LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1918

4 NOVEMBRE - OCCUPAZIONI - LINEE ARMISTIZIO - IL CAOS

OCCUPAZIONE DELLA LINEA D'ARMISTIZIO - IL RITIRO DEI VINTI -
ITALIANI OLTRE IL BRENNERO - LA SINTESI DI UN EPILOGO -
ORLANDO INVOCA SACRIFICI ! SACRIFICI ! - RIMANEGGIAMENTI DEL MINISTERO
I DELUSI DELLA VITTORIA - MUSSOLINI: COSA FARE?


Caos alla stazione di Trento; all'assalto di centinaia di vagoni, aperti e chiusi.
Molti presero posto sui tetti, ignorando che la ferrovia del Brennero attraversa molte basse e lunghe galleria.

Dalle ore 15 del 4 novembre, i Grigioverdi su tutta la linea del fronte, si erano spinti in avanti fino a tracciare con le proprie avanguardie una frontiera bellica che, partendo dallo Stelvio, raggiungeva la Val Venosta a Sluderno-Spondigna (qui esistono due biforcazione, nella prima si raggiunge Glorenza indi il passo Tubre che scende poi in Engadina, nella seconda si sale allo Stelvio. In entrambe le due biforcazioni, la strada a destra prosegue a Malles, al passo Resia e di qui a Landeck e Innsbruck) - Era una lingua che scendeva dai due passi che si incuneava nella grande strada Augusta, tagliandola in due tronconi, bloccando così la ritirata degli Austriaci.
A sud della valle Venosta, e ad est di Merano-Bolzano-Salorno la linea montana della massima avanzata italiana ripiegava fino a Malè e a Cles (in Val di Sole e Val di Non) poi toccava il passo della Mendola (sopra Bolzano), e il confine provvisorio raggiungeva Roverè della Luna (nei pressi dell'attuale confine di Salorno - che è poi il più che millenario confine del Sud Tirolo, detto geograficamente anche Alto Adige - la disputa tra le due regioni -e del confine- iniziò al tempo dei Bavaresi-Longobardi , portandosi poi a destra (partendo dall'attuale S.Michele All'Adige) a Cembra nella valle dell'Avisio e sul monte Panarotta (alle spalle di Levico-Vetriolo Terme) nella valle del Brenta (cioè la Valsugana che poi sbocca a Bassano). Da quella cima, le truppe italiane che erano giunte a questi confini, si snodavano per Conca di Tesino, Fiera di Primiero, Chiappuzza nella valle del Boite e Domegge. Dall'alta valle del Piave, intersecata a monte di Pieve Cadorina, le truppe proseguivano a larghi intervalli fino a Pontebba, dove poi il fronte piegava a mezzogiorno per Robic, Corinons. Cervignano ed Aquileia, raggiungendo l'Adriatico a Grado.

(vedi i definitivi confini dopo Versailles)

La frontiera cui abbiamo accennato, non aveva alcun carattere di stabilità, in quanto che gl'impegni sottoscritti a Villa Giusti prevedevano l'avanzata italiana fino alla linea d'armistizio coincidente con i termini assegnati all'Italia dal Patto di Londra del 1915.
(ma poi intervennero i "14 punti" di Wilson che riguardo al riassetto delle frontiere italiane, WILSON aveva spiegato al Senato il significato del punto IX e che ....

"…le pretese italiane in Trentino dovrebbero essere soddisfatte, ma la parte settentrionale della regione, abitata dai tedeschi, dovrebbe essere completamente autonoma" (Papers Relating to the Foreign Relations of the United State, 1918: "Supplements I", Documents State Department, Washington 1933, vol. 1, pa.. 410).

In effetti la guerra italiana era iniziata per "liberare" dagli Austriaci le terre irredenti; e forme nemmeno minime d'irredentismo in "Alto Adige" non vi erano mai state. Ecco perché gli Austriaci accusarono l'Italia di "conquiste imperialistiche", e per aver ignorato il punto IX wilsoniano.

Ai vinti austriaci incombeva l'obbligo di ritirarsi oltre questa linea d'armistizio (quella illustrata sopra), pena la cattura in caso d'inadempienza.
Stante la deficienza dei mezzi di trasporto e l'enorme ingombro delle poche strade di deflusso, l'evacuazione da parte dei vinti del territorio compreso tra la frontiera provvisoria e quella definitiva non poteva avvenire in tempo brevissimo. Appunto per questo, furono presi accordi con i Comandanti austriaci affinché lo sgombero avvenisse scaglionato su alcune fasce che poi le truppe italiane avrebbero occupato via via.

Città e paesi si trovarono così, per qualche giorno, fra un esercito vincitore a sud che avanzava ed una moltitudine caotica di sbandati cui non riusciva facile di continuare la ritirata verso Bolzano, e di qui attraverso Passo Resia o il Brennero mettersi in salvo. Per quelle città e per i paesi, invasi dagli sconfitti, furono giorni tragici, e tali da richiamare alla mente le visioni dei tempi nei quali sullo sfacelo dell'Impero Romano si rovesciavano le orde barbariche.
Per quanto l'esercito austriaco aveva perso mezzo milione d'uomini, per quanto molti fossero riusciti a mettersi in salvo approfittando degli ultimi treni sfilati attraverso i valichi alpini, la marea dei fuggiaschi contava pur sempre centinaia, di migliaia d'individui senz'armi, senza capi, senza legge.
Quei miseri, male infagottati nelle uniformi sbrindellate che non avevano ormai altro colore fuorché quello del sudiciume, si trovarono abbandonati alla propria miseria. Rosi dai parassiti, non possedevano scarpe, né calze, né camicia, e neppure una mantellina o un cappotto; era scesi in giugno ora era novembre! Poiché i servizi logistici non funzionavano più, ciascuno - abbrutito dall'insonnia, dal freddo, dalla fame - doveva provvedere a se stesso come gli riusciva. Il furto, la rapina, la grassazione, divennero il modus-vivendi di quello che era stato l'esercito potente di un grande Impero.
Merano, Bolzano, Bressanone, Pontebbanova, Malborghetto, Monfalcone, furono invase dai ritardatari della fuga catastrofica. Gruppi, torme, moltitudini d'affamati invasero le città, i borghi, i paesi che si trovavano lungo le strade della ritirata. Non era mai avvenuta una migrazione d'indigenti altrettanto vasta, pietosa e così pericolosa.

E' facile immaginare quali sentimenti animavano le interminabili processioni desolate. Uomini nei quali la lunga guerra aveva ridestato istinti barbari e la disfatta suscitato rancori feroci, si frammischiavano agli sperduti, agli sgomenti, a quelli che sentivano tutta l'umiliazione dello stato in cui si trovavano ridotti senza colpa, per l'avversa fortuna delle armi dipesa in gran parte non da loro, ma dall'incapacità degli alti Comandi. Privi di tutto, gli sbandati entravano nelle case, a svaligiarle, a compiervi violenze d'ogni genere. Abbandonati dalla Monarchia degli Absburgo, cui non appartenevano più, non ancora protetti dall'Italia, non sapendo ancora a quale destino andavano incontro, gli abitanti della zona da sgomberare subivano angherie e vessazioni d'ogni sorta. A corto essi medesimi di viveri, dovevano lasciarsi portare via quel poco, che era loro rimasto, dopo cinquantadue mesi d'assedio, di blocco, di requisizioni spietate, di razionamento insufficiente. I soldati - erano ancora soldati? - digiuni da molte ore e alcuni da diversi giorni, strappavano l'ultimo tozzo di pane perfino dalle mani di fanciulli denutriti, si caricavano sulle spalle l'ultimo sacco di patate e privavano famiglie intere delle risorse estreme. Si vedevano vecchi e mamme pregare invano perché fosse lasciato qualcosa per i propri figli o nipoti. Le condizioni d'armistizio consentivano ai reparti di portarsi dietro i cariaggi per il vettovagliamento, ma i cavalli o morivano di fame e quelli appena validi erano abbattuti e soldati e popolani si gettavano poi su quelle carcasse a strapparne lembi sanguinolenti da cuocere alla meglio sulla strada con quattro pezzi di legni.

 

 

Rimasti senza animali da tiro, i cannoni, gli obici, i mortai, finivano abbandonati nei fossati. Quando agli autocarri mancava il carburante, di cui era impossibile rifornirsi, la loro marcia si arrestava per sempre. I fuggiaschi s'impadronivano delle coperture di tela per farsene mantelline di fortuna, o dei magneti per poi barattare con una pagnotta alla prima occasione.
Le risse fra soldati di nazionalità diverse scoppiavano non appena c'era un po' di refurtiva da dividere, o una casa all'apparenza più opulenta di un'altra da saccheggiare; risse in varie lingue in un passaggio nel quale i più prepotenti intendevano sfilare prima degli altri.

E mentre divampava questo brigantaggio individuale e collettivo, gli ufficiali erano spesso le vittime designate dall'esasperazione degli animi. Specie i più elevati in grado, tedeschi o magiari, si trovavano in continuo pericolo di cadere uccisi dalle loro stesse truppe. Ai Comandi italiani pervenivano invocazioni angosciose per cui drappelli di Carabinieri dovevano spingersi oltre la frontiera provvisoria, a proteggere questo o quel generale nemico, che - controsensi della guerra! - diventava debitore della vita alle baionette italiane.
Da ogni parte, del resto, giungevano appelli disperati. Alcune città, borghi, paesi, perfino di lingua tedesca, attendevano i "nemici" Grigioverdi con ansia per mettere ordine, disciplina. La marcia dei battaglioni grigioverdi verso il confine d'armistizio incontrava ad ogni passo angosce che si confortavano, miserie cui rideva ormai la certezza di giorni migliori, tristezze che si rinfrancavano. Testimonianze unanimi d'affetto, di devozione, d'entusiasmo, furono questi i migliori "archi di trionfo" sotto ai quali passavano i fanti italiani. Ed ecco un episodio:
Dopo il 4 novembre i vincitori, risalendo la valle dell'Isarco, giungevano al Brennero: porta settentrionale della Penisola chiusa per sempre alle famose calate di tante altre "Strafexpedition" sull'Italia. Fra le sorprese della marcia ci fu anche un incontro imprevisto con le truppe bavaresi a Bressanone.
Ma cosa ci facevano truppe bavaresi (tedesche ma inquadrate a Vienna) a Bressanone-
Il 4 novembre, cioè non appena note in Germania le clausole dell'armistizio italo-austriaco, decisi a proseguire la guerra da soli, un nutrito gruppo di ufficiali prussiani erano giunti ad Innsbruck. I nuovi venuti -volenti o nolenti le autorità locali austriache - requisirono caserme, depositi d'armi e di munizioni, magazzini di viveri e quanto serviva al traffico della ferrovia Brennero-Bolzano-Trento che monopolizzarono per dare la precedenza ad alcuni reparti tedeschi, da inviare a Berlino per mettere ordine nella capitale in preda alla rivoluzione spartachista.
Il giorno dopo organizzarono alcuni battaglioni di questi bavaresi, avviati immediatamente al Brennero e Bressanone a trincerarsi nella stretta di Franzensfeste. Compito di queste truppe era la protezione della Germania contro un'eventuale offensiva italiana (il confine tedesco non è lontano da Innsbruck; e Monaco e Innsbruck si sono sempre sentite unite, e la seconda città è più tedesca che austriaca - Tutta la toponomastica ancora oggi testimonia la tedeschità della regione - Molte delle famose riforme di Maria Teresa, toccarono poco questa regione. - Hitler, l'austriaco, nato a Braunau, sull'Inn, città austriaca, che aspettava da mille anni di essere riunita alla madre patria attraverso un semplice ponte, quando invase l'Austria ci trovò l'anima tedesca, e qui trovò i più fervidi e ardenti suoi sostenitori. - E così pure dimenticata fu la Carinzia; quando Francesco Giuseppe volle fare una visita in Carinzia, fu accolto beffardamente con lo sventolio delle bandiere tedesche, pur avendo disposto i suoi funzionari che la città "doveva" essere tutta addobbata con le bandiere della monarchia asburgica. Il malcapitato governatore della Carinzia dovette dimettersi - Purtroppo il Paese che solo un secolo prima si affacciava su La Manica, che possedeva il porto di Rotterdam,  le ricche miniere del Belgio, della Slesia e sul Mar Baltico quelle Polacche e che solo per un attimo aveva creduto all'illuminismo e alle riforme,  già alla vigilia della guerra era destinato a estinguersi. "A diventare la Cacania", come scrisse Robert Musil.

I Grigioverdi intanto avevano occupato Bolzano, in qualche modo liberata dall'orda di affamati oltre che di disperati; poi giunsero a Chiusa e si spinsero a Bressanone e oltre.
Ma agli ufficiali italiani che avanzavano con le loro unità verso il Brennero non erano stati informati dall'alto comando italiano, che l'armistizio valeva solo per le truppe austro-ungariche e non per le truppe tedesche ( i tedeschi si arresero l'11.11.1918).
Cosi fu creato un altro cimitero inutile dei fanti italiani vicino al passo del Brennero, perchè al di là del passo vi erano truppe bavarese che con i loro obici pesanti fecero un bagno di sangue.
Solo con la pressione esercitata dagli alleati (inglesi ed americani sul governo bavarese), le truppe tedesche si ritirarono (32.000 uomini, una intera divisione e mezzo di montagna con molte armi pesanti e ben forniti di munizioni).
Purtroppo fino all'11, ci lasciarono la pelle centinaia di fanti italiani che pensavano dopo essere arrivati al Brennero: "Tutto finito, fra qualche giorni siamo a casa!"- Mentre gli ufficiali già circolavano nei bar e nelle caffetterie di Innsbruck (austriaca) festeggiando la grande vittoria.

Lo sgombero avvenne solo parecchi mesi dopo.
Il 19 novembre -giusto allo scadere dei 15 giorni previsti dai patti, la frontiera d'armistizio era stata raggiunta dai Grigioverdi in tutta la sua estensione. Il Trentino, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, la Dalmazia, le terre riconosciute italiane per la popolazione, per l'idioma, per la struttura geografica, le tradizioni storiche, dalle Potenze firmatarie degli accordi di Londra, e che appartenevano di fatto all'Italia in attesa che i trattati di pace le assegnassero definitivamente ai liberatori.
Visitatore augusto il Re la cui presenza convalidava gli eventi in corso e precorreva l'annessione, si recava a visitare le principali città redente, accolto dovunque festosamente , il 7 novembre a Trento (mentre al Brennero morivano ancora, fino all'11), il 10 a Trieste - Il 17 truppe italiane sbarcarono a Fiume).

Mentre le torme dei vinti si riversavano verso tutti i paesi della dissolta Monarchia degli Absburgo, altri cortei -esultanti questi, ma non meno laceri e miseri - percorrevano le stesse strade in senso inverso. Si trattava dei prigionieri italiani, che dopo il 4 novembre, rispettando le clausole armistiziali, liberati, facevano il loro ritorno dai campi di concentramento.

Secondo gli accordi pattuiti, l'Austria avrebbe dovuto concentrare gli ex-prigionieri in alcuni vicini campi per avviarli poi gradualmente alla frontiera. La paralisi o il disordine caotico provocati dalla disfatta in tutti gli organismi civili e militari della Monarchia frantumata, resero del tutto inattuabile l'esecuzione degl'impegni presi a Villa Giusti.
Di modo che, molti italiani che già avevano patito per mesi ed anni tutte le sofferenze immaginabili, rimasero pure questi abbandonati a se stessi. Le truppe austriache di guardia smobilitavano per conto proprio, gettando le armi e avviandosi alle loro case. In qualche campo di concentramento, gli stessi ufficiali prima di abbandonarlo, intimando ai guardiani di lasciare immediatamente liberi gli italiani. Ma senza ufficiali italiani pronti a riceverli, ed ognuno, ma tutti nella confusione, si misero in strada per rientrare.

Anelanti di rivedere la Patria e le famiglie lontane, sospinti da un'impazienza che bruciava le vene, gli esiliati intrapresero il lungo viaggio del ritorno con i mezzi consentiti dalle circostanze. Riuniti in drappelli che offrivano un altro spettacolare esodo biblico, pure questi nello sfacelo generale si avvalsero di treni, di strade, di sentieri, di carri e cavalli di fortuna per scendere prima dalla Val d'Isarco a Bolzano per poi proseguire.

Le due pezzenti maree marciavano insomma nei due sensi, laceri entrambi, ma ovviamente peggiori erano gli austriaci che oltre la fame avevano l'avvilimento che li rendeva indisciplinati e rabbiosi; mentre gli italiani la gioia di rivedere il loro paese faceva anche dimenticare l'inedia che avevano pure loro addosso, ma bastava un caporale per guidarli con un po' di disciplina.
E fu proprio per questo comportamento che molti abitanti dei paesi che attraversavano, si rivolsero a loro, non per dargli il bencenuto, ma per ottenere la protezione contro le bande degli affamati che si davano a saccheggi, a ruberie, a grassazioni.
Purtroppo, i cortei pur miseri ma festanti avviati al ritorno tanto agognato, non erano così numerosi come quelli che la cattiva sorte -per lo più immeritata - aveva fatto in quaranta mesi affluire ai campi di concentramento austriaci o ungheresi. Molti di loro uccisi dagli stenti o dalle epidemie erano rimasti sepolti sotto decine e centinaia di anonimi cimiteri.

In pochi giorni, nelle città redente -specie a Bolzano e Trieste -affluirono migliaia e migliaia di prigionieri liberati. Il problema del trasporto di quelle moltitudini dolorose, composte di uomini ciascuno dei quali avrebbe potuto scrivere una lunga storia di tristezze e di miserie profonde, non si presentava facile. Assente era ancora il ripristino delle ferrovie delle terre liberate, non più fornite di locomotive, di carri, di binari, di ponti, di segnali, di stazioni. L'impazienza spesso esasperava i rimpatrianti, per lo più ammalati, cui, dopo l'esilio amaro, l'indugio di un giorno o di un'ora riusciva insopportabile l'attesa, angosciante più della stessa prigionia.

Comunque, un po' alla volta tutti coloro cui sembrava d'aver lasciato i sepolcreti per la rinascita ad un'altra vita, portarono a termine il viaggio tanto sospirato.
Nel novembre e nei mesi seguenti, l'Italia si trovò di fronte a difficoltà logistiche divenute ad un tratto più gravi che nel passato. Gli ex-combattenti, gli ex-prigionieri rientranti, le popolazioni delle terre liberate e redente, i soldati della Monarchia fatti prigionieri, costituivano nel loro insieme un complesso notevole di uomini validi o ammalati, di vecchi, di donne, di fanciulli, cui l'Italia aveva il dovere impellente di provvedere.
Questo, mentre persisteva la penuria di tonnellaggio causata dalla guerra senza limitazioni alle flotte mercantili; mentre cominciava ad intiepidirsi, passata l'ora del pericolo, la sollecitudine degli ambigui alleati; mentre il traffico ferroviario e stradale presentava le difficoltà dovute alle distruzioni ed al logorio. E i cittadini che erano stati disponibili ad ogni rinuncia quando il nemico accampava sul territorio, non si spiegavano, finita la guerra, sacrifici ulteriori.

Con tutti i mezzi, perfino con i dirigibili, le truppe italiane provvidero a far giungere viveri, medicinali, indumenti, in tutto il territorio d'occupazione. Ma erano gocce in un oceano. Si sia o non si sia provveduto nell'opera urgente di soccorso la somma enorme dei bisogni superava le possibilità e la buona volontà di tutti: del Governo, del Ministero degli approvvigionamenti e consumi, dell'Intendenza Generale.

Il 20 novembre, l'on. Orlando, dichiarò alla Camera che gli italiani dovevano affrontare ancora molte difficoltà d'ordine internazionale per l'assetto definitivo della pace, per restaurare le province liberate, per risarcire i danni e pagare i debiti di guerra e per risolvere i delicati problemi tecnici e sociali che si collegavano alla smobilitazione dell'esercito e delle industrie belliche. Insomma rivolgeva un accorato appello al popolo italiano perché con nuovi sacrifici e con la concordia si mostrasse degno della vittoria. (vedremo più avanti come fu accolto)

Ma era solo l'inizio di una lunga sequenza di ingratitudini morali e materiali. Pur accolta ovunque con generali manifestazioni di entusiasmo, l'occupazione italiana delle terre poste fra l'antica frontiera e la linea d'armistizío incontrò invece gravi difficoltà in Dalmazia, causate dagli slavi, in maggioranza all'interno, nelle campagne, in minoranza nelle città (queste, per i noti motivi commerciali secolari di Venezia, erano abitate da molti italiani veneti).
Esaltato dai segreti incoraggiamenti di Parigi e di Londra, il panslavismo non aveva più freno alle proprie insaziabili aspirazioni dopo aver letto i 14 Punti di Wilson. Insieme con l'annessione forzata del Montenegro e dell'Albania Settentrionale, contraria ai diritti delle genti appoggiate dall'Intesa, gli Slavi (oltre Croazia. Serbia, Slovenia) ambivano il possesso dell'Illiria, dell' Istria, della Venezia Giulia. La mitica Jugoslavia -parto antistorico ed anti-etnico del basso politicismo manovrato e finanziato dal Quai d'Orsay - avrebbe dovuto estendersi dalla Vojussa all'Isonzo!

Quanto avvenne sull'altra sponda dell'Adriatico, nel periodo intercorso fra l'occupazione italiana e lo sgombero, è scritto in una pagina triste della storia italiana e che gli Italiani tutti -troppo spesso ignari, o troppo facilmente immemori - dovrebbero conoscere e meditare.
La vigile cura di THAON di REVEL che riuscì ad assicurare all'Italia fino all'ultimo il comando delle forze navali intesiste operanti nell'Adriatico, non valse poi ad evitare le ingerenze altrui perfino nel golfo di Venezia nel cosiddetto "Mare Nostrum".
Il 4 novembre la Marina Italiana aveva occupato Abbazia, Rovigno, Parenzo, Lussin, Lissa, Logosta, Meleda, Curzola, Zara e Sebenico. Una divisione navale con l'ammiraglio Cagni fu mandata a Fiume, che dal 30 ottobre aveva proclamato l'unione all'Italia. Il 5 UMBERTO CAGNI sbarcò a Pola, mentre 1'ammiraglio MILLO assumeva il comando della zona dell'Arcipelago occupata dall'Italia. Il 10, il Re con Diaz, Badoglio e Rizzo, si recò a Trieste. Il 17 novembre truppe italiane sbarcarono a Fiume.

Ma insieme alle unità italiane, finita le "tempeste marine" della guerra, approdarono nelle medesime città (cioè Fiume, Sebenico, Spalato, Zara ecc.) pure quelle alleate che fino allora si erano viste raramente in zona. Il contegno degli alti ufficiali francesi ed inglesi che pur avevano combattuto a fianco degli italiani, trascese ogni limite. Vestendo la divisa, partecipavano ai comizi incomposti e ai cortei tumultuosi durante i quali alcune turbe di slavi, istigate e remunerate, sbraitavano turpi offese all'Italia, malmenavano per le strade i soldati italiani, insultavano le sentinelle che erano di guardia nei presidi.
Gli incidenti di questa strumentalizzata insofferenza, diventarono ben presto quotidiani. E alcuni di lì a pochi mesi furono anche drammatici.

Ritorniamo alla sintesi dell'epilogo:

Dopo l'11 novembre, gli Alleati iniziarono e portarono a termine la loro marcia trionfale fino al Reno.
Ci fu l'ingresso di re Alberto a Bruxelles. I Francesi ritornarono a Metz e a Strasburgo dopo quarantotto anni di separazione forzata. Di fronte all'entusiasmo degli Alsaziani e dei Lorenesi, il presidente Poincaré, in risposta a quanti avrebbero voluto convalidare le aspirazioni repubblicane con il suffragio delle folle, dichiarava in modo spiccio "Signori, il plebiscito è belle e fatto". Il Parlamento decretò che Poincaré, Clemenceau e Foch "avevano ben meritato della Patria". Petain fu elevato alla dignità di Maresciallo di Francia. E Parigi, prossima a divenire la "Capitale della Pace", acclamò Re VITTORIO EMANUELE II, Re GIORGIO V, Re ALBERTO del Belgio, ed infine giunto dall'America WOODROW WILSON.

Quanto alla fine ingloriosa dei vinti, abbiamo già letto nel precedente capitolo; nello stesso 11 novembre dopo la capitolazione della Germania GUGLIELMO II di Hohenzoller era fuggito di notte come un mariuolo; CARLO d'Absburgo pure lui si allontanò nottetempo dalla Hofburg . Il 12 novembre, l'Assemblea Nazionale Austriaca proclamava la repubblica e si pronunciava in favore dell'annessione alla Germania.
Ridotta ad una provincia circostante alla capitale decaduta dal fasto dei giorni imperiali allo squallore più triste, l'Austria si lasciava travolgere dallo sfacelo morale di un popolo sospinto alla disperazione. La spensierata Vienna di un tempo, visse l'inverno che era alle porte nell'incubo del freddo, della fame e dello scoramento. Chiusi i centinaia di Caffè, deserti i Ring, silenziose le grandi sale di concerto, e ogni battito di campana di Santo Stefano e di mille altre chiese, sembravano rintocchi di morte e di sfacelo. Il paese dove scorreva il Bel Danubio che portava a Vienna "latte e miele" non aveva ora né il pane, né il carbone, né sapeva cosa gli riservava la triste sorte.

UNGHERIA - Il 13 novembre, una delegazione ungherese presieduta dal Primate cardinale CZERNOCH, raggiungeva e presentava a Carlo d'Absburgo l'atto di rinuncia alla corona di Santo Stefano, che fu subito sottoscritto (Carlo aveva appena lasciato scritto fuggendo che "rinunciava a qualunque partecipazione agli affari di Stato"). Il 16 novembre, l'Assemblea Nazionale Ungherese era eletto in modo irregolare KAROLYI capo della Repubblica Ungherese (il conte STEFANO TISZA, che era stato un autentico dittatore dei Magiari, il 31 ottobre nella sua villa era stato massacrato da una banda di sconosciuti entrati vestiti da militari).
Karolyi che voleva sottrarsi agli oneri della sconfitta, sperando di sottrarsi alle condizioni di Villa Giusti (ma l'armistizio era stato elaborato dal Consiglio Supremo Interista e non dall'Italia) commise un imperdonabile errore il 13. Corse a Belgrado e presentandosi a ESPEREY (comandante in capo dell'esercito d'Oriente) gli offerse la neutralità magiara. Ma dato che erano passate sole quarantott'ore dalla resa della Germania, Esperey gli disse "Arrivate troppo tardi, forse quindi giorni fa la vostra neutralità mi sarebbe stata utile". E purtroppo per lui gli fu imposto un nuovo armistizio ancora peggiore del primo che dovette accettare. Anche perché temeva di essere travolto da un "Lenin" ungherese. Infatti, il bolscevismo importato dagli ex prigionieri tornati dalla Russia, favorito dalle circostanze, si diffondeva a Budapest ed in altre città ungheresi. Già il 3 novembre, BELA LINDER, ministro della guerra diceva agli ufficiali raccolti nella piazza del Parlamento: "Non abbiamo più bisogno dell'esercito! Non voglio più vedere soldati". E il giorno dopo il "Commissario del Popolo" POGANY dichiarava:" Il consiglio dei soldati non può avere che un solo scopo: sopprimere definitivamente l'esercito". Il "Lenin" infatti arrivò; BELA KUN, ex rivoluzionario ungherese esule che rientrava dalla Russia inviato da Lenin per guidare la rivoluzione.

Bela Kun fu arrestato da Karolyi, ma il primo riuscì a spodestare il secondo. Il "terrore" però durò meno di quattro mesi. Costò ai magiari più che quattro anni di guerra. Fallito il colpo, e messo alle strette, Bela fuggì con la cassa dell'erario. Il 23 novembre nasceva il nuovo Governo magiaro con a capo HUSZAR, riconosciuto dall'Intesa.

La grande guerra ci ha fatto assistere allo spostamento non solo di grandi masse armate, di barriere e confini fra gli Stati, ma anche di Capitali.
La capitale delle Francia per breve tempo fu Bordeaux anziché Parigi. Quella di Pietrogrado trasmigrò a Mosca. Quella della Romania passò da Bucarest a Jassy.
A volte le capitali erano trasferite addirittura in un altro Stato. Questo avvenne in Belgio, in Lussemburgo, in Serbia, in Montenegro. E cosa curiosa…la prima Capitale della Cecoslovacchia fu Washington, fu qui dove risiedeva, che il Consiglio Nazionale proclamò il 19 ottobre 1918 l'indipendenza della Boemia e della Moravia degli Absburgo. In seguito poi alla disfatta dell'Impero, passò nella sua naturale residenza a Praga.

JUGOSLAVIA - Prima ancora della vittoria italiana del 4 novembre, il 23 ottobre, un Consiglio riunito a Zagabria dichiarava l'esistenza dello STATO JUGOSLAVO, composto dei Serbi, dei Croati, e degli Sloveni soggetti agli Absburgo. Favoriti dalla Gran Bretagna e soprattutto dalla Francia, il governo di Belgrado intendeva monopolizzare a proprio vantaggio il disegno del futuro Stato che avrebbe dovuto comprendere anche il Montenegro (della Iugoslavia parleremo più avanti)

POLONIA - Sorta dallo sfacelo della Russia zarista e dell'Austria, la Polonia ottenne poi di presidiare con le proprie truppe il porto di Danzica, sempre stata oggetto delle sue aspirazioni.

GERMANIA - Una modesta città tedesca di 37.000 abitanti: Weimar, (antica Vimaria) fu la sede dove convennero i rappresentanti della Germania vinta per elaborare la nuova costituzione del loro Paese.
Da Weimar scaturì poi - l'11 febbraio 1919- la Repubblica tedesca, Stato unitario più "fortemente centralizzato" della scomparsa Confederazione Imperiale.

Anche la Turchia, il 31 ottobre, aveva firmato l'armistizio, nel cui protocollo vi erano due articoli, il 17 e il 18, che riguardavano particolarmente l'Italia, vi si stabilì la resa di tutti gli ufficiali turchi della Tripolitania e della Cirenaica, la resa di tutti i porti occupati in Libia, compresa Misurata, 1' impegno della Turchia di sospendere gli approvvigionamenti e di troncare ogni comunicazione con gli ufficiali che non ubbidissero all'ordine di arrendersi. Seguì, 1'11 novembre, l'armistizio con la Germania, quando quel giorno furono sospese le operazioni germaniche su tutti i fronti.


ORLANDO: SACRIFICI E ANCORA SACRIFICI


Il 20 novembre - l'abbiamo già accennato sopra- l'on. ORLANDO capo del Governo, dichiarò alla Camera che gli italiani dovevano affrontare ancora molte difficoltà d'ordine internazionale per l'assetto definitivo della pace, per restaurare le province liberate, per risarcire i danni di guerra e per risolvere i delicati problemi tecnici e sociali che si collegavano alla smobilitazione dell'esercito e delle industrie belliche. Ed infine rivolgeva un vivace appello al popolo italiano perché con nuovi sacrifici e con la concordia si mostrasse degno della vittoria.
L'appello oltre che essere lanciato invano, disorientò gli italiani. Molti, sgomenti, si chiesero:
"nuovi sacrifici- ma come non abbiamo vinto, stracciato, annientato, messo in fuga, quell'esercito che Diaz ha definito il più potente esercito del mondo?"

Orlando non poteva di certo fare un appello simile, in un paese che ricominciava a esser teatro di lotte politiche. Era un appello di un capo di un governo, dentro le cui file si erano già manifestati dei dissidi.

Il 15 dicembre in una riunione di governo in vista della Conferenza di pace, convocata a Parigi in gennaio, BISSOLATI espose la sua linea politica favorevole al programma di WILSON, dichiarandosi pronto a rinunciare ai compensi territoriali in Alto Adige, in Dalmazia e nel Dodecanneso previsti dal patto di Londra, per chiedere invece che le città dalmate Fiume e Zara siano dichiarate città libere sotto la protezione dell'Italia. Il giorno successivo solo NITTI appoggerà la linea Bissolati, mentre SONNINO è risolutamente contrario.
Il 26 dicembre in una riunione del comitato di guerra di cui fanno parte anche alcuni ministri, ORLANDO e DIAZ propongono la rinuncia alla Dalmazia al fine di ottenere Fiume, mentre SONNINO insiste e non vuole rinunciare ai territori assegnati dal patto di Londra e ottiene che il comitato si pronunci in tal senso.
Prima conseguenza di queste riunioni furono le dimissioni dell'on. BISSOLATI, presentate il 27 dicembre (seguite da quelle di FRANCESCO NITTI, ETTORE SACCHI, BATTISTA MILIANI.
quando il Consiglio dei Ministri decise di chiedere alla conferenza per la pace che fosse messo in atto il patto di Londra con Fiume in più.


I RIMANEGGIO MINISTERIALE


La piccola crisi fu risolta con un rimaneggiamento ministeriale, avvenuto nei primi giorni di gennaio. Il ministero dell'assistenza militare e delle pensioni di guerra, lasciato da Bissolati, fu dato interinalmente al generale ZUPELLI, già ministro della guerra (a poi GIUSEPPE GIRARDINI un dirigente del Fascio Parlamentare che si era costituito nel 1917); all'on. IVANOE BONOMI fu dato il ministero dei Lavori Pubblici, lasciato dall'on. Dari; a Sacchi ministro della giustizia subentrò LUIGI FACTA; sostituì Nitti al tesoro BONALDO STRINGHER; sostituì Miliani all'agricoltura VINCENZO RICCIO;
SONNINO rimase agli interni e ALFIERI alla guerra. Pochi giorni dopo questo rimpasto era la prevista Conferenza di Pace a Parigi (fatti che leggeremo nella prima puntata dell'anno 1919)

Ma se la guerra era finita, le battaglie politiche iniziavano ora.
E fra queste battaglie pure gli ex reduci iniziarono a "scaldarsi", e ben presto anche a "divampare".
600.000 dal fronte non tornarono più, ma oltre 5.000.000 di uomini che li avevano visti morire e che avevano fatto sacrifici, dopo tante promesse e tanti encomi ora gli si diceva di fare "nuovi sacrifici", e che il posto di lavoro (di impiegati, operai, o contadini) "non vi era posto per tutti". I socialisti poi salvaguardavano quelli che già lavoravano che diventavano sempre meno per la chiusura della grandi fabbriche di materiale bellico. Nè sapevano gli industriali come convertirle e cosa produrre, visto che i prodotti di beni di consumo in Italia erano ancora non assenti ma quasi tabù.

Su questo terreno, dove gli "arditi" non contavano più nulla, i tanti encomi verbosi era solo chiacchiere, e le medaglie e i nastrini tante patacche, non c'è da meravigliarsi che spirò in Italia il turbine rosso che proveniva da est, dopo la Germania (che per un soffio non fu travolta dagli spartachisti) e dopo l'Ungheria (idem con Bela Kun). Il vento gelido delle steppe investì anche l'Italia, scuotendo le anime con il suo potente soffio dissolutore e gelando il sangue alla grande borghesia. E paradossalmente gli "imboscati" per i quali la fine della guerra significava pure quella dei salari iperbolici (8-14-18 lire rispetto a circa 1 lira del soldato), furono i primi a sottoscrivere le utopie leniniste. E per quanto la trincea per i reduci era il loro patrimonio inestimabile, anche molti combattenti arrabbiati corsero ad ingrossare le file tumultuose che seguivano le bandiere rosse, spinti al sovversivismo dalla cecità dei Governi che non seppero dare altro agli artefici della vittoria che delusioni, amarezze e gravi angustie economiche.

Il sovversivismo tendeva a svalutare la vittoria, sia per la propria indifferenza verso i grandi problemi nazionali negati dall'assurda visione della trionfante fraternità dei popoli (popoli miseri) sia per giustificare il neutralismo e il disfattismo di altri giorni. Appunto per questo che il divampare dei moti anarcoidi nel Paese fu favorito da coloro i quali giudicavano espressioni di avidità imperialistica i modesti e soprattutto legittimi compensi territoriali cui l'Italia aspirava (o pretendeva). Nessuno dava una risposta quando il fante o il suo ufficiale che l'aveva comandato al fronte, chiedeva "ma allora per che cosa abbiamo combattuto?". Nessuno rispondeva.

E non c'era da meravigliarsi se il 1° marzo 1919, avveniva a Milano la prima adunata bolscevica, grandiosa per la larghissima partecipazione di popolo imbestialito. Ubriaco o no di leninismo, con veri o falsi apostoli del bolscevismo, il fatto è che ci fu un diffuso ribollire di odio, contro l'impotenza dello Stato, contro il Re, contro la Patria, e contro la stessa Vittoria. Ma a parte gli slogan, il guaio più grosso era che se quell'eroismo bellico che avevano avuto addosso al Piave, si fosse ripresentato e incanalato in un'unica direzione, cioè sui veri "traditori" della Patria, la guerra civile avrebbe fatto più vittime e più danni della stessa guerra mondiale. Anche perché dopo trent'anni di preparazione, pareva ormai sicura la dittatura sovietica del proletariato. Ci credevano e ci speravano i poveri cristi ma a dire la verità ci credevano pure i proprietari terrieri e gli industriali che iniziarono a tremare. Avevano per difendersi i mezzi, i fucili, i cannoni e le forze armate. Forze armate? E se agivano come a Pietrogrado? Le prime avvisaglie c'erano già. Anzi proprio gli ex soldati erano i più infuriati!

Ma c'era un ex rivoluzionario che alla rivoluzione ci credeva poco.
Era convinto dell'impotenza del proletariato. Infatti - prima ancora della rivoluzione bolscevica - aveva scritto qualche anno prima su
Utopia:
"I socialisti commettono un gravissimo errore, credono che il capitalismo ha compiuto il suo ciclo. Invece il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni. Il capitalismo ci presenta una realtà a facce diverse: economica, prima di tutto".

L'ex rivoluzionario, se ne convince ancora di più quando inizia a vedere i pessimi risultati della Rivoluzione Russa:
"Bello i soldati uniti al popolo! Bello il collettivismo! Bello la distribuzione delle terre! Male invece i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne"

Pochi giorni dopo, il 23 marzo in una saletta di Milano, questo ex rivoluzionario, ha varato una formula nuova. Per giorni e giorni rimase incerto cosa fare -e non era facile fare- e fra le incertezze e le contraddizioni, in mezzo a gente che da una parte beveva le ideologie di Wilson e dall'altra quelle di Lenin, decise di assumere un atteggiamento clamoroso con una formula più radicale.
Ma mica poi tanto radicale (anche i socialisti li attiravano a sé i gruppi di ex combattenti arrabbiati), non gli restava che puntare anche lui sui reduci.

L'uomo era BENITO MUSSOLINI, e il suo programma era quello dei Fasci di Combattimento: la valorizzazione della Vittoria; l'esaltazione dei Combattenti, dei Mutilati, dei decorati al valore; la glorificazione dei Caduti; la lotta, anche violenta, contro il dissolvimento dovuto all'impotenza dei Governi inetti; l'opposizione energica allo sfacelo, all'anarchia, alla disorganizzazione economica, all'isterilimento produttivo dovuto al dilagare del bolscevismo.

L'ex socialista di Predappio ha fiutato il momento. Prende qualcosa da De Ambris, ma aggiunge qualcosa di suo rispolverando alcune affermazioni da lui fatte ancora nel 1917:

"....La rivoluzione non è il caos, non è il disordine, non è lo sfasciamento di ogni attività, di ogni vincolo della vita sociale, come opinano gli estremisti idioti di certi paesi; (il riferimento alla Russia è chiaro. Ndr) la rivoluzione ha un senso e una portata storica soltanto quando rappresenta un ordine superiore, un sistema politico, economico, morale di una sfera più elevata; altrimenti è la reazione, è la Vandea. La rivoluzione è una disciplina che si sostituisce ad un'altra disciplina, è una gerarchia che prende il posto di un'altra gerarchia"
(1917, 26 luglio, Il Popolo d'Italia).

Una sua frase fece molto effetto, spaventò la grande borghesia e diede speranza ai cinque milioni della classe media e operaia tornati dal fronte e ora a spasso delusi, affamati, infuriati.
"La nazione italiana è come una grande famiglia. Le casse sono vuote. Chi deve riempirle? Noi, forse? Noi che non possediamo case, automobili, banche, miniere, terre, fabbriche, banconote? Chi può, deve pagare. Chi può, deve sborsare...E' l'ora dei sacrifici per tutti. Chi non ha dato sangue, dia denaro"
.(Mussolini, Il Popolo d'Italia 10 giugno 1919).

Inoltre sostiene:
"la necessità di una forte imposta straordinaria sul capitale con carattere progressivo, e infine la revisione di tutti i contratti di fornitura di guerra e il sequestro dell' 85 % dei profitti relativi". Demagogia o no, in quello sfascio era un messaggio realistico e di facile presa.

Il suo movimento - che contava solo 145 fedeli- rimase circoscritto. Ma a parte le sue qualità -e non erano certo limitate, dato il temperamento combattivo dell'uomo - chi gli permise di salire in alto fu la classe politica che non aveva capito durante e dopo la guerra, proprio nulla.

NENNI dirà in seguito " ...era l'ora più propizia per un invito ad abolire il passato..... era per i socialisti l'ora in cui si decideva la loro sorte....persero la grande occasione!".

Perfino LENIN ebbe a rimproverare poi ai socialisti:
"avete perso con Mussolini la grande occasione, l'unico che sarebbe stato capace di fare la Rivoluzione in Italia".

Di Mussolini in ascesa, ci fermiamo qui, perchè esula dal nostro racconto
anche perchè dobbiamo concludere con la Grande Guerra.

Ma prima di passare al 1919 e alla conferenza di Pace

vediamo quanto è costata in denari e in vite umane

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