LETTERATURA

ASCENSIONE E UNIVERSALITA' DEL LEOPARDI

EPISTOLARIO INTEGRALE
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intervento Prof. Pellegrino
IL SISTEMA DI PENSIERO DI GIACOMO LEOPARDi >>>

Prof. PAOLO GIUDICI

Nel procedere attraverso la poesia leopardiana, che è breve quanto un rosaio e vasta quanto l'universo, noi ci accorgiamo di salire verso regioni eteree, fatti ognor più leggeri, grazie al distacco dalle umane meschinità, ci accorgiamo di essere tratti sempre più in alto, verso le ultime vette toccale dal Poeta, che naviga, come mistica vela, per mari mai solcati che inebria con un'armonia di versi e di metri mai prima raggiunta, che si veste di forme tutte nuove e libera idee sconosciute a tutta la letteratura, che parla come pochi veggenti hanno parlato mai, e intende e rivela la voce della Natura come pochi nostri l'hanno mai intesa e rivelata.

Da così vertiginosa altezza, il Poeta ha stimolata la morale elevazione del suo popolo, suscitando un infinito affaticare di intelletti sulla sua dottrina e sulla sua arte; immettendo massime e insegnamenti negli innumerevoli lettori, pronti a tramutarli in luce per il loro cammino; comunicando, in misteriosi colloqui, con le anime che lo ricerchino, il divino segreto della pura bellezza e della perfetta poesia.
Chi potrà mai annoverare le ispirazioni che avrà suscitate, le intelligenze schiarite, le personalità formate, le anime pensose e sensibili che avrà avviate per i floridi sentieri dell'arte, la poesia leopardiana, col suo volo ampio e possente, col senso misterioso e avvincente dell'infinito e del vago, con le doti più eccelse che le sono connaturate? Limpida e pulita, superiore ad ogni scuola, impressa dello stigma della universalità, essa influirà in perpetuo sui cuori e le menti degli uomini, come il verso di Dante, come la pittura di Raffaello, come la scultura di Michelangelo, insostituibile elemento di elevazione spirituale.

Sublime interprete dei pensieri più umani, vicino a tutti coloro che soffrono e sperano, il Leopardi, letto e apprezzato come pochi altri, domina sovrano sulle menti e sui cuori.
Conteso dai classicisti e dai romantici, dai positivisti e dai materialisti, ma fuori d'ogni scuola e ad ogni scuola superiore, Egli ha viste, dopo-breve trionfo, cadere, ad una una, le più disparate tendenze, mutare gusti e sistemi, e resta saldo, sul suo piedistallo di gloria; anzi ascende ognora più alto, grazie a un volo che non ha confine né di tempo né di spazio.
La voce del Poeta, ormai diffusa nell'aria, come un'essenza di vita, non ci raggiunge solo dalle sue prose, liriche, ironiche, sarcastiche, sempre elegantissime; non solo dal suo epistolario, singolarissimo, commosso e commovente, non solo dal suo zibaldone, vero archivio di sapienza e di dottrina; non solo dalle Operette, così lucide ed impeccabili; non solo dai suoi Canti, tutti, quale più quale meno ammirabili, tali da imprimersi nella memoria di ogni lettore atto a comprenderli; non solo dalla sua vita, squallida, anche fra gli agi della nobile e patrizia famiglia, sconsolata, non ostante il riso risserenatore dell'arte ; ma anche, di rimbalzo, dalle pagine di altri poeti e pensatori che se ne nutrirono, e ne riecheggiano la voce. Ci raggiunge dalla letteratura, dall'arte e dalla filosofia contemporanea, spesso da lui ispirate e a lui ritornanti, come a una fonte e a un principio generatore. Ci raggiunge e ci commuove.

Il Poeta grandissimo, passato senza onori e senza gloria, senza un solo sorriso d'amore; lo scrittore così casto da parere miracolo, tra il dilagare delle moderne impudicizie, così schivo, sebbene altero e consapevole della sua grandezza, così poco compreso ai suoi tempi, così negletto e perfino deriso, morto precocemente, prima di vedere dalla generalità dei connazionali riconosciuto il suo merito, questo Poeta che sente, che prova, che proclama la nostra comune miseria, è nostro vicino e fratello, non coronato di nimbi, ma semplice e modesto come ognuno di noi.
Che meraviglia, se per piangere il nostro pianto, per sollevarci dal nostro dolore, ci corrono al cuore e alle labbra le sue stesse parole, se balenano alla nostra ragione i suoi stessi ragionamenti? La comunanza di vita, la somiglianza del costume ci avvicinano al Poeta, ce lo rendono compagno di viaggio, e quasi intimo amico.

Non per le vie della meraviglia e della forza giunge al cuore la sua voce, ma con un'armonia di ritmi e di parole che è sinfonia e melodia, e seconda i sensi inesprimibili del Poeta, cullando e carezzando e trascinando cuori e fantasie; grazie a un senso indefinibile e inafferrabile che vibra nel suo canto, tra verso e verso, oltre il significato delle parole, con un destarsi di sogni e di misteri, con un rincorrersi di rime interne, con un ondeggiamento di risonanze, di richiami, di memorie, in grazia dei quali autore e lettore si fondono come una sola persona; giunge al cuore, non come un grido affannato e rumoroso, sebbene come una specie di pianto frenato e sommesso, con un abbandono che invoca soccorso e che reclama la partecipazione e il consenso; giunge al cuore per le vie della bontà che affratella i mortali, soggetti allo stesso destino, e con un comandamento quasi evangelico che impone agli uomini di considerarsi tra loro confederati, di porgersi scambievolmente valido aiuto nelle angosce della guerra comune, così che si ricomponga la social catena, si stringano i vincoli della umana famiglia, e la governino in perpetuo, nella serenità della pace, nella corrispondenza degli animi, giustizia e umanità. ( GIOVANNI CROCIONI - Presentando i "Canti " di Giacomo Leopardi . Cappelli Editori )

Leopardi si spense a Napoli il 14 giugno 1837, a 39 anni, mentre in città infuriava il colera. Era vissuto negli ultimi quattro anni in gravi angustie economiche e in condizioni di salute sempre più precarie.
L'ultima sua composizione è "La Ginestra" (uscita postuma) ed è l'ultima grandiosa epopea di una lotta implacabile del Poeta contro il suo implacabile nemico, la Natura, sempre più convinto che avesse scatenato una guerra contro di lui. Una visione immensa della tragica serie di sforzi vani contro l'occulto potere distruttore, fino a sentirsi schiacciato.

Prima, durante e anche nei primi decenni dopo la morte, la grandezza di Leopardi fu generalmente misconosciuta. Ranieri ereditò i 4526 fogli autografi del Poeta, poi alla sua morte avvenuta cinquant'anni dopo, dopo averli gelosamente custoditi, morendo li lasciò in eredità alle sue due donne di servizio, e con molta fatica furono recuperati dallo Stato Italiano.
A quei tempi, pochissimi aderirono alla sua visione della vita e intesero la sua poesia, e capirono le sue meditazioni. Anche i fedelissimi, come Giordano, Gioberti, Tenca e tanti altri e lo stesso FRANCESCO DE SANCTIS, lo ammiravano come altezza poetica ma rimasero sempre molto freddi davanti al suo materialismo e pessimismo.
Premesso questo, l'analisi di De Sanctis su Leopardi resta tuttavia una delle migliori in assoluto
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Ed anche la recente pubblicazione dello "Zibaldone" come mai finora accaduto,
hanno promosso il solitario poeta recanatese a profeta dell'Italia laica.
"Forse una generosa sopravvalutazione, se situiamo le meditazioni leopardiane in un orizzonte europeo. Esso non ci impedisce tuttavia di cogliere, come già Nietzsche, l'altissima lezione della sua prosa, che ci ha offerto un modello probabilmente senza confronti, anche di fronte ai migliori esiti manzoniani"... "Il fascino dello Zibaldone, nel quale il lettore troverà pagine filosofiche e filologiche, più raramente poetiche, è legato alla possibilità di penetrare nell'officina del nostro massimo lirico moderno" (Franco Brevini, alla recensione della monumentale opera curata da Giuseppe Pacella, edita dalla Garzanti, 1991)
.
Uno dei pochi che entrò a vedere questa "officina" fu proprio il De Sanctis.


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Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani"
e "Storia della letteratura italiana"

* CRITICA ESTETICA E CRITICA STORICA
* L'EDUCAZIONE LETTERARIA DEL LEOPARDI E LA CANZONE ALL'ITALIA

CRITICA ESTETICA E CRITICA STORICA

Per fare una critica del Leopardi, bisogna uscire dal sistema ordinario e cercare, innanzitutto, e porre innanzi ad essa, una base di fatto. La critica, che opera con la sola intelligenza e non tiene conto di questa base, é una critica a priori; e in gran parte tale è la critica fatta sinora intorno a Leopardi.
Cos'è questa critica? Pigliate una poesia e non dite chi é l'autore, e non il tempo in cui apparve: la poesia si presenta da sé. Senza sapere se sia di Leopardi, se sia del secolo XVIII o del XIX, voi potete applicarvi certi criteri artistici, che vi sono suggeriti dall'intelligeenza. Quelli che credono in Aristotele ed in Orazio la giudicano con Aristotele e con Orazio; quelli che hanno imparato l'estetica di Hegel, applicano l'estetica di Hegel. Questa chiamo critica a priori, il lavoro considerato indipendente dallo spazio e dal tempo.
Io, per esempio, ho scritto un saggio sulla canzone di Giacomo Leopardi Alla sua donna, e quel saggio, quantunque pubblicato durante la mia emigrazione, non era che una reminiscenza di lezioni fatte nella mia scuola antica, prima del 1848. In quella scuola s'era dato bando alla retorica, si era divenuti familiari con le critiche e con le estetiche allora in voga, col Villemain, col Cousin, con l'Hegel stesso, perché insegnai Hegel due anni. E' naturale che il maestro non abbia applicato a quella canzone tutti quei criteri estetici.

Siffatta critica può anche stare, ed essere vera se, soprattutto, il lavoro dell'intelligenza é accompagnato da squisitezza di gusto e di sentimento. Se siete un uomo di gusto e anche di giusti criteri di arte, potete farla, la critica a priori; ma é sempre critica insufficiente, che non tiene conto di certi elementi vivi anche dell'arte e che danno la fisionomia al lavoro. Quando con l'intelligenza si applicano dei caratteri poetici ad un lavoro, essi li abbiamo nelle loro generalità, come Ii dà la scienza, ma non li vediamo emergere dal cervello dell'autore, dal suo stato psicologico, dalle condizioni del suo tempo, che pur danno a quei caratteri vita e realtà.

Se vogliamo spiegare una macchina a vapore, possiamo farlo senza sapere l'inventore né il tempo in cui fu inventata. È una produzione puramente meccanica, su cui non rimangono stampati i segni del cervello che l'ha inventata.
Ma la poesia? La poesia é una produzione organica, é la figlia del mio cervello, e in essa sono stampati i segni visibili paterni. Quei segni non si ordinano, come soldati, sotto un duce supremo: ma i caratteri da generalità diventano individui, e vi dànno il lavoro animato, vi dànno la vita.

Questo é tanto importante che una base di fatto si è voluta imporre anche all'arte. Una volta i poeti non avevano bisogno di studiare il fatto, creavano di fantasia: Alfieri faceva il Filippo senza studiare la Spagna, Voltaire il Maometto senza conoscere l'Arabia. Che sono Filippo e Maometto? Personaggi fantastici, dove c'é una parte di verità: c'é il poeta e il tempo in cui uscivano. Ma non é la verità propria di quei personaggi, che sono qualcosa di distinto dal poeta e dal suo tempo.

Manzoni, primo in Italia, cercò dare all'arte anche una base di fatto, e, prima di concepire Carlo Magno, faceva studi profondi sui tempi di Carlo Magno, e, prima di concepire i Promessi Sposi, faceva studi storici abbastanza importanti su quel tempo al quale il romanzo si riferisce.
Una base di fatto, per l'arte, è utile, è necessaria. E utile, perché l'autore, immergendosi in quei fatti, si spersonalizza, diviene obiettivo, attinge la sua ispirazione nel mondo estraneo a sè. Ma non è necessaria.

Che importa se Carlo Magno, come l'ha concepito Manzoni, non è il Carlo Magno del Medioevo? Che importa che l'Ermengarda non é proprio quella principessa del Medioevo su cui si studiò tanto? E' l'arte, e a noi basta, e non domandiamo altro.
Ma se al poeta non é necessaria la base del fatto, per il critico é indispensabile, è condizione sine qua non. Capisco che un critico possa creare un Leopardi di fantasia; e si può in questo caso lodare il suo talento artistico, ma egli non adempie alla sua missione di critico. Perché la critica non crea, ricrea; deve riprodurre, e se la riproduzione é infedele, anche bellissima, lode a lui come artista, biasimo a lui come critico. La sua produzione é bella, ma non é vera. È una costruzione arbitraria, come avviene spesso quando si lavora con la sola intelligenza.

L'intelligenza, quando lavora, é tirata da due istinti fatali che trascinano i più eminenti; anzi i più grandi sono quelli che vi sono più sottoposti. Chi lavora con la intelligenza, pensa, anzitutto, a trovare l'unità, va in cerca d'un concetto unico che gli spieghi tutto quel mondo poetico, fa come i metafisici che non possono spiegarsi l'universo se non cercano un p r i m o , che sia presente in tutte le parti. E poi, una volta che credono averlo trovato, non sono più liberi, sottostanno all'altra legge fatale, perché, essendo l'intelligenza solamente logica, trova l' u n o , non possono far altro che da quello derivare logicamente il resto; e all'ordine cronologico naturale sostituiscono l'ordine logico, il nuovo secondo cui quell' u n o si va svolgendo nel loro pensiero. Questa é la critica a priori: unità di concetto che non tiene conto della differenza, un ordine logico che non tiene conto della realtà.

Ad esempio citerò lo stesso Giacomo Leopardi, che, quando aveva trentasei anni e non creava più, ma esaminava quel che aveva creato; quando quel mondo che gli si era successivamente formato con le vicissitudini della realtà, l'ebbe innanzi tutto intero e poté esaminarlo, la sua intelligenza non poté sottrarsi alle due leggi fatali. Come Tasso, fatta la Gerusalemme, credè di trovarvi l'allegoria cui non aveva mai pensato, e spiegò quelle avventure con certi criteri morali; Leopardi, esaminando il suo mondo come un tutto già formato, credé di avervi trovato un concetto unico che gli spiegasse tutto, e che, chi consideri la sua vita, non sempre gli era stato innanzi. E poi, altra fatalità, lo spiega con l'ordine logico, e lui come meglio di tutti sapeva il tempo in cui compose le sue poesie, travolse l'ordine e ne scelse un altro, derivato da quel concetto.
Pensai questo, quando vidi l'edizione napoletana dei suoi Canti, pubblicata da Antonio Starita, che aveva ordine diverso dalle altre.

Questo nuovo ordine fu l'intendimento dell'autore, ed é rimasto inviolabile. E che vi trovate? Per esempio, il Primo amore é collocato al decimo posto, una poesia ch'egli aveva composta nel 1817, a diciannove anni, prima della canzone All'Italia con cui s'apre il libro. Seguono quattro o cinque poesie, il Passero solitario, l'Infinito, Alla luna, che sappiamo composte prima della canzone Ad Angelo Mai.

Il motivo di quest'ordine logico, a cui lo stesso Leopardi ha voluto sottoporre le sue poesie, é che il concetto unico delle sue opere sarebbe - e quel che dice Ranieri, é quel che pensava Leopardi - il MISTERO DEL DOLORE . Tutto vien sottoposto a questo concetto. Voleva spiegare cosa é il dolore, e se studiò greco e latino fu per trovare questa spiegazione, e se compose la canzone All'Italia fu anche per trovare la spiegazione del dolore. Così questo diventa un concetto predeterminato nella mente di Leopardi.

E vedete come lavora fatalmente l' intelligenza! Ne esce l'ordine logico. Il dolore si può manifestare nel mondo intellettuale estrinseco, nel mondo intellettuale intrinseco e nel mondo materiale; e Leopardi, sin da principio, ebbe quest'ordine in mente e prima cantò il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, poi nell'intellettuale intrinseco, e poi nel materiale. Alla prima categoria, quindi, appartengono i primi otto canti, che cantano il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, la caduta dell'Italia e della libertà. Alla seconda gli altri venti canti, che rappresentano il dolore nel mondo intellettuale intrinseco, la caduta delle illusioni pubbliche e private. Gli altri appartengono alla terza categoria, a quella del mondo materiale, che cantano la necessità, il fato, la morte. -- Ma questa é costruzione artificiale, concetto generale distribuito in varie parti, e i Canti costretti a servire a quel concetto. È un esempio abbastanza autorevole delle conseguenze della critica a priori.

Bisogna cominciare con una base di fatto. E intendo per base non la cognizione di alcuni fatti o d'una congerie di fatti, che non mancano a nessuno che si occupi di Leopardi, ma un risultato di fatto, lo stato reale psicologico dell'autore, come venne formato dai suoi tempi, dalla famiglia, dalle circostanze della sua vita, dal suo ingegno, dal suo carattere. E se il critico non comincia dal possedere quel risultato, corre rischio di fare un edificio campato in aria, sì che un fatto nuovo che si scopra basta a farlo crollare tutto intero.
Ho citato me stesso quando parlavo della critica a priori.

Permettete aggiunga che, quando fui in età più matura e, abbandonate le imitazioni estetiche e critiche, cominciai a lavorare col mio cervello, fui primo tra i primi a dare esempio di questa critica nel saggio sulla Prima canzone di Leopardi. Lì credei dover rifare tutta la vita di Leopardi sino al tempo che scrisse quella canzone, non minutamente raccontando, ma ponendo i risultati; e quando presi ad interrogare la canzone, mi trovai con la base messa al mio edificio; e se quei fatti non rimasero indifferenti alla canzone, se ebbero influenza sul carattere e sulla forma di essa e la determinarono, se essa é uscita da quell'esame forse alquanto impicciolita rispetto all'alto concetto che se ne aveva, la colpa non é mia, che andavo rintracciando Leopardi qual'era, non quale l'hanno fantasticato.

Persevererò ora. Ed a cagion d'onore voglio nominare un valente giovane che si è messo in questa via, Bonaventura Zumbini, che primo ebbi l'onore di presentare all'Italia come giovane di grande aspettative, il quale ha consacrato tutti i suoi studi a Leopardi, e non è venuto meno all'aspettativa, nel lavoro sui Paralipomeni: giudizio severo, ma acuto e giusto.
I materiali abbondano. Abbiamo tre ponti di cui servirci a costruire la base di fatto. Innanzi tutto, un articolo molto importante, scritto nel 1840 dal celebre Saint-Beuve e pubblicato nella Revue des deux monde. Quell'articolo rimane, perché, se l'edificío innalzato dal Sainte-Beuve è manchevole e mediocre, la base è incrollabile, avendo egli avuta la ventura di procurarsi le più esatte informazioni sulla vita e le opere di Leopardi. - Seconda fonte sono gli scritti giovanili di Giacomo, pubblicati da P. Pellegrini con prefazione di P. Giordani, il quale, come si sa, fu il gran trombettiere di Leopardi. Terza fonte preziosissima di materiali, e bisogna ringraziarne Prospero Viani e Pietro Pellegrini, è l'Epistolario dove lo scrittore é colto nei più intimi segreti della sua anima, dove talvolta è sorpreso anche in veste da camera, anche nelle debolezze e nelle negligenze proprie dell'uomo.

Sono questi i materiali, di cui intendo servirmi, specialmente l'Epistolario. So che questo libro produsse cattiva impressione in molti: essi si eran formati, con quella tale critica a priori, ciò che Ranieri dice un «ideale di Leopardi». In un momento d'ira generosa, Ranieri disse: «Voi mi avete ucciso il mio ideale!». Sventuratamente, la storia é la grande omicida degli ideali. Quando in Germania, esaminando le poesie di Leopardi, si era formato un concetto interessante per lo scrittore e per l'uomo, sopraggiunse l'Epistolario, e fu una spiacevole sorpresa. E finirono col dire che quel mirabile mondo leopardiano fosse non altro che il piccolo effetto della fame, della malattia e della vanità dell'autore.

Prima di porre fine a questa che chiamo introduzione al mio studio su Leopardi, toccherò un altro punto d'investigazione.
Chi vuol fare una critica, non solo deve avere una base di fatto, ma conoscere anche quella che si dice la «letteratura di uno scrittore».
In Germania si dice « letteratura dantesca », « letteratura di Goethe », e intendono la raccolta di tutte le opinioni intorno a questi scrittori. Nessuno, in Germania, si mette a trattare una materia senza la piena cognizione di tutto quello che si é scritto e pensato sulla materia; altrimenti i lavori sarebbero sempre un tornare da capo, il mondo starebbe sempre ad Adamo. Un lavoro é la elaborazione della materia, a pigliarla dal punto fino al quale era stata elaborata prima.
Intorno a questo c'é un lavoro molto esatto del nostro amico B. Zumbini, di cui ho parlato. Egli ha raccolto le opinioni de' tedeschi e de' francesi su Leopardi, e con un po' d'ironia soverchia, ma scusabile con la baldanza giovanile che si compiace di trovare in fallo i più grandi, ha mostrato tutto ciò che di arbitrario e di insufficiente si é detto in Germania intorno al nostro autore. Io mi contenterò di notare i risultati di questa «letteratura leopardiana».

Comincio dal suo gran trombettiere, Pietro Giordani, che, grande e già provetto, conobbe Leopardi a diciannove anni, ed entrò con lui in corrispondenza. Rimase impressionato dalla grandezza di lui, e ne scrisse due volte: in una prefazione alle operette morali e, dopo la morte di lui, in una prefazione agli scritti giovanili. Leopardi, per Pietro Giordani, é mirabile monstrum: sommo filologo, sommo filosofo e sommo poeta. Rispetto al filologo, il Giordani si contenta rimettersene ai giudizi degli stranieri, eppure era tenuto grandissimo filologo. I suoi ammiratori molto si adoperarono a dimostrare la sua perizia nel greco e nel latino, e che commentava con acutezza e correggeva i testi, e correggeva anche le opinioni degli scrittori. Parlano di Creuzer, che, in un lavoro importante, fece tesoro di molte osservazioni filologiche e critiche di Leopardi. Certo, dottissimi filologi tedeschi lo avevano caro, ammiravano quei miracolosi lavori per così giovane età: ma per essi chi era Leopardi? Un giovane di grande aspettative; e se Leopardi avesse potuto nella biblioteca paterna trovare tutti i libri di filologia usciti in Germania, e non soltanto gli antichi scrittori, ma anche il mondo moderno, certo aveva attitudine, pazienza e acume a diventare sommo filologo. Quelle sono le promesse di un giovane di grande ingegno.

E mi spiego la condotta del De Sinner, che gl'italiani biasimarono con troppa fretta. Egli ebbe in deposito dei manoscritti di Leopardi, ma ne pubblicò appena un sunto, e quando Pietro Giordani pubblicò gli Studi giovanili e gli chiese copia di quei manoscritti, il De Sinner non volle. Parecchi dissero: - È per invidia, per appropriarsi i lavori di Leopardi -: giudizio temerario, che dobbiamo biasimare. De Sinner non volle e disse: - Non capisco la vostra premura; avete un grande scrittore italiano in Leopardi, e volete farne uno scolaro di filologia.
Leopardi era uomo dottissimo, pochi hanno conosciuto tante cose antiche come lui. Era, come Dante, l'uomo più dotto de' suoi tempi. Peritissimo nel greco, nel latino, nell'italiano, conosceva anche l'ebraico, l'inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo. E non solo conosceva il greco, il latino, l'italiano nella loro parte morale, ma ne aveva il gusto, e se li aveva assimilati. Potete considerare un gran dotto, un letterato eminente e pieno di gusto; ma fin qui e non oltre. Secondo che la filologia si va più svolgendo e piglia aspetto più scientifico, scema la sua fama di filologo.

Viene il sommo filosofo. Che é la filosofia di Leopardi ? Nessun indizio é in lui di scienza puramente speculativa, di quel che fa, per esempio, un metafisico. Tratta un campo assai ristretto della filosofia, la psicologia; ma la tratta non da filosofo, da artista. Non scrive trattati su la scienza, é un acuto e fine osservatore de' più riposti misteri del cuore umano, un pittore psicologico più che un filosofo. Non fa trattati, fa ritratti; e tale lo vediamo nei Pensieri e nei Dialoghi, sì che diciamo che quel che divino è in lui, é l'arte.
Di Michelangelo fu detto che aveva tre anime : pittore, scultore, poeta; e in verità in lui il poeta serve ad
illustrare lo scultore e il pittore. Così puó dirsi che tre anime ha Leopardi; ma il filosofo ed il filologo serviranno solo ad illustrare e a meglio fare apprezzare quella che fu sola e vera grandezza di Leopardi: l'artista.


L'EDUCAZIONE LETTERARIA DEL LEOPARDI
E LA CANZONE ALL'ITALIA


La canzone All'Italia é tra le più importanti, e non già come prima rivelazione di quell'ingegno terribile, o come lavoro stupendo di un giovane a venti anni, o per il suo lampeggiare e folgorare, o per lo sdegno pietoso e per la gravità e altezza e splendore, e non so quali altre frasi, così sonore come vane. La sua importanza é in questo, che è tutto impregnato di studi classici e di reminiscenze e d'imitazioni, ma é pur quella che segna il momento in cui il Leopardi esce dalla vita scolare, e cerca se stesso e non si trova, ma mostra così potenti facoltà e così disciplinate, da far presumere che egli troverà fra breve se stesso. In effetti, di là a due anni esce alla luce la canzone Ad Angelo Mai, dove appaiono già i primi lineamenti di un mondo nuovo, appena abbozzato, non ancora rappresentato, ma già suo. Qui il Leopardi comincia propriamente a trovare se stesso, il suo mondo, e la sua forma e la sua maniera; e la storia delle sue poesie non é altro che la storia di quel mondo, come si svolge e si atteggia nella sua fantasia.

Che cosa era dunque a lui l'universo, quando scriveva la Canzone All'Italia, o l'altra per il Monumento di Dante, le due sorelle nate ad un parto, e similissime di fìsionomia? Era il mondo dei suoi studi giovanili, la classica antichità, il mondo di Simonide e Omero e Virgilio. E perciò, se vogliamo spiegarci i difetti e i pregi di questa prima Canzone, é là, in quei primi studi, che bisogna cercar la via.
In Italia non é raro il caso di giovani che si formano da sé e compiono in poco tempo studi meravigliosi. Ricordo Acri, non so oggi cosa divenuto ma che in un concorso fece stupire e suoi giudici per la varietà e la profondità delle sue conoscenze. Zumbini a Cosenza, Bivio a Trani, Rapisardi a Catania sono ingegni solitari, come fu il Galluppi a Tropea, cresciute fuori del commercio dei dotti e fuori delle scuole. Non si può dire quali miracoli si possano attendere da un uomo di qualche ingegno, che si chiuda volontariamente in qualche biblioteca e studi senza distrazione alcuna.

Cosa poteva essere la biblioteca di casa Leopardi, si può indovinarlo, era forse come vedere le nostre biblioteche pubbliche: grammatiche e dizionari e glose e commenti e storie e orazioni e dissertazioni, sparsi e infiniti materiale di erudizione greca, ebraica, latina, medievale, sacra e profana, civiltà e barbarie, secoli aurei e ferrei, cose originali e imitazioni, sommi e mediocri, tutto mescolato.


la casa di Leopardi Recanati all'epoca


la sua biblioteca

Vi si gettò il giovanetto con ardente curiosità, e pose il naso in tutto, e di tutto volle far bottino, anche delle cose più futili; senza scelta o disegno, come portava il caso o il desiderio.
Così lo troviamo a sedici anni seppellito nei templi della bassa latinità, fra Alessandrini e Santi Padri, tutto dietro a Plotino, a Porfirio, a Dione Crisostomo, a raccoglier frammenti, confrontare testi, emendare, illustrare. Segregato dal mondo moderno e da ogni società, la sala paterna fu a lui come una Pompei, in cui si chiuse volontario a scavare, dove e come poteva, e della quale divenne in breve cittadino.

Così in pieno secolo decimonono Leopardi aveva tutte le impressioni e gli entusiasmi e le inclinazioni di un erudito del decemosesto secolo, e scriveva greco e latino, interpretava testi, correggeva, dissertava, investigava, traduceva, imitava. Con un travaglio così concentrato e violento, con così svariate esercitazioni, ciascun mese che passa è un anno, e non è meraviglia che tu lo veda rifiutare lavori suoi di due mese addietro, e giudicare così giovane di Omero, di Esiodo, di Anacreonte, con una finezza di gusto che ricorda Poliziano.

La sua mente è tutta piena di commentari, versioni, frammenti, inni, idilli, canzoni, elegie, odi, poemetti,
discorsi. Aggiungi gli studi dei nostri classici e della nostra lingua condotti con pari vigore.
Non tardò molto a comparire il frutto di studi così ostinati. A sedici anni emendava il testo greco e latino del Commentario di Porfirio della vita di Plotino, e il padre scriveva sul manoscritto: "oggi 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni 16, mesi due, giorni due". Seguivano Commentari della vita e degli scritti di alcuni retori, vissuti nel secondo secolo dopo Cristo e sullo scorcio del primo, ed una Collezione di frammenti di cinquanta Padri greci del secondo secolo.

L'anno seguente, insieme con questo ardore di emendazioni e d'investigazioni, si sveglia nel giovane la virtù assimilativa, la prima forma sotto la quale si manifesta la produzione giovanile. Prima traduce, poi imita, desideroso di far suo tutto ciò che desta nel suo spirito gagliarda impressione. Le versioni degli idilli di Mosco, della Batracomiomachia, del primo canto dell'Odissea e poi nell'anno seguente della Torta, della Titanomachia di Esiodo, del libro secondo della Eneide, rivelano già molta padronanza della lingua, grande abilità nella fattura del verso ed un gusto severo ed assai esercitato.

Tradurre è già imitare, ritrarre vicino l'originale e tenervisi stretto; e tutta l' inmpegno del nostro giovane traduttore è in questo, che la sua versione sia una immagine possibilmente esatta non del pensiero, ma dello stile del suo autore: ond'è che si mostra scontento del Davanzati, e non riconosce Virgilio nella versione del Caro: audacia di giudicare fra tanta superstizione classica e che levò scandalo fra i puristi, e indusse il buon Giordani a scusare e chiarire la temeraria sentenza. Questa tendenza tutta obiettiva, che sforzava Giacomo a trasferirsi nell'autore e dimenticare in quello se stesso, lo rese così potente all'imitazione, che fu creduto versione dal greco il suo Inno a Nettuno, e di Anacreonte le due sue greche anacreontiche, e di un trecentista il suo Martirio de' Santi Padri.

Fra queste versioni e imitazioni e contraffazioni e discorsi critici e ragguagli di testi proseguì il Leopardi sino ai venti anni. Tentativi di lavori originali non erano mancati, ma erano rimasti semplici velleità, senza effetto serio. Notevole è un'elegia o lamento amoroso, di cui un frammento leggesi nei suoi Canti, e dove l'imitazione del Petrarca é visibile. Tra le sue carte furono trovati alcuni abbozzi o disegni d'Inni sacri, al Redentore, agli Apostoli, ai Solitari, a Maria.
Il suo Saggio Sugli errori popolari degli antichi, composto a diciassette anni, si conclude con una commovente apostrofo alla Religione, dove si rivela in una prosa ricca e figurata tutta l'ingenuità e l'ardore della fede avita, ancora intatta. Ma niente venne a maturità, e a venti anni ciò che c'era di più chiaro davanti al suo spirito, fu Pompei, voglio dire il mondo antico, che all'anima giovinetta aveva dato la sua coscienza, il suo sentire, il suo pensiero, la sua immagine: il mondo moderno, la società che si muoveva intorno a lui, era rimasta fuori del suo spirito; egli medesimo era rimasto fuori di se medesimo, e non si era ancora ripiegato in sé, né si era posto le formidabili questíoni: chi sono? onde vengo? ove vado? Il mondo antico aveva uno splendore di gloria e di sapienza e di potenza, che egli rendeva col paragone più acerba la miseria dei tempi suoi e lo tirava a sé con forza soave.

Due immagini erano ben chiare innanzi a lui : la grandezza antica e la piccolezza presente: e quindi un dispregiatore sovrano del secolo, il suo studio era di creare in sé la coscienza e il pensiero e le forme antiche. Non acquistata ancora coscienza di sé, tutto in tradurre, imitare e contraffare, egli é schiavo del suo idolo, ma volontario, e si pavoneggia della servitù, e fa pompa delle catene, come ornamenti della persona, e pone il suo vanto di rassomigliare a quello così puntualmente, che altri dica: é di esso. La qual cura di parere altri e non sé lo punge in modo, che talora smarrisce ogni iniziativa, ogni vigore, quasi tema di mescolare di sé in alcuna cosa l'originale, e turbare la purità dei suoi lineamenti come si vede nell'ultimo suo lavoro, che é la versione troppo fedele e perciò infedelissima del libro secondo dell'Eneide.

Con questi propositi e con questi studi Giacomo Leopardi mette mano per la prima volta ad una sua poesia , e pubblica in Roma la Canzone all'Italia. Ci trovi messe a fronte le due idee, che sono come la conclusione a cui é giunto finora il suo spirito, la grandezza antica e la piccolezza moderna, l'Italia moribonda e disperata di ogni salute, e la Grecia nel pieno rigoglio della vita. Le quali due idee sono espresse in due fatti, posti l'uno dirimpetto all'altro; da una parte gl'Italiani che combattono in estranee contrade, e non per la patria, ma per altra gente, e dall'altra i trecento Greci alle Tremolii che per la patria combattono e muoiono. Precedono due strofe, quasi un funebre preludio, dove si lamenta la perduta grandezza d'Italia.

Il concetto é così semplice, e sotto un apparente disordine di animo concitato così ben disposto, che la canzone appena letta ti sta chiara e tutta innanzi alla mente. E se ti ci addentri, ci troverai un alto pathos, un senso altamente tragico. L'Italia é caduta tanto miserabilmente, che il poeta, giunto alla metà del canto, se ne dimentica, e non ci pensa più, e vive in Grecia e rimane in Grecia, di modo che l'Italia pare una semplice occasione e quasi una introduzione all'inno di Simonide, e Pietro Giordani poté con qualche ragione
intitolare la poesia Canzone di Simonide. È appena chiusa la terza strofa, e già l'immaginazione non può durare in quello strazio e in quella vergogna, e cerca scampo nella contemplazione delle antiche età.
O venturose e care e benedette
L'antiche età !

E va avanti in questo argomento, e dell'Italia non é più motto. Vuol parlare d'Italia, comincia a parlarne, e tutt'a un tratto torce il viso da lei, quasi lo prenda disdegno o disgusto, e canta la Grecia. Maggior tragedia. E se di questo concetto avesse avuto il Leopardi una chiara coscienza ed un vivo sentimento, se in tanta caduta di un popolo avesse gettato uno sguardo profondo, ed avesse rappresentata la patria sua con quella ricchezza di contenuto che rende immortale l'Italia del Petrarca, avrebbe scritto cosa memorabile fra tante arcadiche poesie patriottiche.

Ma egli era ancora più erudito e letterato che poeta e patriota, ed entra nell'argomento, portandosi dietro tutto il bagaglio delle sue reminiscenze e forme e abitudini classiche. Nel suo repertorio trovi tutti i motivi comuni della vita giovanile nelle scuole; l'Italia già donna, ora ancella, e la sua gloria passata e la presente abiezione, e i miracoli dell'antico patriottismo, e il fatto delle Termopoli, materia ampia di descrizioni e imitazioni letterarie. L'Italia é per il nostro Giacomo un soggetto vago, e con un contenuto assai povero e affatto comune, dato e ammesso senza esame, anziché cercato con tenace e commossa meditazione. Indi nasce che la forma vi rimane estrinseca come splendido abbigliamento, e non come il pensiero esso medesimo che si dispiega naturalmente.

Non essendo niente d'intimo in questa concezione, nessuna profondità di pensiero e di sentimento, l'anima é tutta al di fuori intorno all'abbigliamento, e pensiero e sentimento svaniscono in figure retoriche. C'é Monti, c'é Folicaja, non c'é ancora Leopardi. Abbondano le ripetizioni, le descrizioni, le pitture e le esclamazioni e le interrogazioni: c'é giovanile e superficiale espansione.

Appunto perché la sua Italia é piuttosto un luogo comune, che una verace persona poetica pur mo' nata, ha tutta la ricchezza e l'affettazione di una vita apparente. Al Petrarca bastò il dire
.... Piaghe mortali,
Che nel bel corpo tuo sì spesso veggio.

E contento a questa semplice indicazione, va innanzi, tirato dalla gravità e dall'importanza delle cose che gli
si affacciano. Ma il Leopardi, appunto perché il di dentro é vuoto, sta tutto al di fuori, e non resta che l'Italia non sia divenuta una statua perfetta....

Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Ohimè, quante ferite,
Che lividor, che sangue ! oh qual ti veggio,
Formosissima donna ! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite, dite:
Chi la ridusse a tale ? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.


Qui si vede il giovane tutto intento a formare una statua, non fantastica, come pur si dovrebbe; ma reale e compita, con gli ultimi tocchi e le ultime carezze, che raddolciscano l'impressione di quelle ferite e di quelle catene.
Succede uno scoppio di affetti e di sentimenti rapidissimi accavallantisi gli uni sugli altri come onde furiose, e spinti fino a quel sublime obblio, che é così vicino al comico.

.... L'armi, qua l'armi ! io solo
Combatterò ; procomberò (soccomberò Ndr) sol io.


Ora tutto questo é un gioco bellissimo di frasi, di movenze, di attitudini, di figure, un gioco che chiamerei retorico, se non vi si sentisse dentro la sincerità di un ardore e di un impeto giovanile, e se tanta pompa e tanta agitazione nel vuoto non fosse qua e là accompagnata con una squisita semplicità, venutagli dalla sua familiarità con la poesia greca. Porto ad esempio questi versi

-Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Chè fosti donna, or sei povera ancella.


E che grazia é in quei due ultimi versetti:

Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange !


Non c'è ancora il leone, ma si vedono le unghie.
Sopraggiunge un vero colpo di scena. È una visione fantastica d'armi e d'armati, come tra nebbia lampi.
E il poeta dice all'Italia: e non ti conforti? Guarda: sono i tuoi figli che combattono. Ma subito esclama: o Numi, o Numi,

Pugnan per altra terra itali acciari !

E' l'inno di gioia si converte in un lamento elegiaco sulla tomba del prode, che non può dire morendo:

Alma terra natia,
La vita che mi desti, ecco, ti rendo !

Ora questi trapassi, queste finzioni retoriche, queste supposizioni smentite immediatamente, questi movimenti drammatici non generati dal distendersi naturale dell'argomento, ma venuti di fuori e con visibile artificio, questi pensieri e sentimenti vaganti nella loro generalità, senza niente d'intimo e di personale, ci rivelano quale impressione dovette fare sull'animo del giovane Leopardi la fresca lettura delle poesie di Vincenzo Monti, al quale intitolava la sua Canzone.

Nondimeno fra tanta retorica é pure in questa terza strofa una semplicità e rapidità di espressione ed un calore naturale che di rado senti in Vincenzo Monti. Perché del Monti il calore é sempre e tutto in immaginazione e eguale in tutti gli argomenti, come fosse cosa meccanica; dove nel Leopardi il calore é sincero, e viene dalla fede che ha ne' suoi pensieri, e dalla viva impressione che ne riceve, ingagliardita dal fuoco di gioventù.

Se qualche raggio di vita e di sentimento moderno penetrava in quella sala paterna, divenuta il suo mondo, gli veniva dalla consuetudine familiare. La sua casa era tutt'altro che giacobina, e il padre professava un sacro orrore di tutto ciò che poteva parere rivoluzionario. Vive esser dovevano ancora in quella famiglia le impressioni dei guasti e delle prede e degli oltraggi e della superbia straniera. E gli stranieri e gli empii erano i Francesi, tenuti nemici della patria e della religione.

Quando Leopardi pubblicava a Roma le due Canzoni, era il 1818. La Francia era abbattuta, la Santa Alleanza vincitrice divideva le spoglie e Vincenzo Monti, splendida personificazione del volgo, celebrava gli Austriaci vincitori e padroni del suo paese con quello stesso furore poetico che li aveva vituperati quando erano stati vinti.

Sorgeva allora la reazione religiosa e legittimista che invadeva anche le immaginazioni della nuova generazione e inspirava i primi canti di Lamartine e Victor Hugo. Il nemico era la Francia e l'usurpatore e i giacobini e i rivoluzionarii, nemici del trono e dell'altare. Ciascuno di noi può ritrovare in un angolo della sua memoria queste prime impressioni reazionarie, tra le quali fummo cresciuti.

Il giovane Leopardi trovava queste impressioni in casa. Mi ricordo tra le più vive impressioni della prima età il racconto che mi si faceva nella casa paterna della ritirata di Mosca, una delle più immani catastrofi della storia, accompagnata con tutti gli accessori che sono più atti a muovere l'immaginazione fanciullesca, i Cosacchi, la Beresina, i deserti, le montagne di neve. Di questa catastrofe troviamo l'energico sentimento qui, in questa strofa, dove scoppiano in bei versi ira, indignazione, vergogna, dolore, con una evidenza e semplicità che testimoniano la sincerità dell'ispirazione e coprono ciò che vi é di artificiale e retorico.

Voglio spiegare più particolarmente questo concetto. I sentimenti qui sono veri, e il calore é sincero: ma la messa in scena, il procedimento meccanico col quale sono presentati, é artificiale, fondato su di una finzione retorica, come quel parlare all'Italia e udire suono di armi, e meravigliarsi come l'Italia non si conforti e non guardi là dove si agitano le sue sorti, e poi un riconoscer l'errore, un esclamare : o Numi! un accorgersi che italiani combattono non per l'Italia, ma per altra gente. Questa é retorica che però rimane alla buccia e non investe il midollo e non vizia il fondo. Al di sotto della buccia rimane integra la sincerità dell'impressione e dell'espressione. La cornice è di un oro sospetto e di cattivo gusto; ma il quadro é di Raffaello. E lo senti alla semplicità e delicatezza di questo lamento:

Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per le patrii liti e per la pia Consorte e e figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che me deste, ecco te rendo!


Se non che il sentimento appena é nato, e già nuovi fantasmi occupano l'immaginazione irrequieta e spunta un nuovo sentimento, più geniale, lungamente educato e accarezzato. Sembra proprio che l'immaginazione usa da gran tempo e familiare col mondo antico, dopo breve errore in un mondo a lei peregrino, si affretti ad uscirne e torni con diletto ad abitare il mondo di Erodoto e di Simonide.

Questo con molta ingenuità ce lo manifesta il giovane scrittore nella sua lettera al signor cavaliere Vincenzo Monti. Dove, in luogo di parlar dell'Italia, discorre lungamente di un inno perduto di Simonide, nel quale é celebrato il fatto delle Termopili, e dalle impressioni così ancora vivaci dopo ventitré secoli argomenta quelle del cantore greco e conclude così:
" Per queste considerazioni reputando a molta disavventura che le cose scritte da Semonide in quella occorrenza andassero perdute; non ch' io presumesse di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizione dell'animo del poeta in quel tempo e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degli ingegni, tornare a fare la sua canzone".

Qui si scopre Leopardi, quale noi lo conosciamo. Egli che aveva scritto due greche anacreontiche con tale somiglianza di stile che parecchi le stimarono essere di Anacreonte, e aveva composto un inno a Nettuno, spacciandolo versione dal greco, e rendendo l'audace asserzione credibile con la perfetta imitazione; ora tenta rifare la Canzone di Simonide, e cerca qualche frammento, qualche parola superstite, che lo aiuti a ricomporre il tutto. In Diodoro trova alcune parole di Simonide, e ne cava il bel motto: la vostra tomba è un'ara; parole comprensive e quasi epigrafe del perduto poema, tali che da quelle non difficilmente s'indovina il concetto e il sentimento che anima il tutto. Su questa base il Leopardi riedifica.

Il Giordani chiama greco questo poema di Simonide e l'ultimo canto di Saffo, e chiama romano il canto di Bruto. Se intende del soggetto, non era mestieri dirlo. Ma intende dello stile, del colore, dell'aria del componimento. E qui é facile a dir greco e romano, parole molto abusate, ma non si dice niente di preciso e di scientifico. Certo, il Leopardi volle imitare Simonide, e far cosa tutta greca, e qui non c'é pensiero, o fatto, o paragone, o immagine, che non sia reminiscenza greca.

Ma il carattere di un componimento é costituito non dalle membra, ma dallo spirito. Un moderno può riprodurre dall'antico le membra, voglio dire i singoli pensieri e immagini e movenze e costruzioni, e sarà un bel cadavere, a cui manchi lo spirito, come é l'Inno a Nettuno, prodigio di erudizione e d'imitazione. Ma se entro a quelle membra vuol soffiare la vita, gli é impossibile rifar la vita greca: perché i morti non tornano, la vita non é già ne' materiali, ma nella forma che li compenetra e li fa un solo essere. E la forma è generata da un certo modo di pensare è di sentire, il cui insieme dicesi spirito, e che é la personalità incomunicabile di un individuo, di una epoca, di un popolo. Qui i materiali son tutti greci, ma lo spirito che gl'informa é tutto moderno, ed é perciò non una dotta e fredda imitazione, com'é l'Inno a Nettuno. ma cosa viva.

Ma, per non rimanere sui generali, vediamo più da vicino l'argomento. La base su cui é fondata questa poesia, é il motto di Simonide, conservatoci da Diodoro: la vostra tomba è un'ara.
Questo motto é una rivelazione. Per il poeta greco l'amor patrio é un sentimento religioso, e il fatto delle Termopili é impresa sacra, e sono veri martiri i caduti e le loro tombe sono sacre, sono are, innanzi alle quali si fanno supplicazioni e sacrifici. Nello spirito greco non é distinto l'elemento civile o laico dall'elemento religioso: gli augurii, gli oracoli, gl'Iddii fanno parte della vita. Giove abita più in terra che in cielo. Indi quel non so che di sacro e di solenne e quasi di ieratico che trovi negl'inni, ne' poemi, nelle tragedie, ne' canti. Lo spirito non si é ancora del tutto sviluppato dal divino ; non ha ancora vita propria e distinta: e perciò gl'Iddii sono troppo uomini, troppo turbolenti, e la faccia dell'uomo é troppo divina, troppo quieta. Quel motto: la vostra tomba è un'ara, doveva svegliare nel poeta greco una serie di sentimenti e d'impressioni e d'idee accessorie, che animarono il suo canto e furono come la sua essenza o il suo spirito, uno spirito formato dai secoli e di cui il poeta aveva intorno a sé l'eco in tutti i Greci.

Ma per Leopardi quel motto é un modo di dire, e già prima l'aveva usato e guastato il Monti con la sua retorica. La vostra tomba è un'ara nel poeta greco é vero letteralmente, é legato con sentimenti religiosi; nel Leopardi é una figura, e rimane come un pensiero incidentale, in debole legame con tutto il canto, ispirato da motivi umani di gloria e patriottismo. La tomba qui non é un'ara se non per così dire, e quasi per imitare il linguaggio religioso, a quel modo che chiamiamo figuratamente martiri quelli che muoiono per la patria, e apostoli quelli che propagano il vero.

Né solo qui i sentimenti sono così generalizzati, che scappano fuori del contenuto, e l'immaginazione non può chiuderli e immedesimarli con lo scuro Tartaro e l'onda morta, e le stelle che stridono nel mare spegnendosi, e simili altre particolarità e reminiscenze del mondo greco, ma l'espressione manca di calma e di schiettezza, e di quella ingenuità e direi quasi bonomia, che è propria di una fede immediata, non ancora assottigliata da un pensiero adulto. Per addurre un esempio, il poeta dice:
Nelle armi e ne' perìgli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?


Questo è artificio retorico. Perchè il poeta sa benissimo quello che domanda ed ha già detto che essi offrirono il petto alle nemiche lance per amor della patria. Queste forme di meraviglia artificiale sono aliene dalla naturalezza e semplicità, e rivelano procedimenti ulteriori di un pensiero più raffinato.
Questa disarmonia tra il contenuto e la forma, questo spirito adulto e moderno, che non consente a lasciarsi incarcerare in un materiale antico, e vi rimane al di sopra, è un difetto certamente, ma uno di quei difetti fortunati, simili a certe malattie, le quali preannunciano non la morte ma lo sviluppo del corpo. È nuova virtù, non più semplicemente assimilativa, come nell'Inno a Nettuno o nella Torta o nella versione dell'Eneide, ma produttiva; non è più un contenuto o un materiale antico, che l'erudito studia, esamina, critica e si appropria, ma é il poeta che entra in scena, lo spirito libero e ancora inconsapevole della libertà, che sta tanto volentieri in quel contenuto, sua grata prigione, e per antica consuetudine vi si conforma, vi si acconcia e non gli riesce, perché lo schiavo é già uomo libero e non se ne accorge. Dedalo si crede ancora in prigione, ma già sta spiccando il volo.
Credeva di rifare Simonide, e gli è uscita fatta la sua canzone, la prima rivelazione della sua poetica virtù. Se guardiamo all'abilità tecnica, vi è già qui quasi tutto Leopardi, quale si é mostrato ne' più maturi anni: tanta vi é la pratica della lingua e del verso e la fina conoscenza di tutti i misteri e di tutti gli artificii dello scrivere. Il sapiente intreccio delle rime, la fattura intelligente del verso, e le gradazioni dell'armonia, e la perfetta chiarezza senza volgarità, e la veemenza senza gonfiezza; una tanta facilità, che non trovi sulla superficie niente che ti paia aspro, o ti urti, o ti fermi, e giungi senza fatica alla fine soavemente commosso e pensoso, fa concepire quanta larghezza di studi e quante esercitazioni e quant'uso di verseggiare ve lo abbiano preparato.
Non fu invano tradurre, imitare, contraffare, criticare, e quelle infinite annotazioni ed emendazioni e raffronti di testi non furono fatica arida: con questi studi e con questi esercizi si raccolgono materiali e si pongono le fondamenta.
Ma, se tali studi conferiscono a educare il gusto, disciplinare l'intelletto, scaltrire la mente in tutte le finezze e i segreti dell'arte; se rinvigoriscono, quasi ginnastica, le facoltà poetiche; diventano ingombro, quando vogliono farsi valere come contenuto, e vogliono imporlo all'immaginazione. Avviene allora quello che nei romanzi storici, dove si rappresenta un mondo contraddittorio, contenuto antico mosso e animato da uno spirito che gli è alieno.

Questo è pure il difetto o piuttosto il carattere della prima Canzone di Giacomo Leopardi. Tutto pieno del mondo antico, e nutrito e cresciuto nell'adorazione di quello, imitatore e copista, qui, credendo d'imitare, vuol essere Simonide e si rivela Leopardi, un Leopardi ancora novizio, ancora confuso tra quelle reminiscenze, ma confidente, impetuoso, pieno di forza e di baldanza giovanile che spazia in quel mondo con la libertà e la sicurezza di chi si sente vicino a trovare il suo mondo e a dire: io.
Che cosa manca a Leopardi per dirsi poeta? Gli manca la chiara percezione di un mondo generato dal seno delle sue meditazioni e dei suoi dolori. L'antichità, materia del suo culto, è per lui un lavoro di erudizione ed uno sforzo d'immaginazione, una riproduzione retorica. L'Italia e il mondo moderno è una ne gazione, non ancora studiata, vuota ancora di ogni contenuto, anche essa retorica. Anche nella sua forma penetra la retorica, malgrado il gusto castigatissimo, e la naturalezza e la semplicità attinta alle studio del greco, e qua e là visibile, specialmente nel canto di Simonide.

La seconda Canzone é quasi le sviluppo e il compimento della prima. La rappresentazione d'Italia, rimasta lì come strozzata all'apparire del mondo greco, qui si ripiglia e si continua, prendendo occasione dal monumento che si preparava a Dante a Firenze . La ritirata di Mosca, lì appena accennata, qui diviene la parte principale anzi il corpo della poesia, che non é altre in fondo, se non lo spettacolo che offriva di sé l'Italia, sotto la dominazione francese. Nel 1818 questo era linguaggio da Santa Alleanza, e si concepisce come le due Canzoni poterono essere pubblicate a Roma, senza alcun veto. Si lasciava parlare di libertà ed anche d'Italia, purché ci fossero tirate contro la rivoluzione e contro la Francia.

Anche la Santa Alleanza voleva la libertà e l'indipendenza dei popoli. Ma quelle che la Santa Alleanza diceva a gioco e a inganno, il poeta diceva con la serietà e con la veemenza di animo giovanissimo e sdegnoso e liberissimo. Se la sincerità e l'elevatezza dei sentimenti bastasse all'artista, questa canzone penetrata di sdegno e sparsa di concetti nobilissimi sarebbe la vera Canzone all'Italia, perché il monumento e Dante non ci entrano, se non come via a rappresentare le miserabili condizioni d'Italia.

Ma gli alti sentimenti e i concetti nuovi e arditi e le forme elettissime e la più consumata abilità di esecuzione, se esprimono meravigliosamente il primo prorompere di un'anima giovane - e indignata e facoltà poetiche fuori dell'ordinario, non coprono il vuoto e il vago che é nelle spirito, rimasto in gran parte estraneo a quel lavoro della memoria e dell'immaginazione. Perciò l'aspetto generale di questa Canzone, com'è detto della prima, é, pur sempre quelle della vecchia lirica italiana e non si esce ancora da Vincenzo Monti. Lo spirito, assistendo ad un mondo non creato da lui, è tutto fuori, tutto vita esteriore: movimenti oratori, figure e lumi retorici, e descrizioni animate, gravità e maestà e pompa d'incenso.

Solo due anni dopo, nel 1820, il giovane nella Canzone ad Angiolo Mai ritrova le prime orme di se stesso, in centro stabile intorno a cui si rannoda e si eterna la sua esistenza: là solo appaiono i primi splendori di quel mondo, che fu la sua gloria e il suo dolore.

Fonti,
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -(5 vol. Nerbini)

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