LETTERATURA

L'ALFIERI - ( 1698 - 1782 )



IL PADRE DELLA TRAGEDIA ITALIANA

Alfieri si rivelò tardi a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla società. Fino a ventisei anni aveva condotto la vita solita di un signorotto italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano però la vita. De' primi studi non gli era rimasto che l'odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori, nè ricchezze, nè uffici: viveva senz'altro scopo che di vivere. Vita vuota de' ricchi signori, che se ne contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era triste, e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di tuttI i popoli in decadenza, l'ozio interno, la vacuità di ogni mondo interiore.
Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte possono nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri già tutta fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui.

Nato non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perchè tutto piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte attraverso tutta Europa; e non vi trovò altro piacere che il correre, simulacro dell'interna irrequietezza non soddisfatta.
Questo è ciò che dicesi «dissipazione», una vita senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell'uomo, il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l'avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava triste e annoiato, e non sapeva perchè. Il perchè era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero e di affetto, non aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltà.

Una passione si piglia facilmente in quell'ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne' momenti più feroci della noia si gettò SU I libri. Di latino non intendeva più nulla, e pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e niente educazione, lo stile classico lo annoiava; Racine lo faceva dormire, e gettò per la finestra un "Galateo" del Casa, intoppato in quel primo «conciossiachè». Si diede ai romanzi come i giovanetti alle "Mille e una notte". Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine, e gli dispiacque l'Ariosto per le sue interruzioni, e lesse Metastasio saltando le ariette, e non potè leggere l'"Henriade" e l'"Emilio" per quel rettoricume, che gli toglieva la vista del racconto.

Aspettando i cavalli a Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il racconto, gli battè il cuore, quelle immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitarono la sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro? - E il potere c'era, perchè le sue forze non erano da meno. Una notte, assistendo l'amata nella sua infermità, sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata poi a Torino ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere scrittore tragico? - Venutogli questo pensiero, ci si fermò.
Secondo le opinioni di quel tempo, l'Italia era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere; ma le mancava la tragedia. Questa era l'idea fissa di Gravina, e l'ambizione di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei.

Ma la tragedia non c'era ancora, per sentenza di tutti. E dare all'Italia la tragedia gli pareva il più alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea portata ingrandita l'immagine dell'Italia, non trovato nulla comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestà dell'antica Roma, le memorie di una grandezza non superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto degenere, avea fermissima fede in una Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta «uomo», e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell'eroico, fosse acconcia a ritrarvi questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui stesso.

Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là nelle menti, e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione, scopo unico e ultimo della vita, e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore d'Italia, il grande precursore di una nuova era, e, non potendo con l'opera, co' versi. Così trovò alla vita un degno scopo, che gli prometteva gloria, lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo, perchè tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu sprone, e glielo rese più caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata fino allora ne' cavalli e ne' viaggi. Per «disfrancesizzarsi» e «intoscanirsi» visse il più in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti, contento di «spensare per pensare», fece suoi compagni indivisibili Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.
Copiò, postillò, tradusse, «s'inabissò nel vortice grammaticale», e, non guasto dalla scuola, e tutto lui, si fece uno stile suo. Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l'animo era già alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non una via, ma impedimento alla corsa, e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una parola di più gli è una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani, e a quelli che strillano dà la baia:
Mi trovan duro?
Anch'io lo so:
pensar li fo.
Taccia ho d'oscuro?
Mi schiarirà poi libertà.
All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:
Io canterò d'amor soavemente:
molle udirete il flauticello mio
l'aure agitare armoniosamente
per lusingare il vostro eterno oblio.

Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui, si vede da questo epigramma contro i pedanti:

Vi paion strani?
«Saran toscani.»
Son duri duri,
disaccentati...
«Non son cantati.»
Stentati, oscuri,
irti, intralciati.. .
«Saran pensati.»
Pure Alfieri, discepolo di sè, non era ben sicuro del fatto suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un barlume ne vedeva nell'"Ossian". Ma voleva l'impossibile, e in ultimo prese il miglior partito, fece da sè. «Osa, contendi», gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare intorno a' suoi versi, tormentandoli in mille guise; ma «Gira, volta, ei son francesi» Gira, volta, ei son versi di Alfieri, energicamente individuali, «carme più aguzzo assai, che tondo». Questo ei chiamava «stile tragico». La forma letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, «pensato e non cantato», energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico intorno all'arte, gli venne dalla sua natura: perciò in quelle sue asprezze è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione che è tra quello stile e tutto il congegno della composizione. Perchè Alfieri, come sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto sopprime confidenti, personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione dell'anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma, vediamo non com'è fatta, ma come è nata.

Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo problema, ma il dato o l'antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell'eroico, la concepì come un conflitto di forze individuali, dove l'eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e dell'armonia glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide, o l'oppressione, e la sua vittima è l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell'uno e dell'altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.

Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione de' caratteri e delle passioni individuali quello che gli antichi chiamavano il «destino», e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava «ordine provvidenziale». Un concetto scientifico della storia era nato in Italia, dove il destino e l'«ordine provvidenziale» si era trasformato nella «natura delle cose» di Machiavelli, nello «spirito» di Bruno, nella «ragione» di Campanella, nel «fato» di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell'intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell'arte. Shakespeare con la profonda genialità del suo spirito avea colto queste forze collettive e superiori che sono il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, più operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e al calore del racconto, che a scrutarne le profondità. Rimase dunque ne' cancelli del secolo decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d'individui, e il fato storico fu la forza maggiore o la tirannide, e la chiave della storia fu il tiranno. Più tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul e intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile ci sta per figura rettorica ed esiste più nell'opinione e nelle parole degli attori, che nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l'interesse è per Saul, i cui moti sono inconsci, e determinati più dalla malizia di Abner, che da malizia sua propria. Il suo "Saul" è la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul, e i sacerdoti tinti di colore oscuro.

Or questo concetto era la negazione dell'Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al mondo di Tasso, di Guarini, di Marino, di Metastasio succedeva la tragedia, non accademica e letteraria, com'erano le tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era questa, che la società apparteneva al più forte, e che giustizia, virtù, verità, libertà giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale, il trono e l'altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto sociale ancor barbaro, fondato sulla forza. Ma è tragedia di puro pensiero, rimasta in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la società tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica, confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato sociale corrispondea la tragedia filosofica e accademica, com'era quella di Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico de' suoi furori, de' suoi odii, della tempesta che gli ruggìa dentro. In mezzo alla società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e libertà, egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale, e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio la tirannide, e freme e si dibatte sotto alle sue strette, imprecando e minacciando, prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti; i suoi princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo che sente in sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza, e della solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto e colla fronte come statua ideale del futuro italiano, come di «liber uomo esempio».
Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
redivivi omai gl'Itali staranno
in campo audaci...
Al forte fianco sproni ardenti dui,
lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
d 'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: - O vate nostro, in pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età che profetando andavi.
C'è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s'impone a' contemporanei, sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri, informava di sè tutta la cultura, era vivo negl'intelletti: una parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo, che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici «facitori di libertà», che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, «vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino»: Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio. E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella posterità:
Ma non inulta l'ombra mia, nè muta
starassi, no: fia de' tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d'ogni empio
veggio la vil possanza al suol caduta,
me forse altrui di liber uomo esempio.
Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei «profumati barbari», balbettanti «una qualche non lor libera idea», per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo: Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni. Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, risospinto dalla società ancora più in se stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi, dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a cose effettuali, più a generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni, come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato.
Senti nella tragedia la solitudine dell'uomo, che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità, e non l'intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli manca l'amore, quel sentirsi due e cercar l'altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell'artista, quel divino riso, col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura.

Quel suo furore, del quale si vanta, è il furore di Oreste, che gl'intorbida l'occhio, sì che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si vanta, quella mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono, e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:
Nulla di quanto l'uom scienza chiama
per gli orecchi mai giunto erami al core:
ira, vendetta, libertade, amore
sonava io sol, come chi freme ed ama.
E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertà, amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l'attica dea, che gli dice: - O dormi o crea -, ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita, è buono a creare. Non vale cuore pieno, e «mente ignuda». Manca a lui la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi misteri, e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com'è il «Pace» di Nerone, il celebre - Scegliesti? - Ho scelto -, e il «Vivi, Emon, tel comando», e il «Fui padre», e il «Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti»: uno stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l'artificio, una vita a lampi e salti, più dialogo che azione, e sotto forme brevi spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell'insipido.

E si comprende perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona, perchè in quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto, e perchè fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore, si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività. Ci è il patriottismo, e non la patria; ci è l'amore, e non l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo: sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità e modestia, e nella concitata espressione senti la povertà del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio lo rende profondo.
Uno de' personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'"Agamennone"; e la scena dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di Shakespeare.

Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità, l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore oscurato nella vita e nell'arte italiana gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell'antico, congiunto col suo ferreo carattere personale.
La sua Italia futura è l'antica Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com'egli dice, «il 'sarà' è l''è stato'». Risvegliare negl'italiani la «virtù prisca», rendere i suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca.

L'alto motivo che ispirò il patriottismo de' due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l'espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto "pathos", il vero motivo della tragedia moderna.

Ma un concetto così elevato del mondo era prematuro, e d'accordo col suo secolo Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia, come la vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che non potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: - Maestro, da voi abbiamo imparato l'arte. -
L'uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de' figli, e l'altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo primo, vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi.
Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno, e che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione artistica dell'individuo.

Se non che il nostro tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi, che della loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza, e si pone come esteriore e superiore all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno «sproni acuti». Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi e disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità, più simile a violenta reazione contro il passato, che a quella tranquilla affermazione di sè, paga di un'ironia senza fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.

Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l'esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtà e della misura.

Ma nelle nuove generazioni, travagliate da' disinganni e impedite nella loro espansione, quegl'ideali tragici così vaghi e insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all'Italia di avere infine il suo gran tragico pari a' sommi. C'era la tragedia, ma non c'era ancora il verso tragico, a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l'"Aristodemo", il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, «di Dante il core e del suo duca il canto».
E in verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti.

Con la patina dantesca Monti lo fu ancora di più nellla sua "Brassvilliana"
Ma poi, subito dopo, "cosa accadde?
In breve, ecco cosa ci narra il De Sanctis: "...Alfieri, che nei primi entusiasmi aveva cantata la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e vendicativo lui sfogava nel "Misogallo" l'acre umore, mentre il Monti, che nella sua Cantica aveva martirizzato e santificato in mezzo agli angeli Luigi Capeto, sono entrambi contraddetti dagli avvenimenti dal 1797 in poi.
Alfieri si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Il Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme.
La vecchia generazione se n'andava al suono dei poemi lirici di VINCENZO MONTI, abate, marito, professore, poeta, cavaliere, antirivoluzionario, poi rivoluzionario (rinnegando la Brassvilliana, il Luigi ora lo chiama "il vile Capeto"), poi bonapartista, poi ancora antirivoluzionario, per poi finire come poeta alla corte austriaca (!!!)
Per un attimo non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi….e poi vennero ancora feste... e poi vennero ancora armi... e ancora altre feste.

Ma nello stesso '97,

era apparso un giovane ventenne: UGO FOSCOLO > > >

Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE

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