LA LETTERATURA A ROMA
NELL'ETA' IMPERIALE

"ETA AUGUSTEA"

 Prosa - Storici - Oratori - Grammatici

PRIMA PARTE
LA PROSA:  STORICI: Velleio Patercolo, Valerio Massimo, O. Curzio Rufo, Svetonio Tranquillo, Floro, Flavio Vopisco, Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Lucio Ampelio, Aurelio Vittore, Giulio Ossequente, Rufio Festo, Eutropio, Ammiano Marcellino, Cornelio Tacito ; 
ORATORI, RETORI, GIURISTI: Quintiliano, Frontone, Plinio il Giovane, Nazario, Mamertino, Pacato, Eumenio, Simmaco, sabiniani e proculiani. Salvio Giuliano, Gaio, Sesto Pompeo, Papiniano, Ulpiano, Paolo, Modestino ; 
GRAMMATICI: Donato, Macrobio, Probo, Prisciano; 
ERUDITI: Gellio, Columella, Frontino, Pomponio Mela, Cornelio Celso, Rutilio Tauro, Celio Aureliano, Plinio il Vecchio; 
FILOSOFI: Seneca, Apuleio.

SECONDA PARTE
LA POESIA: la commedia e la tragedia; poeti bucolici e didascalici; Fedro 
LA SATIRA: Aurelio Persio Flacco, Decimo Giunio Giovenale, Valerio Marziale, Petronio Arbitro;
L'EPICA: Anneo Lucano, Silio Italico, Valerio Fiacco, Papinio Stazio, Claudio Claudiano.
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LA PROSA

 
Con Augusto l'impero raggiunge l'apice. Gli storici romani poterono sinceramente dire che le origini di Roma aveva qualcosa di miracoloso; mentre i poeti queste origini le posero in un segreto disegno provvidenziale. E se le province sono il corpo dell'impero, Roma ne è l'anima.

Da Augusto in poi la letteratura latina segue le sorti dell' impero. L'età augustea o periodo aureo -come si suol dire- segna il suo massimo splendore, poi viene la decadenza che non si arresta più, sebbene non manchino i grandi ingegni, non siano scarsi i mecenati e di tanto in tanto sorge un poeta, uno storico, un filosofo che faccia sentire la sua voce potente fra il coro di mille voci fioche.

Più numerosi i prosatori che i poeti in questa età imperiale: storici, retori, eruditi, filosofi.
Degli STORICI primo in ordine di tempo viene VELLEIO PATERCOLO, vissuto -come pare- tra il 19 a. C. e il 31 d. C. Egli è autore di una Historia romana, dedicata al console M. Vinicio, in due libri: il primo va dalle origini alla distruzione di Cartagine, il secondo giunge fino alla morte di Livia, madre di Tiberio. Un dotto sommario più che una vera e propria storia, non scevro di errori, sovente inesatto nel giudizio di uomini ed avvenimenti, sproporzionato nella struttura, con uno stile enfatico e poco vigoroso; è un compendio storico scritto col proposito di adulare Tiberio, di cui negli ultimi capitoli viene fatto il panegirico, che sa però avvincere con la vivacità del racconto e non dispiace per una certa audacia di espressioni e per un certo calore che qua e là vi si riscontra. 

Contemporaneo di Patercolo è VALERIO MASSIMO. Sono suoi i nove Factorum et dictorum memorabilium libri, che, se sono scritti in buona lingua e sono utili per le notizie che ci danno sulla vita pubblica e privata dei Romani, sono dettati con uno stile ampolloso, abbondano di inesattezze e di disordine, mancano di originalità e più che storia sono una scelta di esempi storici, ricavati da altri scrittori, con intento evidentemente morale.

Posteriore a Patercolo e a Massimo è QUINTO CURZIO RUFO, vissuto forse al tempo di Claudio. Come storico egli ha scarsissima importanza. I suoi dieci libri Historiarum Alexandri Magni sono un romanzo; come tale non mancano di pregi artistici. Rufo è tutto preso dal fascino delle imprese del Macedone e dei luoghi misteriori e lontani visitati dal suo eroe; il racconto di queste imprese e la descrizione di questi luoghi lo fa con una vivacità di colorito e di rappresentazione; il suo stile, pur essendo sovente lussureggiante di immagini, è robusto ed efficace e non piccola è la sua abilità nel tratteggiarci figure di guerrieri, nel dipingerci scene di battaglie, nel far parlare generali ed ambasciatori.

Di gran lunga superiore ai tre sopra accennati è O. SVETONIO TRANQUILLO, scrittore fecondissimo, vissuto sotto l'impero di Trajano ed Adriano, che scrive libri De ludis et spectaculis, De voeibus, De regibus, De institutione officiorum, De rebus variis, De vitiis corporalibus, una Historia bellorum civilium e due enciclopedie: Roma e Prata. Ma le sue opere più importanti sono il De viris illustribus e gli otto libri De vita Caesarum. La prima di queste opere non ci è giunta intera: ci rimangono venticinque vite di grammatici e retori, le vite di Terenzio e di Grazio, parte della vita di Lucano, la vita di Passieno Crispo e una parte di quella di Plinio il Vecchio. Quasi intere ci sono invece pervenute le Vite dei Cesari: i primi dodici, da Giulio Cesare a Domiziano. Sono biografie in cui non è osservato l'ordine cronologico e la materia è distribuita secondo il genere degli avvenimenti. Abbiamo in esse una fonte abbondante e preziosa di notizie, ma non la ricostruzione dei personaggi, l'esame dei fatti, la rappresentazione dell'ambiente. Svetonio prepara il materiale per la storia, senza curarsi di vagliarlo e giudicarlo, ma non fa la storia. Ma è scrittore vigoroso e stringato, privo delle ampollosità del tempo in cui vive; è freddo però il suo stile non manca di colore; la sua concisione non ingenera oscurità e il linguaggio è puro.

Autore di un compendio della storia romana dalle origini ai tempi di Augusto è FLORO, ma l'opera sua (Epitomae bellorum omnium annorum DCO libri duo) è zeppa di inesattezze e scritta in uno stile gonfio che non riesce a nascondere la mancanza di vigoria.

Autori di biografie secondo l'esempio di Svetonio, del quale però non hanno i meriti, sono FLAVIO VOLPISCO, EZIO SPARZIANO, GIULIO CAPITOLINO; VOCACIO GALLICANO; TREBELLIO POLLIONE ed ELIO LAMPRIDIO,  ai quali si devono le vite degli imperatori da Adriano a Numeriano, contenute in una raccolta dal titolo Scriptores historiae Augustae; Maggiore importanza non hanno LUCIO AMPELIO, autore di un Liber Memorialis, zibaldone in cinquanta capitoli delle più notevoli cose di astronomia, geografia e storia, AURELIO VITTORE che scrive un compendio storico da Augusto al 360 e forse una Origo gentis Romanae; GIULIO OSSEQUENTE, epitomatore di Livio; RUFIO FESTO, autore di un Breviarum rerum gestarum populi Romani: LUCIO SETTIMIO che ci lascia un compendio di storia troiana ed EUTROPIO che per commissione dell' imperatore Valente, compose un Breviarium ab Urbe condita.
Fra la schiera di tanti mediocri cultori degli studi storici si leva, nella seconda metà  del secolo quarto, AMMIANO MARCELLINO, greco di Antiochia, autore di trentun libri Rerum gestarum, che vanno dal 96 al 378, il quale, sebbene scrive un latino impuro, si mostra storico originale, onesto, acuto, imparziale e vivace espositore dei fatti di cui fu testimone.

Al disopra di tutti si erge CORNELIO TACITO che, insieme con Livio, è il più grande storico latino. Incerto è l'anno della nascita sua che forse deve essere avvenuta intorno al 54 e ignoto il luogo dove vide la luce, così quello della suo morte. Tacito sotto Tito è questore, sotto Domiziano edile, pretore e membro dei quindecimviri, nel 97 console. La prima delle sue opere che noi conosciamo è un libro De vita et moribus Julii Agricolae, il generale che portò le insegne romane fino all'estrema punta settentrionale della Britannia. È una biografia del suocero, nella quale forse la verità storica è un po' appannata dall'affetto devoto dell'autore per il condottiero e dall'odio, del resto, non ingiustificato, per Domiziano, ma non è un panegirico e vi si nota la volontà decisa dello storico di riuscire obbiettivo. Grandi meriti dell'opera sono la vivacità della narrazione, la copiosa massa di notizie intorno alla Britannia e alle sue popolazioni e l'omissione di tutto quanto riguarda la vita privata del protagonista. Nella cura che egli pone nel raccogliere dati etnografici si vede il futuro autore della Germania, un piccolo ma preziosissimo libro, in cui sono accuratamente studiate le terre, le origini, le istituzioni, le leggi, le costumanze e la religione di quelle bellicose popolazioni che tanto interesse destano nei Romani nel tempo in cui l'autore ne scrive. 

Le sue opere maggiori sono le Historiae e gli Annales. Quelle narrano gli avvenimenti dalla fine di Nerone alla morte di Domiziano (69-96), questi i fatti che vanno dalla morte di Augusto a Galba. Dei quattordici libri delle Historiae purtroppo non sono giunti fino a noi che i primi quattro e ventisei capitoli del quinto; dei sedici degli Annales abbiamo soltanto i primi e gli ultimi sei, dei quali non integri il quinto e il sesto, lacunoso il decimoprimo e mancante di circa la metà l'ultimo.

Tacito, al pari di Livio, è tutto pervaso dalla grandezza di Roma. Egli sa che il principato ha abbattuto le libertà repubblicane, anche se riconosce che solo esso poteva portare alla fine delle civili discordie e alla pace. Egli non si duole quindi del mutato regime ma si preoccupa delle qualità di chi deve reggere le sorti di così vasto impero. E gli uomini che le reggono danno ragione alle preoccupazioni dello storico, il quale si lagna spesso del malgoverno, specie di quello delle province, che minaccia di sfasciare il potente organismo dello stato. Tacito è un fautore accanito della più severa politica militare: la guerra è la guerra e deve esser condotta senza pietà contro il nemico, ma alla conquista col ferro deve poi seguire la saggezza del governo se si vuole davvero rimanere padroni di una regione. Uno storico pessimista ha chiamato qualcuno Tacito, ma pessimista non è. 

E' piuttosto cupo, forse perché le condizioni di Roma non sono quelle che luii vorrebbe, perché la vergognosa servitù civile l'opprime; ma nella denunzia spietata che egli fa del male c' è certamente il desiderio non la negazione del bene, e nel compiacimento che mostra descrivendo gli orrori delle guerre esterne non c' è una sadica gioia delle stragi, ma quasi l'ebrietà in cui egli vuole stordirsi per dimenticare l'onta delle libertà conculcate e la civile miseria della nazione.

Napoleone che amava molto le letture dei Cesari,  non ne fece un buon ritratto, fu implacabile proprio per questa sua vocazione fortemente critica, e difese gli imperatori contro lo storico che "li ha sistematicamente denigrati....Tacito non ha capito l'impero (come non avevano capito gli assassini di Cesare)  e ha calunniato gli imperatori; Tacito è della minoranza  del vecchio partito di Bruto e Cassio. E' un senatore scontento, uno che si vendica  quando è nel suo studio con la penna in mano....un  intellettuale dei ritrovi e dei salotti dei ricchi conservatori"
 "...fa parte di quei parolai, venditori di fumo, i quali non sanno che chiudersi in una critica sterile, incapace di illuminare e di costruire. Tacito e i suoi imitatori moderni non sono dei buoni maestri di storia...Io non voglio storia sistematica, congetture declamatorie, che spiegano male i grandi uomini, e falsano i fatti, per tirarne fuori una morale di comodo"
"Vi posso assicurare che Tacito non mi ha mai insegnato nulla. Conoscete voi un più violento e più ingiusto detrattore della umanità? Alle azioni più semplici trova mille motivi colpevoli. Fa di tutti gli imperatori, degli uomini profondamente perversi, e lo fa solo per farsi ammirare il suo genio, e che vuole dimostrare che solo lui  ha saputo penetrarli... Ha ragione chi dice che i suoi annali non sono una storia dell'impero, ma uno specchio fedele dei tribunali di Roma...Lui che parla continuamente di delazione è il primo dei delatori" (Memoriale di Sant'Elena)


A parte Napoleone, "Tacito è un ricercatore scrupoloso e testimonio di verità" dice di lui Plinio il Giovane. Egli non solo si serve delle notizie di altri scrittori, ma delle testimonianze dirette e dei documenti ufficiali. Però non accetta ciecamente tutto, ma vaglia lui le notizie e si mostra molto circospetto nel giudicare (e qui ha ragione Napoleone!) con il suo metro persone ed avvenimenti. Questi ultimi non sono proprio deformati o inventati ma nel riferire i discorsi altrui Tacito apre la porta della sua fantasia indulgendo su quella allora di moda e mantenendo alla storia il carattere di opera letteraria.
Alla questa diligenza Tacito accoppia la potenza dell'artista: egli è pittore ed oratore. La sua narrazione non è proprio pedestre e monotona, ma robusta, vivace, colorita, a volte drammatica; la storia per lui non è solo ricerca, esame, giudizio dei fatti, ma anche rappresentazione, ricostruzione artistica (!?) degli avvenimenti. 
E questa ricostruzione  rappresentazione è fatta con mezzi espressivi di straordinaria potenza. Incondita ac rudis è la voce dello storico. Tacito è tutto nervi, nella sua prosa non c'è il periodare completo e armonioso di Cicerone, ma una voluta asimmetria; la sintassi è audacemente violata  e l'ellissi, l'asindeto, lo zeugma formano la caratteristica principale dello stile tacitiano, vibrante, serrato, che fa pensare al diruptum genus di Sallustio.

ORATORI - Tacito fu anche oratore. Tra la fine del 99 e il principio del 100 lo troviamo con Plinio difensore degli Africani nel processo contro il proconsole accusato di concussione Marco Prisco, e Plinio ci attesta che Tacito parlò con somma eloquenza ed insuperabile nobiltà.
Non vogliamo non prestar fede a Plinio, ma il tempo dei grandi oratori è tramontato. Esistono, anzi pullulano le scuole di eloquenza e non mancano i maestri famosi di retorica; però i precetti restano tali. Uno di questi grandi maestri è M. FABIO QUINTILIANO (35-95 d. C.) di Calagurri nella Spagna Citeriore, che scrive un libro De causis corruptae eloquentiae, andato perduto al pari delle orazioni e di due libri artis Jiistoriae. Ai dodici libri Istitutiones oratoriae è assicurata la sua fama. Egli vuole porre un freno alla corruzione del gusto, richiamando l'eloquenza ai suoi grandi modelli: e il più grande modello è per lui Cicerone, con cui Quintiliano è d'accordo nella questione dello stile che tiene ancora agitati i seguaci dell'asianesimo e dell'atticismo.

Altro maestro di eloquenza di grandissima fama è M. CORNELIO FRONTONE, vissuto tra il 100 e il 175. Ma "....la sua fama non corrisponde al merito. Alla prova, la corruzione del gusto alla quale, come Quintiliano, vuoi mettere un argine, si riscontra in tutto quello che c' è rimasto delle sue opere, e i precetti di lingua e di stile che lui dà, sono tali da corrompere maggiormente, se messi in pratica,  stile e lingua, considerando i quali mostra di non comprendere e sapere la fatale legge dell'evoluzione e quanto spetti alla personalità dello scrittore.
Malgrado le buone intenzioni di Quintiliano, l'eloquenza è miseramente decaduta: agli oratori sono succeduti i causidici e quanti fanno mercimonio della parola, né può essere altrimenti in un'epoca in cui la corruzione dei costumi è tale e tanta, in cui l'ingordigia regna negli animi e l'austera dignità repubblicana ha ceduto il posto alla più smaccata adulazione. L'eloquenza è ora mezzo di lucro o mezzo per ingraziarsi i potenti o esercizio puramente retorico". (Prof. Paolo Giudici, Storia di Roma e d'Italia, Nerbini)

PANEGIRISTI - I panegiristi sono in voga e un panegirista è PLINIO il GIOVANE di Como (62-114 d. O.), il quale deve la sua fama più all' Epistolario elegante, se non vivo come quello ciceroniano, che all'ampolloso Panegirico di Traiano, e panegiristi sono NAZARIO, MAMERTINO, LATINO DREPANIO PACATO, EUMENIO e quel QUINTO AURELIO SIMMACO, prefetto di Roma nel 384 e console nel 391, che alza la sua voce in difesa del Paganesimo.

DIRITTO - Fioriscono invece gli studi del diritto. Fra i giureconsulti di grido vanno ricordati MASURIO SABINO, C. CASIO LONGINO, CELIO SABINO, GIAVOLENO PRISCO E MINUCIO, seguaci della scuola sabiniana, COCCEIO NERVA, PEGASO e NERAZIO PRISCO della scuola proculiana, SALVIE GIULIANO, compilatore dell'Edictum perpetuum di Adriano, GAIO dei famosi quattRo libri di Istitutiones, Sesto POMPEO, Emilio PAPINIANO, Domizio ULPIANO, Giulio Paolo ed Erennio MODESTINO.

GRAMMATICI - Anche gli studi di grammatica ed in genere l'erudizione sono in gran fioritura. Fra i grammatici e i commentatori notiamo NONIO NARCELLO, ATTILIO FORTUNAZIANO , GIULIO MODESTO, Q. ASCONIO PEDIANO, DIOMEDE, CARISO, ELIO DONATO, MACROBIO e, più celebri di tutti, M. VALERIO PROBO, del primo secolo, e molto più tardi del quinto, PRISCIANO, col quale ha principio la grammatica scolastica del Medioevo.

GLI ERUDITI 
Fra gli eruditi che scrivono di storia naturale, di agricoltura, di agrimensura, di geografia, di medicina, di scienza militare, ed economia, ricordiamo PLINIO, — di cui parleremo più avanti — AULO GELLIO autore delle Noctes atticae, L. Giunio MODERATO COLUMELLA, che scrive dodici libri De re rustica e uno De arboribus, APICIO, autore De re coquinaria, SESTO GIULIO FRONTINO che ci lascia un'opera De aquaeductu urbis Romae e una raccolta di esempi di stratagemmi militari, POMPONIO MELA di cui abbiamo una Chorografia in tré libri, A. CORNELIO CELSO, autore famoso di una grande enciclopedia, De Artibus, purtroppo in gran parte andata perduta, GIULIO SOLINO, FLAVIO VEGEZIO RENATO cui si debbono quattro libri sull'arte militare, Epitoma rei militaris, GARGILIO MARZIALE che scrive De hortis, PALLADIO RUTILIO, TAURO EMILIANO, autore di un Opus Agricolturae e infine i cultori di medIcina MARCELLO  EMPIRICO, TEODORO PRISCIANO, e CELIO AURELIANO.

Nell'età imperiale fioriscono tre grandi ingegni, attivissimi che meritano un cenno a parte: PLINIO IL VECCHIO, SENECA ed APULEIO. 
CAIO PLINIO Secondo nasce a Como nel 23 d.C. Trascorre la prima giovinezza a Roma, dove studia; poi lo vediamo in Germania, ufficiale di cavalleria; nel 67 è procuratore della Spagna; sotto Tito ricopre la carica di ammiraglio della flotta di Miseno; nel 79, all'età di cinquantasei anni, muore presso Stabia durante la famosa eruzione del Vesuvio che seppellisce Ercolano e Pompei. Della sua prodigiosa attività di scrittore poco ci è rimasto. Il nipote Plinio il Giovane ci fa conoscere i titoli della opere dello zio: un libro De jaculatione equestri, due De Vita Pomponii Secundi, venti Bellorum Germaniae, tre Studiosorum, otto Dubii sermonis, trentuno di storie A fine Anfidii Bassi e centosessanta libri di riassunti (Electwum CLX commentarii). L'opera  intera pervenuta sino a noi è la Naturalis Historia in trentasette libri, frutto di assidue letture. Plinio confessa di aver tratto da circa duemila volumi tutta la materia dell'opera sua e onestamente cita i nomi degli autori. Appunto perché composta di riassunti, di note e di estratti, la Naturalis Ustoria non è una opera organica; ne è opera rigorosamente scientifica, non essendo l'autore un profondo conoscitore della varia materia che tratta. È un'ampia enciclopedia, in cui si parla di cosmografia, di geografia, di antropologia, di zoologia, di botanica, di mineralogia e di storia delle arti. Vi manca l'ordine e la critica e non vi fanno difetto le inesattezze e gli errori cronologici; la lingua non è pura e l'esposizione è ineguale; malgrado però i difetti di cui abbonda l'opera di Plinio, per le notizie che ci fornisce sono per noi di capitale importanza e giustifica l'entusiasmo del nipote che la chiama «vasta e erudita e varia non meno della stessa natura ».

Delle vicende politiche di L. ANNEO SENECA abbiamo detto altrove. Delle sue opere molte andarono perdute: le orazioni, il dialogo De superstitione, i Libri moralis philosophie, le Epistulae ad Novatum, i trattati De officiis, De imnatura morte, De matrimonio, il libro, De remediis fortuitorum, e quelli De motu terrarum, De lapidum natura, De piscium natura, De Situ Indiae, De forma mundi e De situ et sacris Aegiptyorum; ma altre molte ce ne sono rimaste che testimoniano della dottrina vasta e dell' ingegno potente di Seneca: il De provvidentia in cui spiega che se spesso la fortuna è riservata ai malvagi e la sventura ai buoni ciò è per volere della divina Provvidenza, la quale intende mettere alla prova le virtù dei buoni; il Deconstantia sapientis in cui si vuole dimostrare che vane sono le offese della sorte all'uomo virtuoso; il De ira che tratta della collera e del modo di frenarla; il De consolatione dedicato a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, per confortarla della perdita di un figlio; il De vita beata in cui si dimostra che la felicità si fonda sulla virtù, non sul piacere; il De otio in cui viene detto che non soltanto alla vita attiva ma anche alla contemplativa può l'uomo dedicarsi; il De tranquillilate animi col quale Seneca ammonisce Sereno a guardare con placidità la vita che spesso presenta spettacoli ripugnanti e a render forte l'animo per mezzo della calma e della fermezza; il De brevitate vitae sul buon uso che del tempo deve esser fatto; le due Consolationes a Polibio ed alla madre Elvia, scritte durante l'esilio in Corsica; i tre libri De Clementia dedicati a Nerone; i sette De beneficiis sul modo di beneficare e sui doveri del benefattore e del beneficato; le Naturales questiones che trattano dei fenomeni della natura; le Epistulae morales ad Lucilium dove è tutta la filosofia e la saggezza dell'autore e infine le tragedie che sono nove Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, T'hyestes ed Hercules Oetaeus, veramente notevoli per i caratteri vigorosamente delineati e per l'umanità da cui sono pervase. 

Come filosofo Seneca, sebbene professi lo stoicismo non conosce limiti e non accetta imposizioni di scuole; per lui la filosofia o ricerca della verità, una attività dello spirito congiunta alla pratica della vita, e in questa attività è la sorgente della felicità. Ma la filosofia non è fine a sé stessa: è mezzo per fortificar l'animo, per lottare vittoriosamente contro le avversità, per istradare gli uomini sulla via della virtù, per non atterrirsi al cospetto della morte ma per guardarla con animo sereno. Seneca è un grande consolatore, un consigliere che si vorrebbe avere accanto in tutti i tristi momenti della vita, un amico dalla voce buona con la quale, malgrado essa sia coperta da un lieve velo di malinconia, sa rasserenare gli animi; è uno scrittore che aborre dal tecnicismo dell'espressione filosofica e dalla linearità architettonica del periodare classico, ma affascina con la sua prosa viva, piana, facile, prosa in cui il pensiero si mostra in tutta la sua limpidezza e che non sembra davvero essere stata scritta tanti secoli addietro.

APULEIO è certo uno degli scrittori più interessanti e strani dell'età imperiale. Africano di Madaura (124-169 ?), egli non ha un momento di sosta nella sua vita, preso com' è dalla passione dei viaggi e mosso da uno spirito irrequieto. Le città dell'Africa, della Grecia e d'Italia lo vedono studiar filosofia, interessarsi alle varie religioni, iniziarsi ai misteri, brillare fra pubblici numerosi ed attenti per la sua eloquenza affascinante; nella sua patria gli innalzano, lui vivo, statue e, accusato di magia, lo trascinano dinanzi al proconsole ed egli si difende coprendo di ridicolo i suoi accusatori. 
Ingegno versatilissimo, conoscitore profondo del latino e del greco, egli si dedica ad ogni genere di studi, si interessa di geometria, di astronomia, di scienze naturali, di medicina, di musica; è filosofo, oratore, poeta lirico, comico, tragico, satirico, romanziere. Non è profondo in nessuna dottrina; ma in ogni suo scritto lascia orme indelebili della sua personalità. Poche delle numerose opere da lui composte ci rimangono: l'Apologià che è la difesa da lui stesso fatta all'accusa di magia;  un'antologia (Florida) di riassunti delle sue orazioni; il De deo Socratis in cui l'autore parla di tutte le specie di dèmoni, ricercando a quale specie appartenga quello di Socrate; i tre libri De Plafone eiusque dogmate, introduzione allo studio della filosofia platonica; il De mundo, rifacimento di un trattato pseudo-aristotelico e le Metamorfosi (Metemorphoseon libri X-I).
 
Questa ultima opera ci da la giusta misura dell'arte di Apuleio e ad essa è legato il suo nome. È un romanzo, il cui protagonista, Lucio, mutato in asino per avere voluto imparare l'arte magica, dopo molte e stranissime avventure, per mezzo dei misteri religiosi ritorna uomo; opera senza organicità e giustezza di proporzioni, dove il racconto centrale delle avventure dell'eroe è intralciato e oppresso dal racconto di altre avventure. Ma nei difetti sta forse tutto il pregio del libro, in questo succedersi di avventure, che ci trasportano in campagne deserte, in grotte cupe, nell' intimità delle case, in vie tenebrose, fra serve, briganti, animali, sacerdoti, mercati, sgualdrine, teatri, in questo continuo, improvviso mutar di scena e variar di tipi, nello strambo groviglio di strane vicende, nel realismo non di raro ripugnante che pervade tutto il racconto, negli splendori delle sacre iniziazioni e nell' intento morale dell'autore, che vuoi dimostrare come l'uomo, attraverso tutti i pervertimenti, può purificarsi nel culto di Iside.
«Nelle Metamorfosi c'è tutta la suppellettile stilistica apuleiana. Apuleio è scrittore che sa trattare una questione giuridica, difendere una causa, levare in alto una preghiera, formulare uno scongiuro, presentare un dio, anatomizzare un animale o una pianta, raccontare una novella, descrivere una cerimonia sacra o una scena profana, lumeggiare e colorire un'allegoria, senza avere modelli da imitare o da superare, restando rarissimo artefice di uno stile dove l'eco qua e là di certe frasi e di certe architetture più note si perde nella totalità di una fra le più personali costruzioni » (Marchesi).

SECONDA PARTE

LA POESIA: la commedia e la tragedia; poeti bucolici e didascalici; Fedro 
LA SATIRA: Aurelio Persio Flacco, Decimo Giunio Giovenale, Valerio Marziale, Petronio Arbitro;
L'EPICA: Anneo Lucano, Silio Italico, Valerio Fiacco, Papinio Stazio, Claudio Claudiano.
LA POESIA

Meno ricca è la produzione poetica dell'età imperiale, e fra i generi più in voga quello che forse ha meno cultori è il drammatico. Il pubblico è innamorato degli spettacoli dei gladiatori e delle fiere e sulle scene non c' è posto che per i pantomimi. Ora le tragedie acquistano carattere letterario e si declamano sempre più spesso nelle aule di recitazione; in queste aule - se si eccettui POMPONIO SECONDO, le cui tragedie fra le quali una pretesta, Aeneas, sono rappresentate con molto successo in teatro-  SENECA legge le sue tragedie, CURIAZO MATERNO la Medea, il Tieste, il Catone e il Domizio , PACCIO l' Alcithoe, FAUSTO la Tebaide e EUBRENO LAPPA l'Atreus.

Più numerosi dei tragici non sono i poeti comici, dei quali si ricordano un PUNDANIO, GAIO MELISSE e VIRGILIO ROMANO; pochi e di scarso o nessun valore sono i poeti bucolici e didascalici: TITO CALPURNIO SICULO imitatore di Teocrito e di Virgilio, GRATTIUS, autore di un Cynegeticon, CLAUDIO CESARE GERMANICO che si rifà liberamente a i Phoenomena, MANILIO - il più importante di tutti- che scrive gli Astronomica, LUCILIE JUNIORE cui forse va data la paternità del poemetto Aetna, TERENZIANO MAURO, autore di un poema De Utteris, syllabis, metris, M. AURELIO OLIMPIO NEMESIANO, autore di egloghe e dei tre poemi Halieutica, Cynegetica e Nautica, e RUFIO FESTO AVIENO che riduce in esametri i Phaenomena di Arato, parafrasa Dionigi Alessandrino nella Descriptio orbis terrae e compone un poema geografico, Ora maritima.

Il meglio e il più della produzione poetica dell'età imperiale ce la danno gli epici, i satirici, i lirici e un favolista: FEDRO
FEDRO - della cui vita pochissimo sappiamo - è il primo vero favolista della latinità. Altri dopo di lui, ed anche ad imitazione di lui, come AVIANO, scriveranno favole, ma nessuno di essi eguaglierà Fedro, cui si debbono cinque libri di fabellae, non tutte giunte sino a noi. La loro materia è in parte presa da Esopo, in parte dal popolo, in parte sono invenzioni del poeta, il quale tratta questo genere con scopo prettamente morale. Si disse che Fedro è più moralista che poeta, ed è vero, ma è anche vero che le sue favole dallo stile tenue e schietto, dalla lingua tersa, ricche di arguzie spontanee e di vivacità sebbene povere d'immaginazione, sono dei piccoli gioielli.

Poeti più grandi danno in quest'epoca la satira, la lirica e l'epica.
Fra i satirici il minore è AULO PERSIE PLACCO (34-62), che pur ebbe grande fortuna fra i contemporanei e tra i critici posteriori. Ma la sua fama non corrisponde al merito di poeta, che dalla scuola e non dalla vita egli trae la sua materia e, stentata, contorta, oscura è l'espressione artistica delle sue sei satire, in cui invano si cercherebbe l'impronta personale del poeta.

Grande poeta è invece DECIMO GIUNIO GIOVENALE, di Aquino, vissuto tra il 60 e il 140 circa. Nelle sue sedici satire, di cui l'ultima è incompiuta, è tutta la sua grandezza, e in esse, poiché è pericoloso sferzare le turpitudini del tempo presente, Giovenale esercita la sua sferza terribile contro quelle del passato. Ma queste sono le stesse che insozzano la società in cui vive il poeta e questa società corrotta è perciò materia del canto e bersaglio dell'invettiva. Spettacolo ripugnante è quello che si offre allo sguardo di Giovenale e forma l'orribile quadro della prima satira: schiavi e liberti saliti ai più alti onori, governatori ladri che godono le ricchezze depredando le province, falsificatori di testamenti che ricoprono cariche altissime, uomini che sciupano le loro ricchezze nel giuoco e nei conviti, delatori divenuti potenti, tutori che si sono impadroniti dei patrimoni dei pupilli, uomini che aspirano alle doti di vecchie ricche, mariti che accettano l'eredità degli amanti delle proprie mogli, matrone che avvelenano gli sposi, suoceri che corrompono le nuore, eunuchi che si sposano, giovani corrotti che aspirano a comandi militari, donne dell'alta società che frequentano i lupanari, nobili abietti, resse di clienti alle porte dei patroni, corruzione dovunque, nella reggia, nella curia, nelle famiglie, nei ritrovi, nelle vie; la prostituzione che impera, l'effeminatezza che rende gli uomini imbelli, il delitto e l'adulazione che sono turpe scala per raggiungere i posti e guadagnar tesori, e accanto a tutto ciò la miseria del popolo, dei poeti e dei letterati. 

Contro questa società scatta Giovenale e la sua musa sdegnata si rifugia nel passato quando le divinità orientali non avevano preso il posto degli antichi dèi di Roma e l'antico culto dei padri era in onore; quando la povertà era onorata e i Romani e gli Italici erano agricoltori e soldati, quando il console tornava vittorioso all'umile desco della sua capanna e le donne pudiche educavano i figli per la difesa della patria. Nelle satire di Giovenale c' è la rappresentazione potente della società imperiale, la cui corruzione risalta stupendamente nella commossa evocazione dei semplici e onesti costumi di Roma antica. Il poeta passa felicissimo dallo sdegno alla commiserazione, dall'invettiva all'ironia, rifuggendo da qualsiasi artificio retorico. Descrive Messalina che di notte abbandona alla libidine il suo corpo nei lupanari di Roma o le donne primitive che costruivano nelle selve il giaciglio ai mariti e porgevano la mammella colma ai grassi poppanti; ritragga la vita raminga di Mario esule e il suo superbo trionfo sui Teutoni e i Cimbri o il modesto tenore di vita degli antichi Romani quando Curio coglieva di sua mano il cavolo dal piccolo orto; canti gli umili simulacri dell'antico culto o metta in ridicolo i pomposi culti orientali della Roma imperiale; tratteggi una scena di prepotenza o la frugalità d'un desinare; celebri il ritorno di Pacuvio o metta a confronto la povertà del popolo con la iattanza degli arricchiti; ci mostri la matrona impudica e avvelenatrice o il sozzo Sodomita; dipinga le province spogliate dalla feroce avidità dei governatori o la dolce tranquillità di certi angoli romiti d'Italia, potente è l'arte di Giovenale, che con semplicità ed evidenza, senza indugi e pompe, con crudo realismo e sapienza insuperabile di rilievi ci trascina nell'impeto della sua collera o ci mette nell'anima la nostalgia del passato, ci infonde la sua nausea e ci fa partecipi delle sue aspirazioni nella visione varia e viva di un mondo, che non si cancellerà mai più dalla nostra mente.

La vita di Roma è pura materia dei quattordici libri di epigrammi di M. VALERIO MARZIALE , spagnolo di Bilbili, nato nel 40 d. C. e morto in età di circa sessantenni, dopo una vita trascorsa nel vano desiderio dell'agiatezza. Marziale però non tuona, come Giovenale, contro la corruzione della società; egli si limita a metterla in mostra, così com' è, a trovarne e a farne vedere i difetti, a coprirla di ridicolo, a farne oggetto delle sue burle, dei suoi motteggi, dei suoi frizzi. Finissimo osservatore, fa sfilare davanti a noi un' infinità di ritratti. Non sono figure descritte in tutti i loro particolari, ma abbozzi, tipi visti di scorcio e presentati con poche linee, che tuttavia saltano vivi dinanzi ai nostri occhi. Poeta immediato, coloritore vivace, dotato di fervida immaginativa e di comicità inesauribile, egli è rimasto maestro insuperabile nell'arte epigrammatica. « Ben pochi — come giustamente dice il Lessing —hanno scritto tanti epigrammi come lui, e nessuno, in mezzo a questi tanti, è riuscito a farne sì gran numero di buoni e sì gran numero di veramente perfetti».

La rappresentazione della vita dell'età imperiale e precisamente della società del tempo di Nerone ce la dà nel suo Satiricon, specie di romanzo misto di prosa e di versi, TITO PETRONIO ARBITRO, di cui abbiamo parliamo altrove. Impossibile è ricostruire la trama del romanzo coi frammenti rimastici di due soli libri. Essa si svolge in una città dell'Italia meridionale, forse Pozzuoli, ma la vita che l'autore ci presenta è quella di Roma.
Encolpio è il protagonista del romanzo, giovane vagabondo e irrequieto, raffinato e sensuale, perseguitato da Priapo, che, con la forza virile, gli ha dato volontà e coraggio. 
Encolpio racconta le sue avventure e quelle di altri: questi  personaggi sono Gitene, il bei giovane sedicenne del cui amore è preso Encolpio, Ascilto, furbo, forte, loquace, spaccone, Eumolpo, vecchio lascivo e imbroglione, ma pieno d'ingegno e di spirito eloquente e coltissimo, Trifena, matrona galante e capricciosa, Circe, bellissima e lussuriosa, Filomela che dà i propri figli a vecchi ricchi e libidinosi, Criside, ancella astuta e vivace. Né questi sono i soli personaggi: altri ce ne sono e non meno interessanti e molti altri dovettero essercene di cui non abbiamo notizia per la perdita della parte maggiore dell'opera. Anche per questo è ingiusto, come qualcuno ha fatto, affermare che manca al romanzo l'organicità, né è giusto, del resto dire che le numerose avventure che ne compongono l'intreccio nuocciono all'unità dello stesso, perché non sono soltanto i casi di Encolpio che l'autore ha voluto narrarci, ma le vicende di tutto, un piccolo mondo e questo mondo appunto, più che il disgraziato Encolpio, è il vero protagonista del romanzo, dove accanto alla finissima satira dei costumi è fatta quella di Lucano. Uno degli episodi del romanzo è la Cena di Trimalcione, un capolavoro insuperabile di rappresentazione satirica di quel mondo di nuovi ricchi che pur tra l'oro e il lusso della nuova condizione mostrano la grossolanità e volgarità della loro origine. 

« Petronio — scrive il Marchesi — elegante senza ricercatezze, immaginoso senza similitudini, pittoresco senza aggettivi, nella narrazione agile, quasi parlata, fa scorrere una continua animazione di motti, di cenni, di figure che avvivano rapidamente e improvvisamente i profili dei personaggi e gli aspetti delle cose. Nell'opera di Petronio ci sono scurrilità e sconcezze, che tuttavia non suscitano mai disgusto: e il termine non è mai sfacciatamente osceno com' è spesso in Catullo ed anche in Orazio. È quella del Satiricon una immoralità delicata. Nessuna funzione della vita, nessun elemento della realtà, anche più cruda, Petronio esclude dal suo racconto; ma dal suo racconto non è mai esclusa l'arte della parola, che ha una sua inviolabile pudicizia. Scrittore di gusto raffinato di una finezza trasparente e consistente, sa che l'arte ha un grande nemico: la fretta. La penna, perché sia strumento di artistica composizione, deve servire non tanto a tracciare quanto a tormentare la parola; e l'ammonimento del retore Agamennone ai giovani discepoli ut verbo atroci stilo effoderent rende mirabilmente la spietata chirurgia onde risulta la vitalità dell'opera d'arte. Petronio, abituato alle più limpide eleganze della composizione letteraria, seppe pure trattare da grande signore il sermo rusticus; e il vocabolo, la frase, il motto volgare chiamò all'insolito ufficio della significazione artistica: e nella satira, già confinata nella smorta letteratura del libro, seppe ridare uno stupendo spettacolo di umanità viva e parlante ».

L'EPICA  dell'età imperiale ha i suoi rappresentanti in LUCANO, STAZIO, VALERIO FLACCO e SILIO ITALICO.
Di LUCANO si sa che scrisse gli Iliaca, il Catachtonion, i Saturnalia, un Orfeo, una Medea, tragedia, dieci libri di Silvae e quattordici fabulae salticaer ma di queste opere e di qualche altra che non citiamo, solo i titoli ci rimangono. L'opera che è giunta sino a noi ed alla quale è legato il nome di Lucano è La Farsaglia, poema in dieci libri, rimasto incompiuto per la morte del poeta di cui altrove abbiamo parlato. 
La Farsaglia non è l'argomento  guerra tra Cesare e Pompeo, ma con la morte di quest'ultimo - come parrebbe dal titolo - che chiude il poema;  l'azione sono le imprese di Cesare e di Catone in Africa. La Farsaglia ha più il carattere della storia che della poesia, e con un soggetto simile difficilissimo era, se non impossibile, fare della vera poesia, i fatti erano troppo vicini per permettere alla fantasia di spaziare e all'artista di plasmare caratteri e figure diversi da quelli che tutti conoscevano. 
Neanche Virgilio, quando aveva voluto parlare di Ottaviano era riuscito a far della poesia, e si era dovuto invece rifugiare nella retorica. In Lucano la realtà uccide la fantasia. Ma neppure la realtà storica si salva; e così il poema non è storia e non è poesia, quantunque in esso non manchino episodi di grande bellezza e il verso abbia molto vigore, che però non riesce a nascondere la povertà di sentimento e l'artificiosa concitazione.

Materia anch'essa storica tratta SILIO ITALICO Italico, vissuto tra il 25 e il 100, nelle sue Puniehe, in cui sono narrati gli avvenimenti della seconda guerra contro Cartagine, dall'assedio di Sagunto alla battaglia di Zama. Ma il poema di Italico, in diciassette canti, è di gran lunga inferiore a quello di Lucano. Anche qui la realtà storica inceppa il poeta, né lo salva la mitologia col suo bagaglio ingombrante. Vano sforzo quello di Silio Italico di fondere l'elemento storico con il mitologico ed intrecciare l'azione degli dèi con quelle di uomini vicini nel tempo e perciò notissimi. Ne risulta un connubio infelice, di favoloso e di reale che rasenta il grottesco. Come a Lucano così a Silio Italico fa difetto la fantasia né gli episodi inventati riescono a destare interesse. Reali o inventati, i personaggi e i fatti non riscaldano il poeta; la materia, pur così ricca e varia, rimane inerte e, malgrado l'abilità dell'autore che sa disegnar bene qualche carattere, curare le scene e verseggiare non di raro con grande bravura, non si trasforma in opera d'arte. 

Dal mito di Giasone invece trae ispirazione VALERIO FIACCO, vissuto sotto gli imperatori della casa Flavia, nel suo poema epico-eroico, Argonautica, rimasto incompiuto. Non era argomento nuovo presso i Latini: Varrone Atacino aveva cantato delle imprese degli Argonauti in un poema in quattro canti in cui imitava Apollonio Bodio, ed Apollonio è anche preso a modello da Valerio Fiacco. Ma la sua è un' imitazione assai libera: Valerio molto opportunamente tralascia tutto il ciarpame erudito che ingombra l'opera del poeta greco e molto aggiunge di suo e, se riesce molto inferiore ad Apollonio per la finezza e l'eleganza, lo supera certamente per la vigoria con cui ha saputo dare rilievo ad alcuni personaggi e per la vivacità dei colori. Ma nell'insieme il poema di Valerio Fiacco non è gran cosa e le poche bellezze che vi si riscontrano si perdono in mezzo alla fiacchezza dell'azione e alla noiosa uniformità del tono e denotano più la bravura del letterato che l'arte del poeta.

Maggior fama, ma non maggior valore, come poeta epico, ha P. PAPINIO STAZIO, di Napoli, vissuto nella seconda metà del primo secolo, autore di un poema in dodici canti, la Tebaide, che, salvo qualche bella immagine e qualche episodio leggiadro, è un'opera priva d'ispirazione, prolissa e noiosa. Agile e festoso è invece l' Achilleide, che però rimase interrotto alla metà del secondo canto; poema dalla vasta tela che doveva cantare tutto il mito di Achille dall' infanzia alla morte sotto le mura di Troia. Miglior poeta egli ci appare come lirico. Nelle sue Silvae Stazio canta un po' di tutto: poesia improvvisata e d'occasione, dove fa difetto l'ispirazione e mancano  pregi che solo l'elaborazione artistica può dare. Ma a volte egli si abbandona agli affetti famigliari e solo allora l'anima sua si commuove e gli fa trovare accenti sinceri, come quando piange la morte del figlio adottivo o, invitando la moglie al soggiorno di Napoli, cerca d' indurla al viaggio mostrandole gli incanti partenopei in versi pieni di soave nostalgia.

Ultimo poeta della latinità pagana è CLAUDIO CLAUDIANO, egiziano di Alessandria, vissuto tra il quarto e il quinto secolo. Mentre si spezza l'unità dell 'impero e il Cristianesimo trionfa ed urge la minaccia barbarica ai confini; mentre la gloria di Roma ha gli ultimi bagliori nella spada di Stilicone e dalle chiese escono gli inni che cantano il Dio unico, la divinità di Cristo e le glorie dei martiri, risuona potente nella vecchia metropoli la voce del poeta che magnifica nel De bello Gotico la vittoria di Stilicone su Alarico e canta nel De Bello Gildonico i marchingegni guerreschi contro il principe Mauro Gildone e nei panegirici le lodi di Onorio. Per opera sua rifioriscono i miti {Gigantomachia) e mette nuove, meravigliose fronde la leggenda di Proserpina nel poemetto bellissimo che ne canta il rapimento (De raptu Proserpinae); per opera sua Roma riascolta la solenne gravita dell'esametro, la dolce armonia del distico elegiaco e la festività dei fescennini; in lui Roma torna ad avere un poeta che scrive nella lingua purissima dell'età di Augusto, il poeta che nella decadenza politica, militare, letteraria è tutto animato dallo spirito della romanità e per esaltarla dedica la potenza dell'ingegno, l'abbondanza della sua vena, l' intensa sua immaginazione, la vivacità della sua tavolozza.

Roma pagana muore, ma prima di morire ha in Claudiano il suo ultimo grande poeta e in Stilicone il suo ultimo grande guerriero, stranieri entrambi, greco l'uno, vandalo l'altro. 
Purtroppo  i figli di Roma non hanno più la divina virtù del canto, né la superba audacia delle armi  che... non vogliono o non sanno più brandire a difesa dell'Impero.


FINE

Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
APPIANO - BELL. CIV. 
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PLUTARCO - VITE 
SVETONIO - VITE DEI CESARI 
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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