LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1917

LA DEFEZIONE RUSSA - I FASCI DIFESA NAZIONALE
MUSSOLINI PLAUDE GLI USA

LA DEFEZIONE RUSSA DOPO LA RIVOLUZIONE - LA CONFERENZA INTERALLEATA DI PARIGI
- LA DICHIARAZIONE DI GUERRA DEGLI STATI UNITI ALL'AUSTRIA - I FASCI DELLA DIFESA NAZIONALE;
LE SEDUTE PARLAMENTARI ITALIANE - "RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE"
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ARMISTIZIO RUSSO - I 14 PUNTI DI WILSON - LA JUGOSLAVIA

L'ARMISTIZIO DI BREST-LITOWSKI E LE TRATTATIVE DI PACE TRA GLI IMPERI CENTRALI E LA RUSSIA - LA PACE SECONDO LLOYD GEORGE - U.S.A. I 14 PUNTI DI WILSON - IL MOVIMENTO JUGOSLAVO O I SUOI FAUTORI ITALIANI - LE CONVERSAZIONI E GLI ACCORDI ITALO-JUGOSLAVI DI LONDRA - L'ON. ORLANDO A LONDRA E A PARIGI - IL CONSIGLIO SUPERIORE DI GUERRA - LA COMMISSIONE D'INCHIESTA SUL ROVESCIO DI CAPORETTO - LA POLITICA ITALIANA VERSO LE NAZIONALITÀ OPPRESSE DALL'AUSTRIA NELLE DICHIARAZIONI ALLA CAMERA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO - DICHIARAZIONI DELL'ON. SONNINO - "MONTE GRAPPA, TU SEI LA MIA PATRIA " - ENERGICA POLITICA INTERNA - IL CONGRESSO CAPITOLINO DELLE NAZIONALITÀ OPPRESSE DAGLI AUSTRO-MAGIARI - IL PATTO DI ROMA



Resistere, resistere, resistere


LA DEFEZIONE RUSSA DOPO LA RIVOLUZIONE

Proprio nel periodo più critico per l'Italia, e più ottimistico per gli eserciti dei due Imperi che l'avevano invasa e messa in rotta a Caporetto, la data 6-7 novembre con l'arresto definitivo delle truppe italiane nella nuova arretrata linea sul Piave, coincise (24-25 ottobre del calendario russo) la Rivoluzione e la composizione in Russia del Governo dei Soviet, costituitosi, per opera di LENIN, che divenne presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo, e di TROTSKI, che fu fatto commissario per gli Affari Esteri nel Governo borghese-socialista di KERENSKI.
Il 21 novembre il generale DUKONIN, messo a capo supremo del povero sbandato esercito russo, riceveva dal Governo bolscevico l'ordine di iniziare immediatamente le trattative per giungere all'armistizio con gli Imperi Centrali.
Dopo che c'era stata la caduta di KERENSKI e l'avvento al potere di Lenin e dei suoi accoliti, la diserzione della Repubblica sovietica dalla guerra, era un fatto naturale. La conclusione immediata della pace costituiva il punto di partenza del programma comunista (cessazione ostilità e, secondo punto demagogico, l'esproprio senza indennizzo dei grandi proprietari terrieri - 150 milioni di ettari da distribuire al popolo, che abbandonò l'esercito e corse a casa ad applaudire e... aspettare).

Il generale doveva eseguire le disposizioni che gli erano state impartite, ma Dukonin -che era un soldato leale, con un sincero amore per la sua misera patria straziata da tanti e tanti mali, rimase indignato. E' vero che i cosacchi non si trovavano più in condizioni da potersi battere ancora, ma l'economia generale della grande guerra e le condizioni particolari alla lotta nello sterminato scacchiere orientale, non esigevano più un'attività continuativa dell'esercito russo.
I soldati delle steppe avrebbero potuto anch'essi, al pari dei francesi, attendere con le armi al piede le tanks degli Alleati e degli Americani, ed il maturarsi degli eventi. Del resto, la riduzione degli effettivi ai soli elementi sicuri agli ordini della Stawka era uno strumento bellico meno poderoso, ma pur sempre bastevole a fronteggiare gli avversari fino alla vittoria ineluttabile dell'Intesa, forte dell'aiuto diretto o indiretto dei quattro quinti del mondo.

Pur rappresentando -forse- la salvezza della Russia, la pace era pur sempre un tradimento dei Bolscevichi ai danni degli Alleati, ma anche del loro disgraziatissimo paese proprio per nulla tutto Bolscevico (infatti, alle votazioni di dicembre, Lenin ottenne soltanto 9 milioni di voti su 36 milioni).
E Dukonin anziché transigere col proprio onore ebbe la forza d'animo di opporsi: la Stavka non scendeva a patti con i nemici ancora accampati in armi sul suolo sacro della sua patria.
Ma Lenin inseguiva il suo sogno utopistico: la pace universale promessa dal comunismo e credeva di superare l'ostacolo del patriota "ribelle" creando un nuovo generalissimo disposto ad assecondarlo. La sua scelta cadde su un oscuro KRILENKO, che proveniva dai gradi infimi dell'esercito ma che era giunto ai vertici dell'esercito per il solo merito dell'anzianità; mancava invece di altre doti: ingegno, cultura, audacia, fascino personale, indispensabile ai condottieri.
Dukonin, silurato dal governo, inamovibile si rifiutò di riconoscere il nuovo generalissimo e rimase alla Stavka con il suo esercito, che anche se agonizzante, nelle file contava ufficiali audaci ed energici che si erano dimostrati valorosi sul campo di battaglia, coperti di ferite e decorazioni ben meritate. E proprio per questi motivi essi rimasero con Dukonin a Mohileff.
Krilenko non potendo mettere piede in questo Comando Supremo, ne creò un altro a Minsk, tentando d'intavolare con i Comandi tedeschi e austro-ungarici le trattative volute da Lenin. Ma invano, perché i nemici stessi si rifiutarono di riconoscere a questo "generale da burletta" ("che voleva fare il Napoleone e che al massimo il corso l'avrebbe preso appena come attendente") la competenza fin quando a Mohileff si trovava un generale "autentico".

Per risolvere questo scisma, la soluzione fu subito trovata: il 2 dicembre Dukonin cadeva assassinato. Alcuni fedelissimi passarono a Kiew, capitale dell'Ucraina che aveva dichiarato la sua autonomia e diveniva il centro della lotta contro il Bolscevismo (lotta poi stroncata con l'intervento dell'Armata Rossa), mentre gli altri si lasciarono o sgomentare o travolgere dal turbine rosso, e senza reagire passarono all'imbelle Klilenko che diveniva così il capo supremo (fantoccio) di un esercito russo in piena dissoluzione.
Ma poiché i paladini dell'utopia a carattere universale, si proponevano la dissoluzione anche degli altri eserciti, e che dopo l'unione dei "proletari" di Pietrogrado e di Mosca, propagandavano che doveva esserci anche l'unione dei "fratelli" di Berlino e di Vienna, il proselitismo bolscevico, favorito dalle circostanze psicologiche del tutto particolari, trovava il modo di inquinare le file dei Prussiani, degli Austriaci, dei Magiari.
Infatti, cessate le ostilità in Russia, i soldati dei due Imperi, stanchi della guerra, del militarismo prussiano e dell'oscurantismo asburgico, si ritrovarono uomini attratti dalla solidarietà o dalla curiosità verso questi ex nemici, e avevano desiderio di conoscere i moventi della "grande rivoluzione" del popolo russo, che si stava togliendo di dosso il tallone zarista e quello dei grandi proprietari terrieri per diventare il popolo stesso proprietario di terre e mezzi di produzione.
Il 27 novembre, LENIN aveva già invitato tutti i capi dei Governi degli Stati belligeranti ad entrare, entro breve termine, in negoziati per l'armistizio e la pace, ricevendo l'adesione di Berlino e di Vienna, con cui Pietroburgo, il 15 dicembre, stipulò l'armistizio di Brest-Litowski (di cui parleremo ancora più avanti).


La vittoria del bolscevismo nello sterminato Impero russo, che nella coscienza collettiva era il più grande stato del mondo, non poteva non avere ripercussioni in Italia sia a carattere militare sia a carattere politico.
Intrattenendoci poco sulle ripercussioni di carattere politico sul resto d'Europa, annoteremo solo che in Italia, il Partito Ufficiale Socialista non indugiò a cambiar contegno. Non si trattava più di esplicare la propria attività aiutando il proletariato a mantenersi calmo e sereno nell'angosciosa ora che volgeva; ma (sotto l'influenza russa di quei giorni) si trattava di dedicare ogni energia al trionfo dell'idea socialista e della pace; "guerra alla guerra". TREVES, PRAMPOLINI e i dirigenti dell'Università popolare di Milano si ebbero per le loro velleità patriottiche i biasimi della direzione del Partito e a RINALDO RIGOLA, segretario della Confederazione del Lavoro, si proibì di pubblicare un appello alla resistenza.

Forse nessuno - oratori e politicanti, a destra come a sinistra, liberali, democratici e socialisti, che si ritenevano moderni, nessuno era andato sul Piave o sul Grappa a tastare il polso di quei "cenciosi soldati" di quell'Italia contadina e popolaresca in armi, che si stava battendo con le sole baionette contro quell'imponente esercito di due grandi Imperi, senza nemmeno un piano operativo, e spesso senza gli stessi generali. Questa guerra di "burocrati", di "vertici", che in modo inconcludente durava da tre anni, all'improvviso in pochi giorni era diventata di "base" popolaresca, antiborghese e antipolitica; tale che poi a fine guerra, nell'anarchia in cui si dibatterà per un paio d'anni (e con una "vittoria mutilata") , metterà in crisi tutte le ideologie e i sistemi di governo; in Italia, in Europa e nel Mondo, con quest'ultimo diviso tra le due potenze emergenti, impegnate ad imprimere una direzione politica ed economica completamente diversa dal secolo e dai secoli precedenti; anche se nessuna delle due aveva in mano la carta sicura: il liberismo americano e il socialismo russo, per vincere la grossa partita planetaria.

Il contegno dei socialisti e quello dell'Unione parlamentare, che faceva capo a GIOLITTI non poteva lasciare indifferenti i gruppi interventisti, i quali più che mai in quel momento volevano che il Governo adottasse la maniera forte che, dopo l'avvento al potere del CLEMENCEAU, detto il Tigre, era diventato il metodo del governo francese.
I socialisti riformisti diramarono un manifesto a tutti i socialisti d'Italia, che terminava così:
"Tutta la nostra azione oggi è di ricercare la più grande forza nazionale, e di servirla. Oggi non c' è che una politica, ed è la politica nazionale. L'Austria sarà sempre una minaccia di conflitti perché le "nazionalità da essa incorporate non sono indipendenti.

Non solamente, la Patria, com' è da noi intesa, non è la causa della guerra, ma la condizione della pace. Non solamente essa non è l'odio, ma è l'amore. Non si può amare l'umanità che attraverso la Patria".

Il manifesto non era molto chiaro. Inoltre si voleva ignorare cosa accadeva in Ucraina, che resasi indipendente, due anni dopo fu incorporata all'Urss, ma solo dopo l'intervento dell'Armata Rossa, ignorando il forte sentimento nazionale nato in opposizione alla russificazione esercitatavi con durezza dagli zar nel XIX secolo.

Il 28 ottobre sul "Popolo d'Italia", quando era appena iniziata l'offensiva austriaca ma non era ancora avvenuto il "disastro", BENITO MUSSOLINI, che qualcosa del fronte sapeva per esserci stato, anche lui arrabbiato come il popolo di fanti contadini traditi ma che la parte migliore prendeva l'iniziativa là dove tutte le istituzioni e le strutture, e persino quelle rigide militare erano crollate, scriveva:

"..Noi che eravamo stati fino allora gli irrequieti, gli irregolari, un po' dentro un po' fuori della legge, ci allineammo nei ranghi e chiedemmo di diventare numeri di matricola nella vasta anonimia della Nazione combattente…" e vedendo con la "disfatta" risorgere qua e là le tendenze neutraliste e pacifiste, aggiunse "…dovevamo riprendere l'opera interrotta. Noi abbiamo combattuto fieramente i socialisti, non in quanto socialisti, i clericali, non in quanto clericali, ma perché ritenevamo che la loro azione neutralista, malgrado la guerra, portasse, come portava, nocumento all'Italia".

Poi nei successivi giorni, migliorando le cose sul Piave, i neutralisti gli paiono trascurabile cosa. E' quasi convinto (stupefatto anche lui di questa ripresa) che l'Italia ce la farà e Vincerà!

Del resto sosterrà il prossimo 24 maggio 1918, in un discorso al Teatro Comunale di Bologna, che
"…Se la Germania vince, bisogna mettersi in mente che la rovina totale e certissima ci attende. Il germano non ha modificato i suoi istinti fondamentali. Sono gli stessi che Tacito descriveva nella sua Germania…" e aggiunse in quel discorso: (1) "…Vinceremo perché gli Stati Uniti non possono perdere, perché l'Inghilterra non può perdere", ma già in Marzo parlando in piazza a Milano, lodava gli Stati Uniti che intervenendo in guerra (2) "…avevano compiuto il loro preciso dovere; l'America, dopo avere lealmente atteso che la Germania tornasse alla ragione, snudò la spada e scese in campo".
Ma in quello stesso discorso del 24 maggio, pone credo per la prima volta, una specie di sua candidatura al governo d'Italia "Noi sopravvissuti, noi i ritornati, rivendichiamo il diritto di governare l'Italia".
(Paolo Monelli, "Mussolini piccolo borghese" Vallardi Ed. 1950)

Questa ultima parte (come vedremo nel dopoguerra) Mussolini l'attuerà. Ma la prima e la seconda nel 1940 la dimenticherà; ma non del tutto, perché a Hitler scrisse - ma ormai era troppo tardi- quasi la stessa frase "…Non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio i franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi. Gli Stati Uniti non LO permetterebbero (corretto il "non permetterebbero") una totale disfatta delle democrazie. Gli imperi crollano per difetto di statica interna e (cancellato: "solo in questo caso") gli urti dall'esterno possono consolidarli" (Lettera di Mussolini a Hitler, del 3 gennaio 1940 - Prima di entrare in guerra con la "Germania di Tacito")


(Fac-simile della lettera inviata con correzioni di pugno di Mussolini)

IL FASCIO DI DIFESA NAZIONALE

In opposizione all'Unione parlamentare si costituì un gruppo parlamentare denominato "Fascio di difesa nazionale", il quale, prescindendo da ogni considerazione di partito, intendeva, opporre un'energica reazione alle manovre insidiose disfattiste del gruppo dei socialisti ufficiali e di quanti altri alla Camera intendessero trarre partito dalla grave situazione del momento per far prevalere fini e interessi particolari sul grande obiettivo nazionale. Ai 105 deputati del Fascio aderirono subito cinquanta senatori.

La reazione ai socialisti ufficiali e a quanti, per desiderio di pace o altro, facevano opera disfattista, si estese ben presto dal Parlamento al Paese, e associazioni, sodalizi e gruppi fecero voti che Governo, Parlamento e Paese sostenessero e integrassero lo sforzo dei combattenti; e in moltissime città d'Italia si ebbero comizi di mutilati, invalidi e feriti di guerra per invitare la popolazione alla resistenza, fino alla vittoria.

 

LA CONFERENZA INTERALLEATA DI PARIGI


Intanto pareva che le cose, anche per la solidarietà, fra gli Alleati, dovessero andar meglio. Il 23 novembre s'inaugurarono a Parigi, i lavori della Conferenza interalleata, alla quale partecipavano i rappresentanti dei 17 Stati che avevano aderito all'Intesa. Per l'Italia erano presenti gli onorevoli ORLANDO, SONNINO, NITTI, DEL BUONO, DALL'OLIO, BIANCHI, il generale CADORNA, l'on. EUGENIO CHIESA, commissario dell'Aviazione e l'on. SILVIO CRESPI, commissario degli approvvigionamenti e dei Consumi.
La conferenza si chiuse il 3 dicembre e il ministro degli Esteri PICHON comunicò i risultati riassumendoli così:

"La Conferenza ha dato risultati di cui dobbiamo felicitarci ed ha permesso di assicurare praticamente un'unità d'azione economica, finanziaria e militare. Sono stati conclusi accordi sulla base di una completa intesa e di una stretta solidarietà tra gli Alleati per la soluzione delle questioni che interessano la loro comune azione nella guerra. I bisogni finanziari degli Alleati e le necessità del loro armamento, dei loro trasporti e dei loro approvvigionamenti furono oggetto di ponderati studi e di decisioni che garantiscono loro piena soddisfazione. È stata decisa la creazione di un Comitato Navale Supremo Interalleato. Dal punto di vista militare, l'unità d'azione è stata messa sulla via di una sicura realizzazione mediante lo Stato Maggiore Interalleato, il quale si trova al lavoro secondo il programma stabilito per tutte le questioni all'ordine del giorno. Dal punto di vista diplomatico è risultato un completo accordo dai colloqui che si sono svolti tra i rappresentanti delle Potenze su tutte le questioni che essi dovettero insieme risolvere per assicurare la vittoria comune dei loro paesi".

La conferenza autorizzò il Governo inglese a discutere ufficiosamente col Governo Austro-ungarico, che tentava ancora di negoziare per una pace separata. L'Italia, interpellata, assentì purché si trattasse in base al patto di Londra. Nella seconda metà di dicembre avvennero in Svizzera colloqui tra agenti inglesi (generali SMUTS e KERR) e agenti austriaci (conte MENSDORFF e barone CHLUMECKY), ma i negoziati non portarono ad alcuna conclusione perché gli agenti austriaci non vollero stabilire il modo e l'epoca dell'aperta rottura dell'Austria con la Germania.


LA DICHIARAZIONE DI GUERRA DEGLI STATI UNITI ALL'AUSTRIA


Il 1° dicembre cominciarono le sedute delle missioni alleate a Versailles; il 4, in America il presidente WILSON, inaugurando il 65° Congresso, chiedeva con un messaggio la dichiarazione di guerra all'Austria, che quello stesso giorno era votato dal senato degli Stati Uniti. La guerra era dichiarata il 7 dicembre.

LE SEDUTE PARLAMENTARI


Cinque giorni dopo si riaprì il Parlamento italiano. Molto ascoltate e qua e là sottolineate da commenti furono le comunicazioni del presidente dei ministri, on. ORLANDO, che parlando della migliorata situazione militare, elogiò il valore dell'esercito:
"L'aver mantenuta - disse - la linea del Piave in una così straordinaria concorrenza di avversità costituisce un fatto di cui incalcolabile è il valore militare e morale, e il nostro cuore si commuove e si esalta pensando che il merito e l'onore è dei figli nostri, dei sodati d'Italia. Tutti gli eventi e tutte le circostanze furono contro di loro, la loro stessa stanchezza fisica, dopo la difficilissima ritirata, il numero preponderante di un nemico imbaldanzito dalla vittoria, la potenza soverchiante delle artiglierie avversarie, l'apprestamento improvvisato dei nostri ripari, persino la stagione, eccezionalmente favorevole alla causa dell'invasore, tutti questi ostacoli i nostri soldati hanno rudemente affrontato e vinto .... Lo spirito di eroismo dei nostri soldati cui ha corrisposto la fiera attitudine del popolo intero basterebbe a tenere alto, pur tra i rovesci i più gravi, l'onore di un esercito e di una nazione, onde di tanto più acuto si rinnova il rimpianto dell'immeritata sciagura che ci ha colpito".

Parlando della vita economica del Paese, sostenne che:
"…la rarefazione del tonnellaggio e i rischi della navigazione, la riduzione della mano d'opera, l'aumento della domanda e la diminuzione dell'offerta, l'inasprimento del cambio e il disagio monetario che ne deriva, insieme con altre cause, hanno determinato un aumento generale di prezzi rendendo più difficili le condizioni di esistenza. Ma il pericolo maggiore non è costituito dal rincaro dei prezzi ma dalla minaccia che possono mancare le cose più necessarie. Il rimedio unico consiste nel far convergere tutte le energie perché la produzione aumenti il più possibile o almeno non diminuisca, e che il consumo diminuisca o almeno non cresca. Per questi fini essenziali occorre una più ferma e risoluta organizzazione degli uffici statali e una miglior disciplina dell'azione individuale... Nuovi sacrifici e nuove rinunce s'impongono, ma quale che ne sia l'entità ognuno sente come spontaneo dovere che tutte le nostre risorse debbano essere destinate a coloro che combattono e soffrono i disagi più duri offrendo alla Patria la giovinezza e la vita".

Partecipò quindi l'elargizione a favore dei soldati e dei loro parenti di polizze di 500 o 1000 lire dell'Istituto delle Assicurazioni; assicurò che il Governo affronterebbe risolutamente il vitale e complesso problema del dopoguerra sia riguardo allo sviluppo industriale che a quello della produzione agraria; annunziò che le Potenze alleate, ispirandosi al principio fondamentale del rispetto delle nazionalità, si erano accordate per costituire una Polonia indipendente, e indivisibile in condizioni tali che assicurassero il libero sviluppo politico ed economico; comunicò la notizia della presa di Gerusalemme, avvenuta il giorno 11, alla quale avevano partecipato, oltre agli Inglesi, un battaglione francese e un battaglione di bersaglieri e un reparto di carabinieri italiani al comando del colonnello D'AGOSTINO; non dissimulò che ....
"...la defezione russa aveva avuto gravi conseguenze militari specie per l'Italia e che non lieve danno ne risentiva la causa dell'Intesa dallo spostamento considerevole delle forze militari, ma affermò che i fattori della vittoria, come uomini e come mezzi, rimanevano sempre dalla parte dell'Intesa e che l'essenziale era di farli valere, raggiungendo quella comunione e coordinazione, onde le forze non soltanto si sommano, ma si moltiplicano".

Ricordato il patto di Rapallo, la conferenza di Parigi, le cui deliberazioni davano affidamento che tutto lo sforzo comune degli Alleati sarebbe messo in opera affinché non mancassero all'Italia, i viveri, il carbone e le materie prime necessarie al proseguimento della guerra, e la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all'Austria, l'on. Orlando entrò nell'argomento che maggiormente interessava e attraeva, quello della pace, così concludendo il suo discorso:

"I nostri nemici, dopo il venir meno della Russia, sul quale non dovrebbero attribuirsi alcuna gloria, se per tale non può passare la raffinata e veramente perfetta loro arte di corruzione e di perfidia, hanno ritirata tutta l'innata tracotanza e ripreso quel tono ingiurioso ed arrogante che è conforme alla loro mentalità. Gli Imperi Centrali dicono di volere la pace, ma le condizioni sono avvolte in una nube, in modo da farsene un mezzo per diffondere germi di sospetto fra gli Alleati e di depressione nei popoli, mentre attraverso quel velo balenano appetiti più o meno insaziabili, propositi più o meno minacciosi a seconda che più o meno favorevoli volgono per loro le sorti momentanee della guerra. Il resto del mondo ha un solo fine che rimane sempre identico, rappresentando nel tempo stesso un massimo e un minimo, esso non vuole essere il cibo di quegli appetiti, né la vittima designata di quelle minacce. Esso non vuole una pace qualunque, anche vana, apparente, se non pure disonorante, ma vuole ed anzi lotta per una pace definitiva che rimuova per sempre il rinnovarsi di violenze e di atrocità che hanno minacciato l'umanità di un ritorno verso la barbarie, per una pace la quale, nel futuro assetto dell'Europa assicuri a tutti i popoli, grandi e piccoli, le condizioni legittime e naturali del loro sviluppo sociale ed economico, nell'inviolabile unità della loro coscienza nazionale.
Su queste basi noi siamo pronti alla pace, come sempre siamo stati desiderosi di vedere quanto prima cessare il flagello che insanguina il mondo, convinti che sarebbe criminoso quel Governo che intendesse proseguire la guerra, in quanto non sia prettamente imposta dalla necessità del fine essenziale di essa. Frattanto l'Italia ben consapevole che quel popolo il quale in quest'ora disertasse il proprio posto segnerebbe con il proprio disonore la propria fine, si proclama ancora e sempre fiera di combattere per la giusta causa, e serba intatta la sua fede nel trionfo della libertà e della giustizia".

Essendo stata chiesta da un gruppo di deputati la proposta di convocare la Camera in Comitato segreto, s' iniziò la discussione su tale proposta, la quale, sebbene aspramente osteggiata dai socialisti e, dagli interventisti estremi, ebbe 274 voti favorevoli e 65 contrari.
La Camera si riunì sei volte, dal 13 al 18 dicembre, in Comitato Segreto. Le sedute furono molto numerose e in esse nazionalisti e interventisti si scagliarono contro SONNINO accusandolo di essersi impegnato a salvar l'impero austro-ungarico, e i socialisti e i giolittiani inveirono contro CADORNA chiamandolo unico responsabile di Caporetto.
Il 18 dicembre, la Camera riprese le sedute pubbliche. Il primo pensiero fu per i soldati che, resistendo eroicamente sul Grappa ai colpi d'ariete degli austro-tedeschi, sbarravano inesorabilmente il passo agli invasori.

"La seduta segreta - disse il generale ALFIERI, ministro della Guerra - è finita e il dovere di tutti è di tacere su quello che in essa si è svolto. Ma vi è in questo un'eccezione, vi è qualche cosa che pur deve uscire dall'aula chiusa ed uscire a bandiere spiegate ed al suono degli inni di gloria: è ciò che si è detto dei nostri figli, dei nostri soldati, è il sentimento d'ammirazione che quotidianamente si è venuto accrescendo in questi sette giorni di battaglia fra il Brenta e il Piave. Quello che accade lassù è semplicemente meraviglioso. I bollettini lo dicono nella loro eloquente concisione quello d'oggi è bellissimo - e sono piuttosto attenuati che esagerati.
Si è detto che il Monte Grappa è la nostra Verdun, e il confronto è per se stesso una gloria. Ma io, senza nulla diminuire di questa gloria, penso che a Verdun erano vecchi soldati che difendevano eroicamente una posizione ben preparata a difesa, e che qui si tratta dei più giovani figli d'Italia che, con eroici contrattacchi, contrastano vittoriosamente da molti giorni una posizione quasi improvvisata alle migliori truppe di un nemico forte, numeroso, imbaldanzito dal successo. Che cosa potrà accadere nessuno è oggi in grado di dire. Sarà resistenza fortunata fino alla fine? E noi, che in essa confidiamo, ne saremo lieti e orgogliosi; in ogni caso, ne dovremmo essere egualmente orgogliosi. Quello che è certo è che lassù la Patria scrive col sangue puro dei suoi soldati la più bella, la più nitida, la più gloriosa pagina dell'Italia nuova: una delle più gloriose pagine della storia del mondo".

Nelle sedute pubbliche fu espressa tutta l'acredine che aveva caratterizzato quelle segrete e l'irrequietezza dell'ora. Era tale la tensione degli animi che gl'incidenti furono inevitabili. Uno il giorno 20. L'on. PIROLINI, repubblicano e membro del Fascio di Difesa Nazionale, in un suo discorso parlò delle "manovre neutraliste e disfattiste, dicendo che forti somme erano state spese per questa propaganda antipatriottica ed esortando il Governo a fare un'inchiesta diligente e severa.

Avendo Pirolini chiamato GIOLITTI il
Caillaux dell'Italia, sorsero gravi proteste da parte dei giolittiani, che indussero Pirolini a dichiarare di avere avvicinato i due nomi "solo per un riferimento politico e senza lanciare all'on. Giolitti accuse riguardanti la sua delicatezza personale"
Ma il Giolitti respinse il raffronto politico.
"Dichiaro
- egli disse - che dal punto di vista politico non accetto la similitudine da lui fatta per una ragione fondamentale, e cioè perché io non ho mai sostenuto e non sosterrò mai una pace separata né qualsiasi atto che non sia di lealtà assoluta verso gli Alleati.
Mi si permetta poi, se non altro a titolo di anzianità, di ricordare alla Camera che, quando il nemico è dentro nel Paese, il Parlamento deve dare spettacolo di unione e non di discordia".

Lo stesso giorno 20 il ministro NITTI fece l'esposizione finanziaria, da cui le entrate effettive risultarono di 5 miliardi e 345 milioni, con un aumento di 2 miliardi e 463 milioni oltre il previsto, e le spese effettive di 17 miliardi e 345 milioni con un aumento di 14 miliardi e 814 milioni sul previsto. Tale aumento era costituito principalmente per 12 miliardi e 874 milioni dalle spese di guerra, di cui ben 880 milioni per sussidi alle famiglie bisognose dei richiamati alle armi; 586 milioni per il traffico marittimo, 328 per interessi sui prestiti, 68 per sussidi ai connazionali rimpatriati e 3 milioni e mezzo per sussidi alle istituzioni di assistenza e protezione agli invalidi ed agli orfani di guerra.
L'on. Nitti, dopo avere parlato del bilancio del 1917-18 e del bilancio di previsione del 1918-19, affermò la solidità della nostra finanza cui non erano mancati e non mancherebbero la forza ed il vigore per resistere ai bisogni di quella difficile ora, che doveva riunire tutte le menti, tutte le energie e tutte le volontà.

"Abbiamo attraversato ore difficili - concluse il ministro - e sarebbe vano illudersi che nuove difficoltà non ci attendano; però, se, insieme allo spirito di rinunzia e di disciplina, porteremo un sano spirito di realtà, se vorremo sempre proporzionare i nostri desideri ed i nostri ideali alle nostre forze ed alla nostra capacità, se porteremo nelle lotte della politica e nella vita interna, del nostro Paese lo stesso senso di bontà e di idealità con cui i nostri figli affrontano sereni i disagi e la morte; l'Italia uscirà da questa prova più nobile, più fiera, più grande".

Il 21 dicembre, il commissario generale per gli approvvigionamenti, on. SILVIO CRESPI, fece una relazione particolareggiata delle condizioni del paese alla fine del 1917 e dei provvedimenti da adottarsi per far fronte ai bisogni del 1918.
II 22 parlarono per i socialisti gli onorevoli MORGARI e TURATI, per il gruppo nazionalista l'on. FEDERZONI, l'on. COLAJANNI che chiese un'inchiesta
"per l'accertamento delle responsabilità, politiche e militari relative all'invasione nemica del Trentino nel 1916 ed alla ritirata delle nostre truppe dell'Isonzo"; quindi prese la parola l'on. GIRARDINI, accolto dagli applausi della Camera che salutava in lui la nobile città di Udine invasa. "Il mio ordine del giorno - disse- esprime la volontà che il governo faccia una politica tale che non permetta il rinnovarsi della sventura di Caporetto. Insieme con me coloro che hanno sottoscritto, votando la fiducia, intendono di consegnare al Governo tutto ciò che resta all'Italia. Noi consegnamo al Governo, quanto resta all'Italia delle sue armi e del suo esercito che combatte valorosamente sul Piave. Consegnamo quello che non può andare perduto per le memorie del nostro Risorgimento, dei nostri morti ai piedi del baluardo d'Italia, per le ecatombe dei Caduti nel Trentino e sul Carso, seminato di cimiteri che, segnano la traccia dei nostri inseguimenti e delle fughe del nemico. Consegnamo quello che non può andar perduto per il pianto di tante vedove, di tanto madri, le quali non debbono consumare il loro dolore soltanto nelle lagrime, e non debbono, come accade nella mia terra natia, nascondere il loro pianto vergognose agli occhi dello straniero. Confido che il Governo sarà consapevole del mandato che la Camera gli affida, e saprà impedire che si scriva e si agisca contro la guerra, perché chi è contro la guerra è contro la Patria".

" RESISTERE! RESISTERE! RESISTERE!"

A Girardini seguì l'on. ORLANDO, che quel giorno parlò con una grande eloquenza.
Dichiarò di "sentire la responsabilità di uomo di Governo in tutta la sua pienezza e gravità" affermò che il Governo era "incrollabilmente risoluto a soffocare ogni passione politica per ispirarsi ad un supremo concetto di concordia nazionale; assicurò la Camera che le indagini sul disastro di Caporetto sarebbero proseguite col fermo intendimento di accertare tutta la verità; asserì essere la restaurazione dei luoghi invasi un dovere nazionale; invocò l'aiuto di tutti nella lotta formidabile contro le insidie interne del nemico; raccomandò di guardarsi dalle esagerazioni nel denunziare e nel sospettare persone, chiamò non appartenenti a un partito ma ad un'associazione a delinquere quei socialisti che si rendevano rei di disfattismo; promise che il Governo, senza esitazione e senza riguardo ma con energica costanza, combatterebbe l'opera insidiosa del nemico rivolta a inoculare nel Paese con arte sottile i germi dell'insofferenza e della viltà; consigliò vivamente la concordia che in quel momento difficile doveva essere veramente leale e fattiva, mettendo completamente da parte ideologie di scuola, pregiudizi di parte, feticismi o fobie di persona.

Parlando della politica estera "assicurò che quella seguita dal Governo non era imposta da un solo ministro, ma decisa dell'intero ministero, e a proposito della pace proposta dai Tedeschi sulla base dello "statu quo ante" disse che "…non è il caso di parlarne. Prima di accettarla l'Italia ripiegherebbe combattendo fino alla Sicilia! Del resto, com'è possibile pensare ad un semplice ritorno allo statu quo dopo gli immensi sacrifici di vite o di denaro che la guerra ha imposto? Questa guerra è un'immensa rivoluzione che tutto e tutti sorpassa e che incammina il mondo su nuove vie; è assurdo concepire che essa sia fatta per tornare alle condizioni di prima".

A coloro che in Comitato segreto avevano analizzato la situazione militare, considerandola grave, difficile, pericolosa, l'on. Orlando dichiarò che
"…il Governo, quali che siano le difficoltà, non vede che una sola via di salvezza: la resistenza. In tale condizione è vana qualunque critica assoluta e negativa, quale è quella del partito socialista. I ragionamenti, le indagini, le previsioni a nulla valgono di fronte all'azione energica e risoluta, capace di prescindere da tutto, persino dalla speranza. Il ragionamento avrebbe portato all'abbandono della linea del Piave come assolutamente insostenibile; ma i nostri soldati non hanno ragionato; si sono battuti e la linea è stata tenuta. II Governo e il Parlamento devono accogliere quella superba lezione e intenderne il significato profondo e l'ammaestramento imperioso. La volontà dei vivi, la voce dei morti, il senso dell'onore, la ragione dell'utilità concordi, ammoniscono che una sola è la via della salvezza: Resistere ! Resistere ! Resistere !".

Il successo dell'on. Orlando fu enorme: gli applausi durarono a lungo, ministri e deputati erano vivamente commossi; qualcuno fu visto piangere: qualcuno si recò ad abbracciare il Presidente, molti gli fecero ressa intorno per congratularsi con lui. Dopo quel successo, l'esito della votazione non poteva essere messa in dubbio. L'ordine del giorno dell'on. Carcano che accordava la fiducia al Governo ottenne 345 voti favorevoli e solo 50 contrari.

Il 31 dicembre, giorno in cui era data notizia dell'istituzione del Comitato di guerra e veniva emesso il quinto prestito nazionale, anche il Senato, dopo discorsi dei senatori LEVI-CIVITA e MARCONI e degli onorevoli ALEDA, CRESPI e ORLANDO, votò la fiducia al Governo.

Terminava così il 1917; e non solo al fronte avevano trascorso un triste Capodanno con i "botti" delle cannonate, ma anche nella chiusura della aule parlamentari le ultime ore del 1917 non furono molto allegre; per l'anno 1918 alcuni speravano in un "miracolo", ma erano anche in molti a "disperare".

Infatti, a parte i discorsi ottimistici dei politici italiani, qui noi dobbiamo tornare al 22 dicembre: a quella pace dei Russi con gli Austro-tedeschi; alla pace proposta da Wilson all'Europa; e a tanti altri fatti politici esterni delle ultime settimane dell'anno che moriva e nelle prime dell'anno che nasceva.

l'armistizio russo, i 14 Punti di Wilson, il "problema" Iugoslavia

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