LETTERATURA

GIOSUE' CARDUCCI

RIFLESSIONI SU GIOSUE' CARDUCCI >>>>
Prof. Giovanni Pellegrino



FRANCESCO DE SANCTIS
vita- opere- il suo tempo

(in fondo la struggente poesia "davanti a san guido"


Uno degli ingegni più robusti dell’Italia nuova sorta a libertà fu GIOSUÈ CARDUCCI. Nato a Valdicastello, nella Versilia il 27 luglio 1835 dal medico condotto Michele e da Ildegonda Celli, seguì il padre a Bòlgheri, a Castagneto, a Laiatico e a Firenze, dove studiò presso i padri Scolopi. Laureatasi a Pisa, ebbe nel 1856 una cattedra ginnasiale a S. Miniato al Tedesco; mortogli il padre nel 1858, rimase due anni a Firenze studiando alacremente e curando edizioni di classici per provvedere al sostentamento della madre, del fratello e della moglie Elvira Menicucci, sposata nel 1859.

Nel 1860 insegnava al liceo di Pistoia, quando dal ministro dell'Istruzione Terenzio Mamiani fu chiamato a insegnare lettere nell'Università di Bologna, e nell'insegnamento universitario trascorse quasi tutto il resto della sua vita. Repubblicano prima, abbracciò la fede monarchica e nel 1890 fu nominato senatore del Regno.

Nel 1904, per motivi di salute, fu costretto a lasciare l' insegnamento; due anni dopo ricevette il premio Nobel per la letteratura; il 16 febbraio 1907 si spense a Bologna fra il Cordoglio della Nazione.

Giosuè Carducci fu critico e poeta. La sua attività critica fu molta: compilò antologie (L'Arpa del Popolo, Primavera e fiore della lirica italiana, Antica lirica italiana, Letture del Risorgimento Italiano, Letture italiane scelte a uso delle scuole secondarie, queste ultime due in collaborazione con Ugo Brilli), curò per l'editore Barbera la collezione Diamante con introduzioni, delle quali alcune bellissime, commentò Le Stanze, l'Orfeo e le Rime del Poliziano e le Rime di M. Frescobaldi, raccolse Cantilene, Ballate, Strambotti e Madrigali dei sec. XIII e XIV, Lettere disperse e inedite di P. Metastasio, Scritti letterari e artistici di Alberto Mario, Cacce in rima dei sec. XIV e XV, illustrò col FERRARI le Rime del Petrarca e le Odi di B. Del Bene, e infine riunì e ordinò nei volumi delle sue Opere scritti pubblicati in periodici e opuscoli: Discorsi letterari e storici; Studi letterari; Studi, saggi e discorsi; Poesia e storia; Confessioni e battaglie; Ceneri e faville ecc.

Nella critica Carducci seguì il metodo storico e schermì, tutte le volte che ne ebbe l'occasione, il metodo estetico. Ma un gran critico il Carducci non fu. Spesso accettò leggermente giudizi di altri; pur essendo un ricercatore instancabile, sovente non approfondì gli argomenti trattati; talvolta si soffermò troppo sull'esteriorità d'un'opera e ne trascurò l'intima essenza; talaltra s'indugiò troppo in minute ricerche storiche, riserbando minimo posto all'illustrazione artistica; non di rado nei giudizi si lasciò fuorviare da preconcetti e simpatie.

Ma - come ben disse un suo discepolo, Guido Mazzoni - «oltre la squisita sensibilità e maestria per gli effetti della lingua e della tecnica artistica, conviene riconoscere che vide bene e delineò nette alcune figure e alcune produzioni letterarie, dai primi secoli al suo; e spesso riuscì, con serietà dottrinale, eloquentissimo. I volumi sul Parini, sul Leopardi, i discorsi su Dante, sul Petrarca, sul Boccaccio, alcuni articoli di critica letteraria su materia recente, conservano un alto valore anche per chi li stimi, nei loro giudizi, ormai più o meno invecchiati ».

Astraendo dal valore critico, la sua prosa - si difenda egli dalle censure altrui o assalga con violenza detrattori dell'opera sua, esalti le imprese magnifiche d'un eroe o tuoni contro viltà ed egoismi della sua epoca, esponga le vicende di uno scrittore o di un periodo della letteratura o della storia o mostri i risultati delle sue dotte ricerche, fissi con la penna il caldo linguaggio del cuore commosso o quello freddo e severo della mente - ha un valore singolare; è agile, limpida, vigorosa, armonica, aderente alle cose, espressione viva del pensiero e del sentimento dello scrittore.

La sua anima schietta, sensuale, appassionata, rissosa - nota il Cesano - «escludeva le virtù più propriamente cristiane, l'umiltà e la rassegnazione; faceva la parte agl'istinti normali della lotta e della difesa; prediligeva le qualità operative dell'uomo, la forza, il lavoro, la scienza, la tutela del proprio diritto, la rivolta all'oppressione. La sua morale era la morale naturale e non aveva bisogno d'alcuna sanzione teologica; egli tornava alla coscienza degli enciclopedisti e del secolo decimottavo. Di qui la sua ammirazione per il Voltaire e per la rivoluzione francese, e il suo odio al Cristianesimo, che gli pareva incivile e inumano, come quello che ripudiava la vita e la libertà, come quello che da tanti secoli era stato il puntello d'ogni tirannide. Invece l'aspirazione religiosa del poeta si volge all'antica mitologia, non soltanto per la coltura classica ond'egli s'imbeve in quella Toscana, che la tradizione ne aveva conservata fino al Niccolini e al Guerrazzi, ma anche perchè il Carducci negli dèi della Grecia riscontrava la figurazione armoniosa delle potenze naturali dell'uomo, ma soprattutto perchè il suo ardente patriottismo non voleva rinunziare alla nobiltà di quelle favole, nelle quali dormiva l'anima originaria della gente latina. La mitologia del Carducci non è dunque un freddo prontuario di traslati convenzionali, come nel Monti: ha una vita seria e perenne, richiama l'altera memoria de' padri e chiude in sé la sostanza primordiale della nazione ».

Molte sono le corde della cetra del Carducci, ma non tutte egualmente sonore ed egualmente sonanti. L'amore in lui non prende mai l' aspetto di passione, non gli scolora il viso e non lo fa delirare; ma è un fatto dolce e calmo, che gl'ispira le gioiose ma composte strofe dell'Idillio Maremmano o i luminosi quadri della Dorica.
Forse più grande dell'amore per la donna è in lui l'amore per l'arte, l'amore per la gloria, e più grande ancora l'amore della natura, che prende il poeta, lo rende ammirato, stupido, lo commuove intensamente, lo culla, lo esalta, e colora, illumina, fa vivere paesaggi ampi, sereni o grigi, lieti o tristi, come quelli del Bove, del Canto dell'amore, di San Martino, delle Primavere elleniche e di molte altre liriche, fra cui prime “Dinnanzi alle terme di Caracalla, In una chiesa gotica, Alla stazione in una mattina d'autunno, Sogno d'estate, Alle fonti del Clitumno, La chiesa di Polenta”.

Anche l'amore della vita tocca le corde del poeta; ma risonanze più forti hanno gli accenti di stanchezza, di sconforto, di dolore, di triste rassegnazione o di grande sconsolazione, che sgorgano dalle singhiozzanti strofette di Pianto antico, dalle meste terzine di “Traversando la maremma toscana”, dai settenari di “Tedio” e dalle quartine di “Davanti San Guido”, dove sono il triste rimpianto della fanciullezza passata, le lotte, le sofferenze e le miserie della vita e un desiderio intenso di pace, che forse soltanto nel silenzio d'una tomba si troverà.

Ma la corda che nella cetra del poeta vibra più a lungo e più fortemente è quella dell'amor di patria, sentimento costante nel cuore del Carducci e che prende vari atteggiamenti nei “Iuvenilia”, nei “Levia Gravia”, nei “Giambi ed epodi”, nelle “Rime nuove”, nelle “Odi barbare” e in “Rime e ritmi”.

Questo sentimento ora il poeta esprime invocando le grandi ombre dell'Alfieri e del Foscolo, ora esaltando il Niccolini che nella gioventù italiana cercava d'infondere gli antichi ardimenti e risuscitare le note virtù, ora tuonando contro i vigliacchi d'Italia, contro il governo, contro il papato politico, contro ogni ingiustizia e tirannide e specialmente esaltando la stirpe italica e cantando vari momenti della storia, della gloria, della passione della patria: la fondazione di Roma, la Vittoria di Brescia, la guerra contro Annibale, il comune del Medioevo, la lotta contro il Barbarossa, le guerre per il Risorgimento e l' Unità, le glorie di Ferrara, del Cadore, del Piemonte, Mentana, le gesta di Garibaldi.
L'opera del Carducci, cantore della stirpe e suscitatore e incitatore di virtù, ebbe molta efficacia sui giovani del suo tempo, un forte gruppo dei quali si strinse intorno a lui, mentre altri ebbero da lui lodi, incoraggiamenti, consigli.
BIOGRAFIA IN BREVE
Carducci, Giosué, il " Vate della Terza Italia ", come fu definito per la sua concezione eroica della poesia e per il prestigio nazionale e ufficiale che gli fu riconosciuto dopo l'unità, esercitò vasta influenza tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 anche per la sua opera di critico e di studioso.

* * 1835 - Giosuè Carducci, nasce a Valdicastello, frazione di Pietrasanta (Versilia) dal medico condotto Michele Carducci e da Ildeganda Celli.
* * 1839 - II padre è trasferito a Bòlgheri (Maremma Pisana), qui Giosuè trascorre l'infanzia: luogo che spesso torna nella sua lirica "dolce paese, onde portai conforme / l'abito fiero e lo sdegnoso canto ". Il padre, carbonaro e mazziniano, la madre, innamorata dell'Alfieri, furono i suoi primi maestri in quell'ambiente in cui visse "Quel tratto della maremma che va da Cecina a San Vincenzo è il cerchio della mia fanciullezza e della mia prima adolescenza. Ivi vissi, o, per meglio dire errai, dal 1848 all'aprile del 1849" (Lettere, Ed. Naz., 21 voll., Bologna 1938- 1960, XI vol., p. 10).
La famiglia Carducci a Bòlgheri rimane fino al 1849, quando si trasferisce prima a Castagneto e poi a Firenze. Qui Giosuè dal 1849 al 1852 studia presso l'istituto degli Scolopi.

1856 - Si laurea nella Scuola Normale di Pisa, andando ad insegnare subito dopo a San Miniato.

Le letture di Foscolo e di Leopardi approfondirono in lui quel culto per le tradizioni e gli ideali classici, che lo indusse a fondare, con altri giovani letterati, la società letteraria degli " Amici pedanti " (1856).

1857 - Appare la sua prima raccolta di versi, intitolata "Rime".

1859 - Sposa Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli: Dante, Bice, Laura e Libertà.

1860 - Terenzio Mamiani, ministro dell'Istruzione, chiamò il poeta a ricoprire la cattedra di letteratura italiana presso l'Università di Bologna.
Nella prolusione pronunciata all'Università bolognese, egli confinava entro i limiti nazionali la sua esigenza di rinnovamento letterario, richiamandosi a una linea poetica che includeva Monti, Botta, Giordani e Colletta, ma escludeva rigorosamente Manzoni.
Seguì un periodo di letture e di scoperte: Michelet, Quinet, Thierry, Blanc, Proudhon gli fecero conoscere le grandi linee di sviluppo ideologico scaturite dalla Rivoluzione francese, Hugo, Shelley, Platen, Heine lo avvicinarono alle correnti della poesia romantica europea.
Dunque ammirazione per il Voltaire e per la rivoluzione francese, e il suo odio al Cristianesimo, che gli pareva incivile e inumano, come quello che ripudiava la vita e la libertà, come quello che da tanti secoli era stato il puntello d'ogni tirannide
.
Accenti di originalità animano le invettive patriottiche del Carducci contro gli aspetti turpi e meschini degli anni risorgimentali. Il" Romantico della classicità ", come fu definito per la posizione, spesso paradossale, di difensore turbolento della tradizione, si distingueva per il piglio vigoroso della polemica giacobina e repubblicana, per l'accesa e tormentata fantasia epica, per le accorate nostalgie di paesaggi storici.
"Molte sono le corde della cetra del Carducci, ma non tutte egualmente sonore ed egualmente sonanti"

A breve distanza l'una dall'altra, una dolorosa parentesi: la morte del fratello Dante, suicida, e del padre. C. fu costretto a provvedere al mantenimento della madre e del giovanissimo fratello Valfredo.
In questo periodo componeva le liriche comprese in "Levia gravia" (1861 - 1871) e in "Giambi ed epodi" (1867 - 1872), cui premise... l'inno "A Satana" (1863)....

""Questa non è certo poesia da santi, ma da peccatori; peccatori che non s'involano ai consorti nelle fitte selve, né le proprie virtù appiattano, ché altri non ne goda o non le tenti; che delle umane allegrie, degli umani conforti, non si vergognano, e delle vie aperte non se ne chiudono nessuna. Non laude, ma inno materiale. Enotrio canta, dimentico delle maledizioni che dà il catechismo al mondo alla carne al demonio. L'ascetismo perde i difensori e le vittime: l'uomo non va gingillando tra le aspirazioni, le inspirazioni, le espiazioni de' mistici... Alle gioie della terra guardavano i riti degli Ariani, poi dai riti semitici o mascherati o scacciati... Alle gioie della terra, ubriacati di paradiso, si tolgono gli anacoreti; ma natura tarpate le ali, meno agile al volo, salta loro addosso. I canti, fuori da quelle celle non empii, coi fiori della poesia vergine, colle gesta dei forti, rifrugano nelle assopite coscienze e le avvampano ... Ora è una tentatrice, un demonio anche la libertà: lo svolgimento delle umane attività, onde ci cresce insieme il pane e il sorriso, la ricchezza e l'onore, non è che Satana"
(Opere, II vol., pag.400)

1870 - Perde la madre e il figlioletto Dante. Periodo di nostalgie, le memorie ("Idillio maremmano", "Nostalgia") della Maremma si fondono con voci sommesse di rimpianto ("Funere mersit acerbo" e "Pianto antico", dedicate alla morte del figlio.
L'amore della vita tocca le corde del poeta; ma risonanze più forti hanno gli accenti di stanchezza, di sconforto, di dolore, di triste rassegnazione o di grande sconsolazione, che sgorgano dalle singhiozzanti strofette.


1877 - A luglio, al primo apparire delle "Odi barbare", il suo classicismo fu ritenuto non tanto un orientamento letterario e un indirizzo culturale quanto visione di vita armonica serena e severa.
Poi anche in la fondazione di Roma, la Vittoria di Brescia, la guerra contro Annibale, il comune del Medioevo, la lotta contro il Barbarossa, le guerre per il Risorgimento e l' Unità, le glorie di Ferrara, del Cadore, del Piemonte, Mentana, le gesta di Garibaldi, Invoca le grandi ombre dell'Alfieri e del Foscolo, ora esaltando il Niccolini che nella gioventù italiana cercava d'infondere gli antichi ardimenti e risuscitare le note virtù, ora tuonando contro i vigliacchi d'Italia, contro il governo, contro il papato politico, contro ogni ingiustizia e tirannide e specialmente esaltando la stirpe italica e cantando vari momenti della storia, della gloria, della passione della patria.
Nel 1870, quando si temeva il ritorno della monarchia a Parigi, il giacobino e filoanarchico poeta, rievoca il 1792 francese, che seppe difendere il suolo patrio e che avviò l'era moderna. Esalta gli uomini più rappresentativi, Danton, Marat, Robespierre, il loro eroismo e giustifica storicamente la ferocia, ne auspica indirettamente nell'invettiva finale la ripresa e la continuazione:
"Vino e ferro vogl'io, come a' begli anni
Alceo chiedea nel cantico immortal:
Il ferro per uccidere i tiranni,
il vin per festeggiarne il funeral..."

(Per il LXXVIII anniversario della proclamazione della Repubblica Francese )


Alberto Mario su "Odi barbare" espresse un giudizio che fu condiviso dal poeta il 2 settembre successivo quando scrisse alla sua amica Carolina Cristofori Piva:
"Ti trascrivo quello che delle Odi barbare scrisse Alberto Mario alla contessa Gozzadini e che la contessa mi mandò trascritto: te lo trascrivo, perché Mario ha proprio colto l'intimo sentimento di quelle poesie: Le Odi barbare sono un capolavoro; sono la prima poesia secondo il mio cuore; sono non solo l'abolizione di tutta la tetraggine medioevale del cristianesimo - inveterata malattia di fegato del mondo civile -, ma il sereno e pieno e soddisfatto possesso della chiave de' suoi secreti e delle sue leggi. E, a cagione di questa chiave, c'è nelle Odi barbare la lietezza greca senza le annesse fisime soprannaturali. E in tale lietezza scientifica vivrà l'umanità nuova."
(Lettere, Ed. Naz., 21 voll., Bologna 1938- 1960, XI vol., p. 180).

Positivo giudizio che fu condiviso da altri studiosi (come lo specialista di studi politici Domenico Zanichelli), e Carducci ne sembrò convinto. Per altri invece fin dal suo inizio ma soprattutto successivamente, egli rappresentò un esempio tipico di poeta professore, di letterato sostanzialmente estraneo al suo tempo. Sul piano politico il poeta mazziniano e garibaldino a parole, fu giudicato un ingenuo cortigiano e un opportunista; sul piano culturale un attardato che andava dietro una problematica scaduta, indifferente o inconsapevole rispetto ai movimenti più recenti e più originali della letteratura e del pensiero europei.

1890 - Dopo aver aderito alla monarchia, viene nominato senatore del Regno.
Carducci in questo periodo, torna al suo ideale classico, e manifesta un'esigenza di perfezione formale che lo ha fatto paragonare ai poeti parnassiani francesi. Ricorre a forme classiche o medievali o adattando le sue ispirazioni a un tipo di orchestrazione verbale che è stata definita "wagneriana ". E' il suo cosiddetto "momento decadentistico". Frequenti incrinature e stanchezze, astrazione e genericità (tutte evidenti nell'ultima raccolta,"Rime e ritmi", 1899) si insinuano in un linguaggio poetico intellettualistico come nelle "Odi barbare". A questa involuzione si accompagna la trasformazione degli ideali politici di Carducci. Pervenuto all'apice della sua fama, il giacobino-filoanarchico si trasforma in vate dei benpensanti. Dopo aver cantato gli eroi repubblicani e democratici sorti dal popolo rivoluzionario, egli s'inchina al fascino - "eterno femminino" - della regina Margherita, che nelle tante feste che offre a corte "....ella si muove e cammina musicalmente con certe pause wagneriane", canta lodi all'invadente "margheritismo", esponendosi a sua volta alle critiche e alle invettive per il conformismo con cui evoca, a breve distanza di tempo -come il "classico" perfetto cortigiano- memorie e glorie di casa Savoia.
Il suo "margheritismo" era nato in parallelo a quel clima diventato già guerresco, o almeno molti erano intenzionati a crearlo, il 29 giugno 1882, quando era stata approvata una legge con la quale non solo si votò una spesa straordinaria, ma, per poter sostenere la politica di potenza italiana, si aumentarono da dieci a dodici i corpi d'armata, da 330 mila a 430 mila i soldati di prima linea e da 150 mila a 200 mila quelli di seconda linea.

GIOSUE' CARDUCCI poteva ritenersi soddisfatto! Cosicchè il "fiero" poeta, d'impronta più decisamente democratica e giacobina- si fece convincere a far visita all'affascinante regina MARGHERITA e fu folgorato dall' "Eterno femminino regale" (il suo più acerrimo nemico lo bollò "di gonne regali umil lecchino"). Gli dedicò una poesia "Alla regina d'Italia", e appunto la prosa "Eterno femminino regale"
(Il titolo l'aveva tolto dalla critica francese, che tradusse dalla frase onde è chiuso il Faust di Goethe "Das Ewigwebliche" in "L'éternel fémminin")
Un titolo per significare che il poeta vide impersonata in Margherita di Savoia l'idealità femminile; ammirò, cioè, in lei tutte le più alte qualità di che può essere adorna, e piuttosto spiritualizzata, la donna.

Da quel momento il poeta occupò un posto sempre più centrale nella struttura ideologica e culturale dell'Italia umbertina, e diventerà un fedelissimo di Crispi. Non estraneo alla "megalomania" crispina- Carducci lo difese a spada tratta, e coltivando il mito di Roma antica e le aquile imperiali, forse fu lui a spingerlo a volerle riportare in terra d'Africa (più tardi la cultura-bellicista imperiale carducciana fu evocata anche dal fascismo).
Alla morte di Oberdan, il 20 dicembre 1882 in quella ventata di nazionalismo e irredentismo che colpì una parte dell'Italia, in un articolo intitolato "XX dicembre" apparso sul "Don Chisciotte" così Carducci "il poeta" già si esprimeva e... incitava:
"L'Italia intanto è debole dentro, debolissima alle frontiere.
Al nod-est l' Impero austro-ungarico dalle Alpi centrali e orientali la stringe alla gola. Al nord-ovest dalle Alpi occidentali la repubblica francese la minaccia alle spalle. Nelle coste è in balia di tutti, Dentro, ella marcisce nel bizantinismo.
Ora non bisogna marcire di più.
Ora bisogna: riforme sociali, per la giustizia; riforme economiche, per la forza:
armi, armi, armi, per la sicurezza.
E armi, non per difendere, ma per offendere.
L'Italia, non si difende che offendendo. Altrimenti sarà invasa".
E nel "Giambi ed Epodi" (sempre nel 1882) aveva già scritto a proposito della plebe:
"Santa canaglia" e "martire":
"...la plebe contadina e cafona muore di fame,
o imbestia di pellagra e di superstizione, o emigra.
Oh menatela almeno a morire di gloria contro i cannoni dell'Austria
o della Francia o del diavolo che vi porti!"

Pochi anni dopo lo accontentarono, immolarono 600.000 "contadini" "cafoni".
C'era in questi appelli una fortissima contraddizione con la linea di governo, perché lo stesso, sulla Gazzetta Ufficiale, condannò duramente le agitazioni nazionaliste e irredentiste, tese ad incrinare i "buoni rapporti d'amicizia con l'Austria".
Ancora nel 1886, in un discorso al popolo al Teatro nuovo di Pisa, Carducci questo declamava:
"...io credo di rendere al re d'Italia il massimo onore, quando io lo veggo in fantasia su l'Alpi Giulie a cavallo, capo del suo popolo, segnare con la spada i naturali confini della più grande nazione latina".


1899 - È colto da un attacco di paralisi, ma continuerà a insegnare all'Università di Bologna fino al 1904.
1906 - Gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura.
1907 - Muore il 16 febbraio, 72 enne a Bologna, nella cui Certosa è sepolto.
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LE OPERE PRINCIPALI

1850/60 - "Juvenilia" , liriche del periodo classicista.
1861/71 - "Levia Gravia" , liriche che si ispirano alla cronaca e alla storia.
1867/82 - "Giambi ed Epòdi" liriche del periodo più fieramente repubblicano.
1861/87 - "Rime nuove" , raccolta dove si trovano le liriche più intime o e più celebri ("Il bove", "San Martino", "Pianto antico", "Davanti a San Guido" ecc.).
1877/89 - "Odi Barbare" , liriche in cui il Carducci cercò di riprodurre il ritmo della poesia greca e latina ("Alle fonti del Clitumno", "Per la morte di Napoleone Eugenio", ecc.).
1888/98 - "Rime e ritmi", raccolta che comprende le grandi odi storiche ("Piemonte", "La chiesa di Polenta", Cadore, Alla città di Ferrara, Jauffrè Rudel ecc.).

Il Carducci è stato anche un ottimo prosatore: ricordiamo i discorsi celebrativi, i saggi critici. "Confessioni e battaglie" e L' "Epistolario". In quest'ultimo -uscito postumo- scopriamo un immagine del Carducci molto diversa da quella celebrata da Mario, o l'autocelebrazione dello stesso Carducci con la sua amica; ne viene fuori un'altra realtà: biografica (gli amori) e quella politica, che seguì appassionatamente e non senza penetrazione, ma era quello un periodo in cui non era facile per nessuno orientarsi. La sua adesione alla monarchia non fu solo opportunismo, ma più semplicemente il poeta anticipò certe decisioni del suo partito. E forse per questo che l'uomo e l'artista centrò in pieno il suo tempo "EPOCA DEL TRASFORMISMO" ed è perciò i più rappresentativi di esso.

(sul "TRASFORMISMO" -
LA LOGICA E LA FUNZIONE all'epoca del CARDUCCI >>>>>

Durante gli ultimi trent'anni dell'Ottocento, Giosuè Carducci fu considerato dagli Italiani il poeta ufficiale della patria, colui che degnamente rappresentava, come cittadino e come artista, gli ideali della nuova Italia. Fu insomma il solo poeta che riuscì, in quegli anni difficili di formazione e assestamento nazionale, a infondere negli Italiani una superiore coscienza civile (Anche se non mancarono feroci polemiche)

Per comprendere quanto di questa coscienza vi fosse bisogno, basta rifarsi un poco a quegli anni tra il 1860 e il 1890: l'unità raggiunta pareva fine a se stessa; l'entusiasmo con cui era stata fatta l'Italia minacciava di scomparire e il malcostume politico corrompeva i primitivi ideali. Occorreva un poeta che fosse anche un lottatore, una sorta di impavido guerriero della penna. Un poeta dalla voce così robusta da risvegliare gli addormentati, trapassando le solide mura dietro cui si rifugiava la malinconica indifferenza di tanti Italiani. Il Carducci fu questo poeta.

E' trascorso quasi un intero secolo dalla sua morte e l'Italia è assai mutata; molta della poesia civile carducciana, quella che voleva essere ed era uno strumento per migliorare la nazione, può oggi sembrarci soltanto un documento storico, ma ciò che della poesia del Carducci ancora oggi si salva è vera poesia, con un suo accento inconfondibile e non pochi momenti di luminosa ispirazione.

LE BATTAGLIE DEL LETTERATO CARDUCCI
L'amor patrio e il rispetto per la libertà e la giustizia Carducci li aveva ereditati dal padre, un medico condotto di carattere ardente e fiero, repubblicano convinto. Il dottor Michele Carducci, proprio a causa delle sue idee politiche, dovette nel 1849 abbandonare la Maremma dove era nato il poeta e trasferirsi a Firenze; qui Giosuè, figlio maggiore, poté studiare regolarmente e con profitto fino a ottenere un posto gratuito alla Scuola Normale di Pisa, da cui uscì laureato in lettere. Aveva vent'anni: era poverissimo, ma colto ed entusiasta.

In quel tempo, insieme a pochi amici che la pensavano come lui (costituirono il gruppo letterario detto degli « Amici pedanti »), il giovane Carducci iniziò la sua battaglia di letterato contro gli imitatori degli stranieri e gli ultimi romantici, prorompendo con estrema convinzione in invettive simili a questa: « Maledetto l'infamissimo secolo in cui nacqui, intedescato, infrancesato, inglesato, biblico, orientalista, tutto fuorché italiano ».
In lotta con quasi tutti i letterati fiorentini, si fece non pochi nemici.

Tristi vicissitudini familiari (il suicidio del fratello Dante, seguito di lì a poco dalla morte del padre) lo costrinsero a provvedere al mantenimento della madre e del giovanissimo fratello Valfredo; a queste responsabilità si aggiunsero quelle della sua nuova famiglia, quando, nel 1859, sposò la cugina Elvira Menicucci.
Intanto (era la primavera del 1859) i suoi amici partivano per i campi di battaglia di Lombardia e lui, legato da imprescindibili doveri familiari, non poteva muoversi; sfogò in liriche patriottiche il suo desiderio di battersi con gli Austriaci. Quelle liriche diedero al giovane e battagliero poeta una certa rinomanza.

IL POETA E MAESTRO CARDUCCI

Giosuè Carducci volle ridare dignità alla poesia italiana, indebolita dagli inconcludenti languori di un decadente romanticismo di imitazione. Fu, la sua, una reazione nettamente classicista e realistica, che andava però assai più in là della polemica letteraria: fu un omaggio entusiasta, sia alla tradizione di Grecia e di Roma sia al Rinascimento italico, che i romantici avevano sottovalutato o dimenticato. Le patetiche divagazioni composte in Italia a imitazione dei poeti stranieri lo irritavano e lo esasperavano, come frutto di fantasie fiacche e malate.
Quanto alla prosa, egli non la volle diversa dalla poesia: schietta, senza ambiguità vigorosa e classicamente solenne. Si puo dire che il linguaggio del Carducci poeta e quello del prosatore abbiano il medesimo intento: educare moralmente attraverso l'arte.
Quando, a soli venticinque anni, il Carducci venne chiamato alla cattedra di letteratura presso l'Università di Bologna, si impose subito all'attenzione degli studenti per la sua passione di educatore e insegnante, per l'acutezza critica e per la profonda conoscenza dei classici.

Repubblicano e anticlericale, il professor Carducci non entusiasmava soltanto gli studenti bolognesi : i suoi atteggiamenti di ribelle, del tutto sinceri, piacevano anche a molta parte della borghesia, che accolse benevolmente i versi esasperati, aggressivi, di "Levia Gravia" e di "Giambi ed Epòdi", nei quali il poeta espresse la propria veemente protesta a un governo e a un'azione politica che gli sembrava avessero rinnegato e dimenticato tutti i più nobili ideali del Risorgimento d'Italia.

LE LIRICHE PIÙ BELLE DEL CARDUCCI
A poco più di trentacinque anni il Carducci era il professore universitario e il poeta più noto in Italia, ma la sua vera stagione poetica non era ancora giunta: le sue liriche colme di invettive peccavano di eccesso di enfasi, risentendo delle polemiche e dei fatti politici da cui erano ispirate; e anche le continue evocazioni storiche e mitologiche nuocevano al calore poetico. Con il passare degli anni il tumulto della passione politica andrà attenuandosi anche nel Carducci e la sua poesia acquisterà un più libero e ampio respiro; le raccolte della terza "Odi Barbare" e di "Rime e ritmi", contengono infatti liriche di profonda e limpida ispirazione.

UMANITA' E GRANDEZZA DEL CARDUCCI
Giosuè Carducci non fu un artista eccezionale: la sua poesia non apportò nulla di nuovo, la sua impostazione letteraria non arrecò mutamenti di pensiero, ma si limitò a favorire il ritorno alle fonti classiche e il rinnovamento delle tradizioni civili del Parini, dell'Alfieri e del Foscolo.
Tuttavia, l'opera carducciana ha una grande importanza, perché documenta e interpreta come abbiamo detto sopra un periodo storico molto difficile.
L'uomo Carducci però non è tutto soltanto qui. Vi è una parte della sua poesia che rivela sentimenti delicati, intimi affetti e sofferenze. È la poesia « più poesia », quella che ci offre del Carducci il lato più vulnerabile e quindi più umano; essa ci rivela un uomo che non pensa sempre e soltanto alla sua civica missione. L'umanità dolente che si riversa in questa parte della poesia carducciana è quella che - una volta conosciuta - non dimenticheremo più. Il Carducci intimo e sommesso di "Pianto antico" è il poeta che resisterà al tempo; né mai potranno cancellarsi - nel tempo - le immagini splendenti del mirabile "Sogno d'estate", in cui l'arte ha per sua materia la luce, e l'anima stessa del poeta.

FINE

la struggente poesia di Giosuè Carducci sull’infanzia perduta

“Davanti San Guido”


I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e – Ben torni ormai –
Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –

– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.

E massime a le piante. – Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ’l lor bianco velo;

E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –

Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Titti – rispondea – ; lasciatem’ ire.
È la Titti come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano! –

– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co ’l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Pieno di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

 


Bibliografia:
DE SANCTIS Storia della Letteratura Italiana, VII vol. Garzanti.
Enciclopedia del Sapere, ed. F.lli Fabbri
Enciclopedia Universo, ed De Agostini

RIFLESSIONI SU GIOSUE' CARDUCCI >>>>
Prof. Giovanni Pellegrino

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