cronache dalle masse mercenarie tedesche in avanzata lungo i territori dell’Alta Italia.
Ne furono colpiti in particolare il Piemonte, la Lombardia, il Veneto nonché altre zone d’Italia.

Il colera per i ricordi di un tragico passato - come quello sopra accennato - fu chiamato anche questo "Peste", mentre rispetto a questa aveva tutt'altra origine. Non dai topi e pulci, ma anche questa causata dalla scarsa igiene, soprattutto dalle acque o dai cibi inquinati. Infatti il batterio si trasmette per via orale-fecale, tramite l'ingestione di acqua o cibi contaminati da esso. Come il cibarsi di molluschi; questi sono in grado di accumulare al loro interno un buon numero di vibrioni, costituendo, così, un buon mezzo d'infezione qualora siano consumati crudi o poco cotti. Non per nulla l'infezione appare con una diarrea profusa che porta - con la disidratazione e con altri sintomi, crampi, ipotensione, tachicardia e tachipnea - fino alla morte. Ma prima della morte scatenava non solo questi sintomi e umori del corpo ma - per l'impotenza a farvi fronte con dei rimedi - esprimevano negli stati d'animo una "collera"; ecco perché fu chiamato inizialmente proprio "Collera", COLERA.

Come la peste del 1348, anche il colera era conosciuto fin dal V secolo a.C. forse per le stesse ragioni: per scarsità di igiene negli ambienti umani con le acque inquinate dal batterio, oggi chiamato gram-negativo, o Vibrio cholerae o vibrione.

La fame dell'epoca, strinse, con i suoi dolorosi crampi, le classi meno abbienti costituite per lo più da gente misera - per poi estendersi anche verso alcune ricche città dell’Italia settentrionale - aveva costretto i primi a cibarsi di ogni cosa, soprattutto di molluschi sulle allora affollate coste marine, con allora più della metà di abitanti della penisola. Ma per contagio ben presto si estese anche nell'entroterra. Prima a Milano divulgandosi poi in altre zone del Nord Italia.
Il colera poi richiamò le più oscure presenze. La numerosità dei colpiti dal morbo nonché l’impotenza di quanti destinati a farvi fronte ebbero come risultato la ricerca quasi ossessiva di chi ne fosse resposabile; l’”Untore”. Manzoni nei suoi romanzi “Storia della Colonna Infame e poi nei “ Promessi sposi “ narrò a questo proposito alcune vicende rendendole famose.

La penisola italiana nella prima metà del seicento era costituita da molti piccoli Stati sotto l’influenza dei potentati stranieri tra cui Francia, Spagna e l'Impero asburgico. Appena moriva un principe o un duca, tutti si precipitavano nei loro feudi per impadronirsene contestando le successioni.

Queste situazioni che si vennero a verificare sono ben “fotografate” da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi:
“Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperio della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ed essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da' contadini, i quali, invece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità.”(**)

"“A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l'elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l'avean ricevuta” (**).

Poi il Colera iniziò a fare le prime vittime.
“La peste - così chiamata - che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia”. “ Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi”. (**)

Secondo alcune cronache il colera aveva già devastato l’Asia e l’Africa già nel 1617. Al termine della campagna di Persia l’esercito russo la propagò dapprima in Russia, poi in Polonia da dove si diffuse in tutta Europa. Si estese poi in Ungheria ed in Germania. Le città di Berlino, Vienna e Budapest ne furono colpite nel mese di settembre; Amburgo nell'ottobre. Dopo aver infierito nuovamente in diverse province meridionali della Francia, si sviluppò in Italia. Il male sconosciuto ai medici con sintomi molto simili a quello dell’avvelenamento fece sorgere quasi dappertutto sospetti sulla presenza di presunti avvelenatori provocando anche sollevazioni di massa.

Nelle città si aprì quindi nuovamente la caccia agli “untori”. Nei momenti difficili…..c’è sempre spazio per superstizione e fanatismo! A queste psicosi non furono esenti anche le classi più abbienti e perfino le persone culturalmente più preparate. Giuseppe Giusti infatti, poeta e scrittore, in quei tempi scrisse Il morbo ah! Credilo – Idolo mio! Ci vien dagli uomini – Non vien da Dio!".

L’avanzare della malattia e la sua virulenza preoccupò anche lo Stato della Chiesa, quindi il Papa - Gregorio XVI - intervenne disponendo anche lui la formazione di cordoni sanitari e l’istituzione di un apposito corpo di “Guardia Sanitaria Papale” le cui forze furono distribuite tra le principali località di confine. Ma anche in questo caso - e così le preghiere in ogni chiesa - i blocchi funzionarono poco. Nel mese di luglio l’epidemia si diffuse dal Lazio anche nell’Italia centrale.

La classe medica e le autorità, nella loro assoluta ignoranza, non seppero o non vollero imputare immediatamente la causa diretta delle prime morti alla peste. Tardarono quindi i provvedimenti necessari tra cui quelli dell’organizzazione di cordoni sanitari per quanto gli stessi, considerata la situazione generale, fossero di difficile attuazione. In Lombardia, in Piemonte, nella Repubblica di Venezia e nel ducato di Mantova si continuarono inoltre ad armare milizie da inviare nei vari teatri di guerra aumentando così i flussi migratori ed accrescendo in maniera esponenziale le possibilità di contagio.

L’epidemia che sembrava sopita alla fine del 1629 cominciò invece a diffondersi ulteriormente colpendo con grande virulenza alcune zone del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. A Venezia la città risultò quasi paralizzata, i traffici cominciarono a languire mentre la popolazione si ridusse a vagare per la città chiedendo l’elemosina. Il governo agì comunque con decisione coordinando le attività sanitarie, l’eliminazione dei rifiuti, l’organizzazione dei lazzaretti e provvedendo al seppellimento dei cadaveri infetti utilizzando la calce. Le misure preventive attuate - così vaghe - a Venezia come in altre città non impedirono però l’ulteriore diffondersi della pestilenza.

Nell’infuriare della guerra il colera già presente nel 1629 in Lombardia, in Valtellina e nel Piemonte cominciò a fare stragi diffondendosi in altre contrade anche a causa delle pessime condizione igieniche in cui versarono le popolazioni e dell’assenza di qualsiasi forma di cura.

La pestilenza colpì così la Toscana: a Firenze le conseguenze furono devastanti. Nel ducato di Modena in pochi mesi si ebbero migliaia di morti. Dalla Lombardia il morbo si diffuse a Bergamo dove imperversò fino all'autunno inoltrato, mietendo vittime ogni giorno. Nel periodo culminante dell'epidemia e cioè nei mesi estivi, il numero dei morti fu così elevato da renderne difficile perfino la sepoltura.

A Milano i decessi riguardarono 86.000 milanesi su di una popolazione di 150.000 persone, mentre a Brescia la peste causò non meno di 11.000 morti. In Piemonte si diffuse a Torino, Susa, Pinerolo e Saluzzo. Nella Repubblica di Venezia, in 16 mesi in città e nei lazzaretti persero la vita quasi 50.000 cittadini cui si aggiunsero i 95.000 riscontrati nel cosiddetto Dogado, e cioè nelle frazioni di Murano, Malamocco e Chioggia.

Nelle grandi città la popolazione affamata assalì magazzini e rivendite alimentari nonché i convogli di grano e di farina. Alle accuse lanciate contro presunti incettatori seguì il saccheggio dei depositi posto in essere dalla folla tumultuante. I moti popolari furono duramente repressi ed alcuni cittadini..…più o meno colpevoli di furti finirono impiccati sulle pubbliche piazze a monito ed esempio per gli altri.
Agli abitanti delle città, già facilmente irritabili a causa delle dure condizioni di vita, dell’indigenza, dell’ignoranza e delle molteplici malattie, giunsero in occasione del colera anche “voci” sulle presunte cause della malattia dovuta, secondo le stesse, allo spargersi di unguenti velenosi. Le autorità civili e religiose, altrettanto ignoranti, non furono all’altezza della situazione. Non riuscirono quindi a porre alcun freno alla pubbliche credenze sull’esistenza degli “Untori”. Questi tristi personaggi, tratti dalla fervida immaginazione di qualcuno, diventarono reali attraverso le “dicerie” e colpirono con false accuse, lanciate da popolani rozzi e terrorizzati, uomini e donne assolutamente innocenti che si trovarono a passare in atteggiamento sospetto … per di là.

La guerra continuò spostandosi nuovamente nel Monferrato ed in Piemonte. Il Duca di Savoia, nel luglio 1630 mentre si trovava a Savigliano fu colpito da una febbre fortissima dovuta, secondo alcune maldicenze, al colera . Apparsi i primi sintomi della morte Il duca chiese il viatico e scese dal letto, malgrado le proteste dei figli : “Dio non voglia — esclamò — che un Re sia a letto!”. Si cinse la spada, si pose il collare dell'Ordine dell'Annunziata, si coprì con un manto di porpora e, ricevendo il sacramento, spirò subito dopo .

Il colera continuò a mietere vittime un po’ dappertutto ma, fortunatamente a dicembre, grazie al freddo, il contagio cominciò a perdere vigore e, a partire dai primi mesi del 1631, l'epidemia cominciò a regredire per poi esaurirsi del tutto. La gente superata la fase critica tornò a vivere e qualcuno anche appartenente alle classi più povere riuscì finalmente anche a trovare casa, occupando più o meno definitivamente alcune di quelle, numerosissime, lasciate libere dalle vittime del colera. Mai fu così vero il motto "morte tua vita mia".

Terminate le guerre che avevano insanguinato tutto il Nord Italia, esaurita salvo qualche caso sporadico l’epidemia di colera, cessata la carestia e ritornate poco alla volta le popolazioni alle attività ordinarie la situazione cominciò a migliorare.

Alle grave carenze politiche e sanitarie fino allora assenti, cessato il morbo si sostituì poi quella religiosa. In ogni contrada si organizzavano processioni e Messe. Furono organizzate dappertutto a titolo di ringraziamento.
A Venezia
dov'erano morti 80.000 e altri 600.000 nel territorio della Serenissima, il patriarca Giovanni Tiepolo il 22 ottobre 1630 con un voto solenne dedicò una Chiesa alla Vergine Santissimaa perpetua memoria
, chiamata SANTA MARIA DELLA SALUTE, avendo liberato dal male la città. (ovviamente lasciando solo loro vivi)
Poi anche a Genova e in altre città la fine dell’epidemia fu celebrata con dei solenni Te Deum.
Qualcuno scrisse nell'occasione:
"Dio ha voluto far scendere nell'Inferno i malvagi, e ha accelerato la morte dei giusti per averli accanto a sé nel Paradiso""
AMEN !!

Il pensiero cattolico è sempre stato un pensiero consolatorio che si è sempre basato sull'aldilà, più bello e migliore che di quà, togliendo sempre con la rassegnazione le forze a chi vorrebbe invece anche nelle avversità lottare con i proprii mezzi nella vita, che nonostante tutto lui ama.

Purtroppo la peste era cessata al Nord e si era trasferita al centro e al Sud. Nel 1656 era a Chieti dove terminò il 31 maggio 1657 . Diedero la colpa ai estranei che arrivano dal Nord. Fu dato l'ordine di sbarrare le porte della città non solo la notte ma anche di giorno. E ai cittadini dissero di stare chiusi in casa, di non incontrare nessuno, nemmeno i parenti stretti. Per i malati si costruirono numerosi lazzaretti e dentro questi i ricoverati non ebbero scampo morirono 1200 persone su una città allora di 12.000 abitanti. 1 su 10.
Fu incaricato il clero della Cattedrale San Giustino di cantare alla Messa una particolare canzone alla Madonna. E si pregò con solenni processioni alla Vergine nelle strade cittadine per metter fine alla peste. E furono queste processioni - dissero - che fecero nel '57 cessare la peste.
Per il miracolo fu eretta la chiesa alla Madonna della Misericordia. E anche qui si scrisse: "Dio ha voluto far scendere nell'Inferno i malvagi, e ha accelerato la morte dei giusti per averli accanto a sé nel Paradiso" AMEN !!

Bibliografia

(*) L.A. Muratori – Gli Annali d’Italia – Napoli 1783
(**)
A. Manzoni – I promessi Sposi – Edizione fuori commercio - Torino 1989
Cesare Cantù – Storia di cento anni – Felice Le Monnier, Firenze, 1855
B.Cognetti – La storia d’Italia – Sacra Civile e letteraria – Napoli 1876
L. Cappelletti – Storia d’Italia (476-1900) – Vallardi Editore – 1932

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E POI (NEL 1918) VENNE
il giorno che crollarono  tre imperi storici, e dallo sfacelo nascevano nuovi stati e risorgevano vecchie nazioni, ma da un altro punto di vista tutti i belligeranti europei nell'incapacità di mettersi d'accordo, uscirono dal conflitto tutti sconfitti, in quanto la guerra segnò - se non la causò direttamente - uno spostamento della potenza internazionale dall'Europa all'America da un lato, alla Russia sovietica dall'altro.
Per rimanere i due blocchi (con in mezzo una pausa di venti anni) da quel momento in avanti, padroni assoluti dell'Eu
ropa

LA SPAGNOLA >>>>>

 

 

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