LA LETTERATURA  A ROMA

ai tempi di CESARE E AUGUSTO

Nell'età di Cesare, Roma e l'Italia sono pervase della cultura greca che apre nuove vie all'arte latina. L'ingegno latino ora si mostra nella sua piena maturità; gli scrittori non brancolano nel buio alla ricerca di nuove forme né si limitano alla semplice propagazione del pensiero e dell'arte della Grecia. Quest'arte e questo pensiero lo perpetuano e lo svolgono secondo il loro genio; al sole vivificatore dell'Ellade la terra italica ha schiuso il suo seno e ora produce i suoi frutti che dalla madre feconda hanno le inconfondibili caratteristiche. Una vita nuova pulsa in Roma: la vecchia società rude e sobria, fedele alle antiche istituzioni e ai patrii numi, ha ceduto il posto a una società certo irrequieta, ma raffinata, incontentabile; le passioni politiche agitano i petti, le speculazioni tormentano le menti, le nuove ricchezze producono nuovi costumi e nuovi bisogni. L'arte di questo periodo è il riflesso di questa vita, di questa inquietudine, di queste passioni. Come sorgono le grandi personalità politiche, così spuntano le grandi individualità artistiche, e all'infuriare dei partiti politici fa riscontro il contrasto delle tendenze letterarie, artistiche e filosofiche.

Fra i poeti giganteggia solitario TITO LUCREZIO CARO, vissuto tra il 656 e il 699 anno di Roma, S. Girolamo pone nel 94. a.C. la sua nascita, forse in Campania. E mori (anche qui forse) forse suicida, all'età di 44 anni.
Nel suo grandioso poema De rerum natura  rivela ai Romani la filosofia di Epicuro. Col filosofo greco egli discorre della natura delle cose, del cosmo e della sua genesi, della vita dell'universo e di quella dell'uomo. "Niente nasce dal niente" -egli dice con Epicuro- e niente finisce nel niente. Nessuna altra cosa esiste all'infuori del vuoto e della materia. la quale è comosta di atomi piccolissimi e invisibili, impenetrabili, solidissimi e indivisibili, immutabili ed eterni. La materia e il vuoro formano l'universo che è infinito e dal moto incessante degli atomi nascono e muoiono le cose. Nascita e morte non sono che la composizione e la scomposizione di atomi non dovute alla volontà degli dei, che il caso, non le divinità, hanno creatogli infiniti mondi che sono nello spazio e fuori del nostro mondo e perciò ad esso estranei sono gli dei. Nei vaneggiamenti del sonno e della veglia si rivelò agli uomini l'esistenza degli dei e ad essi, ignorando l'essenza delle cose e le cause naturali, gli uomini attribuirono la creazione e il governo del mondo e crearono la religione e l'oltretomba e con queste la propria infelicità.
Ma l'oltretomba non esiste perchè l'anima è mortale e perisce col corpo. Vano dunque è il timore della morte, benefica è la dottrina epicurea che libera l'uomo dal timore degli dei, della morte e della vita futura.

Lo scopo del poeta come quello del filosofo suo maestro è questo: penetrare il mistero della natura, fugare con la luce della scienza le paurose superstizioni, togliere all'anima umana il terrore che ispirino la fine della vita e il tormentoso pensiero dell'al di là. Ma non è arida esposizione d'una dottrina il De rerum natura,  come Lucrezio non è un indagatore freddo e insensibile dell'essenza delle cose. Egli non è un divulgatore di teorie altrui, ma l'apostolo fervente di una dottrina che per lui è verità, che in lui è diventata passione. La scienza si è fatta poesia, poesia sublime, poesia umana e divina. Il suo spirito s'innalza verso i cieli, spazia all'infinito, esplora l'universo cercandovi la pace e la serenità, poi scende in mezzo all'umanità e ne canta la grandiosa tragedia, che è anche la tragedia del poeta stesso, del poeta che cerca la fine dei suoi tormenti e non la trova neppure nella scienza rivelatrice e la vuole perciò nella morte.
Lucrezio è un solitario ed è l'unico grande poeta della scienza. Altri poeti vi sono in questo tempo - come Varrone Atacinio, autore di una Chorographia- che trattano nei loro poemi materia scientifica, ma le opere loro non sono vivificate dal soffio dell'arte. D'altro canto non è questo il periodo delle opere di lungo respiro e la stessa musa epica, se si eccettui un poema nel medesimo Varrone sulla guerra contro Ariovisto, tace.

""La grandezza di TITO LUCREZIO CARO e la visione poetica che sa dare alla freddezza della scienza: questo soffrire di uomo è il grande soffrire dell'uomo di scienza, e il sapere è abbandonare progressivamente la grande fratellanza della folla degli uomini, abbandonare forse il dolore individuale e sempre più comprendere il dolore universale e liberarsi del contingente, per soffrire dell'eterno.
La scienza è gioia: se indimenticabile nella storia della poesia e del pensiero umano è il grande spirare dell'arte pura nell'invocazione di Venere, e se indimenticabile è la visione dell'umanità travolta dal dato ineluttabile della morte turpe (turpe, come sempre è la morte) della pestilenza; commozione sublime (che trova il suo pari solo forse in alcuni momenti del Dante Paradisiaco) è il momento della conquista della verità scientifica: quando, nelle lodi divine che Lucrezio rivolge a Epicuro (libro terzo), egli comunica il gaudio sublime di chi scorge mondarsi d'ogni superstizione e vede squarciarsi quelle mura dell'Universo che ci sottraggono la Verità, e contempla il mistero della scienza, quel tutto di verità di scienza che Dante trasumanando contemplava nel momento sublime della visione della Rosa Mistica Natura: e i versi che seguono a questo brivido indicibile di commozione pura dello scienziato che coglie nel mistero del Vero, sono uno squillo di gioia nella visione dell'Olimpo, ove è tutto lucore e serenità in un riso sublime della luce dell'etere: e scompare la morte con il suo vano terrore...) 

"La fama lucreziana, affidata sin dagli inizi a Cicerone, si affermò subito e non conobbe sosta: già all'età di Tacito( Dialogo 23) egli era preferito a Virgilio; per Orazio è già autore consacrato, Virgilio ne subì grandemente l'influsso (come già avevano osservato gli antichi: Gellio, 1,21,7): i cristiani si opposero a lui per la sua irreligiosità e per la sua teoria della mortalità dell'anima, l'ebbero a testo scientifico per lo studio delle discipline naturali: nemmeno il Medioevo lo ebbe a disdegno, poiché ci ha conservato il testo: il più antico esemplare che possediamo è del IX secolo: il grammatico Valerio Probo ne fece un'edizione critica dalla quale si ritiene dipenda in sostanza la nostra tradizione" 
(Ignazio Cazzaniga, Storia della Letteratura Latina, Nuova Accademia Editrice, Milano 1962). 


E' il tempo della lirica e dei brevi componimenti poetici, dei poemetti mitologici, degli epitalami, delle elegie e degli epigrammi, il tempo dei potei nuovi alessandrianeggianti che, sull'esempio di Callimaco e dei poeti ellenistici, amano la varietà dei metri, i pensieri ricercati, le locuzioni nuove e dedicano tutte le loro cure alla forma.
A questa scuola poetica, di cui gli iniziatori sono C. VALERIO, PORCIO LICINO, Q. CATULO, GN. MAZIO e LEVIO, e che fiorisce intorno al grammatico VALERIO CATONE, autore d'un poemetto Lydia  e d'un carme Dictynna,  appartengono TICIDA, CECILIO, CORNIFICIO, FURIO BIBACULO, ELVIO CINNA e LICINIO CAVO, le cui opere disgraziatamente andarono perdute.
Ma il più grande di tutti i poeti alessandrineggianti del suo tempo è VALERIO CATULLO di Verona, vissuto tra il 667 e il 700 (86-53 a.C.),  temperamento squisito di poeta, natura sensibile di uomo, che vuole amare e vuol godere intensamente e porge l'orecchio a tutte le voci  della vita e sa rievocare nel verso armonioso i miti della Grecia, dar vita poetica a scene della vita reale e, sia egli spettatore o protagonista d'una vicenda, sa dare al suo canto l'ansia del tormento da cui è agitato, la voce dell'ebbrezza o della disperazione che è la voce dell'anima sua.

La sua breve vita è piena dell'amore di Lesbia . che è forse quella Clodia sorella di Publio Codio e moglie di Q. Cecilio Metello- e di quell'amore è piena la sua poesia.
Lesbia è la sua musa e la vicenda d'amore il suo romanzo, nel quale, con versi impeccabili, è cantata tutta una storia fatta di tenerezze e di tormenti, di ebbrezze e di disperazione, di gioie e di abbandoni: la storia della sua vita agitata. Lesbia però non è la sola figura nel mondo di Catullo che ne ispiri la poesia: Ora egli canta la sposa d'un amico, ora la perdita del fratello, ora rivolge la preghiera alla divinità, ora descrive il suo viaggio dall'Oriente in Italia e tratteggia la sua navicella che intristisce nelle acque di Sirmione, ora rivolge i suoi epigrammi mordaci a Cesare o si tuffa nella mitologia dando vita a scene e figure del mito ellenico nei mirabili versi dei suoi carmi e dei suoi epitalami.

Con Lucrezio e Catullo la poesia latina giunge a tale potenza da rivelare nelle forme immortali dell'arte la misteriosa e infinita vita dell'universo e la torbida e complessa vita di un'anima e strumento di questa rivelazione è una lingua, la quale ha tanta duttilità ed ha acquistata tanta ricchezza che non c'è cosa che non sappia esprimere con forza o con delicatezza, con rude energia o con armonia raffinata.
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IL MIMO

Verso il principio dell'ottavo secolo di Roma (70 a.C.) le Atellane, rappresentate a Roma alla fine dei drammi, cedono il posto ai  mimi.  Questi, di cui si conosce la provenienza, già da due secoli servivano come intermezzi teatrali e, nei ludi floreali, anche come spettacoli a sè, davanti al tempio della dea, in prossimità del Circo Massimo.
Erano rappresentazioni che sapevano molto di farsa, condite di frissi, di caricature, di smorfie ed allietate da danze lascive. Osceni ne erano gli argomenti e l'intreccio si aggirava quasi sempre sull'adulterio. Il nome di  mimo  si dava non solo alla composizione ma anche all'attore; questi non usava la maschera, indossava abiti comuni, non calzava il coturno della tragedia o il socco della commedia, ma scarpe basse, e se faceva la parte del buffone portava un vestito arlecchinesco detto centunculus. Le parti femminili - a differenza della tragedia e della commedia dove erano sostenute da uomini- erano sostenute da donne, non certo di castigati costumi se allietavano il pubblico con mosse lascive e con danze impudiche e, nelle feste di Flora, solevano, a richiesta degli spettatori, denudare il corpo (nudatio mimarum), e da qualche scrittore anzichè  mimae  sono dette meretrices.

Nell'età di Cesare il mimo assurge a dignità letteraria per merito di DECIMO LABERIO. Nacque questi intorno al 648 (105 a.C.) e morì a Pozzuoli nel gennaio del 711 (42 a.C.). Cavaliere romano, s'era acquistato molto nome come autore di mimi coi quali più d'una volta aveva scagliato frizzi pungenti contro Cesare, e sarebbe rimasto il più grande scrittore di mimi se un liberto di origine asiatica di nome PUBLILIO SIRO non fosse venuto a Roma a togliergli il primato.

Di Siro approfittò Cesare per trarre vendetta dei motti di Laberio. Capitato a Roma in occasione dei  giuochi trionfali del 709, Siro sfidò ad una pubblica gara tutti gli autori di mimi e Laberio, per consiglio del dittatore, dovette parteciparvi e calcare la scena perdendo in tal modo il titolo di cavaliere. Nel prologo del mimo, rappresentato in quell'occasione, così Laberio si rammaricava di essere stato costretto, negli ultimi anni della sua vita onorata, a far da istrione: "La necessità ai cui obliqui assalti molti cercarono di sottrarsi e pochi vi riuscirono, ecco a che mi ha ridotto sul finir della vita! Quand'ero giovane sulla su di me poterono onori, denaro, timore, violenza, autorità; ora, nella vecchiaia, ho facilmente ceduto alla dolce e blanda parola dell'illustre uomo. Avrei forse potuto dire di no a colui al quale neppure gli dei seppero rifiutarsi? Così, dopo sessant'anni di vita onorata, sono uscito di casa cavaliere e vi rientrerò da istrione! Ho certamente vissuto un giorno di più di quanto avrei dovuto! E tu, o Fortuna, sempre eccessiva nel bene e nel male, se volevi strapparmi la gloria poetica perché non mi curvasti quando fioriva la mia giovinezza e avrei potuto contentare il popolo e un si grande uomo? Perché mi butti giù proprio ora? Non bellezza di forme, dignità di aspetto, virtù di animo, dolcezza di voce posso portare sulla scena. Come l'edera rampicante uccide le forze dell'albero, così la vecchiezza mi uccide con l'abbraccio degli anni. Simile a un sepolcro non conservo se non il nome!"

Laberio fu sconfitto, ma volle nello stesso mimo lanciare oscure minacce al dittatore e pungerlo ancora con i suoi versi. Cesare però lo trattò con la sua solita generosità e, riammesso nell'ordine questre, gli concesse un onorario di mezzo milione di sesterzi. Più tardi, in un altro mimo, Laberio diceva: "Non si può essere sempre primi né è facile mantenersi sulla vetta della gloria cui si è pervenuti. Si cade in minor tempo di quello impiegato nel salire. Io sono caduto; cadrà chi verrà dopo. Non c'è monopolio nella gloria!" (Cesare fu assassinato pochi mesi dopo).

Dare un giudizio sull'arte di Laberio o di Publilio Siro è difficile, perché pochi versi ci sono rimasti dei loro mimi. Del primo Orazio non diede un giudizio benevolo, ma sappiamo che entrambi - specie il secondo- godettero il favore del popolo ed è certo che, se l'uno e l'altro non furono esenti da volgari scurrilità, non fanno difetto a Laberio versi magnifici e in Publilio si riscontra un senso di umanità che lo innalza e allontana dal volgo anonimo degli autori di farse.

PROSATORI NEL PERIODO DI CESARE

Nell'ultimo tempo della Repubblica Roma produce due dei prosatori più grandi che da soli darebbero lustro alla letteratura di un popolo: CESARE  e CICERONE.

CESARE fu poeta, polemista e scrisse di questioni filosofiche e grammaticali. Nella sua giovinezza e negli ultimi anni della sua vita compose due poemi:  le laudes Herculis  e l' Iter  e una tragedia: l' Oedipus; nel 700 (53 a.C.) scrisse, dedicandolo a Cicerone, un trattato in due libri  De analogia  (andato perduto) in cui discorreva della lingua schierandosi fra gli analogisti, e nel 709 (44 a.C.), prima della battaglia di Munda, rispose al ciceroniano elogio dell'Uticense con i due libri dell'Anticatone. Ma se queste opere ci mostrano la versatilità del suo ingegno è nella oratoria e nella storia che di esso Cesare ci dà piena misura.
 Nessuna delle orazioni da lui pronunziate è a noi pervenuta, ma nel giudizio concorde di CIcerone, di Quintilliano, di Svetonio, di Tacito, di Marco Aurelio e di parecchi altri, Cesare è oratore meraviglioso che nell'acutezza e ricchezza di pensiero accoppia la bellezza dell'espressione, al pregio della persuasione la forza e l'impero dell'eloquio.

Dello storico ci sono giunte però le opere - i  Commentari della guerra gallica  e quelli della guerra civile- ed è stata gran fortuna per la storia e per l'arte. Quando Cesare punta all'orizzonte politico e letterario, gli storici raccontano ancora in annali  le vicende di Roma rifacendosi dalle origini e includendo nelle loro narrazioni le leggende. Non c'è in loro la ricerca accurata e l'esame critico dei fatti. Q. CLAUDIO QUADRIGARIO nei ventitrè libri dei suoi Annales  racconta gli avvenimenti della Repubblica da Camillo a Silla, Valerio Anziate  nei settantacinque libri delle sue Historiae  va dalla fondazione di Roma alla dittatura sillana; quasi lo stesso periodo abbraccia C. LICINIO MARCO. Ma vi è anche la tendenza a restringere la narrazione ad un limitato periodo e nascono le storie particolari, i commentari e certe monografie in cui scopo principale dell'autore è quello di mostrare e difendere i fatti accaduti durante la propria magistratura. L. CORNELIO SISENNA narra gli avvenimenti dell'epoca sillana diligentemente se non spassionatamente; M. EMILIO SCAURO scrive un'autobiografia ib tre libri; Commentari  della sua vita la scrive P. RUTILIO RUFO;  il De consulatu et de rebus suis  lo scrive Q. LUTAZIO CATULO, collega di Mario nella guerra contro i Cimbri, e i casi della sua vita narra in greco il dittatore SILLA in un'opera che la morte lasciò interrotta.

Non fu quindi Cesare il primo che scrivesse commentari tra i latini, ma superò tutti quelli che lo precedettero in questo genere difficilissimo né ci fu alcuno in seguito che riuscisse ad eguagliarlo.
Scopo di Cesare è, senza dubbio, quello di narrare le sue imprese e giustificare la sua condotta, ma egli non si lascia mai vincere dalla passione e dall'orgoglio e inattaccabile è la sua obiettività come indiscutibile è la fedeltà storica degli avvenimenti da lui raccontati. Per primo egli sente che la storia non è semplice e pura narrazione di fatti,ma ricerca ed esame coscienzioso di tutte quelle condizioni etniche, sociali, politiche, economiche, militari, geografiche che generano, accompagnano, seguono l'avvenimento, così come, da generale, egli non si preoccupa soltanto di vincere le battaglie, ma vuole conoscere i costumi, i bisogni, le condizioni, la politica, il paese dei popoli contro cui conduce la guerra e in mezzo ai quali poi dovrà costruire l'edificio ancora più difficile della pace.
 
Ma oltre che grande storico Cesare è insuperato artista. La sua prosa è lucida come il suo pensiero, precisa come i piani delle sue battaglie, sicura come la fede delle sue legioni. Egli non si cura che di essere chiaro; ma perché la narrazione abbia la chiarezza voluta egli non è minuzioso e prolisso, bensì rapido, conciso, nudo. Arida però non è la sua prosa, ma elegantissima senza essere leziosa, semplice senza essere disadorna. 

Essa è l'espressione dell'uomo d'azione che intende dire quello che è necessario e non più, scheletrica, ma varia di atteggiamenti e vivacissima, pittoresca nella sua scarna eleganza, piana e impassibile sovente, ma a volte concitata come l'ansito delle legioni e pervasa di drammaticità ed epicità che lasciano commossi ed ammirati.

La narrazione delle imprese di Cesare continuarono AULO IRZIO, che scrisse l'ottavo libro De bello gallico  e fu forse l'autore del Bellum Alexandinum,  ed ignoti scrittori probabilmente ufficiali di Cesare, che composero un  Bllum africanum  e un Bellum Hispaniense;  ma se in qualcuno di questi commentari c'è chiarezza ed ordine di esposizione e correttezza di lingua, in nessuno si riscontra l'arte che rende sommo il conquistatore della Gallia.

Accanto al commentario fiorisce la biografia, alla quale si dedicò CORNELIO NEPOTE, traspadano, autore di una  Chronica,  compendio forse di storia universale, di una collezione di  Exempla,  di una Vita di Catone,  di una di Cicerone e di una raccolta, a noi giunta incompleta, di vite di uomini illustri (De viris illustribus), nella quale lo scrittore non brilla davvero per le sue qualità di storico e di prosatore.

Storico e prosatore grande è invece SALLUSTIO CRISPO, di Amiterno della Sabina, che fu con Cesare al passaggio del Rubicone, tento una sfortunata impresa nell'alto governatore della Numidiae, ritornato a Roma, trascorse il resto della sua vita negli agi di uno splendido palazzo cui facevano corona magnifici giardini che da lui presero il nome, rimasto famoso, di Horti Sallustiani.
A lui si debbono cinque libri di  Historiae  che narrano gli avvenimenti tra il 676 e il 687, tra la morte cioè di Silla e la fine della guerra contro la pirateria, il Bellum Catilinea  e il  Bello Jugurtinum  in cui Sallustio illustra un periodo storici o un avvenimento.

Egli è il primo storico politico di Roma; se qualche volta è inesatto e parziale, quasi sempre egli ha completa la visione del periodo che illustra e questa visione esattamente rende nella sua opera. Sallustio non si perde dietro l'episodio e non va alla caccia dl particolare e della curiosità, ma si sofferma soltanto sulle figure principali e sui fatti più importanti illuminando le une e gli altri con acuta indagine psicologica che sovente tiene il luogo della ricerca storica. Le sue monografie assumono l'aspetto di drammi a forti tinte. Meravigliosi sono i ritratti di personaggi ora dipinti con compiutezza di linee ora a tratti, a sbalzi, a scorci; vivace è la pittura dei caratteri resa con un diligente esame psicologico e con l'efficace ausilio delle orazioni che rompono e ravvivano la narrazione; e drammatica è la rappresentazione delle scene dal cui insieme l'opera storica risulta colorita e palpitante. La sua lingua non è esente da arcaismi di cui pare anzi che lo scrittore si compiaccia, ma in generale la sua è la lingua parlata cui le non molte voci arcaiche danno uno strano sapore. Personalissimo lo stile: Sallustio aborre dalla simmetria stilistica, dal periodo ampio e studiato che mal s'adatterebbe ad opere le quali, più che narrazione grave, minuziosa, compiuta, sono rappresentazione viva e possente; il suo stile è rapido e nervoso, tutto colore e movimento, vario, rotto e disordinato, ma appunto perché tale concorre a dare all'espressione quella forza, quella vivezza e quella drammaticità che sono le doti principali dell'arte sallustiana.

Il periodo di cui ci occupiamo ebbe il suo erudito in MARCO TERENZIO VERRONE, il quale fu senza dubbio l'uomo più dotto che abbia creato il mondo latino antico. Scrisse - a quanto dicono- settantaquattro opere in oltre seicento volumi nei quali trattò di tutto: di grammatica, di filosofia, di eloquenza. di storia civile e letteraria, di poesia, teatro, politica, architettura, agricoltura, di antichità profane e divine. Fu, come si vede, un poligrafo infaticabile e se non lasciò nessuna orma nel campo dell'arte, fu utilissimo come divulgatore, commentatore e ricercatore ed è stata una vera disgrazia per gli studi dell'antichità che la maggior e migliore parte delle sue opere sia andata perduta.

Perduto invece non è andato il meglio e il più della produzione di CICERONE, che va considerato come il più grande dei prosatori romani.
Meravigliosa fu la sua operosità letterari. Poeta, compose due carmi mitologici.  Pontius Glaucus  Alcyone,  una commedia, Uxorius,  un poema epico,  Marius,  un carme epico ad Caesarem  sulla spedizione britannica, un componimentio didascalico,  Pratum,  sui poeti drammatici, una descrizione del Nilo,  Nilus,  due poemetti in tre libri ciascuno,  De consulatu meo  e De temoribus meis  e tradusse in esametri i  Fenomeni  di Arato; si occupò di storia scrivendo un  Commentarius consulatus mei,  di geografia con una  Chronografia,  di diritto con un  De iure civili, di curiosità con una raccolta di  Admiranda; compose una  Consolatio per la morte della figlia Tullia, una Espositio consiliorum meorum o Anedota e tradusse l'Economico di Senofonte e il Protagora e il Timeo di Platone.

La sua maggiore attività spese però nelle opere di retoriche, politiche e filosofiche, nelle lettere e nelle orazioni. Fra le opere retoriche non ha un gran valore il trattarello De inventione in due libri, scritto all'età di circa vent'anni; ma sono importantissimi i tre libri  De Oratore, il Brutus e l'Orator.
In De Oratore,  scritto il forma dalogica, ragiona delle doti necessarie per formare il perfetto oratore, della invenzione, della disposizione e trattazione della materia oratoria e della forma dell'orazione; nel  Brutus,  annch'esso in forma di dailogo, Cicerone, esonendo i suoi criteri intorno all'arte oratoria e polemizzando coi neo-attici della scuola di Lisia, fa una storia dell'eloquenza romana dalle origini ad Ortensio;  nell' Orator  si tratta per la prima volta del ritmo prosastico. Altre opere retoriche di CIcerone sono alcune regole di eloquenza raccolte sotto il titolo di  Partitiones oratoriae, i Topica  e una prefazione (  De optimo genere oratorum)  a una traduzione di discorsi di Demostene ed Eschilo.

Gran parte del pensiero politico di Cicerone è consacrato nei libri De republica  e in quelli  De legibus. Nei primi l'oratore parla della migliore costituzione politica e questa egli trova nel giusto temperamento della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia, le tre forme di governo che si riscontrano nella costituzione della repubblica romana; nel  De legibus  tratta del diritto natuale ed espone e spiega le leggi sacre e le attribuzioni dei magistrati. Con le opere filosofiche Cicerone divulga ed illustra le dottrine dei filosofi greci; nel  Paradoxa  illustra  sei massime stoiche, negli Accademica  tratta del problema della conoscenza; nei dialoghi  De finubus bonorum et malorum  discute intorno alla teoria del sommo bene e del sommo male, esponendo in proposito le dottrine di Epicuro, degli Accademici, degli Stoici e dei Peripatetici; nelle Tusculanae disputationes,  detto che la morte non è da temersi, che il dolore deve essere tollerato, che la tristezza e i turbamenti dell'animo debbono essere vinti con la ragione, dimostra come l'umana felicità risiede soltanto nelle virtù; nel  De natura deorum espone le dottrine epicuree, accademiche e stoiche intorno agli dei e alla loro natura, nel  DeDivinatione  ragiona, oppugnandola, sull'arte dei vaticinii; nel  De senectute   sono tessute le lodi della vecchiezza; nel  De fato  si combatte il fatalismo degli stoici e si sostiene il libero arbitrio; nel  De amicitia  discorre sulla natura ed origine dell'amicizia, sui suoi doveri e sui mezzi di conservarla; infine nel  De Officiis  tratta dell'onesto, dell'utile e del conflitto tra l'utile e l'obesto. Perdute sono andate le altre opere filosofiche di CIcerone:  Hortensius, De gloria, De virtutibus e De auguriis.
Cicerone, uomo privato e politico è tutto nelle sue lettere, con la sua grande cultura, le sue vanità, le sue ambizioni, le sue incoerenze, l'instabilità del suo carattere, i suoi affetti. Molte delle sue lettere non sono pervenute a noi, tuttavia il numero che ce n'è rimasto, 764, rappresenta unafonte ricchissima di notizie ed un monumento insuperabile dell'epistolografia latina.

In ogni ramo dello scibile - come s'è visto- esercitò Cicerone il suo ingegno, ma fu nell'eloquenza che esso rifulse massimamente. Dal 673 al 711, la sua parola risuonò potente nella Curia e nel Foro davanti ai senatori e i magistrati della Repubblica e al cospetto del popolo di Roma, in difesa di privati cittadini e di uomini di governo, contro personaggi potentissimi e pel bene supremo della patria. Egli fu il sovrano incontrastato della parola. Nutrito di vastissimi studi, pieno della sapienza greca e romana, egli fu il dominatore delle assemblee; seppe avvincere e convincere, commuovere e trascinare gli ascoltatori con la sapienza del gesto, con la sottigliezza delle argomentazioni, con l'impeto del discorso. Insuperabile fu nell'arte del dire. Non fu ridondante come Ortensio o affettatamente semplice come i neo-attici, non andò alla ricerca di vocaboli peregrini e di eleganze stilistiche, non ebbe neppure uno stile che fosse l'espressione inconfondibile della sua anima, ma conobbe tutti i segreti della lingua, volle e seppe, usandoli, conquistare i giudici e gli ascoltatori, volle - e vi riuscì- suscitare la commozione e il diletto con l'armonia e fu l'artefice potente d'un periodare che, per la prima volta con lui, fu retto da leggi ritmiche. 

Con Cicerone la prosa latina non è  più strumento personale, ma universale; Roma offre a tutto il mondo il modello perfetto dello stile dei dominatori. E' l'opera d'un uomo, ma è anche il risultato dell'attività di più generazioni che hanno saputo giovarsi degli esempi che altri fornivano, unificarli e correggerli con la loro esperienza e dare all'impero che sorge un'arma, efficace quanto la spada, e forse più, per affermare nel mondo l'universalità di Roma.

Purtroppo Cicerone morì in un periodo turbolento per Roma: nella disputa fra cesariani e i cospiratori che Cesare avevano assassinato. 

A sessantaquattro anni, il 7 dicembre del 43, morì decapitato sotto il ferro della tirannide l'uomo che, dopo la gloria, aveva amata più di ogni altra cosa la libertà.  Era vissuto, come abbiamo visto, in un periodo tempestoso della storia di Roma. Temperamento di studioso, pieno di vivissimo ingegno, uomo politico accorto ed ambizioso, egli si era illuso di raggiungere nella politica di Roma quel primato che si era acquistato nel foro. Ma non aveva le qualità dell'uomo di stato né quelle di capo di una fazione e in tempi normali sarebbe stato un ottimo uomo di governo. Gli mancò la tempra del dominatore, quel coraggio che inchioda il lottatore sulle sue posizioni conquistate, quella volontà che spinge il combattente verso le posizioni perdute. Impavido di faccia ad un nemico debole, non seppe mai dar prova di fermezza d'animo di fronte ad avversari potenti o davanti al pericolo.

Osò difendere Roscio Amerino nel tempo delle persecuzioni sillane, ma non ardì di assalire Silla, accusò Verre perchè sapeva di essere sostenuto dalla democrazia risorgente, tuonò contro Catilina perchè spalleggiato dai senatori, dai cavalieri e dalle forze della repubblica, ma nel foro, al cospetto del contegno minaccioso dei clodiani, non seppe difendere Milone e in assenza di Antonio pronunziò sempre le sue Filippiche. Anche la  fermezza del carattere gli fece difetto. In politica non di rado fu abile, mai ebbe la vista lunga e con la sua eloquenza aiutò i disegni ambiziosi di Cesare e Pompeo senza accorgersi che affrettava la caduta delle libertà repubblicane. Ma se non lievi furono i suoi difetti, non poche furono le sue virtù. Cicerone seppe, in tempi di grande corruzione, mantenere incorrotta la sua anima; fu ambizioso ,ma onesto, onesto nella vita privata e nella pubblica, onesto anche nei suoi errori che non furono mai consigliati da egoismo e da mal'animo. E fu soprattutto un grande  patriota. La patria fu sempre in cima ai suoi pensieri, la grandezza di Roma fu il primo dei suoi ideali, l'amore per la patria fu il suo più grande affetto e la causa delle sue sventure.

Raggiunto nella sua villa di Formia, dove si era rifugiato dopo la fuga da Roma, dai sicari di Marc'Antonio, fu decapitato. La  testa di Cicerone fu da Erennio recata ad Antonio per ordine del quale fu appesa ai rostri del Foro, muti testimoni dell'eloquenza insuperabile del massimo oratore romano; ma, prima -secondo la tradizione-  sulle sue spoglie si sarebbe accanita crudelmente Fulvia, già moglie di Clodio Pulcro (il demagogo aspramente criticato da Cicerone durante il processo milioniano del 52 a.C.) poi moglie di Marc'Antonio. La lingua che aveva tante volte tuonato al cospetto delle folle, subì gli insulti più atroci di una donna che niente aveva di femminile eccetto il corpo: Fulvia volle punirla ferocemente delle invettive che aveva scagliate contro il marito e ripetutamente la trafisse con un ago crinale.

Fonti: 
APPIANO - BELL. CIV. 
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PLUTARCO - VITA DI BRUTO 
SVETONIO - VITE DEI CESARI 
SPINOSA - GIULIO CESARE
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

ORA CI ASPETTA IN UN ALTRO CAPITOLO
LA LETTERATURA DOPO CESARE 

LA LETTERATURA DELL'ETA' AUGUSTEA

I PROTETTORI DELLE ARTI - GLI ERUDITI - GLI ORATORI
* I DECLAMATORI - * GLI STORICI - LA POESIA
OVIDIO - ORAZIO - VIRGILIO -PROPERZIO

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