.

CAPITOLO SETTIMO
Le nostre virtù

 

214.
Le nostre virtù? - È probabile, che anche noi abbiamo le nostre virtù, quand'anche, come di leggeri si comprende, non fossero quelle virtù bonarie e primitive, che noi onoravamo presso i nostri padri, pur tenendole a rispettosa distanza. Noi europei del posdomani, primizie del secolo ventesimo, - con la nostra pericolosa curiosità, con la nostra molteplicità, con la nostra arte del travestirsi, con la nostra crudeltà tenace e per così dire raddolcita dello spirito dei sensi, - se dobbiamo proprio possedere delle virtù, non ne avremo che di quelle che meglio potranno accordarsi con le nostre inclinazioni più segrete e più accarezzate, con i nostri più urgenti bisogni; ebbene, andiamo a ricercarle nei nostri labirinti, - nei quali come ben si sa, si smarriscono molte cose e talune si perdono interamente. E vi è forse alcunché di più bello del ricercare le proprie virtù? Non equivale ciò forse ad aver fede nella propria virtù? Ma codesto aver fede non è forse l'equivalente di ciò che una volta chiamavasi la buona coscienza, concetto venerabile che i nostri padri appiccicavano dietro il loro intelletto, come il codino alla nuca? Sembra quasi, che per quanto poco noi crediamo seguire la moda antica e il modo di sentire dei nostri nonni, in una cosa sola ne siamo i degni eredi, noi ultimi Europei della buona coscienza noi portiamo ancora il loro codino. -- Ah! se sapeste quanto presto -- troppo presto le cose stanno per cambiare!

215.
Come nel regno degli astri due soli determinano talvolta il cammino d'un pianeta, come in certi casi un pianeta é illuminato da soli di differente colore, ora di luce rossa, tal altra di verde, tal altra dalle loro luci frammiste, nello stesso modo noi uomini moderni, grazie alla meccanica complicata del nostro firmamento - siamo determinati da morali differenti; le nostre azioni ne riflettono i vari colori, di rado mostrano un solo colore e in certi casi ne facciamo di tutti i colori.

216.
Amare i propri nemici? Mi sembra, che lo si sia appreso molto bene: ce ne accorgiamo in mille e mille circostanze, in piccolo ed in grande; sì, talvolta ben meglio ancora noi impariamo a disprezzare mentre amiamo, e precisamente quando più fortemente amiamo: ma tutto ciò inconsciamente, senza far chiasso, col pudore e colla segretezza della bontà che vieta al labbro le parole solenni e le forme virtuose.
La morale quale atteggiamento - ciò ripugna al nostro gusto moderno. E questo é anche un progresso come per i nostri padri fu un progresso, che la religione quale atteggiamento finì per contrariare il loro gusto (e così pure l'avversione ed il sarcasmo volteriano contro la religione, e tutto ciò che altre volte era il corredo necessario di chi s'atteggia a libero pensatore). È la musica della nostra coscienza, la danza del nostro spirito che non sanno sopportare le litanie dei puritani, le prediche dei moralisti, dei cosiddetti uomini dabbene.

217.
Guardatevi da coloro, che annettono un gran valore acchè si riconosca loro il tatto morale, la delicatezza nelle distinzioni morali ; essi non ci perdoneranno mai, se loro accadrà di commettere uno sbaglio davanti a noi (o contro noi stessi forse); - essi diverranno istintivamente i nostri calunnatori e detrattori anche se in apparenza continueranno a dimostrarsi i nostri amici. Beati coloro che dimenticano perchè finiscono col dimenticare anche le sciocchezze che hanno commesse.

218.
I psicologi francesi - e dove fuori di Francia si trovan oggi ancora dei psicologi? - Non hanno ancor finito di assaporare tutta intera la loro voluttà acre e molteplice della bêtise bourgeoise come se - basta, qualcosa lasciano trapelare con ciò. Flaubert, ad esempio, l'onesto borghese di Rouen, finì per non vedere, per non sentire, per non gustar altra cosa: -- era il suo modo di torturare se stesso, una crudeltà raffinata contro sé stesso. Ora io raccomanderei - poiché la cosa finirebbe con l'annoiare - qualche altra cosa per estasiarsi : vale a dire, l'astuzia incosciente di cui si valgono gli spiriti mediocri nei loro rapporti cogli spiriti superiori e nella loro attitudine verso i fini, che è le mille volte più raffinata, di quanto anche negli intervalli più lucidi possano esserlo l'intelletto ed il gusto di tali spiriti mediocri - ed anche più dell'intelletto delle loro vittime : - ciò che dimostra una volta di più, che l'« istinto », di tutte le specie d'intelligenza finora scoperte è la più intelligente. In breve, studiate, o psicologi, la filosofia della « regola » nella sua lotta coll'« eccezione » : otterrete uno spettacolo degno degli dei e della malizia divina!. Oppure, diciamolo più chiaramente ancora: fate della vivisezione sull'uomo « buono », sull'uomo « bonae voluntatis ».... su voi stessi !

219.II giudicare ed il condannare moralmente é la vendetta preferita delle anime limitate su quelle che lo sono meno di loro, una specie d'indennizzo per tutto ciò che hanno ottenuto in meno dalla natura, epppoi una buona occasione per dimostrar dello spirito, e diventar raffinati -- la malizia spiritualizza l'uomo. In fondo ai loro cuori essi godono che esista una misura, dinanzi alla quale anche gli uomini spiritualmente ricchi e privilegiati sono a loro uguali: - essi combattono per l'uguaglianza di tutti dinanzi a Dio, e non fosse che per ciò, essi sono costretti a credere in Dio. Tra di loro trovansi i più violenti avversari dell'ateismo. Chi direbbe loro, che dinanzi a un'alta intellettualità non reggono il confronto né la più specchiata onestà né la più alta rispettabilità d'un individuo null'altro che morale li rende rebbe idrofobi: -- ed io mi guarderò bene dal farlo. Piuttosto vorrei rendermi loro gradito coll'assicurar loro che un'alta intellettualità non é per sé stessa che il coronamento di certe qualità morali: che é una sintesi di tutti quegli stati, attraverso i quali non possono passare che gli uomini esclusivamente morali, stati acquisiti mercé una lunga evoluzione, per una lunga catena di generazioni; che l'alta intellettualità rappresenta lo spiritualizzamento della .giustizia, di quel rigore temperato dalla bontà che sa essere suo compito di mantenere nel mondo una gerarchia anche tra le cose - non soltanto tra gli uomini.

220.
L'elogio del disinteresse é oggidì tanto popolare, che si é costretti, forse non senza pericolo, a domandarsi, a che cosa veramente il popolo prenda interesse e di quali cose l'uomo volgare si curi più profondamente: comprese le persone colte, persino i dotti, e se non c'inganniamo, persino i filosofi. Si giungerà a constatare il fatto, che la massima parte di tutto ciò, che interessa i gusti più raffinati e delicati, che ha attrattiva per una natura superiore lascia completamente freddo l'uomo mediocre: - e se ciò nonostante egli avverte un'inclinazione per tutto ciò la chiamerà « disinteressata » e si meraviglierà come mai si possa agire disinteressatamente.
Ci sono stati dei filosofi che seppero conferire ad una tale meraviglia popolare un'espressione seducente misticamente soprannaturale - forse perché per loro esperienza non conoscevano le nature superiori? - anziché ammettere la verità, che ogni atto « disinteressato » é sempre un atto molto interessante ed anche « interessato » purché si voglia ammettere che ....
« E l'amore? », - Come, perfino un atto ispirato dall'amore dovrebbe essere « non egoistico ? » . Oh, voi minchioni! - « E gli elogi diretti a chi si sacrifica? ». - Ma chi realmente é sottostato a dei sacrifici sa d'averlo fatto per qualche cosa, di aver ottenuto qualche cosa in compenso del suo sacrificio forse da sé stesso, per se stesso - sa che da un lato concedeva, per ottenere molto di più dall'altro, non fosse che per essere, od almeno per sentirsi qualche cosa di più.

Ma noi andiamo a cacciarsi in un labirinto di domande e risposte, che l'uomo di gusto raffinato cerca d'evitare; già qui la verità deve farsi forza per trattenere uno sbadiglio allorquando é costretta a rispondere. Finalmente poi essa é donna, e non bisogna farle violenza.

221.
Accade di sovente, soleva dire un pedante moralista, che io tratti con distinzione un uomo disinteressato, ma non già perciò che egli é disinteressato; bensì perché mi sembra ch'egli abbia un diritto ad essere utile a proprie spese ad un altro uomo. In breve, si tratta unicamente di sapere chi sia lui e chi l'altro. Per esempio, in un individuo nato per comandare, l'abnegazione e la modestia non sarebbero una virtù, ma bensì lo spreco di una virtù, così sembra a me.
Ogni morale altruistica che, per voler essere incondizionata, vuole abbracciare tutti senza distinzione, non pecca solamente contro il buon gusto; ben di più essa é un eccitamento ai peccati d'omissione, una seduzione di più sotto la maschera della filantropia - e precisamente atta a sedurre e danneggiare gli uomini più elevati, più rari e privilegiati. Bisogna forzare le morali a curvarsi dinanzi alla gerarchia, bisogna abbattere la loro tracotanza e metter una buona volta in chiaro che é cosa immorale l'affermare che - « quello che é giusto per l'uno, lo dev'essere anche per l'altro ».

Così dunque diceva quel buon uomo del mio pedante moralista: meritava egli forse di essere schernito quando ricordava le morali e la moralità? Ma non bisogna piccarsi di voler avere troppa ragione, se si vuole avere della propria quelli che ridono aver un bocconcino di torto é indizio di buon gusto.

222.
Dove oggi si predica la compassione - se ben guardiamo é la sola religione che oggi si predichi -- lo psicologo deve aprir molto bene le orecchie; attraverso alla vanità, al chiasso propri a cotali predicatori (e se vogliamo a tutti i predicatori) egli afferrerà un gemito rauco e sincero di disprezzo di se stesso.
Esso proviene, se non e esso stesso la causa, da quell'oscuramento, da quell'abbrutimento dell'Europa, che da un secolo vanno ognor più crescendo (ed i cui primi sintomi sono additati documentariamente in una lettera piena di preoccupazioni dell'abate Galliani alla signora d'Epinay).
L'uomo delle « idee moderne » codesto scimiotto orgoglioso è supremamente malcontento di sé stesso; ciò é indubitato. Egli soffre -- ma la sua vanità esige che egli non provi che -- compassione.

223.
L'Europeo odierno, prodotto di razze incrociate - un plebeo abbastanza antipatico dopo tutto sente il bisogno di un costume - prova il bisogno della storia, che rappresenta l'arsenale dei suoi costumi. È però vero che s'accorge come nessuno gli s'attagli - per cui lo cambia senza posa. Si consideri un po' il nostro secolo dal lato di codesto continuo canbiamento dello stile delle mascherate; e nella disperazione di vedere che « nulla é fatto per lui ! ». È proprio inutile il presentarsi sotto una veste romantica, classica, cristiana, fiorentina, barocca, oppure « nazionale » in moribus et artibus, nulla "ci sta bene?". Ma lo spirito, specialmente lo « spirito storico », sa trarre profitto anche di ciò: si trova sempre il modo di riesumare qualche briciolo vergine di epoche passate o di paesi stranieri; lo si gira, lo si rigira, lo si ripone, lo si risotterra; ma prima d'ogni cosa lo si studia: noi possiamo vantarci d'essere la prima epoca studiosa di ciò che ha tratto ai costumi, intendo dire delle morali, di articoli di fede, di gusti artistici e di religioni, d'esser preparati, come in nessun'epoca ancora, al carnevale di grande stile, alle risate ed alle impertinenze dei carnevale intellettuale, all'elevatezza trascendentale dell'assurdo e all'estrema potenza dello scherno aristofanesco.
Forse che proprio qui noi stiamo per scoprire il regno di nostra « invenzione »; un regno in cui sarà dato anche a noi d'essere originali, per esempio quali parodisti della storia universale o quali giullari di Dio, - forse che, se a nessuna delle cose che oggi esistono é riservato un avvenire, questo sarà riservato al nostro riso.

224.
Il senso storico (ovvero la facoltà d'indovinare rapidamente i rapporti d'ordine degli apprezzamenti di valori, giusta i quali un popolo, una società, un individuo hanno vissuto, l'istinto divinatorio , - per i rapporti fra tali apprezzamenti di valori, per i rapporti tra l'autorità dei valori e l'autorità delle forze efficienti) : questo senso storico che noi Europei consideriamo come una nostra specialità, é pervenuto a noi al seguito della folle ed affascinante semibarbarie, in cui il mescolamento democratico delle classi e delle razze ha precipitato l'Europa; - appena il secolo decimonono ha incominciato a conoscere codesto senso, che é divenuto il suo sesto senso. Il passato in tutte le sue forme, in tutti i suoi modi di vivere, con tutte le sue « civiltà », l'una all'altra sovrapposte o sottoposte, s'irradia, grazie all'accennato mescolamento nelle nostre anime moderne, i nostri istinti ricorrono tutte le vie del passato, noi stessi siamo una specie di caos: -- ma infine, come già dicemmo, lo « spirito » sa trovarci il suo tornaconto. Mercé la nostra semibarbarie del corpo e dei desideri noi abbiamo dovunque degli accessori segreti, quali nessun'altra epoca aristocratica ne ha avuti, anzitutto l'accesso al labirinto delle civiltà imperfette e di tutte le semibarbarie che sulla Terra ebbero esistenza: e siccome la parte più considerevole della civiltà umana si compendia in una semibarbarie, il senso storico significa il senso e l'istinto di tutte le cose, il busto e l'espressione di tutte le cose: con cui subitamente si dà a ravvisare per un senso non aristocratico. Per esempio, noi gustiamo nuovamente Omero: forse per noi é un fortunatissimo vantaggio, quello di saper gustare Omero, ciò che gli uomini di una civiltà aristocratica (quali i Francesi del secolo decimo-
settimo, che con Saint-Euremond rinfacciano ad Omero il suo « esprit vaste », e dei quali l'ultima eco é Voltaire) non sanno e non sapevano fare così facilmente, - e che si permettevano appena. Il sì ed il no molto determinati del loro palato ; la loro nausea facilmente irritabile, il loro ritegno verso tutto ciò che sapeva di straniero, il loro timore di dimostrare cattivo gusto, foss'anche nel momento di un fortissimo desiderio, ed in generale l'avversione che prova ogni civiltà aristocratica e bastante a se stessa, a confessare un nuovo desiderio, un interno malcontento, un'ammirazione per qualcosa di straniero, tutto ciò la indispone e la predispone sfavorevolmente contro le migliori cose dei mondo quando non siano di sua proprietà o non possano divenirlo, e nessun senso é meno comprensibile a tali individui, del senso storico e della curiosità umile e plebea che a lui si collega. La stessa cosa vale anche per lo Shakespeare, meravigliosa sintesi del gusto ispano-mauro-sassone, a proposito del quale un vecchio ateniese amico d'Eschilo sarebbe scoppiato dalle risa o dal dispetto: ma noi accogliamo precisamente codesta accozzaglia di ciò che v'ha di più delicato, di più grossolano, di più artificioso, con una certa segreta confidenza e cordialità, la gustiamo come una raffinatezza dell'arte, che fu riservata a noi soli e non ci lasciamo indisporre dalle esalazioni mefitiche, dalla prossima vicinanza della plebaglia inglese, in mezzo alla quale vivono l'arte ed il gusto Shakesperiani, allo stesso modo come quando ci troviamo a Napoli sulla riviera di Chiaia ; noi la seguiamo, affascinati, e volenterosi, senza preoccuparci delle esalazioni che tramandano le cloache dei quartieri della plebe. Noi uomini dal « senso storico », abbiamo le nostre virtù, ciò é innegabile noi siamo senza pretese, disinteressati, modesti, valorosi, pieni d'abnegazione, di riconoscenza, di buon volere, - malgrado tutto ciò il nostro « gusto » non é forse il migliore. Confessiamocelo una buona volta: ciò che a noi uomini dal « senso storico » é più difficile ad afferrare, a sentire, gustare, a preferire, ciò che in fondo ci rende predisposti ed avversi, si é precisamente la perfezione, la suprema maturità di ogni civiltà e di ogni arte, si é tutto ciò che é veramente aristocratico nelle opere e negli individui, il momento di suprema indifferenza, di tranquillità, la freddezza dorata, che é proprietà di tutte le cose giunte a perfezione. Forse la nostra grande virtù del senso storico è un contrapposto necessario del « buon » gusto o per lo meno del « miglior » gusto, per cui non sappiamo riprodurre in noi che a stento, esitanti, e costretti quei pochi rari momenti di suprema felicità e di trasfigurazione della vita umana, quei momenti, miracolosi, nei quali una grande forza s'arrestò volontariamente dinanzi allo smisurato ed all'infinito, e sentì ad esuberanza un gaudio sublime in un frenarsi repentino, nell' immobilizzarsi, nel mantenersi salda su d'un terreno ancora vacillante. Codesta misura a noi é straniera, confessiamolo; quello che ci solletica é precisamente l'infinito, lo smisurato. Simili al cavaliere, trasportato dal suo destriero in una corsa vertiginosa, noi dinanzi all'infinito abbandoniamo le briglie, noi uomini moderni, noi semibarbari - e sentiamo appena allora la nostra felicità, quando maggiore sentiamo il pericolo.

225.
Edonismo, pessimismo, utilitarismo o eudemonismo : tutti codesti modi di pensare, che prendono per misura il gaudio e la sofferenza, vale a dire certi stati accessori sono modi di pensare primitivi ed ingenui, che ognuno il quale si senta in possesso di forze creatrici e di una coscienza artistica riguarderà con aria di scherno, non scevra di compassione. Compassione di voi, sì ! Ma non già la compassione quale voi la comprendete: non si tratta già di compassione per la miseria sociale, per la società, per i suoi ammalati e le sue vittime, per i suoi viziosi ed i suoi vinti fin dall'origine che giacciono spezzati intorno a noi: e meno ancora di compassione per caterve di schiavi mormoranti, oppressi e sediziosi, che aspirano alla dominazione ch'essi chiamano « libertà ». La nostra compassione é ben più elevata: - noi vediamo che l'uomo s' impicciolisce, che voi lo rimpicciolite! vi sono dei momenti in cui contempliamo con angoscia indescrivibile la vostra compassione, e ci difendiamo da una simile compassione, - momenti in cui noi troviamo più pericolosa la vostra serietà di qualsiasi altra leggerezza; voi mirate possibilmente e non v'ha un « possibilmente » più folle di questo - a sopprimere la sofferenza; e noi? Sembra quasi che noi si voglia ridurre le cose ad un grado più acuto, ed a peggiore partito, di quanto lo furono finora!

Il benessere, come voi lo intendete - non rappresenta già un fine, bensì, almeno per noi, la fine! Significa per noi uno stato, che finisce per render l'uomo ridicolo e spregevole, - che ne fa desiderare la perdizione. La scuola del dolore del gran dolore - non sapete forse che questa scuola soltanto ha permesso all'uomo di acquistare certe attitudini? Quella tensione dell'anima nella sventura, che le proviene dalla propria forza, i brividi che l'attraversano quando assiste ad una grande ruina, l'ingegno, la bravura che si dimostra nel sopportare, nel perseverare, nell' interpretare nello sfruttare la sventura, tutto ciò che l'anima ha acquistato in profondità, segretezza, dissimulazione, spirito, astuzia, grandezza : non l'ha forse acquistato sotto la sferza del dolore, alla scuola del grande dolore? Nell'uomo si trovano riuniti la creatura ed il creatore: nell'uomo c'è la materia, c'è l'incompleto, il superfluo, c'è l'argilla, il fango, l'assurdo, il caos; ma nell'uomo c'è anche il soffio che crea, che plasma, c'è la durezza del martello, c'è lo spettatore; la divina contemplazione del settimo giorno: afferrate voi il contrasto tra la vostra compassione che é rivolta alla « creatura nell'uomo » vale a dire a ciò che dev'èssere plasmato, infranto, battuto come, il ferro, affinato, passato per il fuoco e purificato - a ciò che necessariamente deve ed é costretto a soffrire, e la nostra compassione? - Non indovinate voi a chi é rivolta la nostra compassione, che si ribella alla vostra, perché la vostra significa il compendio di tutte le debolezze? - Perciò compassione contro compassione! - Ma, come già dicemmo, vi sono dei problemi più alti di quelli che hanno per oggetto il gaudio e la sofferenza e la compassione, ed ogni filosofia che dovesse occuparsi esclusivamente di ciò, resterebbe sempre una fanciullaggine.

226.
Noi immorali! ---- Il mondo, che ci riguarda, nel quale noi abbiamo a temere e ad amare, questo mondo quasi invisibile ed insensibile di comandi e di obbedienze delicate, un mondo del « quasi » in ogni senso, difficile, compromettente, aspro e tenero: sì esso é difeso egregiamente contro i goffi spettatori, contro la curiosità spudorata! Noi siamo stretti da legami assai solidi, noi portiamo una camicia di forza del dovere, e non possiamo liberarcene - perciò solo siamo anche noi « uomini del dovere » ! Talvolta, è ben vero, danziamo anche noi in mezzo alle nostre catene ed alle spade; bene spesso, ciò è pure vero, noi digrigniamo i denti insofferenti della durezza della nostra sorte. Ma per quanto noi facciamo, gli imbecilli e l'apparenza stanno contro di noi e dicono: « ecco gli uomini senza doveri ». - Avremo sempre contro di noi gl'imbecilli e l'apparenza!

227.
La rettitudine, supposto che questa sia la nostra virtù dalla quale non possiamo liberarci, noi, spiriti liberi, ebbene, noi vogliamo lavorare intorno a lei con tutta la nostra malignità e con tutto il nostro amore, senza stancarci di perfezionarci in questa nostra virtù, l'unica che ci sia rimasta: anche se il suo splendore dovesse rischiarare un giorno come di un'aureola crepuscolare dorata, azzurrigna e beffarda, questa civiltà invecchiata con la sua pesante e tetra gravità! E seppure un bel giorno la nostra rettitudine dovesse stancarsi e gemere e stirare le membra e trovarci troppo duri, ed augurarsi qualche cosa di migliore, di più leggero, di più tenero, di lusinghevole come il vizio : ebbene, restiamo duri noi, ultimi degli stoici, e mandiamole in aiuto tutta la diavoleria che abbiamo in corpo, la nostra nausea delle cose goffe ed incerte, il nostro « nitimur in vetitum », il nostro coraggio di avventurieri, la nostra curiosità agguerrita e viziata, la nostra più intima e raffinata volontà intellettuale della dominazione del mondo, la quale aleggia bramosa intorno a tutti gli imperi dell'avvenire, - corriamo in aiuto del nostro « Dio » con tutti i nostri demoni. È probabile che in conseguenza di ciò ci si misconoscerà e ci si calunnierà: e che cosa c'importa?! Si dirà: la loro rettitudine - é la loro diavoleria e null'altro! E ammesso pure che avessero ragione, gli dei non furono forse tutti dei diavoli ribattezzati e diventati santi? Ed infine che cosa sappiamo noi sul conto di noi stessi? E come si debba chiamare lo spirito che ci guida? è una questione di nome! E quanti spiriti in noi albergano? La nostra rettitudine, o spiriti liberi guardiamocene bene non diventi la nostra vanità, la nostra pompa, la nostra imbecillità! Ogni virtù propende all'imbecillità; « stupido sino alla santità », suol dirsi in Russia, - guardiamoci bene dal divenire a forza di rettitudine, altrettanti santi noiosi! La vita non é essa forse cento volte troppo breve per doversi annoiare? Bisognerebbe proprio credere nella vita eterna, per....

228.
Mi si perdoni d'aver fatto la scoperta, che sinora tutte le filosofie morali furono noiose ed appartennero alla classe dei sonniferi, e che nulla ha recato, a mio modo di vedere, tanto danno alla virtù quanto la noiosità dei suoi patrocinatori; con ciò però non intendo misconoscere la sua utilità in generale. Importa molto che il minor numero possibile d'individui meditino sulla morale, - perciô importa molto, ma molto che la morale un bel giorno non diventi interessante! Ma non temete! Le cose sono anche oggidì come sempre furono: io non vedo nessuno in Europa che abbia (o dia) il concetto che il meditare sulla morale possa diventare pericoloso, compromettente, corrompente - che nello stesso possa esserci qualche cosa di fatale! Si consideri, per esempio, gli instancabili ed inevitabili utilitari inglesi, come vanno avanti ed indietro (c'é in Omero una similitudine che rende meglio e più chiaramente l' imagine) calcando o ricalcando, goffamente e bonariamente le pedate del Betham allo stesso modo che questi calcava le pedate dell'onorevole Elvezio (no, non era certamente un uomo pericoloso codesto Elvezio, ce senateur Pococurante, a dirla con Galiani). Nessuna idea nuova, nessuna riproduzione geniale d'una idea antica; neppure una storia veritiera di quello ch'era già stato pensato : in complesso una letteratura impossibile, qualora non si sappia inacidirla con un po' di malignità. E tutto ciò per la ragione che, anche in codesti moralisti (che si deve sempre leggere con la massima indipendenza di spirito, caso mai si fosse costretti a leggerli), s'è infiltrato quell'antico vizio inglese che si chiama "cant" ed é tartuferia morale, ma stavolta mascherato da una forma scientifica; vi si troverà anche una certa smania segreta di difendersi dai rimorsi, dai quali una razza di antichi puritani non potrà mai liberarsi anche trattando scientificamente di morale.
(Non é forse il moralista il « pendant » del puritano, vale a dire, un pensatore, che ammette la morale come cosa degna d'esser discussa, interrogata, in breve, come un problema? Non sarebbe forse, il moralizzare - immorale?) - In fondo tutti i moralisti sono risoluti a dar ragione alla moralità inglese, nella misura in cui questa morale sarà utile all'umanità o all' <« utilità pubblica », o alla « felicità del più gran numero », non alla felicità dell'Inghilterra. Essi tendono a dimostrare con tutte le loro forze, che l'aspirare alla felicità inglese, vale a dire al comfort ed alla fashion (e più in alto ancora ad un seggio al Parlamento), rappresenti il vero sentiero della virtù, di più ancora, che tutta la virtù che ebbe esistenza nel mondo non abbia consistito in altra cosa. Non uno di codesti animali di branco, pesanti e della coscienza inquieta (che pretendono gabellare gli interessi dell'egoismo per quelli del benessere generale) vuole intendere o presentire, che il benessere generale non é un ideale, una meta, un concetto, che si possa formulare chiaramente, ma soltanto un mezzo d'aprirsi un varco che ciò che garba ad uno, non può, necessariamente garbare a un altro; che il pretendere un'unica morale per tutti tende precisamente a colpire gli uomini superiori, che una differenza di grado esiste tra uomo e uomo, e per conseguenza anche tra morale e morale. Sono una specie di individui molto modesti e in ogni senso mediocri codesti utilitari inglesi, e come già dicemmo in quanto che sono noiosi, non si può lodare abbastanza la loro utilità. Anzi si dovrebbe incoraggiarli.

229.
In quelle epoche tarde, che possono andar orgogliose del loro umanesimo, c'è un tal residuo di paura superstiziosa della « bestia selvaggia e crudele » l'aver annientato la quale forma appunto il vanto di quelle epoche umane, che persino le verità palpabili, quasi per tacita convenzione, restano per secoli e secoli ignorate, perché si teme possano ridar la vita alla belva felicemente ammazzata. Forse é un ardimento da parte mia se mi permetto di lasciar trapelare una simile verità; possono altri rimprigionarla ed imbeverla di tanto "latte del pio pensare" (Espressione proverbiale in Germania, tolta dal Guglielmo Tell di SCHILLER ) da farla rigiacere nel suo cantuccio muta ed obliata. Bisogna inco
minciar a pensare diversamente ad aprir bene gli occhi sul conto della crudeltà; bisogna finalmente imparare l'impazienza per non tollerare più oltre che certi errori passeggino tronfi ed insolenti di virtù quali, ad esempio, ne spacciarono a proposito della tragedia i filosofi antichi e moderni. Quasi tutto ciò che noi chiamiamo « cultura superiore » si basa sulla spiritualizzazione sull'approfondimento della crudeltà - questa e la mia tesi ; la bestia selvaggia non è ammazzata, essa vive, prospera; soltanto si è - divinizzata.

La voluttà dolorosa che è l'essenza della tragedia, null'altro é che crudeltà, tutto ciò che nella cosiddetta compassione tragica, ed in fondo anche nel sublime, sino ai supremi e più delicati brividi della metafisica, desta un senso di compiacimento, ottiene la sua dolcezza unicamente dall'ingrediente della crudeltà che gli è frammisto. Tutti i godimenti che assaporavano con segreta voluttà i Romani nell'Arena, i cristiani nei rapimenti della Croce, gli Spagnoli alla vista dei roghi o delle corse dei tori, che provano i giapponesi odierni quando s'accalcano per ascoltare la tragedia, l'operaio dei sobborghi di Parigi che ha la nostalgia delle rivoluzioni sanguinose; la wagneriana che rapita in estasi, gusta sino alla fine Tristano ed Isotta non sono che i filtri magici della grande Circe che ha nome « Crudeltà » .

È necessario emanciparsi dalla sciocca psicologia di una volta, che sapeva insegnare soltanto che la crudeltà incomincia al cospetto delle sofferenze altrui; c'è tanta sovrabbondanza di godimento anche nelle sofferenze proprie, nel provocarle in sé stessi ! - Dovunque l'uomo é giunto al punto della propria mortificazione (nel senso religioso) oppure della mutilazione di se stesso come presso i Fenici e gli Asceti, o in generale della rinnegazione dei sensi, della contrizione dei crampi penitenziari dei puritani, della vivisezione della coscienza, del sacrificio dell'intelletto dei Pascal, quella che segretamente ve lo persuade e lo stimola è la sua crudeltà, é quel brivido pericoloso della crudeltà esercitata contro noi stessi.
Infine si consideri, che persino il veggente, allorquando costringe il suo spirito a conoscere contrariamente alla propria inclinazione ed ai desideri del suo cuore a dir di no, dove vorrebbe affermare, amare, adorare -- non funge che quale artista e trasfiguratore della crudeltà ; ogni approfondire le cose é per se stesso una violenza, un dolore che si arreca alla volontà fondamentale dello spirito, che incessantemente tende all'apparenza ed alla superficie - persino nella, volontà del conoscere c'è una goccia di crudeltà.

230.
Forse non si comprenderà a tutta prima, quello ch'io ho detto della « volontà fondamentale dello spirito »; mi si permetta una spiegazione. -- Quella cosa imperiosa che dal popolo si chiama « spirito » vuole essere padrona di sé ed intorno a sé, e sentirsi padrona; essa possiede la volontà di ridursi dalla molteplicità alla unità, una volontà strettamente allacciante, domante, imperiosa, insomma tirannica. I suoi bisogni e le sue facoltà sono le medesime che i fisiologi ammettono per tutto ciò che vive, cresce e si moltiplica. La forza della spirito d'appropriarsi l'estraneo, si manifesta in una potente inclinazione di assimilare il moderno all'antico, di semplificare ciò che é svariato, d'ignorare o d'eliminare le contraddizioni: nello stesso modo con cui sottolinea arbitrariamente, fa risaltare, fa falsare certi tratti caratteristici nell'estraneo, ed in ogni parte del « mondo esteriore ». Essa ha di mira l'incorporazione di nuove esperienze, l'interpolazione di cose nuove nei vecchi ordinamenti, - dunque l'accrescere; o meglio ancora, il sentimento dell'accrescimento, il sentimento della forza accresciuta. A questa stessa volontà e valido aiuto un istinto apparentemente opposto dello spirito che si manifesta con una risoluzione subitaneamente irrompente di voler l'ignoranza, con un'esclusione arbitraria, con un otturamento di tutte le proprie finestre, con un'interna negazione di una o di un'altra cosa, con un divieto di lasciar uscire con una specie di stato di difesa contro molte cose degne d'essere risapute, con una certa preferenza per l'oscurità, per gli orizzonti angusti, per l'affermazione, per l'approvazione dell'ignoranza: come ciò e infatti necessario a seconda dei grado della potenza assimilatrice dello spirito, della sua « forza digestiva » per parlare con un' imagine - ed a vero dire lo spirito ha la più grande somiglianza con uno stomaco.
Così pure appartiene a questo capitolo la volontà che lo spirito dimostra in molte occasioni di lasciarsi ingannare, forse con un
presentimento ironico che la cosa non stia proprio così, ma che si vuole sia così in un dato momento; la soddisfazione di muoversi nell'incertezza e nell'equivoco, un intimo sentimento di giubilo per la voluta ristrettezza e segretezza d'un cantuccio, per tutto ciò che è troppo vicino per il « proscenio « per tutto ciò che é ingrandito, rimpicciolito, spostato, abbellito, una soddisfazione per l'arbitrarietà di tutte codeste manifestazioni della forza. Infine qui bisogna pure tener conto di quella premura inquietante che possiede lo spirito d'ingannare altri spiriti, e di simulare dinanzi ai medesimi la pressione, la spinta perenne di una forza creatrice, plasmatrice e mobilissima; con ciò lo spirito assapora la voluttà della molteplicità della sua maschera, della sua astuzia, ed in pari tempo della sua sicurezza -- precisamente le sue arti proteiche sono quelle che meglio lo difendono e lo nascondono
Contro codesta volontà dell'apparenza, della semplificazione, della maschera, del manto, insomma del superficiale - giacche ogni superficie è un manto - reagisce l'inclinazione sublime del veggente, che prende e vuole prender le cose profondamente, in modo molteplice, radicalmente: una specie di crudeltà della coscienza e del gusto intellettuale che ogni valoroso pensatore avrà provato in sé stesso, sempre chè egli abbia, come si conviene, acuito lungamente l'occhio, e sia avvezzo ad una disciplina rigorosa, anche alle parole severe.
Egli dirà « c'è qualche cosa di crudele nell'inclinazione del mio spirito » ; - si provino i virtuosi e gli amabili a levarglielo dal capo! Di fatto sarebbe più gentile, se invece della crudeltà si potesse rimproverarci, imputarci, lodare in noi qualche cos'altro, per esempio, una « rettitudine esuberante » - a noi spiriti liberi, molto liberi: -- E questa sarà forse veramente la nostra.... gloria postuma! - Frattanto - che sino a quel giorno è lunga l'attesa - noi saremmo gli ultimi a sentirci disposti d'adornarci di cotali cianfrusaglie morali: tutto il lavoro fatto sin qui ci ha fatto prendere in uggia codesto gusto e la sua allegra opulenza. Sono parole belle, luccicanti, sonanti, festose: rettitudine, amore della verità, amore della sapienza, sacrificio per la conoscenza, eroismo della sincerità. C'è tanto da far battere il cuore dall'orgoglio!
Ma noi, eremiti e marmotte, ci siamo convinti nella segretezza della nostra coscienza d'eremiti, che anche codesta pomposità di parole appartiene all'antico apparato di menzogne dell'incosciente vanità umana e che anche sotto tali colori lusinghieri il terribile testo fondamentale « homo natura » deve far sempre capolino. Ritradurre l'uomo nella natura, rendersi padroni delle molte interpretazioni vane e sentimentali e dei sensi riposti, di cui sinora fu coperto come d'uno strato di sgorghi e di colori l'eterno testo fondamentale « homo natura », render possibile che d'ora innanzi l'uomo stia dinanzi all'uomo come già sta oggi, indurito nella disciplina della scienza, dinanzi all'altra natura, con occhi imperterriti da Edipo, con le orecchie turate di Ulisse, sordo alle lusinghe di tutti gli uccellatori metafisici, che non cessano dal cantargli: «tu sei di più! tu sei più alto! tu sei d'altra origine! ecco il nostro compito ! - Sarà un compito strano e folle, ma é sempre un compito - chi vorrebbe negarlo? Perché noi l'abbiamo prescelto, codesto compito folle? Oppure, modificando l'interrogazione: « Perché mai ambite la conoscenza ad ogni costo? » ci si domanderà. E noi, messi così alle strette, noi che ci siamo proposti le migliaia di volte la stessa domanda, non trovammo e non troviamo una risposta migliore.

231.
Lo studio ci trasforma al pari dell'alimentazione, la quale non ci conserva unicamente in vita -- come il fisiologo vi insegna. Ma in fondo a noi stessi, proprio in fondo, c'è sicuramente qualche cosa che non si può insegnare, un fato spirituale granitico, con risoluzione e risposte anticipatamente determinate di fronte a certe questioni anticipatamente prescelte.
In ogni problema fondamentale parla un immutabile « questo sono io »; in merito all'uomo ed alla donna per esempio, un pensatore non può mutar il corso delle sue idee, ma unicamente studiarle a fondo, - scoprire cioè le ultime conseguenze di ciò che in lui e di già prestabilito. Si scoprono per tempo talune soluzioni di problemi, nelle quali precisamente noi crediamo fortemente: forse le chiamiamo senz'altro le nostre convinzioni. Più tardi - nelle medesime non vediamo che delle orme che conducono alla conoscenza di se stessi, pietre miliari sulla via della soluzione del problema che siamo noi - o più esattamente
ancora della grande sciocchezza che noi siamo, dei nostro fato spirituale, di ciò che in « fondo » a noi non si può insegnare.
Grazie a questo complimento che ho fatto anche a me stesso, forse mi si permetterà d'esprimere alcune verità sul conto della donna in sè: tanto più che ormai è noto, che codeste verità non sono che le mie verità.

232.
La donna vuole rendersi indipendente: e tanto per incominciare vuole illuminare gli uomini sull'essere della « donna in se » ; questo è uno dei più odiosi progressi dell'abbrutimento generale dell'Europa. Imperocchè quali brutte cose porteranno alla luce codesti esperimenti goffi della scienza della donna, che vuol metter a nudo se stessa ! La donna ha tanti motivi d'esser pudica: nella donna c'è tanta pedanteria, tanta superficialità, tanta sovrabbondanza di cose apprese alla scuola, di cose piccinamente presuntuose, sfrenate ed immodeste - si studino solamente i rapporti della donna coi bambini! tante cose che sinora non conobbero con altro ritegno che quello ispirato dalla paura dell'uomo. Guai se l'eterno noioso nella donna - che ne è ben provvista -- dovesse farsi largo; se la donna dovesse incominciar a disimparare radicalmente la sua giudiziosità e le sue arti, che sono quelle della grazia, del diletto, del dissipare le cure, del render la vita più facile, d'insegnare a prenderla con leggerezza: se infine dovesse disimparare la sua fine capacità di destare passioni aggradevoli !
Si ode già adesso un clamore di voci femminine che, per sant'Aristofane ! mette paura, s'odono delle minacce d'una precisione medica sul conto di ciò che la donna in primo ed in ultimo luogo esige dall'uomo. Non è forse indizio d'un pessimo gusto se la donna in tal modo s'accinge a diventar scientifica? Sinora la Dio mercé lo spiegare era affare degli uomini; dote degli uomini -- e restava in tal modo « tra di loro ». Del resto, considerando tutto ciò che le donne scrivono sul conto della « donna », é lecito dubitare che la donna voglia proprio spiegarsi sul proprio conto, - o che possa volerlo. O se piuttosto con ciò la donna non vada in cerca d'un nuovo adornamento - mi pare che l'adornarsi faccia parte integrante dell' « eterno femminino ». In tal caso essa vuol ispirar paura di se stessa: - e con ciò forse conquistare il potere. Ma non vuole la verità: che importa mai della verità alla donna! Nessuna cosa da quando mondo è mondo, alla donna è stata più estranea, più antipatica: più avversa della verità; la sua grande arte consiste nella menzogna ciò che maggiormente la preoccupa è l'apparenza, è la bellezza. Confessiamolo noi uomini: noi amiamo precisamente codesta arte, codesto istinto nella donna, noi che siamo pesanti, e per nostra ricreazione ci accompagniamo volentieri a degli esseri, sotto le cui dita, sotto i cui sguardi, tra le cui tenere follie la nostra serietà, la nostra gravità la nostra profondità assumono l'aspetto d'una grande sciocchezza.

Infine, domando io: c'è stata mai una donna che abbia concesso profondità ad una testa femminina, giustizia ad un cuore di donna?
E non è forse vero, che, in tesi generale, chi ha dimostrato più disistima per la donna, sono state sempre le donne stesse? - Non certo noi uomini, - Noi uomini desideriamo che la donna non continui a compromettersi mediante i lumi del progresso; allo stesso modo che si deve alla previdenza ed al compatimento dell'uomo, se la Chiesa decretò: mulier taceat in ecclesia! Si fu a tutto vantaggio della donna che Napoleone fece intendere alla troppo loquace madama De Staël: « mulier taceat in politicis! » - ed io ritengo che sia un vero amico delle donne, colui che oggi consiglia loro: mulier taceat de muliere.

233.
È un indizio di corruzione degli istinti - senza parlare della corruzione del gusto - se la donna si richiama proprio a madama Roland o alla signora De Staël, oppure al signor Giorgio Sand, come se con ciò potesse provare qualche cosa in favore della donna. Per noi uomini le suddette sono le tre donne comiche per eccellenza -- niente di più! - e ci forniscono precisamente i migliori, perchè involontari, argomenti contraddittorii contro l'emancipazione e l'autonomia della donna.

234.
La stupidità nella cucina; la donna cuoca, l'orribile spensieratezza che presiede all'alimentazione della famiglia e del padrone di casa!
La donna non comprende che cosa significhi l'alimentazione e vuol esser cuoca ! Se la donna fosse una creatura pensante essa avrebbe scoperto « nella sua qualità di cuoca » sin da migliaia d'anni i più grandi fenomeni fisiologici ed avrebbe dovuto esser capace di tirare a sè il monopolio della medicina! Per colpa delle pessime cuoche - per la mancanza assoluta di ragionevolezza nella cucina, lo sviluppo dell'uomo e stato principalmente impedito e danneggiato più che per qualsiasi altra causa, ed anche oggi abbiamo migliorato ben poco in tale riguardo. Questo sermone è diretto alle scolare dei corsi superiori.

235.
Vi sono delle perifrasi e dei getti di spirito, delle sentenze, dei piccoli gruppi di parole, nei quali si cristallizza improvvisamente tutta una civiltà, un'intera società. Servano d'appoggio al mio asserto le parole della signora De Lambert a suo figlio « Mon ami, ne vous permettez jamais que des folies, qui vous fas sent grand plaisir » -- sia detto tra noi, le più materne e più assennate parole, che un figlio abbia mai intese.

236.
Ciò che Dante e Goethe hanno creduto a proposito della donna - quegli, quando cantò "ella guardava suso ed io in lei", questi, allorché tradusse liberamente quel verso con l'« eterno femminino che ci innalza » -, non dubito che ogni donna non volgare si guarderà bene dall'approvare, imperocchè essa crede la medesima cosa dell'eterno mascolino.

237.
Sette piccoli proverbi femminili.

La più pesante noia sen fugge, appena un uomo si getta ai nostri piedi.

L'età, ahimè ! ed anche la scienza danno forza alla debol virtù.

Veste nera e discrezione fanno apparire assennata ogni donna.

A chi devo essere riconoscente della mia felicità? A Dio ed - alla mia sarta.

Da giovane; un antro, mascherato di fiori; da vecchia: una vipera n'esce fuori.

Nome sonante, gambe ben fatte, e uomo per giunta; oh se potesse esser mio!
In poche parole, molto senso - qui mi casca l'asina.

237. bis.
Le donne sinora furono trattate dagli uomini come altrettanti uccellini che da qualche albero si fossero smarriti in loro vicinanza: come qualche cosa di molto delicato di facile a guastarsi, di selvaggio, di stravagante, di dolce, di incantevole - ma anche come qualche cosa che bisogna rinchiudere perché non prenda il volo.

238.
L'intricarsi nel problemi fondamentale « uomo e donna », col negare l'abisso dell'antagonismo, la necessità di una tensione perennemente nemici tra i due sessi, col sognare forse eguali diritti, eguale educazione, eguali aspirazioni e doveri, è l'inizio tipico di una mente superficiale, ed un pensatore che si è dimostrato superficiale a proposito di questo scoglio pericoloso - superficiale nell'istinto! - può, a buon diritto essere sospettato, anzi ritenuto d'essersi rivelato, tradito: probabilmente in tutte le questioni fondamentali della vita, anche della vita futura, egli vedrà sempre corto e le profondità non gli saranno accessibili. Per contro un uomo profondo nello spirito ed anche nei suoi appetiti, quand'anche possieda quella profondità della benevolenza che spesso facilmente si scambia col rigore e con la severità, penserà li donna sempre il modo degli orientali! - egli dovrà concepirla quale una sua proprietà che egli ha diritto di tener sotto chiave; come qualche cosa di predestinato a servire, e che nel servire raggiunge la propria perfezione, - appoggiandosi in ciò all'immensa ragionevolezza asiatica, alla superiorità degli istinti asiatici, come già fecero i Greci, i migliori discepoli ed eredi dell'Asia, i quali, com'è noto, dai tempi d'Omero i quelli di Pericle, hanno fatto camminare di pari passo, col progresso della cultura e l'accrescimento in vigore il rigore verso la donna, vale a dire s'orientalizzarono sempre più. E ciò fu necessario, logico, umanamente desiderabile: si mediti sull'argomento, che ne vale la pena.

239.
Il sesso debole in nessuna epoca fu trattalo con tanti riguardi dall'uomo come nella nostra ciò forma parte dell'inclinazione e del gusto fondamentale democratico, come pure la mancanza di rispetto all'età : quale meraviglia se di tali riguardi abbiamo tosto abusato? Mi si esige di più, si apprende ad esigere, si finisce col ravvisare un'offesa in ogni tributo di stima, perché si preferirebbe la concorrenza, anzi la lotta per i diritti : in breve, li donna vi perdendo il suo pudore.
Soggiungiamo subito che vi perdendo anche di gusto. Essi disimpara i temere l'uomo, ma la donna che « non sa più temere » rinunzia ai suoi istinti più essenzialmente femminili. Che la donna ardisca farsi avanti, quando si trascura tutto quello che nell'uomo ispira timore anzi, diciamolo più chiaramente, quando in tutti i modi si impedisce all'uomo d'essere uomo, ciò é ancora comprensibile e compatibile: quello che e più difficile i comprendersi si è che appunto per ciò la donna... degenera. E questo avviene oggi; non illudiamoci in proposito ! Dovunque lo spirito industriale ha ottenuto il sopravvento sullo spirito militare ed aristocratico, la donna tende ad acquistare l'indipendenza economica e legale di un commesso; la donna commesso sta sulla soglia della nuova società che sta formandosi. Mentre essa in tal modo prende possesso di nuovi diritti, tende i diventare « padrona » e scrive sulle sue bandiere l'emancipazione della donna, avviene con terribile precisione appunto il contrario: la donna va indietro.

Dalla rivoluzione francese in poi l'influenza della donna è scemata, di tanto, di quanto le sue pretese aumentarono; e l'emancipazione della donna, in quanto è voluta e favorita dalle stesse donne (e non di zucche vuote mascoline), si riveli come un sintomo curioso del progrediente indebolimento ed ottundimento degli istinti essenzialmente femminini.
C'è della stupidità in un tal movimento, una stupidità quasi mascolina, di cui una donna ammodo - la quale è sempre anche uni donna di senno - dovrebbe intimamente vergognarsi. Perdere la conoscenza del terreno sul quale deve necessariamente irriderle la vittoria, trascurare l'esercizio delle armi che alla donna son proprie, incanagliirsi dinanzi all'uomo per arrivare « sino al libro », mentre prima si cercava l'educazione severa e l'umiltà finalmente scaltra: tentar di demolire la credenza dell'uomo in un ideale fondamentalmente diverso dal suo, che si cela nella donna, la cui fede nell'eterno femminino: tentar di dissuadere all'uomo che la donna sia una specie d'animale domestico, più delicato, stranamente selvaggio e talvolta gradevole, il quale chiede di essere mantenuto protetto, compatito; accumulare tendenziosamente tutti i titoli di schiavitù, ai quali nell'ordinamento sociale sin qui vigente la donna era sottoposti e lo é ancora (come la schiavitù fosse un argomento
contraddittorio e non piuttosto una condizione necessaria di ogni coltura più elevata, di ogni elevazione nella cultura); - che cosa significa tutto ciò sennonché un rovinare degli istinti femminini, uno sfemminamento? È ben vero che vi sono molti amici e corruttori imbecilli della donna tra gli asini dotti del genere mascolino, i quali suggeriscono alla donna, di sfemminarsi e di imitare tutte le sciocchezze, che in Europa hanno ammorbato l'uomo, la virilità europea, - i quali vorrebbero far discendere la donna al livello della coltura generale, alla lettura delle gazzette ed alla politica! In certi casi si vuol farne degli spiriti liberi, dei letterati: come se una donna irreligiosa per l'uomo profondo ed ateo non rappresentasse qualche cosa di ripugnante o di ridicolo ; quasi dappertutto si corrompono i loro nervi con la musica la più morbosa e la più pericolosa di quante mai ve ne furono (con la nostra musica tedesca modernissima) e si rendono ogni giorno più isteriche e meno adatte alla loro prima ed ultima missione, che é quella di metter al mondo dei figliuoli sani.

In generale, si vuole " incivilirle" maggiormente, o adoperando le loro parole, render forte il sesso debole mercè la coltura, come se non ci fosse la storia ad insegnarci che civiltà ed indebolimento vale a dire indebolimento, disorganamento, ammorbamento della forza della volontà andarono sempre di pari passo e che le donne le più potenti ed influenti del mondo (ultima la madre di Napoleone) dovevano la loro possanza e la loro influenza sugli uomini precisamente alla forza della propria volontà - e non già ai maestri di scuola!

Quello che nella donna c'ispira rispetto e non di rado anche timore, é la di lei natura, che é molto più naturale di quella dell'uomo, la di lei mobilità, l'agilità da vera bestia selvaggia, l'unghia della tigre che nasconde sotto il guanto profumato; il suo egoismo ingenuo, la sua inettezza ad essere educata, il suo essere intimamente selvaggio, l'inconcepibile, la sconfinata mobilità delle sue passioni e delle sue virtù.... Quello che ci ispira della pietà per codesto bel gatto pericoloso che chiamiamo « donna », si è che essa é più soggetta a soffrire, che é più sensibile, più assetata d'amore e condannata alle disillusioni di qualsiasi altro animale.
Timore e pietà, ecco i sentimenti che l'uomo sinora provava dinanzi alla donna, sempre con un piede nella tragedia, la quale dilania mentre entusiasma. - Eh?
Ed ora tutto ciò dovrebbe esser finito ? E si studia di rompere l'incanto della donna? E si sta per formarne a poco a poco il più noioso degli esseri? Oh Europa! Europa!
Conosciamo molto bene l'animale cornuto, che tu hai preferito a tutti gli altri, ed il quale minaccia ancora di riuscirti pericoloso!
La vecchia favola potrebbe ancora diventare « storia » - ancor una volta una smisurata imbecillità potrebbe impossessarsi di te e trascinarti seco! Colla differenza che quella imbecillità non servirebbe di maschera ad un Dio, ma soltanto ad un' « idea > , ed un' « idea moderna ! !

segue:

CAPITOLO OTTAVO
Popoli e patrie > >

ALL'INDICE DELL'OPERA

H.P. STORIOLOGIA