SUL "FASCISMO" DI DE FELICE:
5 OPINIONI

Intervista di Marco Brando
Sono passati trent’anni da quando, nel 1975, Laterza pubblicò “Intervista sul fascismo”, in cui lo storico Renzo De Felice, scomparso nel 1996, rispondeva alle domande di Michael Arthur Ledeen, allora trentacinquenne professore statunitense di Storia, in visita in Italia e al suo fianco alla Sapienza di Roma. L’intervista scatenò una polemica tra gli storici, e anche tra i politici, nei confronti di De Felice: ora tacciato di voler riabilitare il Ventennio, ora accusato di revisionismo, ora sospettato di vero filofascismo.
Già con l'uscita del libro “Mussolini il rivoluzionario” nel 1965 – primo di una serie di volumi biografici sul Duce - la storiografia ufficiale aveva iniziato a criticare lo studioso: non piacque la sua sottolineatura della matrice di sinistra nella formazione politica di Mussolini. Ma si trattò di critiche ancora velate. Ed ecco che nell’<Intervista> introdusse la distinzione tra Fascismo regime e Fascismo movimento: il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione. Il volumetto pubblicato da Laterza catalizzò e ingigantì le critiche, facendole debordare oltre i confini del dibattito accademico. Di fatto, però, la ricerca storica di Renzo De Felice catalizza da quarant'anni l'attenzione dei mass-media e degli storici per la sua originalità e spregiudicatezza.
Ne abbiamo parlato proprio con Michael Ledeen: oggi è uno degli animatori dell’”American Enterprise Institute” (Aei), il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani vicinissimi all’amministrazione Bush; anzi, è soprannominato – forse a causa della passione per il nostro Machiavelli - il <Principe dei neocon>, coloro che hanno fatto dell’idea della guerra preventiva e dello scontro di civiltà la loro bandiera. Nella sua biografia fornita dall’Aei si legge: <E’ un esperto di politica estera statunitense. Le sue aree di ricerca includono i Paesi finanziatori del terrorismo, l'Iran, il Medioriente, l'Europa (Italia), le relazioni Cina - Usa, i servizi segreti e l'Africa (Mozambico, Sud Africa e Zimbawe). Consulente negli Usa presso il Consiglio di sicurezza nazionale e il Dipartimento di Stato per la difesa, ha scritto sulla leadership e l’uso del potere. Il suo ultimo libro è intitolato “La guerra contro i padroni di terrore”>.
Professor Ledeen, qual era la sua attività in Italia ai tempi dell’intervista a De Felice?
<Allora ero “visiting professor” all’Università di Roma (La Sapienza) dove insegnavo Storia americana. Ed ero anche corrispondente dall’Italia per “The New Republic”, una rivista culturale e politica di Washington>.

E qual è il ricordo che ha di Renzo De Felice come uomo e come storico?
<Ci vorrebbe un libro per rispondere. Era un grande storico, perché era convinto che si debba scrivere la storia sulla base dei fatti: innanzi tutto sulla base dei documenti; poi, se possibile, pure basandosi sui ricordi personali dei protagonisti. Così fu il primo storico ad affrontare la questione fascista partendo dal materiale raccolto negli archivi. Superfluo dirlo… ma era un grande lavoratore. Basta guardare la straordinaria quantità dei suoi scritti>.

Sul fronte dell’attività d’insegnamento?
<Era anche un ottimo professore, come si vede dai suoi studenti, dall’Aga Rossi a Folli, da Mieli a Gentile, per citarne alcuni. Ed era molto disponibile verso gli stranieri:americani come me, Cannistraro, Gregor e altri; polacchi; russi; così via. Per me, poi, era una specie di fratello maggiore, sempre molto aperto e leale. Io e mia moglie Barbara ci sentivamo veramente in famiglia a casa sua: una casa straordinaria, sempre piena di ottime persone come i Romeo, Colletti, Perfetti, Casucci, Grispo, Spadolini ... Fortunati noi, i suoi amici>.

Da dove gli veniva quel gusto per la polemica spinto fin quasi alla provocazione?
<Perché non chiamarlo “spirito indipendente”? Chi lo sa… Diceva le cose come le vedeva, punto e basta. Come dovrebbe fare un vero intellettuale. O no?>.

Già con l'uscita del libro “Mussolini il rivoluzionario”, nel 1965, la storiografia ufficiale iniziò a criticare De Felice: non piacque la sottolineatura della matrice di sinistra nella formazione politica del duce. Ma si trattò di critiche ancora velate. Perché un decennio dopo la polemica s’ingigantì?
<Per due motivi, credo. Primo, perché il predominio culturale del Pci si stava indebolendo: dieci anni quel partito prima non si sentiva minacciato da un libro, ma negli anni Settanta sì. Secondo, perché nell’”Intervista” Renzo disse, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetica: erano figli della rivoluzione francese. E questa — che oggi tutti riconoscono una banale verità — era un’affermazione tremenda per la sinistra. Indigeribile>.

Nel 1975 De Felice - già noto tra gli storici per aver rifiutato, pur essendo di formazione progressista, una visione manichea del Ventennio fascista - rincarò la dose anticonformista con “Intervista sul Fascismo”. Suscitò le note vivaci accuse ma ottenne anche uno straordinario successo editoriale. E lei con lui. Per quale motivo decideste di pubblicare quel libro, intenzionalmente rivolto ad un pubblico ben più vasto di quello degli “addetti ai lavori”, degli storici?
<La proposta veniva da Vito Laterza, non era stata un’idea di Renzo. Io comunque non mi aspettavo tutte quelle polemiche. Non so se Renzo o Vito se le aspettassero… >.

La biografia di Mussolini fu pubblicata da Einaudi. Perché fu scelta la casa editrice Laterza, tradizionalmente progressista, per pubblicare “L’intervista”? Conobbe Laterza?
<Eravamo amici dei Laterza, andavamo spesso a cena a casa loro. Vito Laterza era molto entusiasta delle interviste, che considerava un ottimo progetto editoriale. Aveva già fatto tradurre un libro-intervista britannico, che era andato bene. Dunque pensava ad una nuova collana. Il nostro era uno di tanti: con Colletti, con Amendola, con Sylos Labini, eccetera>.

Ci furono difficoltà con l’editore prima e dopo le polemiche suscitate dal volume?
Non abbiamo avuto problemi con Vito. Piuttosto eravamo stati d’accordo con lui quando decise di tenere l’”Intervista” nei magazzini per qualche settimana, aspettando l’esito delle elezioni del 1975>.

Eppure nel 1997 lei sostenne che “Laterza bloccò De Felice". L’editore allora smentì. Lei conferma?
<Certo. Come dissi, eravamo d’accordo>.

Pochi giorni fa Sergio Luzzatto, docente di Storia contemporanea a Genova e autore del recente <La crisi dell’antifascismo>, durante una conferenza a Bari ha ricordato il suo ruolo nella stesura nell’<Intervista>. Riferendosi a presunti rapporti con la Cia o altre agenzie statunitensi, ha lanciato il sospetto che lei abbia svolto un ruolo nella decisione di pubblicare l’intervista in quel modo e in quel momento storico e politico italiano. Come replica?
<Non conosco Luzzatto, ma mi sembra un dietrologista da manuale. L’unico mio ruolo in quella storia è stato quello di porre le domande e scrivere le note. Il progetto veniva da Vito Laterza. E le risposte erano quelle di Renzo. Per quanto riguarda la vecchia accusa che ero in qualche maniera un’agente del governo americano, mi viene da ridere. Non ho mai lavorato con, o per, la Cia, organizzazione con la quale ho sempre avuto pessimi rapporti. Il mio stipendio all’università’ di Roma fu una “fellowship” promossa da <The Italian Fulbright Commission> (la commissione per gli scambi culturali fra l'Italia e gli Stati Uniti, ndr); e quella decisione fu presa da un gruppo di italiani, non dal governo americano>.

Davvero ha cattivi rapporti con la Cia?
<Pensi che sei anni dopo, nel 1981, quando lavoravo al Dipartimento di Stato, la Cia mi attaccò per vari presunti peccati. E ha continuato ad attaccarmi fino ad oggi. Attacchi che io ho sempre accettato come una medaglia d’onore. Per essere chiari, qualcuno dice pure che sono stato consulente del governo italiano durante, o subito dopo, l’affare Moro. Non è assolutamente vero. Qualche anno più tardi ho organizzato una simulazione, che riguardava i problemi di comunicazione tra governi alleati. Un esercizio tecnico, non politico o operativo>.

Oggi nessuno nega, neppure in Italia, quel che voi scriveste allora: la straordinaria partecipazione popolare che il fenomeno fascista, volente o nolenti, ebbe tra gli italiani. Lo ammettono pure gli storici di sinistra. Trent’anni dopo lei condivide ancora quella lettura?
<Sì, purtroppo. Vorrei non fosse vero, ma è la cosa più terribile del fascismo: è stato molto popolare.

Quale fu la più grande differenza tra fascismo e nazismo?
<Direi che la più grande differenza è l’immagine dell’uomo: razzista per i nazisti, ma molto più tradizionale per i fascisti, i quali erano convinti che un nuovo tipo umano era venuto fuori dalle trincee della Grande Guerra>.

All’epoca dell’ “Intervista” fu un politico di sinistra, il comunista Giorgio Amendola, a difendere in qualche misura l’impostazione e la lettura di De Felice. Cosa ne pensa?

<Un uomo onesto e coraggioso, un altro mio amico>.

Pensa che “L’intervista” rafforzò il neofascismo italiano?
<No. E i risultati elettorali di quegli anni lo dimostrano>.

Ritiene che il percorso seguito da An, erede del Msi post fascista, sia stato quello giusto e che il partito di Fini abbia tagliato i ponti col suo passato?
<Fini non è assolutamente un fascista, né un neofascista. E’ un gaullista>.

L’anticonformismo di De Felice rispetto al conformismo antifascista è ancora d’attualità? Gli storici italiani sono cambiati rispetto agli anni Settanta?

<De Felice ha vinto. Ormai il suo approccio — innanzi tutto il suo metodo - definisce il campo. Bisogna ricordarsi che negli anni Settanta l’unico “biografia” di Mussolini era un elogio scritto da un suo sostenitore>.

L’attuale centrodestra italiano, e in particolare il premier Silvio Berlusconi, da un lato , tendono a mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo, combattenti delle Repubblica di Salò e combattenti antifascisti. Dall’altro – malgrado il crollo del muro di Berlino sia avvenuto ben 16 anni fa – continuano a sostenere che in Italia esiste il <pericolo comunista>. Cosa ne pensa?
<No comment. Sarebbe troppo lungo parlarne. Ma penso che sarebbe meglio studiare la storia seriamente. E non credo che ci sia bisogno di un “nemico” >.

L’esperienza di quegli anni in Italia, e il rapporto con De Felice, rappresentano un patrimonio culturale fondamentale per quel che riguarda i suoi attuali punti di vista sulla politica statunitense e internazionale?
<Certo, ma non sono gli unici. Ero assistente di Mosse (lo statunitense George Mosse – 1918/1999 - è stato uno dei più grandi storici del nazismo e del fascismo, ndr) ho lavorato con Reagan, sto qui all’”American Enterprise Institute” con Kirkpatrick, Perle, Novak… E continuo ad imparare>.

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Marco Brando - Bari
(Corriere del Mezzogiorno)

Dibattito: 2)
Canfora contesta Ledeen
« Niente di nuovo in quel libro »

LO STORICO BARESE
(sul Corriere del Mezzogiorno)
RISPONDE ALLO STUDIOSO USA CHE LA RACCOLSE

Dunque De Felice, sul fronte dell'interpretazione del fenomeno fascista, alla fine ha vinto? In altre parole: fu lo storico Renzo De Felice ( 1929 1996) a sottolineare per primo dagli anni Sessanta in poi che il fascismo ebbe un consenso popolare ben radicato?

« Io semmai mi chiedo quali saranno mai stati i concetti veramente suoi e veramente nuovi»
, commenta Luciano Canfora, storico, ordinario di Filologia greca e latina all'Università di Bari, intellettuale marxista.
E aggiunge:
« Sarebbe piuttosto utile ricordare che il primo a parlare del fascismo come, cito testualmente, " regime reazionario di massa" fu, guarda un po'..., Palmiro Togliatti; accadde nei primi mesi del 1935, quando tenne a Mosca le Lezioni sul fascismo , dove espose questa sua interpretazione » .

Il professor Canfora citando il segretario del Pci, dal 1927 al 1964, e dirigente dell'Internazionale comunista entra così nel merito delle risposte che lo storico statunitense Michael Ledeen ha dato domenica scorsa al Corriere del Mezzogiorno , a trent'anni dal 1975, quando venne pubblicata, da Vito Laterza, l' Intervista sul fascismo : fu proprio Ledeen, allora « visiting professor » alla Sapienza di Roma, l'intevistatore di De Felice. All'epoca quest'ultimo fu tacciato di voler riabilitare il Ventennio o accusato di revisionismo o sospettato di filofascismo. Già con l'uscita del libro Mussolini il rivoluzionario nel 1965 primo di una serie di volumi biografici sul Duce De Felice aveva suscitato dibattito tra gli storici.

Nell' Intervista introdusse la distinzione tra « Fascismo regime « e « Fascismo movimento» : il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione. E il volumetto pubblicato da Laterza catalizzò e ingigantì le critiche, facendole debordare, in quegli anni Settanta politicamente assai particolari, oltre i confini del dibattito accademico.

Michael Ledeen è oggi uno degli animatori dell' « American Enterprise Institute » ( Aei), il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani vicinissimi a Bush, nonché consulente negli Usa del Consiglio di sicurezza nazionale e del Dipartimento di Stato per la difesa. Al Corriere del Mezzogiorno ha ribadito che De Felice « fu il primo storico ad affrontare la questione fascista partendo dal materiale raccolto negli archivi » . Ha aggiunto: « Nell' Intervista disse, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetico: erano figli della rivoluzione francese. E questa che oggi tutti riconoscono una banale verità era un'affermazione tremenda per la sinistra. Indigeribile » .

Inoltre Ledeen ha ribadito che fu giusta e originale la valutazione di De Felice sulla straordinaria partecipazione popolare che il fenomeno fascista ebbe tra gli italiani.
E alla domanda
« Quale fu la più grande differenza tra fascismo e nazismo? » ,
ha replicato:
« L'immagine dell'uomo: razzista per i nazisti, ma molto più tradizionale per i fascisti, i quali erano convinti che un nuovo tipo umano era venuto fuori dalle trincee della Grande Guerra » .

« Sul fronte del consenso avuto dal fascismo - commenta ora Canfora - non posso che ricordare le Lezioni di Togliatti, risalenti a settant'anni fa.
Così come potrei citare le valutazioni di Gramsci. Ma voglio anche ricordare Arthur Rosenberg ( 1889 1943, ndr ), prima comunista e poi socialista, che nel 1934, prima di Togliatti e senza aver potuto conoscere Gramsci, pubblicò Der Faschismus als Massenbewegung ( Fascismo come movimento di massa, ndr). È chiaro dunque, e da tempo, che il fascismo prima fece leva sul consenso e sulla violenza, per poi gestire il potere contando su alcuni strati sociali » .


E per quel che riguarda la distizione tra « fascismo regime » e « fascismo movimento » ? Canfora ha molte perplessità:
« Quella di De Felice fu un'impostazione formale e non molto produttiva. Che vuole dire? Che ci fu un fascismo di destra e uno di sinistra? Io penso che all'inizio fu un movimento, certo, ma eversivo e di ultradestra, che provocò una guerra civile strisciante. E comunque un movimento non dura indefinitamente » .

Poi: « C'è chi ha definito “ fascismo di sinistra” quello sostenuto da un certo ceto intellettuale e generazionale. Ma è una definizone vaga, che spazia da Arpinati a Bottai. Forse c'entrano i Littoriali, intesi come crogiulo di bisogni cresciuti all'epoca tra le nuove generazioni del fascismo? Oppure ci si riferisce al cosiddetto fascismo rivoluzionario? Fu anche teorizzato, ma come fulcro del nuovo ordine europeo: tutto basato sul modello nazista e antisemita » .

Insomma, la distinzione di De Felice non trova assolutamente d'accordo Canfora. Così come sul fronte del razzismo il professore barese ricorda:
« De Felice ha sicuramente avuto torto quando scrisse, nella prefazione alla nuova edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo , che Mussolini non fu mai né razzista né antisemita. È assurdo » .
Perché?
« Basti osservare che il 6 agosto 1938 l'intera prima pagina del quotidiano Il Popolo d'Italia era sovrastata dal titolo a nove colonne “ Il fascismo è stato sempre razzista, sin dal 1919”. Il resto della pagina dimostra egregiamente questa tesi » .

Il professore consiglia come lettura il recentissimo libro di Giorgio Fabre Mussolini razzista ( Garzanti, 620 p., euro 25): « Un volume documentatissimo, ove si dimostra che la genesi del razzismo e dell'antisemitismo nel pensiero di Mussolini risale addirittura ai tempi in cui egli era ancora socialista. L'antisemitismo era un tema centrale dell'ideologia mussoliniana » .

Né secondo Canfora si può richiamare una comune radice culturale di fascismo e socialismo nella rivoluzione francese: « Bobbio già nel 1975 scrisse che il principale avversario del fascismo non è stato il socialismo ma la democrazia. Dire che il fascismo ha radici nella rivoluzione francese è una fesseria » .

Ma un merito De Felice lo avrà?
Canfora, che ebbe anche occasione di confrontrasi con lo storico a livello accademico, replica: « Ha avuto il grande merito di voler usare per la prima volta, come documenti di ricerca scientifica sul fascismo, le carte di polizia e d'apparato. Fece da battistrada in questo campo di ricerca, anche grazie all'amicizia con il presidente Saragat, che lo favorì nell'accesso ad archivi ancora riservati, la cui consultazione era negata agli studiosi. Però credo che De Felice abbia poi trascurato di comparare quella carte con altre fonti: perché i documenti di polizia sono ovviamente viziati in origine, essendo stati scritti da funzionari predisposti a dare informazioni gradite al regime. Insomma, fece un uso non critico di una documentazione preziosa » .

Aggiunge Canfora:
« Bisogna comunque ricordare che il dibattito serio intorno alla tesi di De Felice c'è stato. E non va confuso con quello suscitato da alcuni commentatori, che non lo imbastirono in maniera corretta e scientifica, ma basandosi su informazioni di seconda mano » .

Dopodiché la sua nota vis polemica non risparmia neppure i tanti storici formatisi alla scuola di De Felice:
« Li scelse lui come docenti di Storia contemporanea nelle nostre università » .

A questo punto qualcuno s'aspetta forse un frecciata nei confronti di Vito Laterza, che chiese a De Felice di realizzare nel 1975 la famosa Intervista?

Speranza mal riposta:
« Con la collana delle interviste creò un nuovo tipo di libro, che ebbe un grande successo. Vito fu bravo, come sempre » .
Intervista di Marco Brando - Bari
(Corriere del Mezzogiorno)

Dibattito: 3)
INTERVIENE GIANNI DONNO (sempre sul Corriere del Mezzogiorno)


Quando, nel settembre del 1975, appare, per i tipi di Laterza, l' Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, curata dallo studioso americano Michael Ledeen, è in atto un grande scontro politico e culturale di dimensioni internazionali. Giova ricordarne, per brevità, le date salienti, e ciò al fine di comprendere meglio la capacità dirompente, presso il pubblico più vasto, dell'intervista defeliciana. I libri di De Felice su Mussolini - era apparso nel 1974 il quarto volume della biografia, intitolato "Mussolini il Duce. Gli anni del consenso" - avevano suscitato notevoli polemiche storiografiche, ma queste erano rimaste per così dire nel campo ristretto degli addetti ai lavori. Solo con l' Intervista il grande pubblico e la stampa quotidiana entrano in contatto con le problematiche sulla storia del fascismo e di Mussolini. Solo per questa ragione il libro risulta nuovissimo, anche se molti dei giudizi di De Felice erano già noti. Molti, ma non tutti, e soprattutto nella forma volgarizzata e, per certi versi, attualizzata di un'intervista indirizzata verso il lettore comune (oggi sarebbe molto interessante il dato delle copie vendute!).

Ma l'intervista di De Felice, nell'agile volumetto ideato da Laterza, non era la prima. Solo l'anno precedente Lucio Colletti aveva risposto, con l' Intervista politico filosofica , apparsa inizialmente sulla rivista americana New Left Review , alle domande di Perry Anderson, tratteggiando a forti tinte la crisi del marxismo ( teorico e politico) e la sua personale presa di distanza dal comunismo, con argomentazioni ineccepibili, che Colletti stesso avrebbe ulteriormente rafforzato con i volumetti Tra marxismo e no ( 1979) e Tramonto dell'ideologia ( 1980), sempre per Laterza editore. All'intervista defeliciana del 1975 avrebbe fatto seguito, nel 1976, quella Sull'antifascismo a Giorgio Amendola, curata da Piero Melograni.

Ora se la dura critica di Colletti al marxismo e al comunismo realizzato parevano andare in perfetta controtendenza, considerate le gravi questioni internazionali che vedevano la crisi del sistema occidentale, con lo shock petrolifero del 1973, lo scandalo Watergate, con le dimissioni del presidente americano Nixon (1974) e la sconfitta americana in Vietnam (aprile 1975), tanto che Colletti fu spesso disegnato come l'ennesimo “fuoruscito” dal comunismo e, per questo, discretamente “ rinnegato”, nel caso di De Felice, invece, le cose si ponevano ben diversamente. Lo studioso aveva pubblicato l'anno precedente il quarto tomo della biografia mussoliniana (si sarebbe dovuto aspettare ben sette anni per il quinto, sempre dedicato a Mussolini il Duce), in cui il nucleo centrale della vulgata antifascista, da decenni ripetuta in centinaia di saggi, articoli, comizi, dichiarazioni, e cioè che fra fascismo e italiani vi fosse stata una incompatibilità di fondo avendo il regime operato con gli strumenti vari della coercizione e dell'inquadramento delle masse era duramente colpito.

De Felice “ osava” parlare di consenso di massa al fascismo, manifestatosi negli anni 1929-38, con l'apogeo al momento della proclamazione dell'Impero, dopo la conquista dell'Etiopia nel 1936. Era, per De Felice, un consenso attivo, basato, come avrebbe affermato nell' Intervista, « sul confronto tra diverse situazioni e diverse realtà. Si pensa più ai danni che il fascismo ha scongiurato che al problema di stabilire se abbia portato veri e propri benefici. Il consenso è diretto a ciò che non si ha, agli svantaggi che si sono evitati, alla sicurezza di vita che, bene o male, il fascismo assicura agli italiani…. La guerra d'Etiopia suscita un consenso rumoroso, un momento di eccitazione nazionalistica solo quando è chiaro che gli anglofrancesi in realtà non si muovono e che l'Italia conquista l'impero. Anche qui stiamo attenti: il nazionalismo italiano che sta dietro la guerra etiopica, il nazionalismo di massa, non è di tipo classico, imperialistico, bensì populistico e con una forte dose di suggestioni che vengono da un certo “meridionalismo”. Non si tratta di un imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un colonialismo che tende all'emigrazione, che spera cioè che grandi masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Tutto questo spiega il consenso, ma gli attribuisce anche delle caratteristiche estremamente precarie. Quando la situazione economica si fa più difficile, quando l'intervento in Spagna e soprattutto l'Asse e poi il Patto d'Acciaio portano l'Italia sempre più sulla strada della guerra… quando insomma viene meno il senso di “ sicurezza” e le speranze di qualche anno prima sfumano, il consenso si fa sempre più debole » ( pp. 51 2).

Ora si comprende subito, da questa citazione, come il tema del consenso al fascismo, in De Felice, non possa esser nemmeno lontanamente affiancato, come fa Luciano Canfora, all'elaborazione togliattiana sul fascismo come « regime reazionario di massa » , nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935. In tutte le sue riflessioni Togliatti, adeguandosi o tiepidamente sopravanzando le interpretazioni ufficiali dell'Internazionale comunista, pone al centro la classe operaia, in questo caso italiana, cioè a dire la classe rivoluzionaria per definizione, contro la quale il fascismo avrebbe legato, nel disegno reazionario ed oppressivo, masse e categorie crescenti di ceti medi. La classe operaia del Belpaese sarebbe rimasta di fatto incontaminata dal fascismo, se non per l'inquadramento forzoso e dall'alto nelle organizzazioni sociali e ricreative del fascismo (dopolavoro, associazioni sportive, ecc.). Un consenso passivo, forse, meglio, un'adesione passiva al regime, ben diversa dalla partecipazione convinta degli italiani alle politiche, soprattutto internazionali, del fascismo, rilevata da De Felice.

Ed infatti Togliatti, in perfetta linea con le analisi dell'Internazionale, afferma: « L'ideologia fascista serve a saldare assieme varie correnti nella lotta per la dittatura sulle masse lavoratrici e per creare a questo scopo un vasto movimento di massa… L'ideologia fascista assomiglia a un camaleonte… Numerosi frammenti le derivano da altrove, per esempio dalla Socialdemocrazia. L'ideologia corporativa, ad esempio, con il principio della collaborazione di classe, non è un'invenzione del fascismo ma della socialdemocrazia. Perché questa analogia? Perché anche la socialdemocrazia è un'ideologia piccolo borghese… » ( pp. 14 5).

Siamo, nel 1935, alla vigilia dei Fronti popolari in Francia, e della radicale revisione degli anatemi ideologici contro i socialdemocratici europei. Cosa che rende le Lezioni togliattiane vero reperto d'epoca. L'epoca buia delle tesi sul “socialfascismo”, di cui Togliatti fu fedele interprete sulla rivista del Pci Lo Stato operaio .

Ma il lascito di De Felice è ben più complesso, e Canfora lo ammette, anche se a denti stretti. È un lascito soprattutto metodologico, di cui oggi si giova una vasta schiera di studiosi italiani e stranieri e che, negli anni Settanta Ottanta fu spregiativamente definito dalla storiografia comunista, «ossessione documentaria» . La storia si fa soprattutto tramite la ricerca archivistica e il controllo delle fonti documentarie e testimoniali. Diceva Gaetano Arfè: «la filologia è il miglior antidoto contro l'ideologia» .

Certo è che se oggi il Partito comunista francese apre i suoi archivi (Corriere della Sera , 20 giugno 2005) e gli eredi del Pci continuano a dire che nulla sanno dell'archivio segreto del Pci, negando l'evidenza, il raffronto delle fonti, reclamato addirittura da Canfora, sarà molto problematico. Che fare allora? Rinunciare a scrivere? Perseverare nel pregiudizio benevolo su un Pci ed un Togliatti “costruttori di democrazia”?
Per ora le fonti americane, sovietiche e dei servizi segreti italiani, convergendo, danno a questa vulgata colpi decisivi, rilevando formazioni armate clandestine del Pci sino agli anni Ottanta, nell'ambito dei piani militari sovietici d'invasione dell'Europa. A questo punto che gli eredi dei comunisti italiani possano tirar fuori la documentazione segreta, fin oggi occultata (costituente nel complesso corpo di reato) è una speranza che nemmeno il più ottimista storico defeliciano potrà sinceramente coltivare.
Gianni Donno
Riproduzione su "Cronologia" autorizzata dal Corriere del Mezzogiorno
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Dibattito: 4)
Ho letto le considerazioni di Luciano Canfora sull’interpretazione defeliciana del fascismo e sui suoi supposti rapporti con la Rivoluzione francese e concordo largamente con lui. Ricordo le “lezioni” di Togliatti sul fascismo, che crearono anche qualche sconcerto perchè la definizione di “regime reazionario di massa” sembrava assegnare al fascismo un certo radicamento nella società, che però a distanza di tanti anni non si può certo negare. Esse risalgono al 1935, quando era appena avviata la campagna mussoliniana per la conquista dell’Etiopia, ed era noto l’entusiasmo diffuso in Italia per la prospettiva di benessere che l’accompagnava; ma che fu ben presto amaramente delusa, per colpa di un imperialismo che, più che populistico, definirei “straccione”.
Fu quello il momento di maggior scoramento tra gli antifascisti; tra quelli noti ed illustri (Benedetto Croce ad esempio) e tra quelli sconosciuti.
Come in ogni regime totalitario – di Mussolini, di Stalin o di Hitler – la dissidenza si esprimeva allora in forme catacombali e secondo regole di cospirazione clandestina. Dai discorsi di alcuni illustri antifascisti (a Firenze di Luigi Russo, di Raffello Ramat; a Pisa di Aldo Capitini e di Guido Calogero) ho appreso i modi in cui si organizzavano per nascondere, fra i libri, la corrispondenza clandestina proveniente dalla Francia e per incontrarsi o in salotti privati o in aule universitarie (alla Scuola normale superiore di Pisa!) o anche in aperta campagna, nella pianura padana.

Vi era poi l’”onesta dissimulazione” degli operai che diffondevano nelle fabbriche manifestini o che, non potendo scioperare, il 1° maggio fingevano di lavorare: persino nella tipografia Le Monnier, di proprietà di uno “squadrista”.
Ma qual era allora lo “spessore”, la genuinità di quel consenso, se nel giro di due-tre anni si sciolse come neve al sole? Quale sostegno dettero al dittatore decaduto e arrestato i famosi battaglioni M della MVSN, che si consegnarono all’Esercito?

Sono segnali, questi, di un logorìo sotterraneo di cui forse le fonti di archivio non hanno fornito la dovuta documentazione allo storico De Felice ma che, sotto l’ufficialità delle parate di regime, fanno parte della aggrovigliata realtà storica di quegli anni drammatici. Una dittatura raccoglie sempre i frutti della paura e del terrore che ha seminato.
Mi pare quindi che la questione del radicamento nel Paese del regime fascista sia complessa e controversa ed è opportuno andar cauti nelle valutazioni: sine ira ac studio.

Più interessanti, perché attuali, mi paiono le due questioni poste da Luciano Canfora: la distinzione defeliciana tra fascismo-regime e fascismo-movimento e la derivazione del fascismo dalla Rivoluzione francese, sostenuta da M. Ledeen.
Io ritengo che, al di là di una diffusa insofferenza - tra reducismo, irredentismo e arditismo del primo dopoguerra -, il movimento fascista non avesse alle sue spalle dottrine e tradizioni culturali. Lo aveva ammesso lo stesso Mussolini: “Il fascismo non nasce da una dottrina teorica elaborata in anticipo; esso fu il frutto di un bisogno d’azione”; le fondamenta della dottrina del fascismo “furono gettate nel momento in cui la battaglia infuriava”. E concludeva con arroganza: “l’orgoglioso motto delle squadre fasciste ‹me ne frego› è un atto di filosofia”. Questo fu in effetti il fascismo-movimento.
Tutto ciò non impedì poi che, quando dovettero giustificare a posteriori la distruzione del vecchio Stato liberale, Mussolini e il fascismo trovarono un valido sostegno dottrinale nel disprezzo della filosofia gentiliana verso l’individuo e i suoi diritti individuali e collettivi. Una linea di pensiero ben distante, quindi, dalla Rivoluzione francese e dal suo retroterra culturale.

L’articolo “Dottrina del fascismo” scritto a firma di Mussolini per l’ Enciclopedia italiana ripete quasi pedissequamente il discorso con cui Giovanni Gentile aveva inaugurato nel 1925 l’Istituto italiano di cultura fascista.
E’ qui che vengono negate le radici teoriche del diritto all’esistenza individuale, nel quadro di una identificazione del fascismo con una “concezione religiosa dove l’uomo è visto nel suo immanente rapporto con una legge superiore che trascende l’individuo particolare”. La sola realtà che il fascismo riconosceva era quella dello Stato: al di fuori non vi sarebbe “nulla di umano o di spirituale”.
Ne consegue la condanna politica delle dottrine che tra Sei e Settecento, sulla base di una rivalutazione dell’individuo, avevano definito l’origine contrattualistica dello Stato e avevano sancito l’inviolabilità dei diritti dell’uomo: il diritto alla felicità, al benessere, alla libertà e all’eguaglianza. Insomma tutto ciò che verrà proclamato nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”.
Ecco perché mi pare perfettamente pertinente la citazione che Luciano Canfora fa di Norberto Bobbio: il vero nemico del fascismo è stata la democrazia e quindi “dire che il fascismo ha radici nella Rivoluzione francese è una fesseria”. Non solo. Non si può nemmeno imputarlo alla cultura che la precedette e in qualche modo la predispose.

L’illuminismo, appunto: è questo il discrimine culturale e storico che segna ancora oggi una netta linea di demarcazione nella cultura nella politica: da una parte coloro che si richiamano al sec. XVIII come un vero “secolo nuovo” che apre la via alla modernità; dall’altra coloro che vedono in quel secolo la distruzione di un mondo nobile, fondato sul rispetto della tradizione, della religione e della metafisica, travolte dalla rivoluzione borghese, dalla tecnica e dall’egalitarismo democratico.

Non è un caso che Michael Ledeen ricordi, nell’intervista rilasciata al “Corriere del Mezzogiorno”, G. L. Mosse, di cui è stato anche assistente e col quale ha scritto per Laterza l’Intervista sul nazismo. E’ stato un grande storico, professore all’Università di Gerusalemme, e la lettura delle sue opere – è un ricordo personale – mi è stata molto utile per comprendere alcune possibili derive pericolose della politica robespierriana: la “nazionalizzazione delle masse”, propria dei regimi nazista e fascista, troverebbe, a giudizio di Mosse, la sua ascendenza nei riti civili e nelle feste popolari dell’ultimo periodo della Rivoluzione francese.
Ma la dea Ragione, esaltata in quelle feste, non è la ragione di Voltaire, di Diderot o di Montesquieu. Gli uomini della Rivoluzione non producono verità o ragioni, ma ne sono portatori, esecutori di un programma che è dato e accettato. Le masse rivoluzionarie non elaborano pensieri, ma realizzano una strategia, combattono, e muoiono. Sono i missionari di una nuova fede.
I protagonisti sono diversi: prima ci sono i philosophes; poi i girondini e i giacobini: non più Voltaire o Rousseau, ma Robespierre e Saint Just .
Sì, anche Rousseau: l’aspirazione del grande ginevrino di collocare l’individuo, attraverso la stipulazione del “contratto sociale”, all’origine della politica, trasformandolo in cittadino detentore in proprio di diritti, è degna di grandi e imperituri riconoscimenti. E’ così che nasce la libertà eguale per tutti: la democrazia dei citoyens.

Ciò che certi studiosi rifiutano dell’insegnamento illuministico è il progetto affidato ai singoli uomini di costruire una società nella quale vengano riconosciuti i diritti e le libertà di tutti; una società, insomma, liberale e democratica. E’ per loro un modello di società e di Stato artificiale e astratto.
A questo modello, a cui ci siamo affezionati a partire dalla nostra Costituzione repubblicana, si vuole opporre una politica come conflitto, i cui soggetti si distinguono in amici o nemici; nella quale non conta l’intesa e l’interesse di tutti, ma solo la conquista e l’uso del potere, secondo lo schema di Carl Schmitt.
Son sempre più numerosi i teo-con, del nostro e di altri Paesi - Michael Ledeen ne è un autorevole esponente -, che, in nome di una missione superiore, fanno ricorso allo spettro della teologia e della superstizione: cacciate dalla porta della politica, queste vi rientrano dalla finestra, alla faccia della laicità dello Stato e delle sue istituzioni. E’ un problema dei nostri giorni: la civiltà del laicismo è la precondizione per la libertà, di quella del pensiero, della scienza e di quella civile e per il rispetto reciproco. Ma tutto ciò è stato scritto molto bene in questi giorni da Giulio Giorello (Di nessuna chiesa. La libertà del laico).
Altro che ascendenze settecentesche del fascismo, dunque! La demonizzazione che oggi viene esercitata nei confronti della razionalità di quel secolo illustre mira solo ad oscurare i grandi benefici che ancora oggi se ne possono trarre.
Franz Brunetti
Riproduzione su "Cronologia" autorizzata dal "Corriere del Mezzogiorno"

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Dibattito: 5)

Giuseppe Vacca: "sul fascismo, De Felice quasi come Togliatti"
« Già nel primo volume della biografia di Mussolini, pubblicato nel 1965, sono espliciti i riferimenti metodologici di Renzo De Felice a Gramsci e Togliatti. Egli guardò con molta attenzione al modo in cui questi ultimi avevano analizzato il fascismo » .
Lo sostiene il professor Giuseppe Vacca, barese, storico del pensiero politico e presidente della Fondazione Istituto Gramsci ( nonché ex segretario regionale dei Ds pugliesi). Il professore interviene così nel dibattito avviato, sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno , da Michael Ledeen, storico e attuale esponente di rilievo dei « neocon » statunitensi, nel trentesimo anniversario della pubblicazione, da parte di Laterza, di Intervista sul fascismo, in cui De Felice rispose proprio alle domande poste da Ledeen. La sua opinione contrasta con quanti ritengono tra loro alternative e inconciliabili le analisi di De Felice e di Togliatti. Ma su questo Vacca ha opinioni che privilegiano i contatti più che le differenze, il metodo storiografico più che le prese di posizione politiche.
« La sua visione del fascismo non era lontana da Togliatti »
« Proviamo a ragionare - continua Vacca - sulla base della fondamentale lezione metodologica che, sul fronte storiografico, va riconosciuta a De Felice, che, per altro, era egli stesso antifascista. Ebbene, anche se si è antifascisti, mica si può trattare il fascismo con un metodo d'analisi diverso da quello storico consueto, usato per esaminare altri fenomeni. Così fece De Felice: utilizzò lo stesso metodo per il fascismo. E ovviamente lo fecero prima Gramsci e Togliatti » .
Ovviamente? In che senso? Questi ultimi era prima di tutto dirigenti politici, con una particolare prospettiva e un particolare fine. Mentre De Felice era uno storico.
« Nel senso che, se si vuol combattere il fascismo, occorre conoscerlo bene. Quindi il metodo d'analisi del fenomeno, da parte di un dirigente politico antifascista, deve essere uguale a quello adottato dallo storico. Questa è stata l'impostazione di Gramsci e Togliatti » .

Un'impostazione cui De Felice riconobbe esplicitamente una valenza metodologica positiva?
«Certo. Nel 1970 Renzo De Felice sostenne che A proposito del fascismo , un lungo articolo scritto da Togliatti nel 1928, deve essere considerato - cito testualmente - " l'analisi più compiuta e più matura del fascismo italiano elaborata tra le due guerre mondiali da un autorevole esponente comunista, attivo nel movimento". Un'opinione espressa poco dopo che erano state pubblicate da Ernesto Ragionieri le Lezioni sul fascismo che Togliatti aveva svolto a Mosca nel 1935 ( ritrovate negli archivi del Comintern, ndr). Ebbene, De Felice scrisse che quelle lezioni affrontavano l'analisi del fascismo sotto il profilo più importante e caratteristico di regime reazionario di massa". Non solo. A suo avviso, le lezioni offrivano pure " più di una volta un modello metodologico che può benissimo essere applicato anche ad una ricerca di tipo storiografico e non solo a un'analisi politico- pratica" » .

E' stata dunque la lezione che, a sua volta, De Felice ha offerto ai suoi allievi?
«Insegnò ad impostare una storiografia sul fascismo che prescindesse dall'impostazione antifascista dello studioso. E per lui - su questo fronte e da questo punto di vista - il maggior esempio, tra i contemporanei, era stato quello di Gramsci e Togliatti. Certo, non bisogna dimenticare che il metodo non può essere statico, perché anche il fascismo si è evoluto nel tempo. Quello degli anni Venti non era quello degli anni Trenta. Di certo, Togliatti decise di capirlo per quello che era. De Felice glielo riconosce » .
E quale fu l'interpretazione di Togliatti?
« Beh, in estrema sintesi, diciamo che, ad esempio, mise in evidenza, del fascismo: la base di massa nella piccola borghesia; la tendenza ad essere coniugato con un braccio armato; il fatto che fosse, se vogliamo, un movimento rivoluzionario, di certo un movimento eversivo, sia sul fronte dell'assetto istituzionale interno che per quel che riguarda la politica estera; la vocazione fascista alla guerra, contro il Trattato di Versailles ( nel 1919 fu il risultato della Conferenza di pace di Parigi, dopo la Prima guerra mondiale, ndr) » .

In precedenza il movimento comunista quale opinione aveva avuto del fascismo?
« Per Amadeo Bordiga ( 1889 - 1970, tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia con la scissione del 1921 dal Psi, ndr) il fascismo era una parentesi che non cambiava il dominio di classe. C'è da dire che fino al 1934, dopo l'avvento di Hitler in Germania, il movimento comunista non si occupò seriamente del fascismo. Comunque nel 1922, durante il IV Congresso del Comintern a Pietrogrado, Bordiga nel suo rapporto negò la novità del fascismo rispetto, disse, " alle ideologie e ai programmi tradizionali della politica borghese". Insomma, per lui il fascismo era solo una generica " reazione di classe" nell'ambito della continuità dello Stato liberale » .

Quale fu invece l'analisi di Togliatti?
« Egli individuò la novità istituzionale, politica e ideologica del fascismo. E lo fece ricorrendo al metodo dell'analisi differenziata: era insomma consapevole di dover cogliere quali fosse le peculiarità nazionali dei fenomeni politici nell'ambito dei processi mondiali dominanti quella determinata epoca storica; e in relazione ad essi. Un tipo di analisi del fascismo che di fatto definì la visione della storia d'Italia e la visione del mondo di Togliatti. Ciò determinò una differenziazione del Pci rispetto al comunismo staliniano, tanto che in Europa occidentale, nonostante il legami con l'Urss, fu il partito comunista che si radicò di più nelle politica nazionale, diventando assai influente come fattore politico » .

Se l'analisi di Togliatti era stata già così vicina al punto di vista e al metodo adottato da De Felice, perché quest'ultimo fu così criticato da sinistra per il suo approccio storiografico al fascismo?
«Bisogna considerare che De Felice impostò, con metodi innovativi, un lungo programma d'analisi del fascismo ( in particolare dopo la sua uscita dal Pci nel 1956) in un periodo in cui una vera storiografia del fenomeno fascista non era ancora stata improntata da nessun altro. Solo Togliatti nel 1962, poco prima della sua scomparsa, aveva iniziato ad impostare un convegno sul fascismo, col proposito di giungere ad una storiografia seria, dal punto di vista filologico. Infatti nessuno storico italiano, inclusi quelli comunisti, aveva preso davvero il toro per le corna, affrontando il fascismo come passaggio storico fondamentale del Novecento. Così come non c'era la volontà di storicizzare l'antifascismo, che era stato circoscritto per lo più all'Italia, senza coglierne la rilevanza a livello europeo e mondiale. Inoltre gli storici di sinistra era stati così colpiti dalla pubblicazione delle inedite Lezioni sul fascismo di Togliatti, nel 1970, che non riuscirono a vedere la novità proposta da De Felice. Ovvio: sbagliarono » .

Sbagliarono. Ma intanto contribuirono ad attaccare De Felice, soprattutto dopo la pubblicazione dell'Intervista sul fascismo, nel 1975…
« Però, non a caso, De Felice trovò un difensore in un dirigente del Pci, Giorgio Amendola ( 1907 - 1980, ndr), che invitava a non avere una visione apologetica dell'antifascismo. In ogni caso posso dire che non tutti lo attaccarono. La cosiddetta scuola di Bari, nella facoltà di Lettere, ad esempio non lo fece.
Anzi, proprio nel 1975 noi impostammo una serie di lezioni sul fascismo sulla falsa riga suggerita da De Felice. Insomma, eravamo gramsciani… » .
Dunque, gli attacchi a De Felice all'epoca furono inopportuni e infondati?
« Attenzione. Una cosa è parlare di De Felice come storico, cui va riconosciuto un giudizio positivo.
Un'altra parlare di lui per l'uso politico che da un certo momento in poi fece della sua storiografia. Sono due questioni diverse. De Felice negli anni Ottanta decise di prendere di petto i fondamenti della cultura politica dell'antifascismo italiano. Lo fece nell'ambito della grande riforma tentata allora in relazione al carattere antifascista della Costituzione. Ma questa, com'è noto, è tutta un'altra storia… » .

Intervista di Marco Brando - Bari
(Corriere del Mezzogiorno)

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