LETTERATURA

VERSO LA TRANSIZIONE - ( 1698 - 1782 )

DA METASTASIO ALL'ALFIERI

 

L' uomo che rappresenta lo stato di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura è PIETRO METASTASIO. Nasce a fine Seicento, muore quasi alla viglilia della Rivoluzione.

L'antica letteratura, non essendo oramai più che forma cantabile e musicabile, ha come ultima espressione il dramma in musica, dove non è più fine, ma mezzo: è melodia, e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura.
Quest'ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio.

La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l'educò, a quel modo che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane illustrandole, e tentando una prima filosofia del dritto, voleva ritirare l'arte alla greca semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse tragedie a modo di Sofocle, e tentò una teoria dell'arte che chiamò "Ragion poetica". Il buon uomo vedeva il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La semplicità è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più contrario al secolo, manierato e pretensioso al di fuori, vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito e vi supplì con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L'intenzione era buona; parea volesse dire: - Cose e non parole -. Nè altra è la tendenza della sua "Ragion poetica", dove il vero è rappresentato come sostanza dell'arte, e il vero ignudo, non "condito in molli versi". Così, volendo esser semplice, riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che lo sforzo dell'ingegno era tutto intorno alla frase.

Metastasio fu educato secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso e de' poeti posteriori, lo ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino, e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto il Gravina, si gettò avidamente sul frutto proibito, e la "Gerusalemme Liberata", l'"Aminta", il "Pastorfido", soprattutto l'"Adone", furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non gli fu inutile, perchè lo avvezzò alla naturalezza e alla semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato a sè medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno, il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione, e l'autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e, come era moda, fece la sua comparsa trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi d'obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il "Sogno della gloria" è l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il "Ritorno della primavera", scritto l'anno appresso, 1719, ti mostra già i vestigi dell'"Aminta" e dell'"Adone," facilmente impressi in quell'anima ricca di armonie e d'immagini.

L'ideale del tempo era l'idillio, il riposo e l'innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, così come l'avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione a cui il dolore serviva come di salsa. L'Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all'idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il "seicentismo", sì che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima beatamente oziosa, cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi "melodia". La musica penetrava già in questa forma così apparecchiata a riceverla, e la canzone diveniva la canzonetta la cantata e l'arietta, e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in molta voga, ma già si disputava quale ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l'eredità del Gravina, il nostro Metastasio, visto che l'Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito di far l'avvocato. Ma Napoli era già il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni: allora erano in voga epitalami, cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e idilliche, dove è visibile l'imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de' Sangro, evocando gli amori di Venere e Marte, a' quali intreccia gli amori degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:
Se in giro in liete danze il passo mena,
se tace o ride, o se favella o canta,
porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
Vicino al lato suo siedono al paro
con la dolce consorte il genitore,
coppia gentil d'illustre sangue e chiaro,
vivi esempli di senno e di valore:
alme che prima in ciel si vagheggiaro,
e poi quaggiù le ricongiunse Amore:
e dier tal frutto, che non vede il sole
più nobil pianta e più leggiadra prole.
Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un'ottava, dove descrive Anna che canta, rivela nell'evidenza e nel brio del colorito una certa genialità:
La voce pria nel molle petto accolta,
con maestra ragion spigne o sospende;
ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
velocissimamente in alto ascende;
ora in placido corso e più disciolta,
soavissimamente in giù discende;
i momenti misura, annoda e parte,
e talor sembra fallo, ed è tutt'arte.
Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de' particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli, col solito macchinismo, Amore, Venere, Marte, Diana, Minerva, Vulcano. Nè altro sono le prime sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la "Galatea", l'"Endimione", gli "Orti Esperidi", l'"Angelica". Diamo un'occhiata all'Angelica. Di rincontro a' protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C'è il solito antagonismo tra la città e la campagna, la scaltrezza di Angelica e l'ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel più schietto comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando finisce idillicamente:
Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette leggiere
che intorno volate,
tacete, fermate,
chè torna il mio ben.
Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con quest'arietta:
Io dico all'antro - Addio! -
ma quello al pianto mio
sento che, mormorando:
- Addio! - risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
ne' replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia dolce e molle, è già canto e musica, una pura esalazione melodica, una espressione sentimentale rigirata in se stessa, come un ritornello:
Ombre amene,
amiche piante,
il mio bene,
il caro amante
chi mi dice ove ne andò?
Zeffiretto lusinghiero
a lui vola messaggiero.
di' che torni e che mi renda
quella pace che non ho.
Concetti e immagini oramai comunissime, senza più alcun valore letterario, e rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche. L'effetto non è nelle idee, ma in quel canto di due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde; perchè, mentre Licori cerca Tirsi, Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:
La mia bella
pastorella,
chi mi dice ove ne andò?
È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra una cert'aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non visto Tirsi.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli "Orti Esperidi" rappresentava la parte di Venere, prese interesse al giovane autore, e lo addestrò in tutt'i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta. La "Didone abbandonata", scritta sotto l'ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l'opinione, e Metastasio prese posto d'un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell'ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato, e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio, e se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il "divino Metastasio".
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l'architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia, tale cioè che anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del buffo, e tentare i più alti e nobili argomenti del "genere tragico", come se la nobiltà fosse nell'argomento. Questo si vede già nella "Didone" e nel "Catone in Utica". Più tardi volle gareggiare co' grandi poeti francesi, e il "Cinna" di Corneille ebbe il suo riscontro nella "Clemenza di Tito," e l'"Atalia" di Racine nel "Gioas". Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l'inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell'"Estratto dell'"Arte poetica" di Aristotile" addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora così impastoiata nell'esterno meccanismo, che molti seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma, che aveva soli tre atti.

A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall'alto seggio di poeta tragico, ed essere rilegato fra' melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina, che non vedea di là dalla tragedia classica. La "Merope" del Maffei, che allora levava molto rumore, l'offuscava, e nol lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de' Calsabigi, celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: "Sophocli Italo". Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi, ma drammi, come quelli che avevano un valore in sè, anche fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una poesia già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione, che dà una fisonomia al nostro "Sofocle". Più tardi, quei drammi, come letteratura paiono troppo musicali, e ne nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo letterari, e ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come poesia, e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica, e offuscati dalla nuova letteratura. Il che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.

Pure è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso, e che anche oggi, in una società così profondamente mutata, producono il loro effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, gli s'inchinarono, tratti dall'onda popolare. Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare, come il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne' suoi drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch'egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità, come l'artista.
Prendiamo il primo suo dramma, la "Didone". Volea fare una tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell'"Angelica "e degli "Orti Esperidi", e in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di "Didone" qui vedi l'Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti della passione femminile, le sue smanie e le sue furie.

Ma è un'Armida col comento della Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata, com'è nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di classico, qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l'amore de' suoi, la pietà verso gl'iddii, se in lei fosse più accentuata l'eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l'eroina c'è a parole, e la donna è tutto: la passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte danno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica sicchè, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata, sarebbe il dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia. E non già una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero, perchè è la donna come poteva essere concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza sua coscienza.
A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione, nell'irragionevole, spinto sino all'assurdo, negl'intrighi e nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto così a proposito, così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali, come:
Temerario! Ch'ei venga!
Quando allora allora avea detto:
mai più non mi vedrà quell'alma rea.
O come:
Passato è il tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è tanto più comico, quanto è meno intenzionale, contemperato co' moti più variati di un'anima impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C'è della Lisetta e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene, ch'è l'"Anna, soror mea", rappresenta la parte della "patita", con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell'azione ha l'aria di un intrigo di bassa commedia, co' suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.

La "Didone" fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se stesso. Quel suo dramma, a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel più intimo, quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima, ma una semplice fonte del maraviglioso, così piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi così disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra poco meno che impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena di brio e senz'alcuna coscienza, com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione è perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là, fresca, giovane, vivace, armonica, e t'investe e ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio; alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica condannano quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è là, nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere: - Io vivo. - E, se l'estetica non l'intende, tanto peggio per l'estetica.
Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella vita.

Brav'uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore c' erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e abituale ch'era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d'animo, perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori, bonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, onore, amore, libertà operavano in quella vita posticcia, come in quella pacifica società, con perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio, che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l'elegia, non la tragedia. Aveva, come il Tasso, grande sensibilità, molta facilità di lacrime, ma superficiale sensibilità, che poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno.
Non si può dir che la sua sensibilità fosse malinconia, la quale richiede una certa durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni, e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di analisi e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perchè l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietà di un mondo interiore, appena ventilata dal sentimento, scorre leggiera su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli danno varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne' sentimenti e nelle immagini, che vi prendi la più viva partecipazione. Il poeta vi s'intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Di sogni e favole ce n'era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i forestieri, e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua grand'esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista lo scopo, non s'indugia per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina, producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche, che appunto perchè mirano a uno scopo meramente teatrale, mancano di serietà interiore, e spesso hanno aria d'intrighi comici, con que' viluppi, con quegli equivoci, con quei parallelismi. Nè solo il comico è nella logica stessa di quelle combinazioni, ma nella natura de' fatti, che spesso sono episodi della vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un eroico puramente idillico andava a finire ne' bassi fondi della commedia. Cesare sonava il violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo tempo, idillico, elegiaco e comico, vita volgare in abito eroico, vellicata dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.
Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in cima l'eroe o l'eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell'età dell'oro, e sveglia l'eroismo intorno a sè, rende eroici anche i personaggi secondari. Più l'età è prosaica, più esagerato è l'eroismo, abbandonato a una immaginazione libera, che ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che l'eroe è un'antitesi accentuata e romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla virtù tutt'i sentimenti umani, come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide per la libertà, Megacle offre la vita per l'amico, e Argene per l'amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita comune, era detta "generosità" o "magnanimità", "forza" o "grandezza di animo", com'è il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore, o della vita. Situazione tragica se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di emozioni superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generosità degli uni provoca la generosità degli altri, l'eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt'i personaggi, e tutto si accomoda come nel migliore de' mondi, tutti eroi e tutti contenti.

Di questa superficialità che resta ne' confini dell'idillio e dell'elegia, e di rado si alza alla commozione tragica, la ragione è questa, che la virtù vi è rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtù da teatro, un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie, più le proporzioni sono ingrandite, e più cresce l'effetto. I personaggi posano, si mettono in vista, sentenziano, si atteggiano, come volessero dire: - Attenti! Ora viene il miracolo. - Temistocle dice:
... Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m'ascolta; udite, o voi,
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode.
In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle tenere effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di sentenze, con alterna vittoria e con crescente sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione in un modo così inaspettato e straordinario, com'è tutto l'intrigo. Tito fa condurre Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli: non basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi pare una moralità da scena, era a quel tempo una moralità convenuta, ammessa in teoria, ammirata, applaudita, a quel modo che le romane battevano le mani ai gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico. Appunto perchè questo eroismo non aveva una vera serietà di motivi interni e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato all'eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura la società contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari.

Prendiamo l'"Adriano". Vincitore de' Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una delle situazioni più strazianti, promesso sposo di Sabina, amante di Emirena figlia del suo nemico, e rivale di Farnaspe, l'amato di Emirena. Situazione molto avviluppata, e che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina, e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena per salvare il padre offre la mano ad Adriano. La generosità di Emirena eccita la generosità di Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita la generosità di Adriano, che libera il padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti felici, e il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo, tutt'altro che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile, superficiale, credulo, in somma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è lui che opera: egli è il paziente, anzi che l'agente del melodramma, e come colui che dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all'ultima impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe così equivoco, che impedisce ad Emirena di baciargli la mano, tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza di Iarba. Un patriota, che appicca l'incendio alla reggia, che uccide un creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la figlia di ucciderlo, sarebbe un carattere interessantissimo, se nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha più dell'avventuriere che dell'eroe, e di un avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi allo scopo, e nelle situazioni più appassionate della vita discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa di ucciderlo, risponde:
Non è ver che sia la morte
il peggior di tutt'i mali:
è il sollievo de' mortali
che son stanchi di soffrir.
È una caricatura di Iago, un basso e sciocco intrigante da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime, incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta facilità si sdrucciola nel comico e come, sotto un contrasto apparente, in verità questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere nel suo seno il volgare e il buffo della società contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane lì stupido e col naso allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad Emirena l'arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli fa il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel naso da Osroa, o l'arrivo improvviso di Sabina da Roma, e l'imbarazzo di Adriano, o quando Adriano giura di non vedere più Emirena, e gli si annunzia: - Vieni Emirena. - Tutto questo, che in fondo è comico, non è sviluppato comicamente, nè c'è l'intenzione comica; perciò non c'è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito, nella sua volgarità e mezzanità, vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso dell'eroico, e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza sarebbe insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta è in perfetta buona fede; non sente ciò che di basso e di triviale è sotto quell'apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico.

Ben ne ha una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcun che di più elevato, come nel "Regolo" e nel "Gioas", senza riuscirvi: si scopre l'antico Adamo. E fu ventura, perchè così non ci die' costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura, ma riuscì artista originale e geniale, l'artista indimenticabile di quella società.
Questa vita così assurda nella sua profondità ha tutta l'illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità è la sua condizione di esistenza. È una vita, di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di formazione, una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni così di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all'altro. Sei in un continuo flutto d'impressioni variatissime, di poca durata e consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa superficialità con la musica, quasi che la musica potesse o compiere, o sviluppare, o approfondire i sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento e l'eco del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento, perchè quella poesia è già in sè musica e canto. Una vita così superficiale non può essere che esteriore. È vita per lo più descritta, come già si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de' loro sentimenti si descrivono, si analizzano, com'è proprio di una società adulta, in cui la riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell'azione. Ti trovi nel più acuto della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un'analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in sè, e si arresta, e fa la sua analisi:
Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e sì contrari. Io stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all'ire,
bramar la morte e non saper morire.
Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea così si descrive a Megacle:
Caro, son tua così,
che per virtù d'amor
i moti del tuo cor
risento anch'io.
Mi dolgo al tuo dolor,
gioisco al tuo gioir,
ed ogni tuo desir
diventa il mio.
E Megacle, seguendo l'amico Licida nella sua sventura, esce in questo bel paragone:
Come dell'oro il fuoco
scopre le masse impure,
scoprono le sventure
de' falsi amici il cor.
Questi riposi musicali sono come l'arpa di David, che calmava le furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio fra passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto perchè mescolati co' moti più vivaci, con la più impetuosa spontaneità del sentimento, offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene che sfida la morte per salvare l'amato, e si sente alzare su di sè, come invasata da un iddio, è sublime:
Fiamma ignota nell'alma mi scende;
sento il nume; m'inspira, mi accende,
di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
pallid 'ombre, compagne di morte,
già vi guardo, ma senza terror.
Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il cànto di Timante, quando la madre gli presenta il suo bambino:
Misero pargoletto,
il tuo destin non sai.
Ah! Non gli dite mai
qual era il genitor.
Come in un punto, o Dio,
tutto cambiò d'aspetto!
Voi foste il mio diletto,
voi siete il mio terror.
Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:
Ne' giorni tuoi felici ricordati di me.
Questa vita nei suoi moti alterni di spontaneità e di riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni più fine, i concetti più difficili sono resi con una estrema precisione di contorni, e perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo, lo tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza metastasiana, tanto vantata e così popolare perchè il popolo è tutto superficie, è la forma nell'ultimo stadio della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge l'ultima perfezione; l'espressione perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si appaga, come un infinito.
Stato di petrificazione, che oggi dicesi "letteratura popolare", come se la letteratura debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta della sua esteriorità, con una facilità e una rapidità, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri, la parola perde le sue sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha divertito, e a cui non pensi più.
Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofia pareva assurda la società ch'esso rappresentava. Come arte, niente è più vero per coerenza, per armonia, per interna vivacità. È il ritratto più finito di una società vicina a sciogliersi, le cui istituzioni erano ancora eroiche e feudali, materia vuota dello spirito che un tempo l'animò, e che sotto quelle apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta "idolo mio", "mio bene", e "vita mia".

La poesia di Metastasio l'accompagna con la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha più niente a dirle; essa è il luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo, con le sue fughe e le sue volate, co' suoi bassi e i suoi acuti; non è più un'idea, è un suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi fuori di sè, che cerca i motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica già, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, nè il pubblico sa più che farsi della parola, e non domanda cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di sè, non val più nulla, e la stessa parola metastasiana, così leggiera, così rapida, non può essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello. Così terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima si fa la musica, e poi Giuseppe secondo dice al suo nuovo poeta cesareo, all'abate Casti: - Ora fatemi le parole. -

In seno a questa società in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva più gran conto della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che aveva rappresentata una parte così importante, cade in discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennità, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le sue dotte inutilità, e a prendere un'aria più spedita e andante. Gli orecchi, avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i periodi accademici e le tirate rettoriche.

E se Metastasio è chiamato "divino", è per la musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapidità dell'espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è più l'accademia, ancorchè di accademie fosse ancora grande il numero, prima l'Arcadia. E non è più la corte, ancorchè i principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di "poeti". La coltura si è distesa, i godimenti dello spirito sono più variati: i periodi e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti. La parola acquista valore nell'ugola e nella nota, ed è più interessante nelle pagine di Beccaria, o di Galiani, che ne' libri letterari. Oramai non si dice più "letterato", si dice "bell'ingegno" o "bello spirito".
Il "letterato" diviene sinonimo di parolaio, e la parola come parola è merce scadente. La parola non può ricuperare la sua importanza, se non rifacendosi il sangue, ricostituendo in sè l'idea, la serietà di un contenuto. E questo volea dire il motto che era già in tutte le labbra: "Cose e non parole".
Già nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica si mette in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni, essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura, battezzandola senz'altro "pedanteria". L'obbiettivo de' filosofi e de' critici era comune. Combattevano entrambi la forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli altri nell'espressione letteraria, ancorchè senza intesa.

E come i filosofi, così i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare; l'Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il Verri erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti. Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee, e introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella "Filosofia delle lingue" del Cesarotti e nello "Stile" del Beccaria. Cosa dovea parere il Crescimbeni, o il Mazzuchelli, o il Quadrio, cosa lo stesso Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro che uso e regola? E non si contentarono i critici de' trattati e de' ragionamenti, ma vollero accostarsi un po' più al pubblico, usando forme spigliate e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le "Lettere virgiliane" del Bettinelli, la "Difesa" del Gozzi, la "Frusta letteraria", il "Caffè", l'"Osservatore".

Così la nuova critica dava a un tempo l'esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono. Certo questi critici non si accordavano fra loro, anzi si combattevano, come facevano anche i filosofi; ma erano tutti animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E lo spirito era l'emancipazione dalle regole o dall'autorità, la reazione contro il grammaticale, il rettorico, l'arcadico e l'accademico, e, come in tutte le altre cose, così anche qui non ammettere altro giudice che la logica e la natura. Secondo il solito la critica passò il segno, e nella sua foga contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro Dante: onde venne la bella "Difesa" che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica veniva dalla testa, e non aveva radice nell'educazione letteraria ch'era stata anzi tutto l'opposto. Il che spiega come i critici, giudici ingegnosi de' vivi e de' morti, volendo essere scrittori, facevano mala prova, dando un po' di ragione a' retori e a' grammatici, i quali, chiamati da loro "pedanti", chiamavano loro "barbari".

Posti tra il vecchio, che censuravano, ed un nuovo modo di scrivere, chiaro nella loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale, e non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla maniera francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come fu detto poi, "imbarbarirono la lingua". Gaspare Gozzi tenne una via mezzana, e facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee, non accettò sotto nome di libertà la licenza, e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro, classico, e insieme disinvolto. Ma il buon Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo, come avviene a' troppo savi nel fervore della lotta, quando la via di mezzo non è ancora possibile, standosi di fronte avversari appassionati, confidenti nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un campo i puristi, che non potendo invocare l'uso toscano, intorbidato anch'esso dall'imitazione straniera, invocavano la Crusca e i classici, e, come non era potuta più tollerare la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel motto felice: "Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava".

Costoro erano, il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri letterati, tutti brava gente, che avevano in sospetto ogni novità, e non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell'altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella della Crusca; che invocavano la loro ragione, e vagheggiavano una nuova Italia così in letteratura, come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello alla loro servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate Cesari e l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i classici cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo moderno. Il Cesarotti, di molto più spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie.

Quando comparve l'"Ossian", girò la testa a tutti: tanto eran sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società, e in quel vuoto ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio, espressione di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de' brandi, e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce: bisognava fare e piacere al pubblico.

Ora l'attività intellettuale era tutta dal canto de' novatori: chi aveva un po' d'ingegno, "si gittava al moderno", come si diceva, nelle dottrine e nel modo di scrivere, e si acquistava nome di "bello spirito", dispregiando i classici, come di "spirito forte", dispregiando le credenze. La vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era detta pregiudizio, e combattere il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato, del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento, può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava "barbarie" il medio evo; ora si chiama "barbarie" medio evo e Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico è ne' due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee, maturate e sviluppate oltralpe, strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che un solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle più sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato sotto nome di "filosofia", fatto della letteratura suo istrumento.

Questo volea dire il motto: "Cose e non parole". Voleva dire che la letteratura, stata trastullo d'immaginazione, senza alcuna serietà di contenuto, e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea acquistare un contenuto, essere l'espressione diretta e naturale del pensiero e del sentimento, della mente e del cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo "cormentalismo". Messa la sostanza nel contenuto, quell'ideale della forma perfetta, gloria del Rinascimento, e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza, come nel "Pastor fido", nell'"Adone", nel dramma di Metastasio, cesse il posto alla forma "naturale", non convenzionale, non manifatturata, non tradizionale, non classica, ma nata col pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione "Sull'uso e su' pregi della lingua italiana", sostenea nel suo "Saggio sulla filosofia delle lingue" che la lingua non è un fatto arbitrario, e regolato unicamente dall'uso e dall'autorità, ma che ha in sè la sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero, ancorchè non sia toscana e non classica, e sia del dialetto, o addirittura forestiera con inflessione italiana.

Cosa era quel "Saggio"? Era l'emancipazione della lingua dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia e della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione, il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un'aria cosmopolitica, l'aria filosofica, a scapito del colore locale e nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde venivano, e, come era uomo d'ingegno, e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall'un capo all'altro d'Italia. Gli scrittori, intenti più alle cose che alle parole, e stufi di quella forma in gran parte latina che si chiamava "letteraria", screditata per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più all'italiano corrente e locale, così com'era, mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura.

Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d'Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell'Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapidità, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento, ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò più ad una perfezione ideale della forma, ma all'effetto, a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno studio de' sentimenti e delle impressioni, base del "Trattato dello stile" del Beccaria.
Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico dell'orecchio, detto "stile classico", e ridotto oramai un frasario pesante e noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell'uno era il trattato; tipo dell'altro era la gazzetta. Il principio da cui derivava quella rivoluzione letteraria, era l'imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua verità e nella sua semplicità, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava col nome d'"ideale" o di "forma perfetta". La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L'eroico, l'idillico, l'elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva più, se n'era sazii sino al disgusto. L'eroico era esagerazione; l'idillio era noia; l'elegia era insipidezza; pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono al più a esser messo in musica, come facea Metastasio.

Si volea rinnovare l'aria, rinfrescare le impressioni, si cercava un nuovo contenuto, un'altra società, un altro uomo, altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i persiani. Si divoravano le "Lettere persiane" di Montesquieu. L'"Ossian" era preferito all'"Iliade". Comparve l'uomo naturale, l'uomo selvaggio, l'uomo di Hobbes e di Grozio, l'uomo che fa da sè, Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere, tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la "lionne" di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e decoro femminile. Ci fu l'uomo collocato in società, in lotta con essa in nome delle leggi naturali, e spesso sua vittima, come donne maritate o monacate a forza o sedotte, figli naturali calpestati da' legittimi, poveri oppressi dai ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le Pamele, gli Emilii, i Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni, veniva fuori in romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie, una specie di repertorio francese, che faceva il giro d'Italia.

Il concetto fondamentale era la legge di natura in contrasto con la legge scritta, la proclamazione sotto tutte le forme de' dritti dell'uomo dirimpetto la società che li violava. I capiscuola erano Rousseau, Voltaire, Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto séguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi: il "Disertore", l'"Amor Familiare", il "Jevenal", l'"Indigente". Nel "Disertore" hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura contro la legge scritta. Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori l'oppressione degli eretici ne' paesi cattolici. "Jeneval" è il contrario della "Clarissa": è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto.
Nell'"Indigente" è vivo il contrasto tra il ricco ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato di tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso e virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. "Commedia" e tragedia parve l'uomo mutilato e ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da' bassi fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell'arte, alla sua materia e alla sua forma, al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di quest'alta critica, che fu detta "estetica", era Diderot. Da lui usciva l'affermazione dell'ideale nella piena realtà della natura, che è il concetto fondamentale della filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico, e non era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo, era l'uomo; non era tragedia e non commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era poesia.

L'ideale era la stessa realtà, non mutilata, non ingrandita, non trasformata, non scelta; ma piena, concreta, naturale, in tutte le sue varietà, la realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la lacrima; s'inventò la "commedia lacrimosa", e la "tragedia borghese". Il nuovo ideale non era l'idillio o l'eroe de' tempi feudali: era il semplice borghese in lotta con la vita e con la società, e che sente della lotta tutt'i dolori e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, così l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava nella vita lacrimoso, era patetico e sentimentale. Le "Notti" di Young ispiravano ad Alessandro Verri le "Notti romane".
Rousseau col suo sentimentalismo rettorico faceva una impressione così profonda, come col suo naturalismo filosofico. Questi concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione presso i francesi, giungevano a noi tutt'in una volta, come una inondazione, destando l'entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni di lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto dell'arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica, e la critica psicologica si alzava all'estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne' suoi mezzi tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell'eroico, com'era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna di quegl'ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l'idillio: cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo, è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L'abate Genovesi, Verri, Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione; Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma dell'istruzione e dell'educazione nazionale; principi e ministri, sospinti dalla opinione, iniziavano riforme in tutt'i rami dell'azienda pubblica.

La vecchia letteratura non poteva durare così: ci voleva anche per lei la riforma. Già non produceva più, non destava più l'attenzione: tutto era canto e musica, tutto era filosofia. Si concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso successo de' romanzi e delle commedie dell'abate Chiari, che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell'imbandigione che più desiderava. Sarebbe interessante un'analisi delle infinite opere, già tutte dimenticate, del Chiari, perchè mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti, filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti di monache, scontri notturni, finestre scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri impossibili, un eroico patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo, di ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di ciò che il vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino la "Genesi" voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari è l'immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne andava, e la nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicchè egli ha tutt'i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si trovò fra' piedi Carlo Goldoni, costretto dalle stesse necessità della vita a servire e compiacere al pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo, che die' addosso all'uno e all'altro: dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare.

Uscì a Parigi la "Tartana degl'influssi", caricatura di due comici:

Il primo si chiamava "Originale",
ed il secondo "Saccheggio" s'appella...
I partigiani ogni giorno crescevano,
chi vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto il paese a romore mettevano...
Il parlar mozzo e lo stare intra due
niente vale per trarsi di tedio:...

dir bisognava: - Saccheggio è migliore,
ovvero: - Originale è più dottore.

Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni, era d'ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi, come il fratello, apparteneva all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva di ristaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea una riforma, gli parea una corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:

Usciti son certi autorevol dotti,
con un tremuoto di nuova scienza,
che han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto il lor, di saper non ci è semenza,
dicono che gli autor morti fur cotti,
e condannano i vivi all'astinenza...
Leggonsi certe nuove "Marianne",
certi "baron", certe "marchese" impresse,
certe fraschette buse come canne,
e le battezzan poi "filosofesse",
che il mal costume introducono a spanne:
credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: - Egli è un comporre alla francese. -
Certo è peggior del mal di quel paese.
La sua "Marfisa" è una caricatura de' nuovi romanzi, alla maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa, l'eroina, guasta da' libri nuovi, vaporosa, sentimentale, isterica, bizzarra, e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de' romanzi in voga. Gli parea che quel predicar continuo "dritti naturali", "leggi naturali", "religione naturale", "uguaglianza", "fratellanza", dovesse render gli uomini cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe cose, e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra della loro condizione. Questo pericolo era più grave, quando massime tali fossero predicate in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e invocava contro i predicatori di così nuova morale la severità dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla.

Goldoni, che era un puro artista, come il Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco meno che un ribelle, un nemico della società. Vi si mescolarono gl'interessi delle compagnie comiche, che si disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata di Vienna, e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era l'ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano l'Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna, a Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto, alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose, era padrona del campo a Roma, a Napoli, a Bologna, a Milano, a Venezia.

Era della vecchia letteratura il solo genere vivo ancora, considerato gloria speciale d'Italia, e solo che ricordasse ancora in Europa l'arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi, dov'erano meglio retribuiti. Ma, come a Parigi Molière fondava la commedia francese, combattendo le commedie a soggetto italiane; così a Venezia Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della commedia, l'avea forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana.
La contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno e l'altro genere. Ma ci era la passione, e ci era l'interesse, e i sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il campo, andò a Parigi. La sua fama s'ingrandì, e impose silenzio al Baretti e rispetto al Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto quell'arruffio non uscì alcun progresso notabile di critica, essendo i "Ragionamenti" del Gozzi pieni più di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalità, come di uomo che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia popolana.

Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il natural genio vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebrità del tempo; il dramma in musica era alla moda. Scrisse l'"Amalasunta", il "Gustavo", l'"Oronte", più tardi il "Festino" e qualche altro melodramma buffo; scrisse anche tragedie, la "Rosmonda", la "Griselda", l'"Enrico", e tragicommedie, come il "Rinaldo". Poeta stipendiato di compagnie comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie opere nuove, e in una stagione ne die' sedici, saccheggiò, raffazzonò, tolse di qua e di là ne' repertori italiani e francesi, e anche ne' romanzi. Non c'era ancora il poeta, c'era il mestierante; c'era Chiari, non c'era ancora Goldoni.


Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto pubblico, commedie sentimentali, commedie romanzesche, come la "Pamela, Zelinda" e "Lindoro", la "Peruviana", la "Bella selvaggia", la "Bella georgiana", la "Dalmatina", la "Scozzese", l'"Incognita", l'"Ircana", raffazzonamenti la più parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto, come "il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato", le "Trentadue disgrazie di Arlecchino". Si rivelò a se stesso e al pubblico nella "Vedova scaltra". Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d'artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l'arcadico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue "Memorie" dice:

"I miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi, ed al ridicolo del gigantesco e romanzesco."
Per sua ventura gli capitò una buona compagnia.
" Ora, - diceva io a me medesimo - ora sto bene, e posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che promettono molto, convien creare, conviene inventare. Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista da così lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della buona commedia; ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio alla sua carriera, e pervenne a quel grado di perfezione, che gli antichi ci avevano soltanto indicato, e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare.-"
Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva di cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione le regole; ma dice: "Non ho mai sacrificata una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva render cattiva". Ciò che chiama "pregiudizio" è l'unità di luogo. La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non è la commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo esempio dava il Fagiuoli; ma la buona commedia, com'egli la concepiva: "La commedia essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee esser la mia meta." E il suo concetto della buona commedia è questo: "Tutta l'applicazione che ho messa nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di non guastar la natura". Carattere idillico, superiore a' pettegolezzi e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d'animo, quest'uomo che visse i suoi bravi ottantasei anni e morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sè:

"Il morale da me è analogo al fisico; non temo nè il freddo nè il caldo e non mi lascio infiammar dalla collera, nè ubbriacar dalla gioia."

Con questo temperamento più di spettatore che di attore, mentre gli altri operavano, Goldoni osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L'arte per lui era natura, era ritrarre dal vero. E riuscì il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l'intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l'ipotetico, il congetturale, il soprannaturale, così egli volea proscrivere dall'arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica dell'accademia e della rettorica.
La riforma era più importante che non apparisse; perchè, riguardando specialmente la commedia, avea a base un principio universale dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione alla maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo, misura e giustezza nella concezione, calore e brio nella esecuzione.

La "Mandragola", capitatagli ch'era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione. Il "Misantropo", l'"Avaro", il "Tartufo", le "Preziose", e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia, come la concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. - Voi avete la commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere - diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere nelle situazioni anche più ordinarie della vita.

Era tutt'un altro sistema, e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il protagonista nel primo sistema è il caso o l'accidente, le cui bizzarre combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie: l'interno è occulto. In questa superficialità ottusa si era consunta la vecchia letteratura, ed, esaurite tutte le forme del maraviglioso, non bastava più a conseguire l'effetto con mezzi propri, senza il sussidio del canto, della musica, del ballo, della mimica, della declamazione. La parola non era più il principale: era l'accessorio, il semplice tema, l'occasione. Anche la commedia si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere, senza quell'improvviso de' lazzi degli Arlecchini, de' Truffaldini, de' Brighella e de' Pantaloni. Ora l'idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per sè sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in maschera e senza maschera.

La sua riforma era in fondo la restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla parola, ma intorno al suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore dell'espressione. Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici, ma l'interno organismo, sopra questo concetto, che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la facciamo noi, l'opera della nostra mente e della nostra volontà. Concetto del Machiavelli, dal quale usciva la "Mandragola". Perciò il protagonista è l'uomo, con le sue virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli avvenimenti, o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza, ma l'audacia della riforma, obbligato spesso a concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico, la compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere, vinse talora più con la pazienza o la destrezza, che con la risoluta tenacità de' propositi.
Di queste concessioni trovi i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego come insino all'ultimo continuò nel romanzesco, nel sentimentale e nell'arlecchinesco: le necessità del mestiere contrastavano alle aspirazioni dell'artista.

D'altra parte, intento all'interno organismo della commedia, neglesse troppo l'espressione, e per volerla naturale la fece volgare, sì che le sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo non è concepito da lui come un aggregato di qualità astratte, ma è còlto nella pienezza della vita reale, con tutti gli accessorii. Base è la società veneziana nella sua mezzanità, più vicina al popolo che alle classi elevate: ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi, ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza di forme, che sono come l'aria della civiltà.
I caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l'avaro, l'adulatore, il cavalier servente, inviluppati in quest'atmosfera, escono fuori vivi, coloriti, originali, nuovi, vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del grossolano e dell'improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate dall'educazione, paion fuori in modo subitaneo, e senza freno o ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono con quella loro improvvisa grossolanità la più schietta allegria, tipo il "Burbero benefico".

Non essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal vero e colte nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per via di motti, riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi propriamente "spirito", e appartiene a una società più colta e raffinata) ma erompe nella brusca vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo più unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata, messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici, e ti porta rapidamente alla fine tra la più viva allegria. Indi viene la superiorità del suo dialogo, che è azione parlata, di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai perduta di vista, non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l'interesse è nell'insieme, e di rado se ne stacca un personaggio, una scena, un motto.
Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l'azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stessa azione ne' suoi movimenti.

Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità: nella sua grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo correre diritto e rapido il poeta non medita, non si raccoglie, non approfondisce; sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente al suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e con l'aria più ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità: onde la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all'ironia. Nel suo studio del naturale e del vero trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio del linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza; per fuggire la rettorica, casca nel volgare. Gli manca quella divina malinconia, che è l'idealità del poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come fosse la sua creatura che accarezza con lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l'ultima finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia fretta; il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare il crudo e lo sciacquo del suo colorito.

La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell'arte. Se la vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti, scostandosi possibilmente dal reale, e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale la sua base, e studia dal vero la natura e l'uomo. La maniera, il convenzionale, il rettorico, l'accademico, l'arcadico, il meccanismo mitologico, il meccanismo classico, l'imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la forma letteraria, è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l'uomo, studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali, e calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è appena lambita, e le sue profondità rimangono occulte. Ma la via era quella, e in capo alla via trovi Goldoni.
A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della poesia; e quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto, parlando pure con riguardo dell'avversario, non potè risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco, o, in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli parevano elementi essenziali della poesia; quel ritrarre dal reale gli pareva una volgarità. D'altra parte non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria italiana. Dicevano che l'era oramai un vecchio repertorio, che l'era ridotta a mero meccanismo, che l'era una scuola d'immoralità, di scurrilità, roba da trivio, "goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato".

C'era esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di verità c'era. La commedia improvvisa, dell'arte o a soggetto, era isterilita, come tutt'i generi della vecchia letteratura, e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con poca varietà un vecchiume trasmesso da una generazione all'altra: si viveva sul passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era così poco nuova e improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più che la commedia letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e volevano proscrivere addirittura quel genere di commedia, "indecente in un secolo illuminato".
Gozzi che l'avea contro quei lumi, e vedea di mal occhio tutte quelle novità che ci venivano d'oltralpe, se ne fece paladino, e scese in campo co' ragionamenti e coll'esempio, scrivendo sotto nome di "fiabe" commedie con le maschere, e perciò con una parte improvvisata, le quali ebbero successo grandissimo, e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo, e Goldoni era il riformatore; pure avrei desiderato a Goldoni un po' di quella fibra rivoluzionaria ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe proceduto più ardito e conseguente nella sua riforma.

Il "taciturno solitario" Gozzi, come lo chiamavano, era uomo d'ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea, e trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la bile. Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì novatore e riformatore, e correndo dietro alla commedia a soggetto, s'incontrò nella commedia popolana, e ne fissò la base. Grande confusione era nella sua testa, come si vede da' suoi ragionamenti; indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la chiarezza dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro: perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e vuole una cosa e fa un'altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto, ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo.

Fini transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione, come elementi perturbatori, e rimasti inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le maschere, cioè certi caratteri o caricature tipiche del popolo, come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali, accessorii spesso grotteschi e insipidi per rispetto al contenuto, innestati e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto.
La sua base è il soprannaturale, nelle sue forme, miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immaginazione tanto più vivo, quanto meno l'intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le sue diverse forme, conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita; ma per demolirlo, per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto, questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel secolo de' lumi, nel secolo degli "spiriti forti" e de' "belli spiriti". E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto, e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo.

E poichè il pubblico s'interessava ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva concludere, se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero, l'uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura, e l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori. E tutti e due erano una riforma della commedia ne' due suoi aspetti, la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l'apparizione della nuova letteratura. Ma questo che fece Gozzi non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per occasione, disprezzava il pubblico che l'applaudiva, non prendeva sul serio la sua opera, e perchè Goldoni imitava dal vero, s'innamorò lui del romanzesco e del fantastico.
Ora l'arte non è un capriccio individuale, e perchè Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa rifare Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò. L'arte, come religione e filosofia, come istituzioni politiche ed amministrative, è un fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell'immaginazione, quando egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella "Marfisa", quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi affatto contrari, e quando il popolo, ebete nella sua miseria, stava come una massa inerte, e non dava segno di vita letteraria.

Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte quelle novità, che sentivano troppo di democrazia, e viveva coi suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato, non divenne un poeta. Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo non potea sorgere di mezzo al popolo, divenuto acqua stagnante; un movimento c'era, e veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi.
Creare un mondo d'immaginazione, quando la guerra era appunto contro l'immaginazione in nome della scienza e della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a tavola di salute.
Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua idea, altamente estetica in astratto, riuscì un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l'antico, odiava le novità, e senza saperlo le portava nel suo seno: ond'è che tratta quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo che il forense Goldoni rappresenta la sua società borghese. Gli manca il chiaroscuro, gli manca l'impressione e il sentimento del soprannaturale, anzi il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto vulgare e ordinario, a quel modo che andava predicando Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e volendo esser naturale spesso ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo è nella ingenuità delle sue impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione, terrore, collera, pianti, riso, com'è ne' racconti delle società primitive. Questa ingenuità è perduta, la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgarità.

Quelle apparizioni non hanno per lui serietà, sono giochi e passatempi; perciò scherzi abborracciati, e senza alcun valore proprio, che, aiutati dalla mimica, da' lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti lascino nell'animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare, e quando fallì alla prova, se la prese con lui furiosamente, come l'avesse tradito, e dovea prendersela con sè medesimo, che andava sognando un Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano, con le sue maschere, le sue indecenze e le sue volgarità, e di Gozzi rimase una bella idea, presto dimenticata. La società prendeva altra via, e seguiva Goldoni.

Il movimento a Venezia rimase puramente letterario. C'era un centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi, divenuta presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era dall'altra parte Goldoni con intenzioni più alte, che attingevano l'organismo dell'arte. Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del movimento, e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perchè il nemico non si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio d'idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da commedia, qualche cosa come il "burbero benefico".
Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa, ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la natura, era il principio rinnovatore della letteratura, negazione dell'Arcadia, ricostituzione del contenuto e della forma, incarnato in alcune commedie di esecuzione più o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la verità della concezione, delle situazioni e de' caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa, filosofica, politica, morale, sociale, la sua poca coltura, la scarsezza de' suoi motivi interni toglie rilievo e vigore, toglie quella idealità, che viene da un significato generale e permanente.
Cosa manca a Goldoni? Non lo spirito, non la forza comica, non l'abilità tecnica: era nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti gl'italiani, e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sincerità e la forza delle convinzioni.

Ciò che attestava una possibile rigenerazione, era la riapparizione di quel mondo interiore negli spiriti più eletti, che rimetteva in moto il cervello, e svegliava il sentimento.
Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta a riceverlo, e che l'Italia dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel mezzodì l'attività speculativa da Telesio a Coco non mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per materia la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte le utili riforme nell'assetto dello Stato: quando le nuove idee vi si affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle, e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani. Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e di movimento, spesso ingegnosa e appassionata, filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni, dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, tutt'i generi della vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica, senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo, imitazioni, raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con applausi di convenzione.

Già Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi che faceva della rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno di quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla novità e importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta sempre la più viva partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante in quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso e il sentimentale, ciò che vi rendea così popolari il Tasso e il Marino, stagnato il movimento letterario, s'era trasformato nel sentimento musicale, e vi educava Metastasio, e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri di musica, che furono i veri padri di un'arte serbata a così grandi destini.

La musica sorgeva animata da quegli stessi impulsi che non trovavano più soddisfazione nella imputridita forma letteraria, sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di sentimento. Mentre l'attività speculativa e il sentimento musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno d'Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma della commedia, Milano diveniva il centro intellettuale e politico della vita nuova, principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c'era l'accademia de' Granelleschi, a Milano c'era l'accademia de' Trasformati. Lì si concepiva la riforma, come una restaurazione degli studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch'era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo, l'"Enciclopedia" vi era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e per maggior libertà si usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri, il Passeroni; ci era il fiore dell'intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire che filosofia, legislazione, economia, politica, morale, tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti, con più o meno di chiarezza e di coscienza.

La letteratura non potea sfuggire a questa trasformazione, e alla solennità classica succedeva una forma svelta e naturale, e ne' più briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera, che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole, e di padre Branda, che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva vitupèri del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia società nella "Vita di Cicerone" e nelle "Favole esopiane", e alla vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi dell'Algarotti, a' lezii del Bettinelli, che erano i tre poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza iniziativa, rideva saporitamente della società, in mezzo alla quale viveva povero e contento.
Metastasio, Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta, idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro già i segni di una nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida, chiara, disposta più alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma, alla quale manca altezza e serietà di motivi; ci è il letterato, manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano, di cui era espressione letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano più o meno arcadi.

In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini, il 22 maggio del 1729. Venuto dal contado in Milano, cominciò i soliti studi classici sotto i barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo volle farne un prete per nobilitare il casato; ma sul più bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista e il pedagogo, e ne' dispregi e nella miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo cominciò arcade, e le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di quegli accademici.


Rivelò la sua personalità, combattendo il padre Bandiera e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella scuola facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sè, ne' ritagli di tempo obbliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o il padre Bandiera co' suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella pedanteria, non gli rincresceva meno quel francesizzare de' più, divenuto moda nelle alte e basse classi.
Usando per il suo mestiere in case signorili, potè studiare dappresso questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo, che costituiva allora la società italiana. Già questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi un carattere.
Parini era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de' piaceri, aveva pochi bisogni, e nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario, inaccessibile alle tentazioni e a' compromessi, e, come Dante, fece parte da sè.

Quel mondo nuovo, che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione, e in opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso Plutarco e Dante più che per influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro di quelle macchie e ombre che vi sovrappongono le vanità e le passioni e gl'interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una interna misura, quell'equilibrio delle facoltà, che è la sanità dell'anima, quella compiuta possessione di se stesso, che è l'ideale del savio, quella mente rettrice, che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni, e le tiene nel giusto limite. La sua forza è più morale che intellettuale; perchè la sua intelligenza si alza poco più su del luogo comune, ed è notabile più per giustezza e misura che per novità e profondità di concetti. Lo alza su' contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso morale, che gli dà un carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell'intendere e dell'atto mediante l'amore, che Dante chiamava sapienza: rinasce l'uomo.
E l'uomo educa l'artista. Perchè Parini concepisce l'arte allo stesso modo. Non è il puro letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto; anzi la sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per lui l'uomo nella sua integrità, che esprime tutto se stesso, il patriota, il credente, il filosofo, l'amante, l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del mondo interiore, chè non è poesia dove non è coscienza, la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base del poeta è l'uomo
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La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia tra l'idea e l'espressione.
La base del contenuto è morale e politica, è la libertà, l'uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione. È il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell'espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata ogni mediazione. È la forma di Dante e di Machiavelli riverginata con esso il contenuto. Il contenuto è lirico e satirico. È l'uomo nuovo in vecchia società.

L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione; ha tutte le condizioni della realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue impressioni, si effonde, così com'è, nella ingenuità della sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento de' fatti e delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al di sopra del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo solitario, più spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sè, a conservare l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. C'è nel poeta un po' del pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato pedantesco e pretensioso.
Il suo amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è accompagnato con la più tenera sollecitudine per l'umanità. La sua rigidità pel decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza. La sua dignità è scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la sua virtù è pudica, piena di grazia e di modestia. Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti c' è sempre il limite, un'armonica temperanza, dov'è la sua perfezione intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la "Vita rustica", la "Salubrità dell'aria", il "Pericolo", la "Musa", la "Caduta" e la sua "Nice" e la sua "Silvia", provi una soddisfazione più che estetica, senti in te appagate tutte le tue facoltà.

La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del contenuto. Quelle forme così magnifiche, alle quali si dà una importanza così capitale, sono un'ironia, messe allato al contenuto. La "Batracomiomachia" è l'ironia dell'lliade, la "Moscheide" è l'ironia dell'Orlando: sono forme epiche applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la forma delle vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine, con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è la sostanza. Questo è il concetto fondamentale del "Giorno", fondato su di un'ironia che è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua semplicità, la sua serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo.

L'Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne' versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta l'indignazione dell'uomo offeso. La sua interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice gli dà la forza della repressione, sì che il sentimento di rado erompe sulla superficie, e l'ironia di rado piglia la forma del sarcasmo. L'ironia de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica, come nel Boccaccio e nell'Ariosto, perchè era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l'ironia della scienza a spese dell'ignoranza, e l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto a una società destituita di ogni vita interiore; lì era l'ironia del buon senso, qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce l'uomo, e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia società era a sua immagine, cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui resuscita la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La parola scopre l'ironia, perchè è in antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.

Togliete ora l'ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l'ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri.
È l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo ai contemporanei,
statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.

E' LUI IL PADRE DELLA TRAGEDIA ITALIANA...

Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE

L'ALFIERI > > > >

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