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anni 1 - 222
222 - 336
336 - 432
432 - 530
530 - 606
607 - 640
640 -752
752-816
816-882
882-928
928-999
999-1048
1048-1119
1119-1292
1294-1455
1455-1691
1691-1831
1831- 2005

ANNI DAL 1691 al 1831


La Curia Innocenziana ( Monte Citorio )

INNOCENZO XII, Antonio Pignattelli, di Spinazzola (Bari)
(1615-1700) - (Pontificato 1691-1700)
ANTONIO PIGNATELLI del Rastrello (anche se il cognome sulla sua tomba a san Pietro è riportato con due 't') nacque nel castello di Spinazzola (Bari) il 13 marzo 1615 da Francesco, marchese di Spinazzola e da Porzia Carafa, principessa di Minervino, figlia di Fabrizio Carafa duca d'Andria. Il luogo natale di papa Pignatelli è stato oggetto di disputa e di contestazione, ma il prof. Luigi Ferrara Mirenzi, attraverso rigorose ricerche bibliografiche e archivistiche, ne ha confermato i natali nel piccolo centro ai confini con la Basilicata.
Antonio studiò presso il Collegio Romano ed entrò nella Curia Vaticana grazie a Urbano VIII. Presto si meritò prestigiosi incarichi ecclesiastici riscuotendo ovunque ammirazione e stima per le sue qualità spirituali. Fu Vicelegato di Urbino e poi Governatore di Perugia. Ma fu l'incarico di Inquisitore nell'isola di Malta nel 1646 che gli spianò la strada per la carriera diplomatica.
Nel 1648, a soli trentun'anni, fu nominato Governatore di Viterbo. Nel 1652 fu Nunzio Apostolico a Firenze, nel 1660 in Polonia e, infine, nel 1668, nella più prestigiosa sede di Vienna.
Nel 1671 ebba la guida dell'Arcidiocesi di Lecce che dovette lasciare due anni dopo per ricoprire l'incarico di segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, incarico che poco si confaceva al suo carattere spirituale. Il 1° settembre 1681 fu nominato Cardinale, nel 1682 Arcivescovo di Faenza e Legato di Bologna, e quindi, nel 1687, Arcivescovo di Napoli.

Il conclave apertosi alla morte (1° febbraio 1691) di papa Alessandro VIII durò cinque mesi poichè si cercava un papa disinteressato, che non fosse nepotista e che seguisse le orme di Innocenzo IX e Innocenzo XI; fu interrotto anche per via di un incendio. Il 12 luglio il cardinale Pignatelli veniva eletto assumendo il nome di INNOCENZO XII, anche in memoria del suo predecessore che assunse come modello.

Fu uomo di forte tempra, ma dal carattere generoso e caritatevole che lo rese amabile al popolo. Pasquino lo chiamò "Pulcinella" per il suo legame con la città partenopea e per il naso lungo e la barbetta. Innocenzo XII fu anche l'ultimo papa con la barba, infatti dopo di lui s'instaurò l'abitudine alle facce rasate.
Una volta eletto papa, la prima cosa che fece fu prendere posizione contro il nepotismo, spina che addolorava la Chiesa ormai da tempo. Infatti il suo predecessore aveva trovato e lasciato le finanze dello Stato assottigliate dai favoritismi finanziari dei pontefici; tutti sentivano il bisogno di un papa che estirpasse finalmente questa mala pianta.
Nel 1691, quindi, Innocenzo dispose che si facessero ricerche precise sul peso e sull'incidenza del nepotismo nell'economia dello Stato. Dopo aver interpellato principi e teologi, nel giugno del 1692, dopo averla fatta sottoscrivere da tutti i cardinali, Innocenzo XII pubblicò la bolla "Romanum decet Pontificem" con la quale si faceva divieto assoluto ai pontefici di conferire terreni, cariche o rendite ai propri parenti, mentre i benefici degli ecclesiastici, compresi quelli imparentati con il pontefice, non dovevano superare i 12.000 scudi di rendita annua. Lo stesso Innocenzo XII si impegnò a mantenere fede alla bolla emanata: nessun Pignatelli, infatti, entrò in Vaticano; negò perfino la porpora all'arcivescovo di Taranto solo perché era suo nipote.

Il lodevole gesto del papa, purtroppo non fu seguito da tutti gli ecclesiastici... Ma Innocenzo non si fermò nella sua opera di rinnovamento: ridusse le spese di corte sopprimendo molte cariche inutili: Governatore delle Galere, Gonfaloniere e molte altre, tutte gratificate da principesche e laute prebende. Nel 1694 creò una Congregazione per la disciplina e la riforma degli Ordini regolari con l'intento di riformare lo spirito e lo zelo religioso degli ecclesiastici, convinto che gli uomini di Chiesa dovessero essere modelli per tutti i cristiani. Prescrisse ai sacerdoti di portare la vaste talare e di praticare gli esercizi spirituali due volte all'anno; norme che incontrarono molta resistenza da parte dei prelati.
Dietro pressanti richieste intervenne anche nelle grandi questioni teologiche del secolo: giansenismo e quietismo. In particolar modo la dottrina quietista, suscitata dal teologo francese Fr. FÉNELON (1651-1715), precettore della Corte di Francia, e controbattuta da Bossuet, massimo oratore francese e anima di tutto il movimento intellettuale del secolo, fu condannato con il breve "Cum alias" del 1699. Tale condanna riguardava 23 proposizioni che inquisivano il "puro amore" e l'orazione passiva, tratte dall'"Explication des maximes des Saints sur la vie intérieure" che il Fénelon aveva pubblicato nel 1697; allo stesso tempo però, papa Innocenzo si rifiutò di censurare il lavoro del cardinale Celestino Sfondrati (1644-1696) accusato, da Bossuet, di quietismo.

Durante il suo pontificato prestò viva attenzione alle missioni, che aiutò con larghezza di mezzi finanziari, dando incremento all'evangelizzazione delle Americhe, dell'Asia e dell'Africa.
Dimostrò autentico e profondo amore per i poveri, chiamandoli "miei nepoti", e destinò il palazzo del Laterano, che non era più abitato dai papi, a ospizio per donne inabili al lavoro, mentre gli uomini trovarono accoglienza all'ospizio di San Michele a Ripa Grande (dove edificò anche una dogana marittima), da lui fatto costruire e che resta una delle maggiori opere caritative di Roma. Ciò gli valse l'appellativo di "papa dei poveri": la sua popolarità era tale che un giorno, mentre tornava da Civitavecchia, uno stuolo di povera gente gli andò incontro e lo costrinse a scendere dalla carrozza per trasportarlo a braccia verso Roma. Si prodigò moltissimo, ricorrendo anche al Tesoro Pontificio per portare soccorsi, anche nell'affrontare la peste e il terremoto che nei suoi anni afflissero Roma.

L'opera architettonica più prestigiosa che fece portare a termine, dopo 30 anni di interruzione di lavori per mancanza di fondi, fu il palazzo di Montecitorio, già palazzo Ludovisi. L'intento era quello di destinare il palazzo a ospizio per i poveri, ma in seguito decise di installarvi la Curia apostolica. Diede l'incarico di continuare i lavori (dato che il Bernini, iniziatore del progetto per conto di papa Innocenzo X, era morto) ad un nuovo architetto, l'ingegnoso mastro comacino CARLO FONTANA (1634-1714). Questi modificò profondamente il progetto berniniano, conservando la caratteristica facciata convessa e aggiungendovi l'arioso campanile a vela. Fontana dovette invece rinunciare, per volontà del pontefice (ancora la mancanza di fondi!), a creare un'unica grande piazza al posto delle attuali piazza Colonna e piazza Montecitorio. La Curia innocenziana fu inaugurata nel 1696 dando acqua alla grande fontana collocata in fondo al grande cortile semicircolare.

Oltre che dei tribunali, il palazzo fu poi anche sede del Governatorato di Roma e della direzione di polizia, divenendo così il centro della vita amministrativa e giudiziaria del governo pontificio. I balconi centrali del palazzo vennero anche successivamente utilizzati (non da papa Innocenzo che lo proibì nel 1696) per strillare i numeri estratti al lotto.

Fece restaurare il porto di Anzio e fornì Civitavecchia di acqua potabile. Nel 1698 fece recingere la fontana del Gianicolo (detta Fontanone) con l'attuale balaustra di colonnine, unite con sbarre di ferro, per evitare che i carrettieri vi abbeverassero i cavalli. Molto criticata fu la demolizione nel 1691 del teatro di Tor di Nona che era stato da poco ampliato con grande spesa. Inoltre fece tracciare una via di collegamento tra due importanti arterie del traffico romano, l'Appia Antica e l'Appia Nuova: nacque l'Appia Pignatelli.

In politica si dimostrò abile, fermo e calcolatore: sotto il suo pontificato si chiuse in modo conciliativo la questione delle libertà gallicane della Chiesa francese. Infatti gli strascichi della controversia, uniti alla forte crisi economica per i costi di guerra e a due tremende carestie, stavano stremando la Francia sotto gli occhi di re Luigi XIV. Questi aveva allora promesso a papa Innocenzo la sospensione dell'editto di esecuzione della dichiarazione gallicana del 1682 - gli articoli gallicani però non furono mai revocati - e permise ai vescovi nominati di procurarsi la conferma papale (1691). Nel 1693 i 16 vescovi che avevano partecipato all'assemblea del 1682, tuttavia, ottennero la conferma solo dopo aver espresso uno per uno per iscritto al papa, il loro pentimento per quanto era accaduto. Dovette, però cedere alla richiesta del re di conservare ed estendere il diritto di regalia; ma almeno, così facendo, aveva evitato uno scisma e riconquistato al cattolicesimo una nazione. La politica ecclesiastica gallicana continuò, con alti e bassi, a percorrere le vicende dei rapporti tra Francia e Chiesa fino alla Rivoluzione, poi i contrasti furono superati con il Concordato napoleonico del 1801. Ma sulla falsariga del gallicanesimo francese, durante questo periodo, piuttosto tormentato per l'Inghilterra, si modellò la Chiesa Anglicana.

Nel 1696 Innocenzo XII si rifiutò di ricevere l'ambasciatore dell'imperatore d'Austria, Giorgio Adamo di Martinitz, che durante la processione del Corpus Domini dello stesso anno aveva sollevato disordini; fatto che portò alla rottura dei rapporti tra Roma e Vienna.
Inoltre incoraggiò Carlo II, ultimo sovrano asburgico di Spagna a testare in favore di Filippo d'Angiò, futuro Filippo V, nipote di Luigi XIV.

Ultimo suo atto fu indire il XVI Giubileo con la bolla "Regi saeculorum" del 18 maggio 1699, nell'illusione che sull'Europa regnasse la pace e che le grandi potenze si ritrovassero unite davanti alla Porta Santa. Purtroppo il papa era malato di podagra (malattia reumatica) e non poté aprire di persona la Porta di San Pietro, né vedere conclusi i festeggiamenti; inviò lettere d'invito all'imperatore Leopoldo I d'Asburgo e ad altri principi cattolici e finché ebbe la forza, impartì benedizioni solenni dal balcone del Quirinale, celebrò funzioni e diede udienza.

All'apertura della Porta Santa del Natale del 1699, il palco d'onore spettò all'ex regina di Polonia, vedova di Giovanni Sobieski; era presente anche l'ultimo duca di Firenze, Cosimo III. In occasione del Giubileo, Innocenzo XII fece costruire nel palazzo Giraud-Torlonia un ospizio per i sacerdoti poveri, specie quelli cacciati dall'Irlanda.
La notte tra il 27 e il 28 settembre 1700 Innocenzo XII si spense, in concetto di santità; quella stessa notte, il Tevere straripava rendendo inagibile la Basilica di San Paolo fuori le mura, meta giubilare.

Fu sepolto in Vaticano, in un modesto sarcofago. Un anno dopo la sua morte, a Montecitorio, gli fu dedicata una statua (che oggi non esiste più perchè distrutta, in seguito, dai francesi). Successivamente, anche Benedetto XIV gli fece erigere un monumento.
a succedergli fu CLEMENTE XI ....


CLEMENTE XI, Gian Francesco Albani, di Urbino

(1649-1721) - (Pontificato 1700-1721)
GIANFRANCESCO (o Giovanni Francesco, secondo alcuni) nacque dalla famiglia ALBANI, nobili di Urbino, il 23 luglio 1649. A 19 anni si trasferì a Roma per formarsi al Collegio Romano; qui ebbe anche modo di frequentare, introdottovi dal cardinale marchigiano Decio Azzolini, l'illustre salotto della regina Cristina di Svezia, dove si incontravano letterati, poeti, pittori (quali Carlo Maratti e Giuseppe Ghezzi), musicisti (come Corelli, Scarlatti e Pasquini) ed anche prelati come Giulio Rospigliosi (poi papa Clemente IX). Fu autore egli stesso di testi teatrali; celebre la sua apprezzatissima prolusione, del 1687, su Giacomo II Stuart, paragonato nella sua difesa del cristianesimo a Costantino. Alla morte di Cristina (1689) i letterati Gravina e Crescimbeni diedero vita, in nome dell'illustre defunta, all'Accademia dell'Arcadia. E l'Albani, all'interno della nuova Accademia, prese, nel 1695, il nome di Arete Melleo.

Successivamente fu governatore di Rieti, della Sabina e di Orvieto e nel 1687 fu nominato segretario dei Brevi. Fu creato cardinale (dell'Ordine dei Diaconi) da Alessandro VIII nel 1690. Alla morte di Innocenzo XII si aprì un conclave che durò circa due mesi, durante il quale arrivò la notizia della morte di Carlo II di Spagna. I voti caddero proprio sul cardinale Albani, per impedire lo scoppio della guerra e governare la Chiesa nel difficile momento che stava attraversando; fu eletto papa il 23 novembre 1700 assumendo il nome di CLEMENTE XI. Qualche giorno dopo veniva ordinato vescovo.

Il primo atto del novello pontefice fu chiudere la Porta Santa, aperta in occasione del XVI Giubileo indetto dal suo predecessore, la vigilia di Natale del 1700; questa fu la prima volta che la Porta Santa fu aperta da un Papa e chiusa da un altro. La lunga malattia di Innocenzo XII e la vacanza della sede papale protrattasi per circa due mesi, avevano rallentato il flusso dei pellegrini; in più, pochi giorni dopo l'elezione, un violento straripamento del Tevere aveva inondato mezza Roma, creando parecchi inconvenienti agli abitanti della città e allo svolgimento delle cerimonie del Giubileo. La basilica di San Paolo, circondata dall'acqua, venne dichiarata impraticabile e quindi sostituita, come era già successo nel 1625, con quella di Santa Maria in Trastevere, che era all'asciutto.

Clemente XI si diede rapidamente da fare per recuperare il ritardo accumulato: impegnato nella visita di chiese ed ospizi, in benedizioni ed udienze, accoglienza dei pellegrini e nelle più varie cerimonie, protrasse il giubileo fino al 25 febbraio 1701, per venire incontro a quanti si erano messi in viaggio verso Roma solo dopo la notizia dell'avvento del nuovo Papa. Una delle più illustri pellegrine di questo Giubileo fu l'ex regina di Polonia Maria Casimira, vedova di quel Giovanni Sobieski che nel 1683 aveva liberato Vienna dall'assedio dei Turchi, infliggendo un colpo decisivo alla loro avanzata verso Occidente e guadagnandosi la fama di liberatore dell'Europa. Maria Casimira era stata accolta a Roma con tutti gli onori, e in verità ella si comportò in modo degno di una pellegrina del suo rango. Non così i suoi figli, i quali anziché visitare le chiese e assistere i poveri preferirono darsi a bagordi di ogni genere, suscitando non poco scandalo. Anche se uno di loro, Alessandro, alla fine si pentì e divenne frate cappuccino.

Nei 21 anni di pontificato papa Albani non dimenticò il suo passato di cultore di tutte le arti, anzi le considerò sempre un utilissimo strumento di propaganda. Egli visse in un'epoca che da un lato conserva tutto il gusto per la retorica del bello e della ricchezza che fu propria del Barocco, coniugato, dall'altro, con l'amore per le novità e l'attenzione per la medicina, la ricerca e l'archeologia che saranno tipici del secolo dei lumi.
A condividere i suoi interessi c'erano, tra i tanti, in primo luogo i suoi nipoti Alessandro ed Annibale, quest'ultimo collezionista ed intenditore di antichità e letterato. Sarà in seguito Alessandro, all'epoca ancora molto giovane, a proseguire nell'interesse per l'archeologia che in lui divenne prioritario tanto da farne il maggior cultore dell'arte antica, amico del Winkelmann e committente della Villa Albani sulla Salaria.
L'Albani aveva un vivo interesse anche per le scienze. Fu all'epoca del suo pontificato, infatti, che operò Giovanni Maria Lancisi, il celebre medico attivo all'ospedale Santo Spirito in Sassia, nominato medico papale.
Inoltre arricchì la Biblioteca Vaticana, acquistò la biblioteca di Cassiano del Pozzo, istituì un'accademia di pittura in Campidoglio. Restaurò e abbellì le principali principali basiliche romane; interventi (soprattutto porticati e decorazioni pittoriche) nelle chiese di San Teodoro, Santa Maria in Trastevere, San Crisogono, San Clemente (ad opera del Conca, del Chiari e del Ghezzi) e nel Pantheon. L'architetto più attivo fu Carlo Fontana, ma sono i pittori Carlo Maratti e, in seguito, Francesco Trevisani, gli interpreti più sensibili della devozione del papa.
Nel 1717 Clemente XI decise di far ripulire e sistemare la piazza davanti alla basilica di Santa Maria in Cosmedin, affidando il compito all'architetto Carlo Bizzaccheri di edificarvi una fontana. Il Bizzaccheri progettò una fontana a vasca ottagonale, con i lati concavi, che forma una stella a otto punte: si ispirò allo stemma papale. Affidò agli scultori Filippo Bai e Francesco Moratti la creazione del gruppo in travertino che si erge al centro della vasca: due tritoni con le code intrecciate sorretti da scogli.
Rinforzò le mura di Roma, costruì il Porto di Ripetta e il complesso del San Michele. In questo complesso, a Trastevere, già edificato in gran parte sotto il pontificato di Innocenzo XII, Clemente XI stabilì che dovesse essere istituita una Casa di correzione, in cui ospitare i giovani rei, allo scopo di ottenere la loro riabilitazione morale e un loro avviamento al lavoro. Ma non solo: con gli ampliamenti effettuati dal Fontana nel complesso venne costruito anche un corpo dedicato agli uomini anziani abbandonati, un altro alle donne anziane, e un altro alle zitelle senza famiglia. Il carcere minorile ha avuto sede qui fino al 1972.

Completò l'acquedotto di Civitavecchia, realizzò un viadotto a Civitacastellana e aprì a Bologna l'Accademia Clementina. La sua terra natale gli restò comunque nel cuore: Urbino godeva, infatti, di particolari privilegi; i maligni affermano che "quel che fu negato ai parenti Clemente lo diede alla città natia".
Diede, nel 1702, un unico riferimento cronologico ufficiale a tutti gli orologi della città di Roma, quando proprio agli inizi del nuovo secolo, commissionò a Francesco Bianchini la costruzione di un'importante e complicata meridiana. La chiesa di Santa Maria degli Angeli, che sorge sul sito delle grandiose terme fatte costruire dall'imperatore Diocleziano fra il 298 e il 306 d.C., fu scelta come sede appropriata per la meridiana perché la costruzione era solida e stabile; l'assenza di vibrazioni, infatti, avrebbe evitato lo spostamento delle tacche sul pavimento.

La meridiana consiste in un grosso stemma di papa Clemente XI, appeso alla parete di fondo del transetto destro, ad un'altezza di circa 20 metri, con un foro nella parte inferiore: a mezzogiorno un raggio di luce passa per il foro, raggiungendo un preciso sistema di linee e di tacche sul pavimento. La linea principale (detta "Linea Clementina") indica il punto dove giunge ogni giorno dell'anno il raggio di luce; attraverso calcoli matematici è anche possibile stabilire la data. Altre linee mostrano il Terminus Pascae (i limiti fissati per la data annuale del giorno di Pasqua: la prima domenica dopo il plenilunio che segue l'equinozio di primavera), e altre tacche e linee minori segnalano la posizione dell'Orsa Maggiore e altre osservazioni astronomiche.
La meridiana di Clemente XI funzionò da riferimento cronologico ufficiale di Roma per circa un secolo e mezzo. Dal 1846 in poi i rintocchi di mezzogiorno furono segnati con colpi di cannone sul Gianicolo.

Nella bolla "In coena Domini" del mercoledì santo del 1715 condannò molti errori del tempo, richiamando severamente all'obbedienza al Papa. Nel 1717 fece pubblicare "Ex illa Die", la bolla che nel tremendo conflitto tra gesuiti e domenicani per la questione dei riti cinesi (papa Clemente aveva seguito le indicazioni dei frati Predicatori), vietava ai milioni di cinesi convertiti di praticare i loro riti tradizionali. La risposta dell'imperatore cinese a questa decisione, priva di ogni minima conoscenza del sitz im lieben, fu di espellere tutti i missionari, distruggere tutte le chiese e costringere tutti i convertiti (milioni) a rinunciare alla loro fede cattolica.

Maggiori difficolà si ebbero, però, con il Giansenismo. Nell'estate del 1701 fu sollevato il cosiddetto caso di coscienza. Quaranta dottori della Sorbona dichiararono che l'adesione al sistema del silenzio ossequioso non costituiva un impedimento per l'assoluzione in confessione. Parecchi vescovi francesi, fra i quali Jacques B. BOSSUET (1627-1704; uno dei massimi spiriti e teologi del suo secolo, nonchè noto difensore del cattolicesimo) e il papa respinsero tale dichiarazione nel 1703.
Per desiderio di Luigi XIV il papa emanò la bolla "Vineam Domini" del 15 luglio 1705, in cui il silenzioso ossequio era dichiarato insufficiente e la condanna delle 5 proposizioni riflettenti la dottrina di Giansenio veniva prescritta come necessaria da farsi "con la bocca e col cuore". Ma la bolla non ottenne l'effetto desiderato. Nell'assemblea generale del 1705, il clero, di sentimenti gallicani dichiarò di accettarla, ma insieme espresse la convinzione che i decreti papali sarebbero stati obbligatori per la Chiesa universale soltanto se riconosciuti ed accettati dai vescovi. Tale opinione fu aspramente biasimata dal Papa, ma con scarso risultato.
Successivamente (1708) Clemente XI colpì di censura le "Réflexions morales" sui Vangeli del dotto oratoriano PASQUIER QUESNEL (1634-1719) intriso di idee gianseniste. L'arcivescovo di Parigi cardinal Luigi Antonio de NOAILLES (1651-1729) doveva perciò revocare l'approvazione e le raccomandazioni da lui rilasciate, nel 1695, alle Réflexion. Siccome egli non si risolveva a farlo, il libro per desiderio di Luigi XIV fu di nuovo sottoposto ad esame a Roma. Il risultato delle lunghe trattative presso la Curia fu la bolla clementina UNIGENITUS (8 settembre 1713), che condannava 101 proposizioni del Quesnel. Ne riportiamo il passo centrale che seguiva le 101 proposizioni eretiche:
"Noi dichiariamo, condanniamo e rigettiamo le proposizioni prima inserite, rispettivamente, come false, fraudolente, male sonanti, offensive per le orecchie pie, scandalose, dannose, temerarie, offensive per la chiesa e per la sua prassi, oltraggiose non solo verso la chiesa ma anche verso i poteri secolari, sediziose, empie, blasfeme, sospette di eresia e in odore di eresia, e anche atte a favorire gli eretici, le eresie e anche lo scisma, erronee, vicine all'eresia, ripetutamente condannate, e finalmente eretiche, e che rinnovano in modo manifesto le diverse eresie, soprattutto quelle che sono contenute nelle famose proposizioni di Giansenio, accolte proprio in quel senso in cui sono state condannate".

Mentre in altri paesi la bolla fu accettata senza difficoltà, in Francia non fu così. Alcune delle proposizioni, prese da sole senza contesto, sembravano presentare un senso ortodosso; perciò Noailles, pur revocando l'approvazione del libro, rifiutò senza motivazioni dettagliate il suo assenso alla bolla, emulato in ciò da altri sette prelati. Nello spirito gallicano, 4 vescovi si appellarono, contro la bolla papale, ad un concilio universale (1717); ad essi aderirono il cardinale Noailles, le univerità di Parigi, Nantes e Reims, centinaia di sacerdoti, di religiosi e molti laici. La Francia era divisa in 'accettanti' e 'appellanti'. La confusione divenne enorme e il pericolo di uno scisma incombente. Fu allora che Clemente XI nella Bolla "Pastoralis officii" del 28 agosto 1718, lanciò la scomunica contro gli appellanti, ma moltissimi, fra i quali il Noailles, si appellarono anche contro la nuova bolla, dichiarando invalida la scomunica.

Uno sviluppo risolutivo si ebbe solo nel 1720, quando il governo francese fece registrare la bolla Unigenitus come legge di stato ed emanò disposizioni contro i renitenti. Dopo aver tentato ogni genere di scappatoie, anche il cardinale Noailles, nell'ottobre 1728, dichiarò la sua sottomissione incondizionata; la maggior parte degli appellanti ancora incerti seguirono il suo esempio.
Non meno movimentata fu la sua politica estera. Durante il suo pontificato volle che fosse osservata rigidamente la bolla riguardante il nepotismo emanata da Innocenzo XII, come pure le costituzioni per limitare le eccessive richieste degli ambasciatori in fatto di immunità e di diritto d'asilo.

In particolare egli si trovò a far fronte alla guerra di successione spagnola apertasi alla morte (avvenuta proprio durante il conclave che lo aveva eletto papa) di Carlo II, l'ultimo re spagnolo della casa d'Asburgo, il quale, non avendo figli propri, aveva nominato erede universale della monarchia spagnola, dopo aver chiesto consiglio a papa Innocenzo XII, il duca Filippo d'Angiò, nipote di Luigi XIV. Clemente XI, temendo una posizione egemonica degli Asburgo in Italia, nella guerra di successione che era appena scoppiata (gli Asburgo, infatti, avevano impugnato la decisione del defunto Carlo II), si mostrò incline alla Francia. L'imperatore Giuseppe I fece perciò occupare dalle sue truppe una parte dello Stato Pontificio; ne seguì una breve guerra (1708), ultimo scontro armato fra un imperatore germanico e il Papa. Clemente si vide costretto a riconoscere, in una convenzione segreta, il fratello dell'imperatore, Carlo III, come re di Spagna.

A questo punto fu Filippo V, che già godeva del possesso effettivo della Spagna, a rompere bruscamente le relazioni con la curia: bloccò il pagamento delle rendite papali esistenti in Francia. A nulla valsero le molteplici trame del cardinale piacentino GIULIO ALBERONI (1664-1752; per informazioni più dettagliate sul suo ruolo nella guerra di successione spagnola che in tutti modi aveva tentato di favorire la Spagna contro l'imperatore. Nelle paci di Utrech (1713) e di Rastatt (1714) l'Austria di Carlo VI ricevette, oltre al Belgio, Milano e Mantova, i feudi papali di Napoli e della Sardegna. L'isola di Sicilia fu data, con titolo regio, al duca Vittorio Amedeo II di Savoia, il quale tuttavia la dovette cedere nel 1720 alla casa d'Austria in cambio della Sardegna. Fu allora che il cardinale Alberoni tramò per restituire alla Spagna i domini perduti e per liberare l'Italia dalla preponderanza austriaca, mediante l'intervento spagnolo.

Per questo motivo aveva indotto il consigliere del sultano turco, l'ungherese Ragotoki, a stimolare la Turchia a guerreggiare contro l'impero promettendo che la Spagna avrebbe assalito l'Austria: nel 1714 la Turchia, desiderosa di ricuperare la Morea, dichiarava guerra a Venezia occupandone diversi possedimenti. Il pontefice allora ordinò al suo ammiraglio FRANCESCO MARIA PERETTI di recarsi con la flotta nelle acque del Levante e lanciò un appello ai principi cristiani perché si unissero in lega contro gli infedeli; ma la sua voce non fu ascoltata e si dovette solo al genio militare di EUGENIO DI SAVOIA (generale di Carlo VI d'Austria col quale, per la mediazione di Clemente XI, Venezia aveva stretto alleanza) se i Turchi poterono essere battuti, nel 1715, a Belgrado e a Petervaradino; nell'agosto del 1716 gli Ottomani scesero a patti con l'imperatore che si conclusero con la pace di PASSAROWITZ del 21 luglio del 1718.


Il cardinale Giulio Alberoni
L'Alberoni fu ritenuto il responsabile della guerra: Clemente XI lo privò della dignità cardinalizia e lo citò a comparire davanti al suo tribunale accusandolo di tradimento della Cristianità e turbatore della pace europea; fu assolto e riabilitato da Innocenzo XIII.
Altre incresciose questioni politiche furono quelle che videro il pontefice impegnato con Vittorio Amedeo II di Savoia (per il periodo in cui governò la Sicilia, prima di cederla all'Austria in cambio della Sardegna) a proposito delle esenzioni fiscali del clero; e con l'elettore Federico III di Brandeburgo il quale, già nel 1701, aveva assunto il titolo di re di Prussia con l'approvazione di Leopoldo I. Il papa elevò energica protesta, specialmente perchè quel titolo si basava sulla terra del secolarizzato Ordine Teutonico; tale riserva di diritto non ebbe però alcun successo pratico.

Stremato dalle fatiche, Clemente XI si spense il 19 marzo 1721, a 71 anni, dopo 21 di pontificato.
a succedergli sul soglio INNOCENZO XIII .....



INNOCENZO XIII - MICHELANGELO CONTI
(Roma 1655-1724)
(Pontificato 1721-1724)
MICHELANGELO CONTI nasce dalla nobile famiglia dei duchi di Poli (Roma) il 13 maggio 1655. Ricoprì diversi incarichi notevoli a livello diplomatico: fu prima governatore di Ascoli, Frosinone e Viterbo, poi nunzio apostolico in Svizzera (1695-1698) e in Portogallo (1698-1708). Elevato al cardinalato nel 1706, fu nominato vescovo di Osimo e Cingoli nel 1709. Nel 1712 passò alla guida della diocesi di Viterbo e Tuscania che mantenne fino al 1719 quando dovette ritirarsi per motivi di salute.

Fu eletto papa, alla morte di Clemente XI, l'8 maggio 1721, con voto unanime (superando il favorito cardinale Paolucci, segretario del precedente pontefice) e con l'appoggio di Carlo VI d'Asburgo; scelse di chiamarsi INNOCENZO XIII.

La sua nomina fu accolta con favore dai romani, perché aveva fama di essere una persona attiva, onesta, ma allo stesso tempo un abile diplomatico. A causa delle condizioni di salute non proprio buone, non potè mantenere i suoi impegni, deludendo così le aspettative di quanti speravano in un suo ruolo più attivo all'interno della Chiesa.

Appena eletto, in segno di magnanimità, assolse il cardinale Giulio ALBERONI (1664-1752), che era stato deposto dal suo predecessore per via delle traversie politiche subite presso le corti europee. Innocenzo XIII ordinò che gli atti del processo pendente sull'Alberoni fossero depositati nell'archivio di Castel Sant'Angelo e mandò il cardinale come suo legato nella provincia di Ravenna, che aveva bisogno di un uomo energico che ne riordinasse l'amministrazione.

Sotto il governo dell'Alberoni, la provincia di Ravenna rifiorì.
Svolse una politica oscillante verso i principi, che spesso si rivelò un insuccesso, il quale va comunque visto anche alla luce delle pressioni esercitate dalle potenze europee. Nel 1721, per compiacere la Francia, creò cardinale il miscredente abate DUBOIS (1656-1723); nel 1722 investì Carlo VI del Regno di Napoli e di Sicilia (diritto attribuitogli fin dal 1714) ottenendo il tributo della chinea, ma non riuscì a far abolire il privilegio dell'Apostolica Legazia di Sicilia, nè a concludere l'auspicato concordato con la Spagna; non potè opporsi al disegno delle potenze europee di assegnare il ducato di Parma e Piacenza (dopo l'estinzione dei Farnese) a Carlo, figlio di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese.

Con la bolla Apostolici Ministerii del 1723 tentò di rimettere in vigore, in Spagna, i deliberati tridentini circa la disciplina ecclesiastica, ma trovò forti opposizioni tra gli ordini religiosi e lo stesso clero regolare.

Intanto in Cina iniziavano le persecuzioni contro i cristiani.
Mostrò freddo atteggiamento verso la bolla "Unigenitus", che tanto aveva entusiasmato i giansenisti, non per questioni dottrinarie, ma per il risentimento verso il suo predecessore Clemente XI, che non aveva interpellato il Sacro Collegio. Fu comunque fermo, nel suo breve pontificato, nella condanna al Giansenismo: depose (1722) i sette vescovi francesi filogiansenisti che si erano appellati contro la bolla Unigenitus; i contrasti con i giansenisti, ma anche quelli avuti con i Gesuiti, gli attirarono accuse di incertezza e di debolezza da entrambe le parti.

Illuminata fu la sua amministrazione dello stato pontificio: sviluppò cultura ed economia, consentendo, ad esempio, la libera circolazione del grano al suo interno.
Nel 1721 permise, primo fra i pontefici, l'introduzione del gioco del lotto, avvertendo, però, che rimanevano in vigore i precedenti bandi che vietavano la partecipazione ai lotti stranieri; la gestione venne data in appalto a privati a condizione che le vincite per ambo e terno fossero maggiori di quelle riservate ai vincitori di altri stati. Grazie a questo importante vantaggio a favore del giocatore, il gioco conobbe una vera e propria esplosione, anche per il forte afflusso di giocate provenienti da territori stranieri.

Nel 1722 ripresero i lavori per la costruzione delle Scuderie papali, che furono affidati ad Alessandro Specchi, incaricato di realizzare un nuovo progetto. I lavori si interruppero di nuovo alla morte di Innocenzo XIII (1724) e alla morte dello Specchi (1729).

Nel 1723 avviò la costruzione della scenografica scalinata di Trinità dei Monti affidandola a Francesco De Sanctis, che vinse una gara tra artisti. La scala rappresentò una soluzione al forte dislivello della piazza, prendendo il posto dei sentieri alberati che raggiungevano il Pincio. Una successione di dodici rampe in travertino sale secondo un andamento sinuoso, dividendosi e riunendosi. Alla base si trovano cippi con gigli di Francia e aquile di Innocenzo XIII, mentre in mezzo si apre una terrazza sulla piazza. Edifici, progettati anch'essi da De Sanctis, la fiancheggiano e hanno la funzione di incorniciarla come quinte di un palcoscenico.
(fu poi inaugurata dal suo successore Benedetto XIII - vedi, compresa l'immagine della scalinata)

Riprese i lavori di palazzo Montecitorio (interrotti per mancanza di fondi per quasi trent'anni): dapprima intendeva destinare il palazzo a ospizio per i poveri, poi decise di installarvi la Curia apostolica (i tribunali pontifici).

Sempre nel 1723, in vista del giubileo del 1725, emanò il decreto In favorem inquilinorum sul "calmiere delle pigioni" e i blocchi dei contratti di locazione.
Già cagionevole di salute, la morte lo colse il 7 marzo 1724, dopo nemmeno 3 anni di pontificato. Più volte è stato descritto come pontefice "accorto, mite, senza nepotismi".
a succedergli sul soglio fu BENEDETTO XIII .....



BENEDETTO XIII
PIERFRANCESCO ORSINI
(Gravina in Puglia (Ba) 1649 - 1730
( Pontificato 1724-1730)

Nell'anno giubilare del'725, Benedetto XIII inaugurò la imponente scalinata di piazza di Spagna
per congiungere la piazza sottostante con la chiesa della SS. Trinità dei Monti.
BENEDETTO XIII
(
Pontificato 1724-1730 )
Pietro Francesco (PIERFRANCESCO) Vincenzo Maria nacque da Ferdinando ORSINI e da donna Giovanna Frangipane della Tolfa a Gravina di Puglia (Bari) il 2 febbraio 1649. La ricerca documentaria ha giustamente respinto come erronea l'opinione di quanti ne avevano collocato i natali a Napoli o a Roma, ritenendo forse umiliante il dirlo nato a Gravina.
Crebbe nel Palazzo ducale dove risiedeva la famiglia. Orfano del padre nel 1658, ad appena 8 anni, divenne feudatario di Solofra, terra delle origini paterne. Fu educato dal domenicano solofrano Niccolò Tura e dalla duchessa sua madre, donna di grande carità, generosa nel soccorrere i poveri di Gravina, specie se sacerdoti e religiosi, inviando indumenti, cibo, frutta, legna e denaro dal convento da lei stessa fondato, delle Domenicane, nel quale entrerà, seguita dalla figlia e da due nipoti, a 52 anni nel 1676 prendendo il nome di suor Maria Battista dello Spirito Santo, e dove morirà il 22 febbraio 1700, assistita dal figlio ormai cardinale.
Il giovane Pierfrancesco visse nella città natale fino ai 17 anni, (dove fondò, ancora adolescente, l'Accademia de' Famelici), poi, vincendo la contrarietà dei familiari, volle entrare come religioso nell'Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani) cedendo al fratello il titolo del feudo di sua proprietà; fece la sua prima professione nel febbraio 1668 con il nome di fra' Vincenzo Maria Orsini. Particolarmente portato per lo studio, dotato di spiccata versatilità d'ingegno, riuscì a compiere il corso di studi che esigeva non meno di nove anni in soli tre. Molto encomiati per la loro eleganza furono dai letterati del tempo i suoi Sacra Epigrammata, dati alle stampe nel 1669. Ordinato prete nel febbraio 1671, divenne presto noto professore e oratore.
La sua nobile origine ed i residui di un nepotismo familiare gli portarono la nomina a cardinale il 22 febbraio 1673 a soli 23 anni. Essendo una carica che egli aborriva, scrisse al vescovo di Gravina, in tono perentorio, che non avrebbe accettato "nessun cappello cardinalizio o vescovile, perché gli bastava l'amato cappuccio di frate domenicano". Ma papa Clemente X gli impose di accettare la nomina; dovette intervenire il Maestro Generale dell'Ordine che in virtù dell'obbedienza e sotto pena di scomunica, gli ingiunse di accettare la carica; fra' Vincenzo Maria ubbidì.

Dovette lasciare, quindi, la desiderata e voluta vita claustrale per recarsi nella Roma barocca di papa Clemente X, a ricoprire la carica di Prefetto della Congregazione del Concilio e di Esaminatore dei Vescovi. Ma se dovette rivestire la dignità cardinalizia, volle d'altra parte, rimanere sempre un frate, a cui era stato proibito da religioso, fra l'altro, di addottorarsi negli studi giuridici all'Università di Padova, e per rispetto a questo ordine del suo superiore, non volle farlo nemmeno da cardinale, vincendo il suo forte temperamento. Il 3 febbraio 1675 resasi vacante la sede episcopale di Manfredonia (FG), fu consacrato vescovo della diocesi pugliese ad appena 25 anni, avendo rifiutato sia Tivoli, sia quella metropolitana di Salerno. Dopo cinque anni di governo riformatore, se non proprio 'rivoluzionario', dove oltre che vescovo si sentiva soprattutto un parroco grazie all'esperienza diretta con i fedeli, ebbe parecchi contrasti con invadenti funzionari del Viceregno e Legati spagnoli, per cui il nuovo papa Innocenzo XI, con la mediazione del cardinale Paluzzo Altieri suo protettore e legato alla sua famiglia, gli fece accettare la sede vescovile di Cesena (FO) il 22 gennaio 1680, situata fuori dal Regno di Napoli, ma sempre appartenente allo Stato Pontificio.
Ma la permanenza nella città romagnola non fu lunga: in sei anni poté dimorarci poco più di due, perché il clima e l'acqua non giovarono alla sua salute, procurandogli due gravi e lunghe malattie che lo costrinsero a stare lontano dal vescovado per lunghi periodi e curarsi ad Ischia e Napoli; non furono estranei al suo trasferimento i dissapori e controversie che le autorità laiche ebbero con il severo vescovo, il quale soleva dire che non aveva alcuna voglia di "umiliare il suo pastorale al potere laicale" e contro certi scogli era sempre disposto a "rompere prima il capo che il pastorale".
Lo stesso papa Innocenzo XI accolse la sua richiesta di trasferimento e lo nominò, nel marzo 1686, arcivescovo metropolita di Benevento, sede da lui tanto desiderata e che amerà per 44 anni; così il 30 maggio 1686 a dorso di un cavallo bianco entrò nella città sannita, già sede vescovile di san Gennaro e di san Barbato e il cui governo volle conservare, caso eccezionale, anche una volta eletto papa.

La sua fu un'imponente opera di pastore: tenne 44 sinodi in 44 anni di episcopato beneventano, tutti regolarmente stampati e diffusi in ogni parrocchia della diocesi, realizzando così un coinvolgimento e una partecipazione più ampia ai problemi della vita ecclesiale, raccogliendo in una periodica solenne assemblea tutto il clero, che 'comunitariamente' prendeva sempre più coscienza della realtà locale e che, insieme al vescovo, diventava più responsabile della cura delle anime.
Dalla riconoscenza dei posteri e degli studiosi molto meritò l'opera indefessa di riordinatore degli Archivi, celeberrimi per dovizia e antichità di scritture, come quello Arcivescovile di Benevento e Manfredonia, nonchè quelli vescovile e Capitolare di Gravina e di S. Bartolomeo in Galdo. Si serviva della preziosa collaborazione di un dotto monaco ed esperto paleografo, Casimiro Graiewski dell'Abbazia di Sant'Amando in Pabula, presso Tournai (Belgio). Gli Archivi gravinesi devono a lui la loro riorganizzazione e la loro stessa sopravvivenza. È da credere che per ordinarli si servisse non solo dell'opera del Graiewski, ma anche di quella dei bibliotecario Domenico Rossi, che tenne tale ufficio nella sua curia beneventana dal 1708 al 1724. Interessantissimi per gli studiosi di storia locale sono i registri compilati sempre nel 1714 durante la visita apostolica. Con incredibile ardore combattè i ladri ed abusivi detentori di documenti d'archivio. Nelle istruzioni per gli archivisti si resta colpiti dall'estrema praticità del dettato.
Uomo di profonda cultura, socio di varie Accademie di studio, visse la sua austera e colta vita di vescovo nell'epoca tra il barocco ed il secolo dei Lumi; la concezione episcopale di Vincenzo Maria Orsini, la sua pastoralità, avevano profonde radici ed erano tenacemente sorrette da una grande passione d'amore per Dio, per la Chiesa, per le anime a lui affidate.
In occasione dei due terremoti che colpirono Benevento nel 1688 l'Orsini organizzò subito i soccorsi per la popolazione, tra cui si contarono più di un migliaio di vittime, prodigandosi con ogni cura e munificenza anche per le riparazioni agli edifici, tanto che il Comune volle eternare nel marmo la memoria dei suoi benefici, chiamandolo "secondo fondatore di Benevento". Manfredonia e Cesena resero solenni grazie a Dio per l'indennità del loro antico presule, e cappelle ed altari sorsero qua e là per ricordare il miracolo. Si spiega con questo eccezionale avvenimento la speciale devozione del Cardinale per san Filippo Neri, a cui attribuiva la propria salvezza, del culto del quale divenne instancabile promotore e diffusore. Non si contano le chiese, le cappelle e gli altari dedicati al suo nome. Nella sola Benevento si annoverano ben diciannove altari, che dedicò al Santo, di cui uno nella Cattedrale, da lui stesso restaurata e consacrata nel 1692. Nella visita fatta da Papa nella città che continuava a governare, consacrò, il 24 maggio 1727, a San Filippo Neri una chiesa con diverse campane. Lo dichiarò inoltre protettore di Manfredonia, alla quale fece dono della berretta del Santo. Lo nominò anche compatrono di Gravina e Benevento e ne compose la Messa, celebrandone solennemente la festa, durante la quale soleva offrire ai poveri un pasto che lui stesso serviva. La devozione verso il santo non poteva che aumentare quando scampò, per una seconda volta, al pericolo del terremoto del marzo 1702.
Anche i problemi sociali, ai suoi tempi scarsamente avvertiti, furono da lui particolarmente sentiti e singolarmente affrontati. Testimoniano questo suo zelo i Monti Frumentari, eretti nelle tre diocesi nelle quali passò. Con questa benefica istituzione la cui memoria non è ancora spenta nel popolo, egli mirava a sollevare il bracciantato e a formare una classe di piccoli proprietari terrieri, liberando i contadini dalla schiavitù dell'usura. Ispirandosi ai principi del moderno credito agrario concedeva un prestito in grano per la semina, dietro un pegno e un interesse, che ancor oggi è da considerare veramente esiguo (12%). Derivazione dei francescani Monti di pietà del sec. XV, i suoi Monti Frumentari divennero presto numerosissimi, a prova del favore incontrato presso la classe popolare, verso la quale andavano le sue maggiori cure ed attenzioni, che lo spinsero a battersi per l'abolizione del divieto sul commercio del grano. Se si considerano i tempi e la vita sociale dell'ultimo Seicento, la sua opera ci appare sempre più profetica e precorritrice di tempi a noi vicini. Contro i Monti Frumentari, ispirati al principio su cui si fonda l'odierno credito agrario, si levarono le accuse di quanti non potevano più continuare tranquillamente a sfruttare il misero bracciantato agricolo. Purtroppo bisogna dire che quelle benemerite istituzioni, diffuse in seguito in tutto il Regno dall'entusiasmo dello stesso Ferdinando II, perirono in breve quando furono affidate alla vigilanza dei Comuni (1862).
Come uomo di carità, basti citare l'episodio che in un rigido giorno invernale a Benevento, irreperibile nelle sue stanze, fu ritrovato rannicchiato, tutto tremante dal freddo e seminudo, in un angolo del cortile; soccorso dagli spaventati collaboratori, disse con un sorriso, che aveva donato tutto ad un povero quasi spogliato che moriva dal freddo.
Alla morte di papa Innocenzo XIII partecipò al conclave per l'elezione del nuovo pontefice. Il candidato più probabile era il cardinale Paolucci, che era stato Segretario di Stato sotto due papi, ma a causa del veto imperiale posto dall'ambasciatore austriaco Maximilien von Kaunitz, si preferì una soluzione "neutra". Il prescelto fu il cardinale Orsini, considerato un asceta rigoroso, ma anche pio e abbastanza vecchio ed estraneo alle faccende politiche da non rappresentare una minaccia per i sovrani europei. Così, contrariamente ai quattro precedenti conclavi cui aveva partecipato, questa volta fra' Vincenzo Maria non poté ritornare alla sua diletta Benevento, perché venne eletto papa, nonostante le sue resistenze, il 29 maggio 1724 a 75 anni, prendendo il nome di BENEDETTO XIII.
Governò la Chiesa per quasi sei anni dando l'esempio di una vita veramente ascetica, conservando l'abito da religioso, non risparmiandosi mai nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali, distinguendosi per la profonda religiosità di cui fu segno quel vivo zelo pastorale e quella sua indefessa operosità. Frequenti anche le dimostrazioni più affettuose di stima e venerazione da parte del popolo, che per eccessiva devozione arrivava fino al punto di ricercarne una reliquia e di ridurre in minutissimi pezzi una gran croce di legno da lui precedentemente baciata.
Amante della cultura e delle arti fondò la Congregazione dei Seminari e l'Università degli Studi di Camerino (1727); fece parte anche dell'Accademia dell'Arcadia, in cui aveva preso il nome di Teofilo Samio, che conservò anche da Papa, attribuendo alla nobile istituzione diversi privilegi.
Nelle dispute contemporanee sulla grazia sostenne la dottrina della grazia efficace di san Tommaso (1724). Lottò contro i giansenisti (cercando inutilmente, nel 1725, di imporre la bolla "Unigenitus Dei Filius") che indirettamente aveva incoraggiato per la sua presa di posizione in favore di certe tesi agostiniane. Tali attriti si inasprirono sempre più, specie in Olanda; il punto di maggior crisi fu raggiunto quando il consiglio del vicariato di Utrecht, rivendicando i diritti di antico capitolo metropolitano, senza approvazione romana, elesse arcivescovo, nel 1723, il vicario generale Cornelio Steenhoven che fu ordinato dal vescovo missionario francese Varlet. Tale passo, non approvato nè riconosciuto da Roma, portò allo scisma: Benedetto XIII nel 1725 dichiarò l'invalidità dell'ordinazione. Nel 1870, anno della proclamazione del dogma dell'infallibiltà papale, alla Chiesa separata di Utrecht si sono unite diverse comunità vecchiocattoliche. Lo scisma olandese dura ancora oggi.
In occasione del giubileo del 1725, inaugurò la splendida scalinata di Trinità dei Monti a Roma, la cui costruzione era iniziata nel 1721 ed incrementò le opere caritative e le iniziative per venire incontro alle esigenze dei pellegrini che arrivarono a Roma. Il giubileo (indetto nel 1724 con la bolla Redemptor et Dominus noster) fu celebrato senza sfarzo e con penitenza (reintrodusse quella pubblica per i peccati gravi) e devozione nel 1725. Tale austerità fu poco gradita ai romani, tanto che ridusse l'affluenza dei pellegrini. Come pellegrina d'onore il Papa scelse Maria Clementina, contessa di San Giorgio e moglie del pretendente al trono di Gran Bretagna Giacomo III Stuart. Infatti questa era una donna che incontrava le simpatie del popolo romano per la sua singolare storia d'amore. Sempre nel 1725 volle tenere un Sinodo a Roma, che da tanto tempo non veniva indetto, per suscitare la spiritualità e la collaborazione nel clero della Città Eterna.
Da Papa, volle consacrare di persona la cappella interna di San Filippo alla Vallicella, dichiarandone di precetto il giorno festivo nel distretto di Roma. Fece molte canonizzazioni, tra cui quella di san Luigi Gonzaga, san Stanislao Kostka, san Giovanni della Croce, san Giovanni Nepomuceno, santa Margherita da Cortona.
Aderì con entusiasmo alle manifestazioni religiose: consacrò altari e per primo portò egli stesso, a piedi, il Santissimo durante la processione del Corpus Domini. Decretò che gli ecclesiastici dovevano abolire l'uso di parrucche e impose a tutti la "chierica".
Fece costruire l'ospedale di san Gallicano per accogliere e curare i pellegrini che giunsero da più parti e che egli stesso spesso visitava e confortava verificando le condizioni igieniche degli ambienti; isolò i malati infettivi (lebbra, tigna e rogna).

Fondò inoltre il penitenziario di Cometo con intendimenti moderni, per la riabilitazione dei detenuti.
Nel 1725 rinnovò i bandi di Innocenzo XI che vietavano il gioco del lotto, qualificato immorale e, con tre diversi editti, ordinò che fossero comminate ai trasgressori severe pene corporali e pecuniarie. Considerato che le proibizioni non suscitarono nessun effetto, Benedetto XIII emanò una Costituzione con la quale alle pene temporali a carico di tutti i partecipanti al gioco, aggiunse anche pene spirituali, quali la sospensione a divinis per gli ecclesiastici e della scomunica latae sententiae per tutti gli altri (nessuno dei colpiti dalle suddette pene avrebbe ottenuto il beneficio del Sacramento della confessione con l'assoluzione, salvo che in pericolo di morte, da nessun altro se non dal solo Pontefice o con la sua autorizzazione).
Nello stesso tempo però ritirò la scomunica contro quelli che assumevano tabacco nel coro, nella sacrestia, nel portico e nell'oratorio della basilica vaticana.
Il suo impegno sociale continuò riducendo, all'interno dello Stato Pontificio, la gabella (il dazio) sui generi di prima necessità come il pane, il vino e la carne.

Meno felice fu la sua politica estera. Come si è già avuto modo di dire, durante il pontificato non lasciò il governo della diocesi beneventana. Nel 1727 e nel 1729 ritornò a Benevento per alcuni mesi, nonostante il parere contrario della Curia Romana, che temeva volesse trasferire lì la Sede Pontificia. Per questo nominò segretario di stato il cardinale NICCOLÒ COSCIA. A proposito riporta Montesquieu: "Una pubblica simonia regna oggi a Roma; non si é mai visto nel governo della Chiesa, regnare il delitto così apertamente. Uomini vili si sono preposti da ogni parte alle cariche".

In effetti il Coscia era un abile e spregiudicato faccendiere, che Benedetto XIII aveva assunto come segretario fin dai tempi del suo mandato episcopale a Benevento. Il Sacro Collegio, in verità, aveva cercato di mettere in guardia il pontefice contro le malefatte del Coscia, ma questi si era convinto che fossero solo calunnie. E aveva continuato a dedicarsi anima e corpo ai suoi impegni spirituali, mentre il Coscia depredava l'erario della Chiesa per arricchire la propria famiglia. Dalla sua nomina cardinalizia (avvenuta l'11 giugno 1725 con l'opposizione di nove cardinali) il Coscia cominciò a fare grandi concessioni ai capi di governo per ingraziarseli. Talvolta concedeva diritti contrari agli stessi interessi della Chiesa, che procurarono umiliazioni a livello internazionale allo Stato Pontificio: come quando il Papa dovette riconoscere nel 1728 Vittorio Amedeo II di Savoia re di Sardegna, a dispetto dell'antico diritto di sovranità pontificia sull'isola. Le concussioni e gli abusi ebbero fine solo con il successore di Benedetto XIII che fece deporre il Coscia.

Tentativi di conciliazioni furono avviati con la Francia (turbata dalla politica di Clemente XI suo predecessore) e la Spagna (a cui concesse, nel 1728, le "mezze feste": in alcune particolari festività sarebbe stato possibile lavorare, dopo aver decorosamente ascoltato la Messa). Dichiarò invalide le ordinazioni sacerdotali nella Chiesa anglicana.
Nel freddo inverno del 1730, nell'ultimo giorno di Carnevale (21 febbraio), papa Benedetto XIII morì santamente; per non disturbare il popolo impegnato nelle strade a festeggiare, per lui non furono suonate le campane a morto.
La città di Benevento gli dedicò un monumento, mentre parenti e seguaci commissionarono un'imponente tomba in Santa Maria sopra Minerva, realizzata da C. Marchionni. La causa per la sua beatificazione è stata aperta il 21 febbraio 1931 (giorno in cui ricorre la sua memoria liturgica) dall’Ordine Domenicano.
a succedergli sul soglio CLEMENTE XII ....


CLEMENTE XII
LORENZO CORSINI
(7-4-1652-6-2-1740)
(
Pontificato (1730-1740)
( accenno alla bolla "In emimenti Apostolatus Specula", sulla Massoneria )
LORENZO nacque a Firenze dalla nobile famiglia CORSINI il 7 aprile 1652. Fu studente del Collegio Romano. Nel 1690 fu nominato arcivescovo titolare di Nicomedia e, nel 1696, Tesoriere generale della Santa Sede; il 17 maggio 1706 fu elevato al cardinalato da Clemente XI.
Alla morte di Benedetto XIII (21 febbraio 1730) si aprì un conclave che fu lungo e tempestoso a causa dei maneggi dei principi, i quali desideravano a tutti i costi che fosse eletto un pontefice non contrario ai loro interessi. Dopo parecchi mesi, esattamente il 12 luglio 1730, il cardinale Corsini (già prelato quasi ottuagenario) fu eletto papa; scelse il nome di CLEMENTE XII.
Affidò molte questioni al "cardinale-padrone" Neri Maria Corsini (1685-1770), suo nipote, dal 1731 fino alla sua morte, anche per via delle sue condizioni cagionevoli di salute.
Appena salito al soglio pontificio privò della dignità cardinalizia Niccolò COSCIA (1682-1755), già arcivescovo di Benevento e segretario di Stato di Benedetto XIII, che si era reso tristemente famoso per abuso di potere. Il Coscia venne condannato, il 9 maggio 1733, come ladro e falsario a 10 anni di carcere e risarcimento danni; concluse i suoi giorni a Napoli. Sempre nel 1730 il papa rifiutò la corona di Corsica offertagli dai rivoltosi insorti desiderosi di scuotere il giogo di Genova; cercò, invece, di avocare alla Santa Sede il feudo di Parma e Piacenza per l'estinzione della linea diretta dei Farnese con la morte del duca Antonio, ma dovette accettare la successione di Carlo di Borbone (1731).

Nel 1731 il Parlamento di Parigi dispose la sottomissione del clero alla corona, dichiarando il potere politico indipendente da ogni altro potere; nella Roma papalina si apprese la notizia come una tragedia. La Chiesa aveva perso, dopo la Germania, un'altra "figlia prediletta": la Francia. E nulla potè fare per evitare l'aggravarsi delle controversie giurisdizionaliste a Napoli, in Portogallo e in Piemonte-Sardegna (con Carlo Emanuele III) che causarono gravi colpi alla Chiesa; restò impotente anche di fronte agli importanti mutamenti causati dal nuovo assetto politico conseguito alla guerra di successione polacca (1733-1735).

Incrementò le missioni in Asia, anche se spesso i missionari di quelle contrade erano sovente travolti da angosciosi dubbi per quanto riguardava i riti liturgici da seguire: era possibile accettare le tradizioni locali o bisognava attenersi alla rigida liturgia latina, assolutamente incomprensibile per gli autoctoni? I documenti vaticani pubblicati nel tempo non erano sempre lineari. Se inizialmente (1734) Clemente XII aveva attenuato alcuni aspetti della condanna proferita da monsignor de Tournon, successivamente (1739) aveva esigito obbedienza assoluta con la minaccia di sanzioni gravi per i missionari.

Molte furono, poi, le opere avviate, costruite o portate a termine a Roma e nello Stato Pontificio. La più prestigiosa di queste fu la Biblioteca Corsiniana, la cui genesi è legata alla storia dell'intera famiglia Corsini. Fu probabilmente il cardinale Neri Corsini sr. (1624-1679) l'iniziatore dell'interessante raccolta libraria, successivamente arricchita dal nipote pontefice. Il nucleo originario della Biblioteca (Corsinia Vetus) era ospitato nel palazzo di piazza Navona e contava più di 40.000 volumi. Nel 1733 papa Clemente XII donò la sua ricca biblioteca al nipote, Neri Maria jr., il quale, insieme al fratello Bartolomeo, nel 1736 acquistò il Palazzo Riario alla Lungara. Nelle sale del primo piano del palazzo, venne collocata la raccolta libraria di famiglia. Nel 1754 la Biblioteca, denominata Corsinia Nova, fu aperta al pubblico, arricchendosi negli anni di importanti reperti.


Ma sicuramente l'opera più conosciuta e più universalmente apprezzata fu la Fontana di Trevi, imponente ed artisticamente notevole, la più scenografica fontana non solo di Roma. Quando nei primi anni del 1730 papa Clemente decise di sostituire la bella fontana disegnata da Leon Battista Alberti nel 1453 con una di imponente maestosità, invitò i migliori artisti dell'epoca a presentare i loro progetti.
Fu scelto quello dell'architetto NICCOLÒ SALVI (1697-1751), ed i lavori ebbero inizio nel 1732 e si conclusero sotto il pontificato di Clemente XIII; la fontana fu inaugurata il 22 maggio 1761. Ha nel mezzo un arco trionfale sormontato da un attico sul quale sovrasta lo stemma di Clemente XII.
Al centro di una base rocciosa si erge la statua di "Ocano" sopra un carro a conchiglia trainato da due cavalli marini guidati da tritoni. I cavalli rappresentano il mare agitato e calmo. Le due statue ai lati di Oceano rappresentano la Salubrità e la Prosperità, chiara allusione agli effetti benefici di un'acqua pura.

Nel 1732 fu completata la costruzione delle Scuderie Papali in piazza del Quirinale, iniziata da Alessandro SPECCHI circa 12 anni prima, ma portata a compimento da Ferdinando FUGA. Fu completata (1732-1737), altresì, la costruzione della Fabbrica della Sacra Consulta sul colle Quirinale (detto anche Montecavallo), progettata sempre dall'architetto fiorentino F. Fuga. Questi realizzò anche un edificio pubblico destinato ad ospitare la Segnatura dei Brevi, nonchè ad acquartierare i reparti dei Cavalleggeri (guardie a cavallo del pontefice) e delle Corazze (corpo appiedato destinato alla scorta della carrozza papale).

Nel 1732 chiamò l'architetto VANVITELLI a dare forma al suo progetto di rilancio edilizio e commerciale del porto e della città di Ancona, grazie alla costruzione di un canale che si insinuava dentro la città per oltre 11 chilometri e culminante in un maestoso Porto.
Fece portare a termine, nel 1734, anche con diverse trasformazioni, il palazzo-Museo Capitolino, grazie al ruolo decisivo ed anonimo dell'architetto Filippo BARIGIONI, al quale si deve l'intera opera di definitiva trasformazione interna settecentesca.
Nel 1733 fece allargare piazza Montecitorio (lo ricorda una lapide in suo onore ivi collocata); nel 1734-35 affidò all'architetto toscano A. GALILEI il rifacimento della facciata di san Giovanni in Laterano e quella di san Giovanni de Fiorentini. Contribuì (1738) alla raccolta della Calcografia camerale conservando il cospicuo fondo di rami incisi (circa 25.000 soprattutto italiani) provenienti dalla stamperia De Rossi.
Istituì un orfanotrofio "per le povere orfane comunemente denominate zoccolette". "Zoccolette" perché destinate, una volta dimesse dal "Conservatorio dei santi Clemente e Cosentino" (così si chiamava la pia opera che le accudiva), al mestiere più antico del mondo. (Da annotare che nella saggezza popolare "zoccoletta" è meno cattivo e dispregiativo di "puttanella", quasi un nomignolo affettuoso). Per sostenere l'istituto, Clemente XII, nel 1731, riammise il gioco del lotto, bandito da lunga data, concedendogli i proventi incassati.

Nel 1737 canonizzò san Vincenzo de' Paoli, il santo della carità.
Condannò i cosiddetti Convulsionari di San Medardo, una setta religiosa di estrazione giansenistica sorta a Parigi nel cimitero omonimo. Sulla tomba del giansenista François de Paris i seguaci si abbandonavano a manifestazioni convulsive. Esibendo uno sfrenato fanatismo, essi affermavano che su quella tomba erano avvenute alcune miracolose guarigioni. La setta si diffuse rapidamente in tutto il territorio francese, ma venne definitivamente soppressa dalla Rivoluzione francese.

Ma la condanna principale di Clemente XII, quella per la quale è ancora oggi maggiormente ricordato, fu quella alla Massoneria. Da più parti si è affermato che Clemente XII, già totalmente cieco da più anni, all'epoca della condanna, fosse costretto a letto, per vari malanni e non fosse più in grado di seguire con discernimento la vita politica e spirituale della Chiesa, la quale - come si è detto - era stata affidata al nipote cardinale il quale, pare, prendesse la mano all'infermo zio per far firmare ogni atto necessario alla cura delle anime e dello Stato Pontificio. Ma certamente si ingannerebbe chi considerasse il nipote del Papa l'autore di ogni iniziativa ecclesiastica negli anni della pur lucida infermità di Clemente XII. A Clemente si potrà rimproverare molto, ma non certo di non essere stato un Papa accorto. Già segnato dall'esperienza del suo predecessore, il quale era caduto in mano ai curialisti vaticani di poco affidamento, egli aveva preferito circondarsi di validissimi prelati (i cardinali Ottoboni, Spinola, Zandolari, Albani, Lambertini, Firrao); unica eccezione: proprio il nipote, del resto retaggio nepotistico ancora in grande uso alla Corte dei Papi. La condanna alla massoneria, dunque, non fu frutto di un singolo, ma espressione di una collegialità di intelligenze.

Così il 28 aprile 1738, a 20 anni di distanza dalla costituzione della Massoneria ufficiale, avvenuta a Londra nel 1717, Clemente XII emanava la Bolla "In emimenti Apostolatus Specula".
Ne riportiamo il passo culminante: " [...] allo scopo di chiudere la strada che, se aperta, potrebbe impunemente consentire dei delitti; per altri giusti e razionali motivi a Noi noti, con il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, a ancora motu proprio, con sicura scienza, matura deliberazione e con la pienezza della Nostra Apostolica potestà, decretiamo doversi condannare e proibire, come con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, condanniamo e proibiamo le predette Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con qualunque altro nome chiamate. Pertanto, severamente, ed in virtù di santa obbedienza, comandiamo a tutti ed ai singoli fedeli di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, sia Laici, sia Chierici, tanto Secolari quanto Regolari, ancorché degni di speciale ed individuale menzione e citazione, che nessuno ardisca o presuma sotto qualunque pretesto o apparenza di istituire, propagare o favorire le predette Società dei Liberi Muratori o Francs Maçons o altrimenti denominate; di ospitarle o nasconderle nelle proprie case o altrove; di iscriversi ed aggregarsi ad esse; di procurare loro mezzi, facoltà o possibilità di convocarsi in qualche luogo; di somministrare loro qualche cosa od anche di prestare in qualunque modo consiglio, aiuto o favore, palesemente o in segreto, direttamente o indirettamente, in proprio o per altri, nonché di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi o ad intervenire a simili Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole, sotto pena di scomunica per tutti i contravventori, come sopra, da incorrersi ipso facto, e senza alcuna dichiarazione, dalla quale nessuno possa essere assolto, se non in punto di morte, da altri all'infuori del Romano Pontefice pro tempore".

Idealmente si può dividere il documento in due parti. La prima consta di una chiara condanna civile e politica agli appartenenti alla setta. Sono riprese le stesse motivazioni che avevano mosso, qualche tempo prima della Chiesa Cattolica, alcuni Stati europei: è ripetuta, infatti, la condanna del vincolo segreto con cui si legavano gli iscritti, attraverso un giuramento sulla Sacra Bibbia; il tacere sui temi trattati in Loggia nei confronti del mondo esterno; vi è, inoltre, il richiamo alla promiscuità di nazionalità diverse e classi sociali dissimili fra loro. Altro motivo di turbamento citato è l'agire "in pari tempo in comune" con la conseguenza del "rumore" e "scandalo" che tale organizzazione di uomini produceva nel consorzio civile.
Sono in un certo senso gli stessi motivi che, come abbiamo detto, procurarono le prime noie agli altri paesi europei. La seconda parte del documento è una condanna più propriamente morale e spirituale, con connotazioni tipiche dell'Inquisizione cattolica. Si ravvisano nei partecipanti a tali assemblee, uomini di diverse religioni, definiti "ladroni" o "volpi", che potrebbero corrompere i cuori dei semplici; è palesata la devianza dall'ortodossia cattolica in quanto c'è un distaccano dalla Chiesa-comunità per entrare in altro sodalizio.

"Uomini - continua la Bolla - che agiscono sotto una parvenza presunta di una certa qual rettitudine, da soli e al di fuori di canoni ecclesiali. E pertanto solo per questo già condannabili". Vi sono pronunciate, inoltre, alcune parole che ancora oggi fanno discutere tanti esegeti della Bolla a causa del loro dubbio significato: "per [...] altri motivi ai Noi noti": di quali altri motivi sta parlando il papa?

Già ammalato da diversi anni, Clemente XII si spense a Roma il 6 febbraio 1740 a quasi 88 anni di età.

a succedergli sul soglio BENEDETTO XIV ....


BENEDETTO XIV,
PROSPERO LAMBERTINI
( Bologna 31 -3-1675)
(
Pontificato 17 ago. 1740 - 3 mag.1758)
PROSPERO LAMBERTINI nacque a Bologna il 31 marzo 1675 da Marcello e Lucrezia Bulgarini. Fu educato presso i padri Somaschi; proseguì gli studi a Roma, dove si dedicò al diritto canonico e civile. Nel giugno del 1724 fu nominato vescovo di Teodosia e nel gennaio 1727 fu eletto alla sede arcivescovile di Ancona e Numana.
Sin dal 1725 fu incaricato da papa Benedetto XIII di occuparsi dell'Istituto di Scienze, interesse che andò sempre più ampliando negli anni successivi.
Il 30 aprile 1728, all’età di 53 anni, fu nominato cardinale (ma lo era già in pectore fin dal dicembre 1726) e nell'aprile 1731 ebbe la sede arcivescovile di Bologna, che conservò anche da papa, fino a quando fu nominato, come suo successore, il cardinale Malvezzi. A Bologna fondò, come protettore delle lettere e delle arti, l'Accademia Benedettina.

Alla morte di papa Clemente XII, avvenuta il 6 febbraio del 1740, si aprì un lungo e laborioso conclave che durò più di 6 mesi. Rimasto per i primi tempi nell'ombra, dopo 254 scrutini il cardinale Lambertini venne candidato al soglio pontificio. Il 17 agosto 1740 fu eletto papa con il nome di BENEDETTO XIV.

Certamente fu il più erudito e il più colto dei papi del suo secolo, distinguendosi, in modo speciale, come canonista; diverse delle sue opere di diritto canonico, in gran parte valorizzate dopo il suo pontificato (De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, 1734-1738; De synodo diocesana, 1748, vera e propria esposizione organica del diritto ecclesiastico; inoltre De festis, De sanctorum Missae sacrificio entrambe del 1748), hanno valore scientifico durevole.

Fu pontefice che appoggiò il sapere scientifico e che spesso difese e incoraggiò con provvedimenti, finanziamenti e donazioni. Istituì le cattedre di fisica, chimica e matematica presso l'Università di Roma, diede nuovo impulso all'attività accademica bolognese, attivando una moderna scuola di Chirurgia; favorì la diffusione, nello Stato Pontificio, dell'antivaiolo di origine umana (anche se questo si rivelò meno efficace dell'antidoto di origine animale, introdotto nel 1796 da Jenner, che fu osteggiato dagli stessi ambienti ecclesiali e conservatori, data la commistione tra animale e uomo che il nuovo antidoto presentava).

Amante delle lettere e delle arti, Benedetto XIV acquisì preziosi volumi per la Biblioteca Vaticana e fece tradurre in italiano le opere più significative della letteratura inglese e francese. Promosse gli studi, favorendo gli uomini più dotti della sua epoca (Boscovich, Muratori, Querini). Tenne corrispondenza con Caterina di Russia, con Federico II, con Voltaire; fu stimato anche dai protestanti, specie quelli d'Inghilterra.
Fu valido archeologo: acquistò il fondo di Domenico De' Rossi e, su consiglio dell'artista, fondò la Calcografia Pontificia, pensando di diffondere, attraverso l'incisione, il gusto e la conoscenza delle collezioni che aveva accumulato. Tra le sue raccolte citiamo quella di 1500 monete, di cui 1340 imperiali e 160 di zecche greche e italiane in argento, con alcuni esemplari di eccezionale conservazione donate al Museo Archeologico bolognese.

Favorì gli scavi a Roma. Cooperò con il Winckelmann alla fondazione dell'Accademia Archeologica nel 1740. Riuscì ad arrestare il degrado del Colosseo (fino ad allora considerato una cava per l'estrazione della pietra), che consacrò alla Via Crucis: 14 edicole e una grande croce nel mezzo dell'arena furono erette, in nome di migliaia di martiri cristiani, in occasione del Giubileo del 1750.

Questo Anno Santo, predicato instancabilmente da san Leonardo da Porto Maurizio, ebbe una capillare organizzazione, sia sul piano spirituale che su quello protocollare. Il Pontefice preparò una serie di encicliche e lettere pastorali che testimoniano, ancora oggi, il suo fervore religioso. Interessantissime le norme date ai Vescovi e sacerdoti per suggerire lo stile con cui esercitare il ministero della Penitenza e su come tenere le Chiese. Addirittura il 29 giugno 1750, festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo, per la prima volta, si ebbe lo spettacolo d'illuminazione completa della cupola e di piazza s. Pietro. Si può dire che quel Giubileo fu veramente un grande spettacolo di fede.

Durante il suo pontificato Benedetto XIV si mantenne equanime nelle controversie intorno al giansenismo. Ma fu secco nella condanna alla massoneria (Providas Romanorum del 18 marzo 1751; anche se, nel 1756, nella Ex omnibus christiani, stabilì che solo ai dispreggiatori pubblici e notori della bolla 'Unigenitus' di Clemente XI, fossero da rifiutarsi gli ultimi sacramenti); condannò, nel 1742 e 1744 (bolla Omnium sollicitudinum), la pratica dei riti cinesi e malabarici tollerati dai gesuiti; riformò la Congregazione dell'Indice. Rinnovò, nel 1746, il Codice antiebraico preparato dal cardinale Petra nel 1733 sotto Clemente XII.

Nel 1741 approvò le Regole della nascente Congregazione dei Passionisti fondata da san Paolo della Croce; nel 1746 canonizzò Camillo de Lellis, affermando di essere l'iniziatore di una "nuova scuola di carità"; ma allo stesso tempo epurò il calendario dalla miriade di santi e beati che lo riempivano; concesse diverse indulgenze particolari, tra cui quelle legate alla medaglia di san Benedetto, della quale egli stesso aveva creato il disegno e ne aveva approvato, nel 1742, l'uso devozionale.
Introdusse nel 1743 la pratica di sostituire, nel tempo pasquale, l’antifona Regina Coeli ai versetti dell'Angelus. Riservò, nel 1743, la carica di Predicatore Apostolico esclusivamente all'ordine dei Frati Minori Cappuccini (prima, infatti, tale titolo e ufficio era affidato a religiosi di diversi ordini; prima ancora il predicatore veniva scelto solo tra i Domenicani, i Minori, gli Eremitani di Sant'Agostino e i Carmelitani).

Nel 1745 fissò per la prima volta nella storia del magistero papale i modi di rappresentazione di Dio e della Trinità: erano lecite solo le raffigurazioni derivanti dalle teofanie descritte dalla Bibbia, escludendo tutti i vari antropomorfismi dello Spirito Santo. Nel 1757, grazie all'intervento di padre Ruggero Boscovich (1711-1787) dell'Osservatorio Astronomico di Brera, il "De Revolutionibus" di Galileo fu tolto dall'Indice, autorizzando, così, la lettura simbolica della Bibbia intorno al sole.

Come sovrano temporale dispose la libertà di commercio tra le varie parti dello Stato Pontificio, incoraggiò l'agricoltura; promosse varie riforme preoccupandosi del risanamento finanziario della Chiesa. Insistette molto sull'obbligo di residenza dei vescovi e sull'istruzione del clero. Si occupò anche del riordino amministrativo della città di Roma dandole una nuova delimitazione rionale (testimoniata da alcune lapidi ancora oggi visibili sull'Esquilino) e all'aristocrazia romana una nuova costituzione.

Ma Benedetto XIV fu anche un prudente ed apprezzato uomo politico, la cui moderazione si manifestò attraverso una fitta rete di rapporti diplomatici con vari stati italiani ed europei. Infatti all'inizio del suo papato ebbe ad affrontare un'aspra guerra dovuta alla successione austriaca.
Il 20 ottobre 1740 era morto l’imperatore Carlo VI d'Asburgo e per la successione al trono Maria Teresa, figlia di Carlo VI, appoggiava la candidatura del marito Francesco di Lorena, granduca di Toscana. Francia e Prussia appoggiavano invece Carlo Alberto di Baviera. Il conflitto coinvolse anche l'Italia e lo stesso Stato Pontificio, nonostante la dichiarazione di neutralità di quest'ultimo. La morte di Carlo di Baviera e l'elezione del lorenese Francesco I portarono alla pace di Aquisgrana del 1748, alla conclusione della quale Benedetto XIV ebbe a protestare perché non vide riconosciuti i diritti della Santa Sede su Parma e Piacenza che, per l'avvenimento, furono assegnate all'Infante spagnolo Filippo, con il quale concluse un concordato nel 1753.

Riuscì, nel 1741, grazie a una diretta corrispondenza con Carlo Emanuele III e con il marchese di Ormea, a raggiungere degli accordi con la corte di Torino. Prova dei migliorati rapporti è la bolla del 1744 a favore dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Anche con Napoli avviò trattative (1741) per dirimere vecchie controversie. Un tribunale misto avrebbe deciso sui casi più spinosi, che erano rispuntati nonostante l'investitura feudale concessa al re Carlo di Borbone.
Altre questioni sorsero per la disputa tra Venezia e l'Austria per il patriarcato di Aquileia che, con breve del 6 luglio 1751, era stato diviso nell'arcivescovado di Udine, assegnato a Venezia, e in quello di Gorizia, concesso all'Austria; anche con quest'ultima potenza il papa riuscì a concludere un concordato per Milano nel 1757. Il senato veneziano rispose con decreto del 7 settembre 1754 sopprimendo l'ingerenza pontificia circa le domande d'indulgenza, le dispense matrimoniali e la rinuncia dei benefici ecclesiastici. Fu per questa ragione che il governo della repubblica s'interessò molto, alla morte di Benedetto XIV, all'elezione del nuovo Pontefice.

I re di Sardegna, Spagna e Portogallo ottennero il diritto di conferire quasi tutti i benefici esistenti nei loro stati; il re di Portogallo, nel 1748, ricevette in più anche il titolo onorifico di Rex fidelissimus. Per l'Olanda una dichiarazione papale del 1741 (Benedectina scil. declaratio) dispose che i matrimoni di non cattolici e i matrimoni misti fossero colà validi anche senza l'osservanza della forma stabilita dal Concilio di Trento; tale disposizione fu poi estesa anche ad altri paesi.

Nel 1742 (26 maggio) con la pubblicazione della bolla Etsi pastoralis, sostenne la posizione di coloro che volevano eliminare la tradizione greca dalla Chiesa romana, in relazione alle popolazioni di origine albanese. Essa conteneva prescrizioni di ordine liturgico, come l'introduzione del Filioque nel simbolo niceno-costantinopolitano da recitarsi nella liturgia orientale; altre prescrizioni erano di ordine canonico come l'impossibilità del marito di abbracciare il rito orientale della moglie, la quale era tenuta ad uniformarsi al rito del coniuge latino; per contro, alla moglie latina era precluso analogo passaggio se il marito era di rito orientale; i figli dovevano seguire il rito del padre, salvo che la moglie latina non volesse educarli nel proprio rito. Infine stabiliva la supremazia del rito latino su quello greco. Se ad una prima lettura, l'Etsi Pastoralis apparve come una legge nettamente contraria al rito greco, di fatto si rivelò certamente restrittiva, ma garante agli albanesi di tradizione orientale un ambito ben protetto in cui poter sopravvivere.

Universalmente rimpianto, Benedetto XIV si spense ad 83 anni il 3 maggio 1758.
La sua tomba in san Pietro è opera di Pietro Bracci.
Biografia curata da Pasquale Giaquinto
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MURATORI su Papa Benedetto XIV, scrive "Da più secoli non era stata provveduta la chiesa di Dio di un pontefice sì dotto e pratico del pastorale governo"
CARLO BOTTA che non nutriva benevolenza verso il papato, parla di questo papa con entusiasmo: "la suprema sede egli certamente meritava per bontà, per dottrina, per ingegno, e per quella sopportazione delle cose del mondo che nasce per esperienza in chi il mondo lo conosce.....Nessun papa era salito al seggio di Roma, che per ingegno e per prudenza fosse come Lambertini da paragonarsi...Dotto, amico dei dotti visse e gli protesse, e gli sollevò, e sotto l'ombra sua gli raccolse"
(Lib.41).

Due aneddoti sulla sua vita quotidiana di quest'uomo veramente superiore. Il mattino senza alcun cerimoniale andava in città in questa o in quella chiesa romana a celebrare la messa. Nel pomeriggio sbrigati gli affari di stato, verso sera a piedi passeggiava per le vie di Roma, da solo, come un qualunque prelato, con una predilezione per i quartieri popolari, come in Trastevere dove "si tratteneva nel modo più gioviale sulla via con gente anche di bassa condizione". Altra novità fu quella di aprire il giardino del Quirinale per impartire udienze. Nel periodo estivo, che trascorreva a Castel Gandolfo, anche lì solo soletto, appoggiandosi alla sua canna, lo si poteva incontrare nelle selve a godersi il fresco, o mentre si intratteneva con i campagnoli"
(Pastor, XVI,I).
a succedergli fu CLEMENTE XIII .....




CLEMENTE XIII,
CARLO REZZONICO
(Venezia 7-3-1693)
Pontificato 3 mag. 1758 - 3 feb. 1769

CARLO della Torre REZZONICO nasce a Venezia (ma la famiglia è di origini genovesi) il 7 marzo 1693. Nel 1731 è ordinato prete e, nel 1737, creato cardinale da Clemente XII (cardinale-presbitero). Fu governatore di Rieti e Fano; nel 1743 fu nominato vescovo di Padova.

Alla morte di papa Benedetto XIV si aprì un contrastato conclave; e, il 6 luglio 1758, con l'approvazione dell'Austria, viene eletto il cardinal Rezzonico che assume il nome di CLEMENTE XIII. I veneziani si abbandonarono ad entusiastiche dimostrazioni di gioia per l'elezione del loro concittadino, anche se, alcuni anni dopo, nel 1767, i rapporti tra la Curia Romana e la Repubblica furono turbati per la pubblicazione di parecchi decreti con cui il governo della Serenissima vietava di intestare o donare beni stabili e rendite agli ecclesiastici, proibiva al clero di assumere tutele e amministrazioni di beni, limitava il numero dei religiosi regolari, restaurava l'autorità dei vescovi sui conventi, aboliva le carceri dei monasteri, vietava le questue agli istituti religiosi provvisti di mezzi, sopprimeva quelli che non avevano redditi tali da poter vivere e proclamava l'uguaglianza tra laici ed ecclesiastici riguardo al pagamento dei tributi.

Il pontificato di Clemente XIII, dunque, non fu affatto facile, specialmente perchè, diversissimo dal suo predecessore, non ne condivideva gli atteggiamenti di larga tolleranza e dimostrò notevole rigidezza nelle complesse vicende che travagliarono il suo pontificato, svoltosi nel pieno delle lotte giurisdizionali.

La diffusione delle idee illuministiche, contro le quali pronunciò una serie di condanne (iscrivendo all'Indice dei libri proibiti, nel 1759, l'Emile di Rousseau e l'Enciclopedia), e l'affermarsi del febronianesimo (messo anch'esso all'Indice con la condanna del libro 'Justini Febronii', manifesto febroniano, e del suo autore Hotheim e la sollecitazione ai vescovi tedeschi a procedere energicamente contro di esso) lo spinsero a favorire la Compagnia di Gesù; fu sostenuto, in questa difficile battaglia, dal suo segretario di Stato Luigi TORRIGIANI.

I Gesuiti, uno degli ordini religiosi più attivi della Controriforma, furono accusati di essere ingordi, settari e senza alcun principio né di sana morale né di verace religione. Non solo, ma essendo spesso collocati in eminenti posizioni, quali consiglieri delle monarchie cattoliche europee, furono accusati di aver preso parte attiva alle lotte politiche, nonostante le esortazioni ufficiali dei Generali dell'Ordine, che interdicevano loro di immischiarsi nelle questioni temporali.

La prima tempesta contro i religiosi si scatenò in Portogallo. Reggeva qui le redini del governo, sotto il debole e immorale re Giuseppe I Emanuele, il ministro di stato marchese di POMBAL. Egli osteggiava la nobiltà e il clero ritenendoli avversari dell'assolutismo e nocivi al 'progresso'. I Gesuiti, in particolare, erano colpevoli, a suo avviso, di aver sobillato e capeggiato i 30.000 indiani cristiani delle colonie portoghesi del sud America che, nel 1756, avevano impugnato le armi per difendersi (cosiddetta guerra delle riduzioni) contro l'imposta emigrazione da parte delle autorità portoghesi; l'avvenuta rivolta si concluse in un bagno di sangue (episodi suggestivamente ed onestamente riportati nella pellicola "The Mission" del 1986 di Roland Joffe).

Quando di lì a poco il re fu ferito in un attentato, Pombal colse l'occasione per reprimere brutalmente l'ordine in tutto il Portogallo e le sue colonie, accusandolo d'aver preso parte alla congiura (1759).
Fu l'inizio di una reazione a catena. In Francia, Luigi XV, mal consiliato dal suo ministro CHOISEUL e dalla marchesa di POMPADOUR, a seguito delle disgraziate imprese commerciali in cui il padre Lavette, come procuratore generale dell'ordine, si era venuto a trovare nell'isola di Martinica, tentò di salvare la Compagnia dotandola di un vicario generale francese. La proposta fu prontamente rigettata dal Generale Lorenzo RICCI e dal papa stesso (che ne espresse le motivazioni col la celebre frase: "Aut sint ut sint, aut non sint!").

Nell'agosto 1762 il parlamento francese decretò lo sciglimento della Compagnia in Francia e il debole sovrano, dopo qualche esitazione, aderì alla sentenza (1 dicembre 1764).
Anche in Spagna, dietro l'esempio della Francia, iniziò la lotta contro i Gesuiti ed avendo questi suscitato delle sedizioni pericolose alla sicurezza dello Stato, CARLO III, sotto sollecitazione del ministro massone ARANDA, con decreto del 27 marzo 1767 ordinò l'espulsione dei Gesuiti; fu immediatamente imitato dal re delle Due Sicilie, il giovane FERDINANDO IV, pilotato dal suo potente ministro TANUCCI.
In seguito le stesse misure furono adottate anche da altri stati: il duca di Parma, infatti, consigliato dal suo ministro DU TILLOT, dall'ambasciatore francese Aubeterre, dal ministro spagnolo Grimaldi e dal padre Paolo M. Paciaudi e dallo stesso Clemente XIII, che gli aveva imposto di ritirare un editto che limitava la giurisdizione ecclesiastica nei suoi stati, il 3 febbraio del 1768 ordinò che che i Gesuiti fossero espulsi da tutto il suo ducato.

Non così in Prussia. Federico II, cosciente della grande fama di educatori della gioventù (i religiosi, infatti, avevano istituito in tutta Europa, scuole, collegi, università; molti illuministi, tra cui Voltaire, avevano compiuto i propri studi proprio dai Gesuiti!) aprì loro i propri confini; e proprio sulla maggior parte di questi esiliati (cacciati perfino da Maria Teresa, ligia al papato) andò a rivoluzionare il sistema scolastico della sua grande Prussia, istituendo, primo in Europa, le scuole primarie obbligatorie, le scuole secondarie, i grandi istituti superiori, che poi i suoi successori ampliarono creando la futura colta nazione Germania, conducendo in Europa la prima vera grande lotta all'analfabetismo.

Quando morì Federico (1786), la Prussia era alfabetizzata all'80%; l'Inghilterra ci sarebbe arrivata 125 anni dopo (nel 1900); l'Italia e la Francia e perfino gli USA, solo dopo 180 anni (nel 1950-60).

Ma nonostante le innumerevoli pressioni da parte dei monarchi, che erano arrivati anche all'occupazione di alcuni territori pontifici (la Francia: Avignone e Venassino; la Spagna e Napoli: Benevento e Pontecorvo) pur di far cedere il papato, Clemente XIII, prendendo molto a cuore la Compagnia, nel 1765 emanò la bolla "Apostolicum pascendi munus" che ne riconfermava la vitalità e ne elogiava i membri.
Durante il suo pontificato Clemente XIII riconobbe ufficialmente, nel febbraio 1765, la devozione al Sacro Cuore di Gesù per la Polonia e l'Arciconfraternita omonima (la cui devozione era stata diffusa da santa Margherita Maria Alacocque e da san Claudio de la Colombière) estesa poi, da Pio IX nel 1856, a tutta la Chiesa universale.

Per cercare di porre fine alle diatribe sui Gesuiti, il Papa convocò un Concistoro, ma la morte lo colse improvvisamente il 2 febbraio 1769.

Di lui ci rimane l'imponente monumento funerale eretto dal 1783 al 1792 in san Pietro da Antonio Canova. Questo sepolcro è stato concepito dallo scultore secondo il classico schema a tre piani sovrapposti. Sul primo livello, quello basamentale, poggiano le figure allegoriche: due leoni, simbolo della forza, che proteggono la porta che da accesso al sepolcro, il genio della morte e la figura femminile con la croce in mano simbolo della Religione. Al secondo livello è posto il sarcofago, di forme ovviamente classicheggianti. Al terzo livello vi è la statua a tutto tondo del papa, che il Canova ci rappresenta in atteggiamento umile: il triregno, simbolo di potere è posto a terra, il Pontefice è inginocchiato a pregare (vedi immagine d'apertura). L'opera fu eseguita per 22.000 scudi su commissione del principe Abbondio Rezzonico Senatore di Roma, nipote del pontefice, il quale avrebbe iniziato i contatti con il Canova sin dal 1781.
a succedergli fu CLEMENTE XIV .....


CLEMENTE XIV
GIOVANNI VINCENZO ANTONIO GANGANELLI
(S. Arcangelo (RM) 21 ott.1705-1774)
(Pontificato 19 maggio 1769 - 22 set. 1774)
GIOVANNI Lorenzo VINCENZO Antonio GANGANELLI nacque a Sant'Arcangelo di Romagna (Rimini) il 31 ottobre 1705. Entrato nell'ordine dei Conventuali di S. Francesco, si distinse come oratore sacro. Fu anche valente professore di filosofia e teologia. Chiamato nel 1740 a Roma da Benedetto XIV che lo pose a capo del convento di San Bonaventura, riuscì a sottrarsi alla nomina di Generale dell'Ordine. Fu anche consultore del Santo Uffizio; Clemente XIII lo creò cardinale nel 1759.

Alla morte di Clemente XIII, avvenuta il 3 febbraio 1769, si aprì un contrastatissimo conclave tutto dominato dal problema dei Gesuiti, esplicitamente sollevato dagli ambasciatori delle monarchie europee e dai cardinali ad esse legati. Il 19 maggio il cardinale Ganganelli fu eletto come successore di Pietro scegliendo il nome di CLEMENTE XIV.

Uomo di larga umanità e di vasta cultura, da pontefice, Clemente XIV cercò di far valere il suo spirito conciliativo frammezzo alle contrastanti pressioni che dovette subire da più parti, sempre sulla questione gesuitica: la più scottante di tutte nei rapporti tra gli stati europei e il papato. La nuova cultura illuministica, infatti, affermatasi nella seconda metà del Settecento aveva preso di mira questo che tra gli ordini religiosi appariva il più potente ed influente. Se il suo predecessore aveva reagito a quell'ondata di espulsioni che stava avvenendo in tutta Europa nei paesi cattolici, Clemente XIV, alle richieste di soppressione della Compagnia di Gesù, rivendicò il ducato di Parma. Una rivalsa verso uno degli stati più piccoli, che però fece scattare la reazione solidale degli altri grandi stati; come il regno di Napoli che invase da sud i territori papalini, o come la Francia che occupò Avignone. Poco giovò che egli, per amore dei capi di stato, sospendesse nel 1770 la pubblicazione della bolla "In coena Domini" (documento del XIII secolo ampliato da Pio V nel 1568, diretto specialmente contro le tendenze cesaropapiste prevalenti in Spagna e Venezia).

Ma quali erano le ragioni per cui gli stati europei volevano vedere soppressa la Compagnia di Gesù?
Sia per i grandi successi nell'attività apostolica (specie nel campo dell'educazione), sia per i nuovi metodi di apostolato usati dai missionari gesuiti (in India, con R. de Nobili, e in Cina con M. Ricci), sia per l'opposizione all'Illuminismo e al Giansenismo, sia per la difesa di teorie in campo morale che sembravano troppo lassiste (questo fatto indusse B. Pascal a scrivere le Lettres Provinciales, un'opera brillante, ma profondamente ingiusta, che non fa onore all'Autore, nonostante l'enorme successo che ebbe a danno della Compagnia), sia per l'antipatia suscitata in taluni ambienti a causa della cosiddetta "superbia gesuitica", sia soprattutto per l'opposizione contro i Gesuiti da parte delle corti cattoliche del Portogallo, della Spagna, della Francia, di Napoli e di Parma (che malvolentieri sopportavano l'azione dei religiosi a favore delle popolazioni delle colonie americane, in quanto limitavano le possibilità di sfruttamento da parte di colonizzatori avidi, crudeli e senza scrupoli morali), la Compagnia di Gesù, in pochi anni, fu cacciata dai territori di Portogallo, Spagna, Francia, Napoli e dalle colonie del Sud e Centro America. Le corti esercitarono su Clemente XIV un pressione talmente violenta da costringerlo a sopprimere l'ordine.

Così il 21 luglio 1773 egli firmò il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù "Dominus ac Redemptor". Ne riportiamo il passo centrale: "Con ben maturo consiglio, di certa scienza, e con la pienezza dell’Apostolica Potestà, estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società, e annulliamo ed aboliamo tutti e singoli gli uffici di essa, i ministeri e le amministrazioni, le case, le scuole, i collegi, gli ospizi, e qualunque altro luogo esistente in qualsivoglia provincia, regno, e signoria, e in qualunque modo appartenente alla medesima".

Il Breve papale non esprimeva nessuna condanna dei Gesuiti (era chiaro che il gesto aveva più un valore politico-economico che religioso); da parte di essi per lo più non ci fu nessuna reazione e nessuna opposizione. Il generale della Compagnia, padre Lorenzo Ricci, accusato di non svelare i "tesori" dei Gesuiti (che in realtà non esistevano, ma che era stato stimato così grande da poterne incamerare i beni distribuendoli tra i vari regnanti europei) fu rinchiuso nel carcere di Castel Sant'Angelo. Ma egli non si lamentò mai; soltanto in punto di morte (1775), nel momento di ricevere il Viatico, fece una dichiarazione, in cui, dinanzi all'Eucaristia, affermava che la Compagnia non aveva dato nessun pretesto alla sua soppressione e che egli - personalmente - non aveva dato "motivo alcuno seppure leggerissimo" alla propria carcerazione.

Con la scomparsa della Compagnia di Gesù, l'evangelizzazione in Asia, in Africa e nell'America subì un duro colpo, dal quale non si sarebbe ripresa se non faticosamente e in parte modesta.
Ma, distrutta nelle nazioni cattoliche, la Compagnia sopravvisse nella Prussia di Federico II e nella Russia Bianca di Caterina II; apparve di nuovo nel Regno di Napoli, finché dopo la Rivoluzione Francese e la tempesta napoleonica, Pio VII, nel 1814 le ridiede vita.
La decisione dello scioglimento della Compagnia suscitò, allora e nella successive storiografie, acute polemiche, non ancora del tutto spente, tendenti, unilateralmente, a giudicare tutto il pontificato di Clemente XIV in base a quell'atto.
Vanno menzionati i suoi tentativi di riavere i possedimenti tolti alla Chiesa, l'avvio dei lavori di prosciugamento delle Paludi Pontine e la fondazione del Museo Vaticano che porta il suo nome (Museo Clementino, poi continuato dal suo successore). Per quest'ultima opera Clemente XIV incaricò J. Winckelmann di raccogliervi le statue antiche.
Soppresse, nel 1771, le "mezze feste" (feste in cui, dopo aver decorosamente ascoltato la S. Messa, fosse concesso di lavorare) che non avevano dato buoni risultati pastorali. Inotre proibì l'evirazione per ottenere voci bianche per le Schole Cantorum.

Poco dopo aver solennemente indetto (bolla Salutis Nostrae del 30 aprile) il Giubileo per l'anno seguente, nella settimana santa del 1774 il papa, levandosi da tavola, fu colto da un improvviso malessere, che fu l'inizio di una misteriosa malattia, la quale il 22 settembre di quello stesso anno lo portò alla tomba. Si sospettò che la causa della morte del Pontefice fosse dovuta a veleno propinatogli dai Gesuiti o dai loro fautori, ma i sospetti, sebbene avvalorati da gravi indizi, non sono stati finora e non saranno forse mai confermati da alcuna prova; ma è comunque degno di nota che la maggior parte delle biografie di Clemente XIV adducono come causa della sua morte l'avvelenamento.

Resta celebre il monumento dedicatogli da Antonio Canova nella Basilica dei Santi Apostoli a Roma. Clemente XIV viene infatti rappresentato da Canova assiso in trono, con il triregno in testa, e in atteggiamento severo. Il braccio destro proteso in avanti diviene simbolo della sua capacità di prendere decisioni di grande portata storica. Il monumento si svolge su tre livelli. Sulla parte basamentale vengono collocate due figure femminili, allegorie dell'Umiltà e della Temperanza, al secondo livello viene posto il sarcofago, infine, a coronare il monumento, la statua del papa.
a succedergli fu PIO VI ....

PIO VI
GIOVANNI ANGELO BRASCHI
(Cesena 17 dic. 1717- 22 ago. 1799 - Pontificato 15 feb 1775 - 22 ago. 1799)
GIOVANNI ANGELO BRASCHI nasce a Cesena il 25 dicembre 1717 dalla nobile famiglia del conte Marco Aurelio Tommaso Braschi e Anna Teresa Bandi. La sua formazione ha inizio presso i Gesuiti ed è perfezionata all’Università di Ferrara. Si addottorò in utroque iure nel 1735. Alla morte di papa Clemente XII seguì a Roma il cardinale Tommaso Ruffo, presso il quale era uditore suo zio materno, Giovanni Carlo Bandi. E quando il cardinale Ruffo fu nominato vescovo di Ostia e Velletri nel 1740, il giovane Giovanni Angelo ne divenne l'amministratore diocesano.
Nel 1755 fu nominato canonico della Basilica di San Pietro. Nel 1766, già cameriere segreto e aiutante di studio di Benedetto XIV, venne nominato Tesoriere della Camera Apostolica, prodigandosi per il risanamento dell'amministrazione e la situazione economica dello Stato Pontificio. Il 26 aprile 1773 fu creato Cardinale dell'Ordine dei preti (cardinale-presbitero).

Alla morte di Clemente XIV si aprì il conclave iniziato il 22 settembre 1774 e, dopo più di 4 mesi, il 15 febbraio 1775, il cardinale Braschi, con l'appoggio della Francia e la promessa di non ricostituire la Compagnia di Gesù, è eletto papa; sceglie il nome di PIO VI.
La Chiesa era animata dalla speranza che il Giubileo indetto l'anno prima (3 aprile 1774) da Clemente XIV e aperto e celebrato da Pio VI, avrebbe portato unità e pace al suo interno; ma il momento che si stava attraversando era molto delicato. Procediamo con ordine.

Pio VI fu un papa amante delle lettere e mecenate munifico; per questo favorì gli studi archeologici arricchendo Roma e ampliò i Musei Vaticani avviati dal suo predecessore (Museo Pio-Clementino); chiamò nella capitale artisti come A. Canova e L. David. Come sovrano temporale cercò anche di migliorare le strutture economiche e amministrative dello Stato Pontificio tentando una riforma finanziaria, catastale, legislativa e giudiziaria con la quale si propose di svecchiare strutture ormai anchilosate. Curò le comunicazioni migliorando il manto stradale di molti tratti fino ad allora appena agibili ed intraprese imponenti lavori di bonifica per il prosciugamento delle Paludi Pontine; quest'ultima opera però richiese enormi spese, oberò il bilancio e fece crescere spaventosamente il debito pubblico.

Ma Pio VI fu anche l'ultimo dei papi nepotisti. Difatti chiamò a Roma i due figli della sorella Luigia: al primo diede la porpora cardinalizia, al secondo il ducato di Nemi. Per quest'ultimo, infine, fece costruire il palazzo Braschi.
Più impegnativa e delicata è stata la politica estera, perchè da più parti i regnanti sono mossi da spinte giurisdizionaliste ed assolutistiche tipiche del dispotismo illuminato e avanzano pretese, non solo sulle proprietà ecclesiastiche, ma anche sul potere stesso dei pontefici: in Francia si sta affermando il razionalismo illuministico e in Olanda il giansenismo, i cui princìpi cominciano a trovare sostenitori anche in Germania. La diffusione di queste idee sta interessando, seppure in forma limitata, anche alcune città dell’Italia settentrionale e questo è motivo di grande preoccupazione per le diocesi.

In Austria, GIUSEPPE II, in fatto di religione, si trova in contrasto con sua madre Maria Teresa e non è un mistero per nessuno la sua pretesa di rendere puramente onorifica la supremazia del Papa e separare la chiesa austriaca dall’egemonia romana.
La situazione nel napoletano non desta minore preoccupazione, perché FERDINANDO IV decide di sopprimere numerosi conventi e di non sottostare ai tradizionali obblighi di feudatario della Chiesa con il simbolico omaggio della Chinea (cavallo bianco che il re di Napoli offriva al Pontefice in segno di vassallaggio).
Il nuovo pontefice, afflitto dal vedere scaduta l'autorità ecclesiastica per opera delle riforme dei principi, tentò di arrestarle, recandosi alla corte di Giuseppe II, che era il più audace degli innovatori. Il suo viaggio a Vienna (dove dimorò, ricevendo grandi onori, dal 17 febbraio al 22 aprile 1782 e di cui tratta Vincenzo Monti ne 'Il Pellegrino Apostolico') si tradusse in un vero e proprio fallimento. La politica febroniana dell'Imperatore e dei suoi ministri aveva portato a drastiche scelte: obbligo del giuramento statale per i vescovi, intervento dello Stato nelle questioni liturgiche e nell'ordinamento dei seminari, secolarizzazione degli ordini religiosi contemplativi. Unica consolazione del Pontefice pare siano state l'accoglienza che Cesena, Rimini, Bologna e Ferrara gli tributarono, al suo viaggio di ritorno da Vienna.

Altri attriti si verificarono tra Pio VI e Caterina II di Russia per la decisione della zarina di non considerare sciolta la Compagnia di Gesù: la congregazione continuò ad esistere (dal 1783 in poi col consenso del Papa stesso). E tra Pio VI e gli arcivescovi elettori di Treviri, Magonza e Colonia in seguito all'istituzione nel 1785, da parte del Papa, di una nunziatura a Monaco. Infatti i tre arcivescovi temevano un possibile sconfinamento della giurisdizione del nunzio nella loro propria. Nell'estate del 1786 un congresso di delegati riunito a Bad Ems sotto la presidenza del vescovo suffraganeo di Magonza ed incoraggiati dall'Imperatore Giuseppe, deliberarono delle istanze da porre; come frutto di tali deliberazioni si ebbe la cosiddetta Puntazione di Ems, datata 25 agosto 1786. Essa sviluppa in 23 articoli il programma di una chiesa tedesca secondo il modello febroniano-giuseppino. L'impossibilità di attuare simili istanze si rese ben presto evidente. Quando gli arcivescovi renani procedettero di loro autorità a concedere certe dispense nei loro territori, il nunzio di Colonia Bartolomeo PACCA, abile difensore dei diritti papali, si oppose decisamente mediante una circolare inviata direttamente ai parroci. Istanze dirette degli arcivescovi a Roma per un accomodamento di tutta la questione, furono respinte completamente dal Papa in uno scritto del novembre 1789.

Ulteriori scaramucce si ebbero anche in Toscana, con il granduca LEOPOLDO II che si era abbandonato ad un eccessivo zelo di riforma ispirato ai principi del giuseppinismo e che portò, nel 1786, ad un "Regolamento" per il clero toscano, il quale, secondo il suo desiderio, doveva venir ratificato dai sinodi diocesani e, poi, dal sinodo nazionale. Ma dei 18 vescovi del granducato solo pochi vi aderirono. Fra questi, con maggior calore degli altri, il vescovo di Pistoia e Prato, SCIPIONE DE RICCI, nipote del generale dei Gesuiti, da molti posteri etichettato come giansenista e gallicano. Sotto la sua guida il sinodo diocesano di Pistoia emanò, nel settembre 1786, una serie di decreti di riforma da molti ritenuti intrisi di gallicanesimo (effettivamente questo regolamento conteneva gli articoli gallicani del 1682), ma da altri considerati semplicemente come troppo avanguardisti per l'epoca. Papa Pio condannò le 85 proposizioni del sinodo di Pistoia con la bolla 'Auctorem fidei' del 28 agosto 1794. Ricci, ritiratosi già da qualche tempo a vita privata, si sottomise all'autorità pontificia solo nelle mani di Pio VII.

Ma preoccupazioni ancora più gravi apportarono al Pontefice la Rivoluzione Francese e, di conseguenza, i rapporti con la Francia.

Paradossalmente però, allo scoppio della Rivoluzione il problema religioso si pose sotto ottica diversa da quella tradizionalmente considerata nei secoli passati. Infatti, pur non sminuendo l'importanza degli aspetti teologici, che taluni rivoluzionari da più parti misero in dubbio innalzando ed elogiando all' "Essere supremo" come qualcosa di completamente diverso dal Dio personale rivelatosi nel Cristianesimo, particolare importanza meritò la considerazione "politica" del problema Chiesa.
Il clero, una delle tre classi sociali nelle quali si suddivideva la Francia dell'Ancien Regime, era forse il ceto sociale nel quale maggiormente spiccava la diversità tra ricchi e poveri. Sin dal 4 agosto 1789, in seguito alla soppressione del sistema feudale e di tutti i privilegi di classe, fu abolita anche la decima ecclesiastica (tassa a favore del clero), e subito dopo, nella DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO E DEL CITTADINO (26 agosto) - condannata dal Papa, davanti al Concistoro, il 29 marzo 1790 - fu proclamata l'illimitata libertà di coscienza e di culto.

Il clero donò per il bene della patria l'argento non indispensabile delle chiese. Di lì a poco (2 novembre 1789), su proposta del deputato CHARLES MAURICE DE TALLEYRAND (1754-1838), mondano e ambizioso vescovo di Autun, uomo sulla quale è stato scritto tutto il bene e il male possibile, l'intero patrimonio ecclesiastico fu messo a disposizione della nazione, con l'onere, tuttavia, di sostenere le spese di culto, di mantenere i ministri della Chiesa e di assistere i poveri.
Però, nei primi mesi di questa instabile situazione politica, si sostenne la necessità di fare della Chiesa lo strumento principale di comunicazione dei principi rivoluzionari tra la popolazione. Molto preti della provincia si fecero infatti portatori delle nuove idee a tal punto che le parrocchie divennero, soprattutto nei centri minori, dei veri e propri centri di diffusione della fede rivoluzionaria, la quale spesso era confusa con la fede cristiana.

Ma, se da un lato buona parte del clero non vedeva male la neonata volontà rivoluzionaria, dall'altro però, l'abolizione delle decime e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici allontanarono molti religiosi dalla causa rivoluzionaria. La Chiesa francese era divisa. Lo zoccolo duro a sostegno delle posizione rivoluzionarie risiedeva principalmente nel militante anticlericalismo parigino che da tempo spingeva per ottenere tali soluzioni radicali; d'altro canto però nelle province cominciarono a svilupparsi i primi segni di sfiducia verso la volontà rivoluzionaria che porteranno poi più tardi seppure con l'aggiunta di altre motivazioni, all'insorgere della famosa "Causa Vandeana" (1792-1797).

L'intento di Talleyrand e compagni era diretto a fare della Chiesa uno strumento della Rivoluzione servizio del nuovo Stato: sia attraverso le "voci" del pulpito che dovevano pubblicizzare i principi rivoluzionari, sia tramite le stesse istituzioni religiose che dovevano farsi fucine delle nuova cultura rivoluzionaria (basti pensare all'insegnamento e all'istruzione, monopolio della Chiesa da secoli), sia e soprattutto, grazie alla "nazionalizzazione" dei beni ecclesiastici che dovevano portare ossigeno nelle malandate casse dello Stato.

Di fronte però alla crescente consapevolezza che ormai non si sarebbe mai più formato quel fidato esercito di preti-cittadini che si pensò potesse svilupparsi, la volontà rivoluzionaria si spinse in due direzioni: nominare nuovi "lettori" dei decreti dell'Assemblea in sostituzione dei preti recalcitranti, nonché la realizzazione della COSTITUZIONE CIVILE DEL CLERO approvata il 22 luglio 1790.

La Costituzione Civile del Clero fu un atto fondamentale della Rivoluzione che privò gli ecclesiastici di ogni loro particolare privilegio o distinzione. Essa stabilisce la struttura gerarchica del clero cattolico nei seguenti termini: 10 grandi aree metropolitane dirette da arcivescovi eletti dai cittadini; 83 vescovi (uno per ogni dipartimento) eletti dai cittadini; i curati di ciascuna parrocchia dovranno anch'essi essere eletti. Viene altresì decretata: la completa indipendenza dell'organizzazione ecclesiale francese dal Papato romano; l'obbligo tassativo, per tutti i sacerdoti, di prestare giuramento di fedeltà alla nazione, al Re ed alla Costituzione. La contropartita che lo stato offrì fu, bisogna dirlo, molto appetitosa: una rendita da 20.000 a 50.000 lire annuali per i vescovi e gli arcivescovi e da 1.200 a 6.000 lire annuali per ciascun curato secondo l'importanza della parrocchia assegnata.

La divisione e la confusione che afflisse la Chiesa di Francia fu tremenda. Quasi la metà dei parroci e un terzo del clero complessivo (circa 25.000-30.000 ecclesiastici) prestarono il giuramento richiesto (assermentés), primo fra tutti il Talleyrand. La grande maggioranza del clero francese (réfractaires), circa 60.000-70.000 sacerdoti e tutti i vescovi diocesani tranne 4, rifiutarono di giurare e la maggior parte del popolo si pose dalla loro parte. Questi vescovi rimasti fedeli a Roma, presentarono all'Assemblea un memoriale nel quale di chiedeva l'approvazione della Santa Sede prima di dover applicare tale Costituzione.

Il 24 febbraio 1791 a Parigi ebbe luogo la consacrazione dei primi vescovi costituzionali da parte del Talleyrand. Si dice che prima di morire, questi si sia riconciliato con la chiesa che aveva contribuito a fare a pezzi; molti però ritengono fosse troppo intelligente per fare una cosa simile.
Pio VI rigettò, dopo troppo lunga esitazione, in un Breve del 13 aprile 1791 (Cum populi) la Costituzione Civile come fondata su principi eretici, dichiarò sospesi i sacerdoti giurati (ai quali fu dato solo 40 giorni per poter ritrattare: e molti lo fecero), invalidò le elezioni ecclesiastiche compiute secondo le nuove norme.
Egli pagò questo provvedimento con la perdita delle contee francesi di Avignone e Venassino, che non furono più recuperato dallo Stato Pontificio (settembre 1791). Ma i rapporti diplomatici era definitivamente interrotti (bisognerà attendere il Concordato Consalvi del 1801 per vederli ripresi).

Con l'esasperazione si arrivò, addirittura, a bruciare l'effigie di Pio VI a Palais Royal (3 maggio 1791), da parte di un gruppo di dimostranti. Non avendo ottenuto delle scuse ufficiali per questo episodio, il nunzio apostolico Dugnani lasciò la Francia in gran fretta.
L'assemblea nazionale legislativa, che il 1° ottobre 1791 subentrò all'Assemblea Costituente, tentò di infrangere con la violenza l'opposizione del clero. I sacerdoti che avevano rifiutato il giuramento vennero perseguitati, gettati in carcere e deportati; le congregazioni religiose ancora rimaste furono soppresse, fu proibito l'uso dell'abito ecclesiastico. Al principio di settembre del 1792 si giunse, nelle carceri di Parigi, ad una terribile carneficina di detenuti: circa 1400 vittime; 191 degli uccisi sono stati beatificati come martiri nel 1926.

Finalmente la Convenzione Nazionale (settembre 1792 - ottobre 1797), diretta dagli elementi più radicali ('la Montagne') portò al vertice l'opera rivoluzionaria. Fin dal primo giorno del suo governo (21 settembre 1792) fu abolita la Monarchia e proclamata la Repubblica. Luigi XVI, che dall'agosto 1792 era tenuto imprigionato con la sua famiglia nel Temple di Parigi, fu giustiziato come traditore dello stato e della nazione (21 gennaio 1793); 9 mesi dopo seguì la stessa sorte la regina, la frivola, ma non ignobile Maria Antonietta d'Austria.
Il 22 settembre 1792 ebbe ufficialmente inizio il calendario repubblicano che aboliva l'era cristiana; la domenica fu sostituita dalle decadi e le feste cristiane da quelle repubblicane (3 ottobre 1793).

Alla fine, con il decreto del 23 novembre 1793, la convenzione abolì ufficialmente il cristianesimo e con cerimonie piuttosto meschine proclamò il 'Culto alla Ragione'. L'arcivescovo costituzionale di Parigi JEAN-BAPTISTE J. GOBEL (1727 - 1794. Gesuita, appassionato collezionista d'arte sino quasi a rovinarsi finanziariamente, riesce a rimettersi in sesto mediante incarichi ben remunerati, in alcune diocesi; viene eletto vescovo costituzionale con ben 500 voti contro le poche decine raccolti da altri che concorrevano all'incarico. Si battè a favore del matrimonio dei preti cattolici; finito sotto processo per l'accusa di cospirazione contro la Repubblica e di 'ateismo' morì ghigliottinato) e altri ecclesiastici deposero il loro ufficio e si professarono seguaci del culto nazionale della 'libertè' e della 'egalitè'. Celebrazioni sacrileghe profanarono la cattedrale di Notre-Dame ed altre chiese di Parigi e del resto della Francia.

Ma il dominio dell'ateismo era troppo squallido e irragionevole perchè potesse resistere a lungo. Su proposta di ROBESPIERRE, la convenzione decretò il riconoscimento di un Essere supremo e dell'immortalità dell'anima (8 maggio 1794). Ma il Terrore sanguinario continuò, anche se più limitatamente, durante il periodo del Direttorio (di 5 membri; 1795 - 1799).
L'ostilità contro il Cristianesimo andò gradualmente cessando solo quando Napoleone, vittorioso in Italia, con il colpo di stato del 9 novembre 1799, rovesciò il debole e ormai malvisto governo direttoriale e si fece nominare Primo Console per 10 anni.
Il rovesciamento della situazione aveva investito in pieno anche l'Italia da quando il giovane generale era entrato, occupandola, in Romagna, regione facente parte dello Stato Pontificio. Mentre il Bonaparte si trovava a Bologna, la Curia Romana, atterrita dai suoi progressi, gli inviò il D'AZARA e il marchese GRANDI perché trattassero con il Generalissimo un amichevole componimento. Il Bonaparte chiese 40.000.000 di franchi, il tesoro della Santa Casa di Loreto, 2.000 codici vaticani e 200 opere d'arte; inoltre che fossero cacciati gli emigrati francesi dallo Stato Pontificio.

Il 23 giugno 1796 fu pattuita una tregua. Il Bonaparte sgomberava Faenza e restituiva Ravenna, ma rimaneva in possesso delle legazioni di Ferrara e di Bologna e si riservava il diritto di presidiare Ancona. La Curia Romana doveva pagare un indennizzo alla famiglia di Ugo Bassville (emissario francese ucciso a Roma per le sue spavalderie in un tumulto popolare nel gennaio 1793), scarcerare i prigionieri politici, consegnare 500 codici e 100 opere d'arte e pagare, infine, 21.000.000 di lire.
Il Papa allora il 5 di luglio indirizzò un Breve ai cattolici francesi esortandoli ad ubbidire alle autorità e affermando che la Chiesa non avversava l'osservanza delle leggi civili. E perché si giungesse alla pace, furono mandati a Parigi il conte CRISTOFORO PIERACCHI, il segretario EVANGELISTI e il padre domenicano GRANDI.

Inoltre Napoleone costrinse alla pace il re del Piemonte, occupò la Lombardia respingendo gli eserciti austriaci fin dentro le Alpi, sviluppando più largamente le operazioni occupando la Repubblica Veneta che vide così il suo tramonto. Altre repubbliche democratiche vennero instaurate nel resto della penisola, come la Repubblica Ligure (1797), la Repubblica Lucchese e la Partenopea (1799). Nella loro breve esperienza costituzionale alcune delle repubbliche italiane, a differenza della loro sorella maggiore francese, assunsero verso la Chiesa Cattolica un atteggiamento più moderato.
L'urto fu particolarmente duro per lo Stato Pontificio e il Papa anche perchè i francesi si avvicinavano sempre più a Roma. Il 9 febbraio 1797 il Bonaparte fa occupare Ancona per costringere il Papa ad un ulteriore negoziato sulla cessione di determinati territori pontifici alla Francia.
Il 12 febbraio iniziarono le trattative e il 19 febbraio Napoleone e Pio VI firmarono la PACE DI TOLENTINO.

Lo Stato Pontificio fu decurtato della Romagna, mentre l'imposizione veniva aggravata di altri 15.000.000. Le Marche, col porto di Ancona, e parte dell'Umbria, pur facendo ancor parte dello Stato Pontificio, rimasero occupate dalle truppe napoleoniche.
Nonostante la pace di Tolentino la Repubblica non tralasciava mai l'occasione di mostrare la sua ostilità. Desiderosa com'era di abbattere il potere temporale, aveva mandato a Roma emissari con l'incarico di stimolare i novatori, aveva, per mezzo del suo ambasciatore GIUSEPPE BONAPARTE fratello di Napoleone, ottenuto che parecchi arrestati per tentativi rivoltosi, fossero graziati, e che il generale austriaco PROVERA, cui era stato affidato il comando dell'esercito pontificio, fosse licenziato; aveva inoltre mandato un suo delegato, il generale DOMBROWSKI, nel ducato d'Urbino ed ordinato a due colonne di Cisalpini di sollevare a ribellione le province di Pesaro e Senigallia.

Erano queste le prime avvisaglie di un'azione francese contro Roma, per iniziar la quale non si aspettava che un'occasione propizia. L'occasione si presentò alcuni giorni dopo. I novatori romani, nella notte dal 27 al 28 dicembre, guidati dallo scultore CERACCHI e dal notaro AGRETTI, si radunarono sul Pincio col proposito di andare a piantare l'albero della libertà nelle principali piazze della città. Dispersi dalle truppe pontificie, tornarono a radunarsi il giorno dopo a Trastevere, presso il Palazzo Corsini, dove abitava GIUSEPPE BONAPARTE, il quale scese in strada per persuadere, insieme con EUGENIO BEAUHARNAIS e i generali ARRIGHI, CARNOT e DUPHOT, i tumultuanti ad allontanarsi. Disgrazia volle che in quel momento giungesse un plotone di fanteria pontificia, che, con un assalto, stese il Duphot al suolo con una serie di colpi dei fucilieri.
Questo doloroso incidente non poteva non essere sfruttato dalla Francia. Sebbene il governo pontificio si fosse dichiarato pronto a dare qualsiasi soddisfazione alla Francia, Giuseppe Bonaparte chiese il passaporto e partì per Firenze. Una quindicina di giorni dopo, il generale BERTHIER riceveva dal Direttorio l'ordine di marciare rapidamente su Roma, di tentare di occuparla, di indurre il Pontefice alla fuga, infine di costituire un governo repubblicano.

Il Berthier, radunati ad Ancona circa diecimila soldati, nell'ultima decade del gennaio del 1778, si mosse verso Roma e il 10 febbraio si accampò a Monte Mario, da qui inviò nella metropoli un ufficiale e un messo ad ordinare che nel termine di tre ore gli consegnassero Castel Sant'Angelo, di togliere dalla Congregazione di Stato alcuni Cardinali, che gli fossero dati in ostaggio alcuni dignitari, liberati i carcerati politici, disarmati gli abitanti e licenziato l'esercito. Inoltre entro un mese dovevano essergli pagati 4.000.000 scudi, entro dieci giorni gli si dovevano dare 3.000 cavalli e consegnare tutti quei libri, manoscritti ed oggetti d'arte che voleva; la Santa Sede doveva infine rinunziare ai diritti riservatigli dal trattato di Tolentino sui possessi della Mesola e di Santa Martina, sequestrare i beni dei nemici della repubblica, erigere due monumenti espiatori sui luoghi dove erano stati uccisi il Bassville e il Duphot e inviare a Parigi una deputazione ad esprimere a quel Direttorio il rammarico del governo papale per i fatti accaduti. Accettate queste condizioni e dati alcuni ostaggi, sarebbero stati dai Francesi rispettati il culto, le persone e le proprietà dei cittadini.

Pio VI accettò i patti che gli furono imposti: il 10 febbraio ordinò che Castel Sant'Angelo fosse consegnato al Berthier e che gli ostaggi si recassero al Quirinale; il 13 pagò 200.000 scudi; il 14 sequestrò i beni degli Inglesi, dei Russi e dei Portoghesi; quindi consegnò nelle mani dei Francesi quei suoi ministri che non erano riusciti a fuggire (tra cui monsignor CONSALVI), i quali, dopo un breve periodo di detenzione, furono banditi dallo Stato.
Il generale Berthier aveva avuto ordine dal Direttorio di costituire in Roma un governo democratico, senza però mostrare di averci lui messo mano. Non era cosa facile, essendo pochi i patrioti nella città, tuttavia i suoi incaricati riuscirono il 15 febbraio a radunar circa 300 persone, le quali, alla presenza del generale CERVONI, protetti da un drappello francese comandato dal MURAT dichiararono con atto rogatorio di tre notai, che il popolo romano, stanco dell'oppressione, deplorava gli assassini commessi dal governo papale, "rivendicava i primitivi diritti della sua sovranità" e prendeva nelle sue mani il potere per esercitarlo secondo "i principi di verità, di giustizia, di libertà, d'uguaglianza".

Dichiararono inoltre di voler salva la religione e l'autorità spirituale del Pontefice ed affidarono in via provvisoria il governo a sette consoli; ad assistere i consoli furono nominati due ministri. Al Campidoglio fu infine piantato l'albero della libertà e inaugurato lo stendardo della nuova repubblica, bianco, rosso e nero.
Lo stesso giorno dell'entrata del Berthier a Roma, il generale CERVONI si recò in Vaticano ad annunziar al Papa che era stato proclamato il governo repubblicano e ad intimargli di riconoscerlo; ma Pio VI rispose che non poteva rinunciare ad una sovranità che gli veniva da Dio e non dagli uomini e che alla sua età di ottant'anni nulla aveva da temere ed era preparato a sopportare con fermezza qualsiasi sofferenza.
La dignitosa risposta del Pontefice non fece arrestare o mutare il corso degli avvenimenti né ebbe riscontro nel contegno del Sacro Collegio. Il Vaticano fu invaso, furono disarmate le guardie e i mobili e la maggior parte delle stanze furono suggellati. I principi della Chiesa, costernati, non levarono alcuna protesta, anzi il 18 febbraio quattordici di loro intervennero al solenne Te Deum con cui si volle consacrare il nuovo governo.

Quel medesimo giorno, il commissario francese Haller intimò al Papa di lasciare la metropoli entro 48 ore, e la mattina del 20 febbraio 1798, dopo averlo fatto entrare in una carrozza con alcuni familiari, lo fece accompagnare fino ai confini della Toscana, dove il venerando vegliardo ricevette ospitalità in un convento d'Agostiniani di Siena. Non contenti di avere cacciato il Vicario di Cristo, i Francesi, nei primi di Marzo, espulsero tutti gli ecclesiastici forestieri e, confiscati loro i beni, deportarono fuori dello Stato i membri del Sacro Collegio che erano rimasti, eccettuati due, l'Altieri e l'Antici che rinunciarono alla porpora.
A queste violenze dei Francesi, altre se n'aggiunsero. I liberatori, nel nome della libertà, sotto il pretesto di confiscare i beni ai nemici, commisero, com'erano soliti in ogni luogo da loro "liberato", numerose rapine e saccheggi.
Ma le reazioni del popolo romano non tardarono a manifestarsi. Il 25 febbraio, i Trasteverini brandirono le armi e si diedero a percorrere le strade gridando "Viva Maria! Viva il Papa!"; poi fu la volta degli abitanti d'Albano, di Marino, di Velletri e d'altri paesi vicini. Ma la rivolta era destinata ad esser facilmente domata. Difatti il DELLAMAGNE con due compagnie di granatieri ed altre truppe e il colonnello SANTACROCE con una schiera di guardie nazionali presto ebbero ragione dei ribelli: duecento caddero prigionieri e ventidue deferiti ad un consiglio di guerra, furono fucilati.
Ma più che nei popolani male armati e mal guidati, il pericolo stava negli stessi francesi ammutinati, non sempre riconoscenti dell'autorità degli inviati del Direttorio (come accadde con il Massena, il Saint-Cyr,il Mcdonald). Ciò portò anche a dissesti economici, in particolare al rincaro delle merci e, di conseguenza, alla fame. Altra conseguenza delle tristi condizioni furono le rivolte che si ebbero anche nelle province (Ferentino, Terracina, Frosinone, Orvieto, Campagna, Marittima, Perugia, Città di Castello, Sant'Angelo in Vado, Urbania, Urbino).

L'ottantenne Pio VI non potè che restare a guardare. Il 10 aprile 1799 venne trasferito alla Certosa di San Cassiano nei pressi di Firenze; poi, per ordine del Direttorio, facendo tappa a Parma e Torino, in Francia: a Briançon e a Valence-Drome, dove giunse in pessime condizioni di salute e dove fu dichiarato prigioniero di stato.
Qui, il 29 agosto 1799, logorato dai patimenti fisici e morali, la morte lo liberò dalle sue lunghe sofferenze. La salma fu trasferita a Roma per ordine di Napoleone nel 1802. Una statua in suo onore fu innalzata sulla confessione di San Pietro nel 1822 dal Canova.

Suggestive le sue parole (Quoties animo) scritte pochi giorni prima della morte: "Le tante tribolazioni che troppo Ci hanno colpito, Ci avrebbero sopraffatto se la grazia di Gesù Cristo non Ci avesse aiutato".
a succedergli sul soglio fu PIO VII ....




PIO VII
BARNABA CHIARAMONTI
(Cesena 14 Ago. 1742 - Pontificato 14 mar. 1800 - 20 ago. 1823)

Luigi BARNABA nacque a Cesena il 14 agosto 1742, ultimo figlio di Scipione CHIARAMONTI e Giovanna Coronata Ghini, entrambi appartenenti all'aristocrazia cesenate. Dopo la morte del padre e il ritiro della madre in convento, il giovane Barnaba intraprese nella città natale i primi passi della vocazione ecclesiastica tra i Benedettini. Col nome di Gregorio, dopo un periodo a Padova dove intraprese gli studi di filosofia e teologia, raggiunse Roma per perfezionarsi al collegio S. Anselmo, risiedendo all'abbazia di S. Paolo fuori le Mura. Divenuto professore di teologia, si trasferì a Parma dove divenne ben presto punto di riferimento per gli intellettuali della piccola capitale dei Farnese.
Nel febbraio del 1775, il cesenate Angelo Giovanni Braschi fu eletto Papa col nome di Pio VI: questo evento portò Barnaba Chiaramonti alla nomina di priore dell'Abbazia benedettina di S. Paolo a Roma. Sette anni più tardi, il 22 dicembre 1782, Barnaba Chiaramonti fu nominato vescovo di Tivoli e tre anni più tardi, il 14 febbraio 1785, cardinale e vescovo d'Imola.
Il 12 agosto 1785, il nuovo vescovo fece il suo ingresso solenne in cattedrale dimostrando subito alla città, lì riunita, quel carisma che lo avrebbe caratterizzato come uno dei personaggi più significativi della storia imolese nel passaggio decisivo tra il XVIII e il XIX secolo.
Come vescovo d'Imola, il cardinale Chiaramonti favorì la conclusione dei più importanti lavori commissionati dal suo predecessore all'architetto Cosimo Morelli e la fondazione della tipografia del seminario, da cui avrebbe poi preso origine quella di Ignazio Galeati.

La prima volta che i francesi giunsero a Imola fu il 23 giugno del 1796. È in questo momento che si verificarono i primi tumulti di fronte al Monte di Pietà presidiato da guardie armate. Solo l'intervento del cardinale Chiaramonti scongiurerà una dura reazione dei francesi dopo l'aggressione e il ferimento di uno di loro ad opera delle popolane imolesi.
A Lugo furono meno fortunati e la rappresaglia dei francesi si trasformò, il 30 giugno del 1796, in un saccheggio che portò l'uccisione di oltre 60 lughesi e l'assalto al locale Monte di Pietà che fu svuotato di ogni oggetto di valore. Anche la comunità ebraica fu depredata di ogni avere. Ma i lughesi non furono i soli a ribellarsi al "nuovo" ordine imposto dalle idee giacobine.
Nell'estate del 1796 ribellioni scoppiarono un pò dovunque, ad Argenta, Lavezzola, Conselice, Fusignano e San Patrizio fino al 1799 e furono sedate con arresti, deportazioni e decine di fucilazioni sommarie. Popolani, contadini, artigiani e gente dei ceti più umili che difendevano le loro tradizioni, i propri valori sia culturali che religiosi furono bollati come sediziosi, briganti o semplici stendardi di confraternite e vennero condotti trionfalmente a Parigi ed esibiti come trofei strappati al nemico sul campo di battaglia. L'attaccamento di Chiaramonti a Imola e alla sua diocesi è dimostrata dal fatto che, una volta eletto Papa, decise di conservare per sè ancora il titolo di vescovo di Imola, carica che mantenne fino alla morte.
E probabilmente fu proprio grazie a questi eventi che in lui si andò formando una coscienza aperta alle innovazioni. Del resto rimane celebre la sua omelia del Natale 1796, a Venezia, quando si pronunciò a favore di un accordo tra cattolicesimo e democrazia rivoluzionaria ("Siate dei buoni cristiani e sarete dei buoni democratici").

Alla morte di Pio VI (1799) avvenutà, in cattività, a Valence si aprì il conclave tenutosi a Venezia presso il Monastero di san Giorgio, sotto la protezione dell'Austria, essendo Roma occupata dai francesi. Il conclave durò tre mesi e mezzo e fu molto travagliato. Il 14 marzo 1800 (il 1800 è l'unico anno centenario in cui non fu celebrato il Giubileo essendo vacante la sede pontificia) fu eletto il cardinale Chiaramonti che assunse il nome di PIO VII.
Questi divenne, fin dal primo istante, della "eroica resistenza". Purtroppo trovò sul suo cammino un uomo di altissimo valore carismatico come Napoleone, il quale proprio qualche mese prima (9 novembre 1799) aveva rovesciato il debole governo dittatoriale e si era fatto nominare primo Console (24 dicembre 1799) per la durata di 10 anni.
Il nuovo Papa fece il suo ingresso a Roma, sgomberata dalle truppe napoletane, il 3 luglio. Ma oltre a questa "provvidenziale" elezione di un uomo molto intelligente, abile, ostinato assertore e profondamente convinto che il capo di una Chiesa investita di una missione sovrannazionale non avrebbe mai potuto asservirsi a un'unica nazione, fosse pure il più grande impero, la Provvidenza gli mandò un altrettanto intelligente cardinale come segretario di stato della Chiesa, ERCOLE CONSALVI (1757-1824) prelato di alte capacità politiche che si consacrò totalmente al servizio del suo signore (ci piace descriverlo con le sue stesse parole: "...abbiamo temuto per la religione e per la Chiesa, e non per la nostra propria persona per la quale, Dio ne è testimone, non abbiamo mai provato il benchè minimo timore"). A soli 43 anni aveva già raggiunto le più alte cariche nella curia romana. A fianco di PIO VII subito si preannunziò un clima nuovo e più liberale in tempi difficili.
La vittoria di Napoleone sugli austriaci a Marengo il 14 giugno 1800 rese nuovamente i francesi padroni d'Italia: nell'Italia settentrionale fu ripristinata la Repubblica Cisalpina (dal 1802 chiamata Repubblica Italiana).
Veramente il primo Console e capo effettivo della Francia era personalmente incline alle idee rivoluzionarie e, in fondo, religiosamente indifferente, se non proprio libero pensatore; la religione per lui contava in quanto fattore politico: tuttavia egli vedeva chiaro che soltanto il Cristianesimo poteva servire da fondamento etico dell'Europa e da tessuto connettivo della compagine sociale. Ed in questo fu anche molto coraggioso perchè si mise contro i politici imbevuti di idee illuministiche, i generali, i letterati, i giornalisti, la borghesia colta e intellettuale; ma egli sapeva che gran parte del popolo francese voleva ritornare alla religione cattolica, che egli riteneva congenita-educativa, perchè atavica. Infatti secondo Napoleone il cattolicesimo aveva tenuto insieme la famiglia e il borgo, aveva difeso alcuni valori, e nei riti aveva dispensato commozione e spiritualità. "... Ho bisogno del Papa... lui solo può riorganizzare i cattolici di Francia nell'ubbidienza repubblicana".

Nella celebre allocuzione al clero di Milano del 5 giugno 1800, Napoleone espresse pubblicamente la convinzione che la religione fosse indispensabie come sostegno allo Stato ed espresse la sua volontà di riconciliare la Francia con il Papato. Furono allacciate presto le trattative. Si giunse ad una conclusione solo quando, in seguito ad un ultimatum di Napoleone, lo stesso segretario di stato cardinal Consalvi comparve a Parigi.
Nonostante mille difficoltà (opposizione anticlericale in Francia, opposizione di Luigi XVIII, opposizione della Chiesa costituzionale, opposizione del clero gallicano francese) fu stipulato il CONCORDATO FRANCESE (Ecclesia Christi), in 17 articoli, il 15 luglio 1801. Furono così poste nuove fondamenta legali alla Chiesa in Francia; per il suo adeguamento al moderno stato di cose tale concordato servì da modello ad altri che seguirono nell'Ottocento.

Pio VII consegna al Cardinal Consalvi la ratifica del Concordato (part. dipinto di Wicar)
Nel concordato si stabiliva che la religione cattolica apostolica romana era la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi e che poteva liberamente e pubblicamente essere praticata, nell'osservanza tuttavia delle prescrizioni di polizia. Si prevedeva una nuova ripartizione ecclesiastica della Francia in 60 vescovati di cui 10 arcivescovati. La nomina dei nuovi vescovi (tutti quelli che si trovavano in carica, giurati o no, dovevani dimettersi) era di competenza del primo Console, mentre la loro istituzione canonica spettava al Papa; si prescriveva giuramento di fedeltà allo Stato per tutti gli ecclesiastici, la Chiesa rinunciava ai possedimenti confiscati durante la Rivoluzione, e, in cambio, lo Stato si assumeva il mantenimento adeguato dei vescovi. Questi dovevano prestarsi, in accordo con le autorità statali, a una nuova delimitazione delle parrocchie delle loro diocesi e avevano il diritto di nominare i parroci. Il primo Console conservava presso la Santa Sede tutti i diritti e le prerogative del precedente governo. Accettando il Concordato il Papa, indirettamente, riconosceva la Repubblica come sistema legittimo in Francia, rinunciando alla monarchia!

Se i vantaggi che la Chiesa riuscì ad ottenere (ripristino del culto e lo scampato pericolo di un tremendo scisma) furono notevoli, non va dimenticata la situazione del clero francese per una parte rimasto fedele al Papa e per un'altra assoggettato a Napoleone; le difficoltà, quindi, che sorsero nell'attuazione ebbero effetto di rallentamento.
Ma Napoleone non mantenne i patti. Nominò autonomamente 10 vescovi costituzionali e fece segretamente redigere 77 ARTICOLI ORGANICI che furono pubblicati, insieme al Concordato, il 18 aprile 1802, quasi come parte integrale di quello. Erano articoli interamente dominati di gallicanesimo e contrastavano con le disposizioni del Concordato. In questi articoli organici tutti i decreti del Papa e dei sinodi stranieri venivano subordinati al placet statale, gli articoli gallicani del 1682 venivano dichiarati obbligatori per i docenti dei seminari, si ammetteva un unico catechismo approvato dal governo, si proibiva la convocazione di sinodi e la permanenza di legati pontifici in Francia senza il permesso del governo, si ammetteva il ricorso al consiglio di stato contro il tribunale ecclesiastico, si introduceva una distinzione tra parroci cantonali (curés) e parroci succursali (desservantes) molto piu numeorsi, ma scarsamente retribuiti e senz'altro più facilmente amovibili.

Il Papa protestò definendo inaccettabili 21 dei 77 articoli organici. Napoleone non se ne curò.
Un'ulteriore difficoltà nasceva dal fatto che quasi la metà dei vescovi non giurati (che avevano, cioè, mantenuto fedeltà al Papa) rifiutavano di dimettersi, tanto che si dovette giungere, in parecchi casi, alla loro deposizione, procedimento senza esempi nella storia della Chiesa. Per il bene della comunità ecclesiale anche coloro che le erano stati fedeli si videro spotestati. Un piccolo nucleo di fedeli delle diocesi di Lione e Poiters, appoggiandosi a due vescovi intransigenti rifiutarono il concordato: ne nacque lo scisma della cosiddetta Piccola Chiesa (PETITE EGLISE). I suoi seguaci, che dal 1847 rimasero privi di sacerdoti, ritornarono a poco a poco, eccettuata una piccilissima parte, nella Chiesa romana.

Nel 1803 Napoleone si dedicò pure ad assestare le relazioni in materia religiosa tra la Santa Sede e la "Repubblica Italiana" comprendente la Lombradia e le tre legazioni settentrionali dello stato pontificio ("... Non toccherò l'indipendenza della Santa Sede; ma le condizioni devono essere che Vostra Santità avrà per me nel temporale gli stessi riguardi che io ho per Lei nello spirituale"). Il 7 settembre 1803, tra il cardinal Caprara e il Marescalchi, fu firmato il CONCORDATO ITALIANO che constava di 22 articoli. Con questo la religione cattolica era dichiarata religione di stato della Repubblica Italiana; il presidente delle Repubblica sceglieva i vescovi e gli arcivescovi ai quali il Pontefice dava l'istituzione canonica; i candidati alle sedi vescovili erano tenuti a prestar giuramento, sul modello francese, nelle mani del presidente della Repubblica e i parroci nelle mani dell'autorità civile; le chiese vescovili di Brescia, Bergamo, Como, Crema, Cremona, Lodi, Novara, Pavia, Vigevano dipendevano dall'arcivescovo di Milano, le altre erano affidate agli arcivescovi di Bologna, Ferrara e Ravenna; soppresse le diocesi di Sarsina e Bertinoro, le abbazie di Asola e di Nonantola incorporate nelle diocesi adiacenti. I vescovi potevano comunicare liberamente con la Santa Sede su tutte le materie spirituali ed ecclesiastiche, conferire con le parrocchie e punire gli ecclesiastici; furono conservati i capitoli delle diocesi metropolitane, delle cattedrali e delle maggiori collegiate; le mense vescovili, i seminari e le parrocchie furono convenientemente dotate dallo Stato; ai vescovi erano assegnati la disciplina, l'insegnamento e l'amministrazione dei seminari; il governo si obbligava a non sopprimere alcuna fondazione ecclesiastica senza l'intervento della Santa Sede; il clero era esente dal servizio militare; furono proibiti, infine, gli scritti immorali o irregiliosi.

Ma tale Concordato, per disposizione dello stesso Napoleone, entrò il vigore solo il 1° giugno 1805; nel frattempo egli aveva avuto il tempo di inserire arbitrarimente altri articoli con il quale legiferava in materia ecclesiastica come se lui, e non il Papa, fosse il capo della Chiesa. Con queste aggiunte fissava la rendita dei vescovi e la dotazione dei capitoli; riduceva il numero delle case dei Barnabiti, dei Somaschi, degli Scolopi, degli Ospitalieri, dei Crociferi, dei Filippini, dei Preti della missione (i soli ordini che conservava); riduceva e riuniva in 88 conventi gli ordini Mendicanti; manteneva le Orsoline e le Salesiane e divideva gli altri ordini femminili in 40 monasteri di prima classe e in altrettanti di seconda; stabiliva l'età per la professione dei religiosi; assegnava al demanio i beni dei conventi e dei monasteri soppressi e ordinava che il prezzo di vendita fosse versato al Monte Napoleone, costituito per estinguere il debito pubblico.
Pio VII protestò vivamente con Nota ufficiale e con una lettera all'Imperatore, ma ciò non fece altro che peggiorare la situazione già di per sè molto tesa.
Ma non era finita qui.

Fattosi eleggere con votazione popolare, nel maggio 1804, imperatore ereditario dei francesi, Napoleone, come Carlo Magno in passato, ambiva ricevere la corona imperiale dal Pontefice. Non a Roma, ma a Parigi. Il suo desiderio era stato comunicato al cardinale CAPRARA, nunzio pontificio, e questi si affrettò a scrivere al Papa, esortandolo ad accettare e a mettersi subito in cammino alla volta della Francia.
Pio VII, che si era scagliato pesantemente contro Napoleone per l'esecuzione del duca d'Enghien, esitò a lungo, per tutto il mese di ottobre. Alla fine accettò suscitando scandalo fra i monarchici; ma non partì subito come il Caprara sollecitava. Sia lui che il Sacro Collegio avrebbero desiderato innanzitutto risolvere la questione del giuramento che il nuovo Imperatore avrebbe dovuto pronunciare alla cerimonia d'incoronazione. Secondo la formula stabilita dal Senatoconsulto, Napoleone avrebbe dovuto giurare di "... rispettare e far rispettare le leggi del Concordato e la libertà dei culti ...". Ora a Roma si pretendeva che l'Imperatore assicurasse trattarsi non degli Articoli Organici non riconosciuti dal Pontefice, ma del solo Concordato, non di tolleranza religiosa, ma soltanto tolleranza civile dei culti, e nel medesimo tempo, promettesse di comporre, in modo soddisfacente per la S. Sede, gli affari religiosi tuttora pendenti.

Lunghe furono le trattative; spiegazioni rassicuranti diedero il cardinal Caprara, il Talleyrand e il cardinal Fesch, ambasciatore francese a Roma; finalmente, giunta la richiesta ufficiale di Napoleone portata dal generale CAFFARELLI, il 2 novembre il Papa si mise in viaggio. Questo fu fatto con molta fretta: il 7 era a Firenze, il 12 a Torino, il 19 a Lione, il 25 giunse a Fontaineblau. A S. Erasmo, sulla strada fra Nemours a Fontainebleau, Pio VII trovò Napoleone ad accoglierlo con una comitiva di cacciatori; si scambiarono un abbraccio (immortalato dal dipinto di Marne e Dunoy) e insieme proseguirono il viaggio che ebbe termine tre giorni dopo con l'arrivo a Parigi.
Tutto era stato fissato per il 2 dicembre. Il giorno dopo il suo arrivo, nei giardini alle Touleries, si sparse la voce della presenza del Papa. Una folla enorme s'accalcò per ricevere la sua benedizione, preoccupando non poco Napoleone.

La cerimonia dell'incoronazione doveva svolgersi a Notre Dame, ed ebbe preparativi molto laboriosi e anche costosi. L'ordine di Napoleone era quello di creare il "più grande spettacolo della storia". Ci voleva anche un regista, e per questo fu scelto il pittore Isabey, che con una folla di specialisti, provò e riprovò numerose volte la scena dell'incoronazione nella galleria Diana, alle Touleries, usando perfino dei pupazzi che rappresentavano i personaggi invitati al grande giorno.
Ma il vento stava navigando tutto a favore di Pio VII. La notte prima dell'incoronazione, Giuseppina forse presa da scrupoli e da rimorsi di coscienza di commettere un sacrilegio, andò a far visita al Papa, rivelandogli che con Napoleone lei era solo sposata civilmente da otto anni: non poteva certo avvenire la loro consacrazione con loro due considerati concubini, sarebbe stata subito invalidata. Pio VII non si perse d'animo; nemmeno si sognò di annullare l'incoronazione. Come riuscì Giuseppina a convincere Napoleone non lo sapremo mai. Sappiamo solo (le riviste inglesi dell'epoca si sguazzarono nel farne la caricatura) che all'alba del 2 dicembre, i due furono convocati in gran segreto e fu celebrato il matrimonio davanti a Dio.

È importante ricordare che secondo le vigenti norme ecclesiastiche il matrimonio religioso era valido solo se celebrato dal proprio parroco. Ma il parroco di Napoleone era corsicano! Come fare? Avvalendosi della sua potestà immediata, diretta e universale su tutta la Chiesa cattolica, il Pontefice stesso dispensò il parroco di Napoleone e celebrò lui stesso le nozze. E quando Napoleone chiese il divorzio addusse come causa che il proprio matrimonio era nullo poichè non officiato dal proprio parroco!

Ma ritorniamo all'incoronazione. Anche il cerimoniale fu concordato: la presentazione del sovrano che avrebbe dovuto fare il Pontefice fu soppressa e sostituita con il canto del "Veni Creator Spiritus", le parole della formula della benedizione pontificale "Imperatorem eligimus" furono cambiate con "Imperatorem consacratori sumus".
Fu lo stesso Pio VII che andò ad attenderli a Notre Dame, dov'era tutto pronto per le ore 9 del mattino. Ma Napoleone non arrivava. Tre ore di ritardo con una folle immensa in attesa.
Solo a mezzogiorno Napoleone comparve. La cerimonia durò molte ore, e tutto andò molto liscio, fino a un attimo prima dell'incoronazione. Qui accadde, quel gesto per molti inaspettato, ma molto calcolato da Napoleone (forse in quelle tre ore di travaglio). All'atto dell'incoronazione, quando il Papa avrebbe dovuto posargli il diadema sul capo, invece di inchinarsi, prese delicatamente con le sue mani ferme la corona e se la pose sulla testa; ripetendo poi lo stesso gesto sul capo dell'Imperatrice.

Qualcuno, e ancora oggi leggiamo, affermò che quella cerimonia e quell'atto ebbe in sè qualcosa di triste, di stonato, che il Papa fu una inutile comparsa. Sembrò un gesto orgoglioso, che sottolineava la volontà di non voler dipendere da nessuno, neanche dal Papa. Un orgoglio solitario, ma che rese impacciati e ridicoli tutti i presenti nei loro costumi di gala: grandi ufficiali della Legion d'Onore, i presidenti delle Corti d'Appello e dei Collegi elettorali, i sindaci delle 36 maggiori città della Francia, i prefetti, i generali, la municipalità parigina, il Senato, il Consiglio di Stato, il Corpo legislativo, il Tribunato, la Corte di Cassazione, la deputazione dell'esercito e della flotta, il corpo diplomatico. Dopo il "Te Deum" e la Messa, il Pontefice si ritirò e l'Imperatore pronunciò il giuramento.

Pochi giorni dopo, al Senato, poi ancora in cattedrale il giorno appresso e infine agli stessi soldati, farà rilevare e giustificherà quel gesto: "... altrimenti rischiavo di perdermi in mezzo ai canti sacri e ai gesti liturgici; io salgo al trono con il cuore pieno di sentimenti dei grandi destini di questo popolo che io ho salutato per primo, dai campi di battaglia, con il nome di grande".

Quello che ha in mente Napoleone è di costruire un impero nuovo di idee, dandogli la forma di uno stampo antico; egli guarda a Cesare, a Traiano, a Diocleziano "uomini che dovevano tutto a se stessi; un potere che non hanno ereditato, ma nel prenderlo hanno saputo esercitarlo". Napoleone ha piena coscienza di riprendere l'opera degli imperatori romani. "Impero" è inoltre una parola che gli piace. Concepisce l'Impero come strumento di civiltà, si identifica con esso. Appena si è seduto sul trono si è sentito perfettamente a suo agio, nessun segno di incertezza o di imbarazzo: si sente Imperatore nato. E, naturalmente, ama il potere che egli ha edificato con le proprie mani. Ha l'impressione di essere un Cesare predestinato, Cesare dalla nascita. Del resto sua è la frase: "Cesare si nasce, non si diventa". E anche la storia non lo ricorderà affatto come "Re Napoleone", ma sempre sarà chiamato "l'Imperatore".

I festeggiamenti per l'incoronazione si protrassero per diversi giorni: pranzi e fuochi d'artificio.
Pio VII rimase a Parigi fino all'aprile del 1805 per trattare gli affari religiosi tuttora pendenti: la sottomissione dei vescovi costituzionali, l'allontanamento dalla Chiesa dei preti ammogliati, il ristabilimento delle congregazioni, l'obbligo del riposo domenicale, la dotazione dei seminari, la modifica degli articoli organici, la soppressione del decreto organico emanato dalla Repubblica italiana, l'abolizione del divorzio permesso dal codice napoleonico. Napoleone concesse molte delle cose che Pio VII chiedeva, ma non volle dichiarare dominante la religione cattolica, lasciò intatti gli articoli organici e la legge sul divorzio e oppose un rifiuto alla richiesta di restituire alla Chiesa Avignone, le Legazioni e Parma e Piacenza. Le mire napoleoniche puntavano a trattenere il Papa in Francia per renderlo pienamente strumento del suo potere assoluto; ma il Papa aveva già sottoscritto, in vista di un caso simile, un documento di abdicazione: l' Imperatore dovette lasciarlo partire il 4 aprile 1805.

Il 23 aprile, passando per Chàlons, Lione e Chambery, giunse a Torino. Rivide a Stupinigi Napoleone, che era partito dalla capitale francese quattro giorni prima, e il 26 riprese il viaggio. Per Asti, Alessandria, Voghera, Parma, Modena e Bologna, giunse il 6 maggio a Firenze, dove ricevette festose accoglienze dalla regina d'Etruria e dalla popolazione. Ricevuta, il 3 maggio, l'abiura di SCIPIONE de' RICCI, se ne tornò a Roma da cui era rimasto assente circa sette mesi.
Il 18 marzo 1805 la consulta della Repubbica Italiana proclamò Napoleone Bonaparte Re d'Italia. Nasce il primo statuto costituzionale del Regno d'Italia. Ad applaudire sono proprio i ceti borghesi e, stranamente, anche il clero. Il Papato, pur con le confische dei beni ecclesiastici ("ci rinuncio per amor di pace" afferma Pio VII), benedice e celebra con grande solennità il trionfo di Bonaparte, suo nemico su tutta la linea. Napoleone ha infatti chiuso le scuole religiose e i seminari; clero e cattolici sono subordinati allo Stato. Uno Stato autoritario che nomina i vescovi e pretende dai sacerdoti un giuramento di fedeltà. Il regime di Napoleone è in pratica una vera e propria dittatura: un potere assolutistico mascherato da una fantomatica democrazia popolare.

Ci furono, in seguito, anche altri avvenimenti che peggiorarono lo stato di cose.
Infatti, Pio VII era appena tornato a Roma quando gli si chiese la dichiarazione di nullità del matrimonio del fratello minore di Napoleone, Gerolamo Bonaparte, dall'americana protestante miss Patterson. Il Papa, con grande disappunto dell'Imperatore, energicamente rifiutò; ma il divorzio avvenne ugualmente.
Nell'ottobre di quel medesimo anno, iniziandosi la guerra della terza coalizione, Napoleone, temendo che i Russi e gli Inglesi sbarcassero nell'Italia centrale dalla parte dell'Adriatico, ordinò al generale REYNIER di occupare Ancona. Fu allore che Papa Pio gli scrisse una lettera molto energica datata 13 novembre 1805, nella quale chiedeva lo sgombero delle terre occupate e minacciava di troncare i rapporti con il ministro imperiale a Roma. L'imperatore rispose a questa lettera solo il 7 gennaio del 1806, da Monaco di Baviera, dopo la vittoria d'Austerlitz (2 dicembre 1805). Scriveva così: "... Io mi sono considerato il protettore della Santa Sede e come tale ho occupato Ancona. Vostra Santità aveva interesse di vedere questa piazza forte nelle mie mani piuttosto che in quelle degli Inglesi o dei Turchi? Al pari dei miei predecessori, io mi sono considerato come il figlio maggiore della Chiesa, pronto a proteggerla con la spada e a difenderla dai Greci e dai Musulmani. Io difenderò costantemente la Santa Sede, nonostante i falsi passi, l'ingratitudine, e le malvagie disposizioni degli uomini che si sono smascherati durante questi tre mesi". E concludeva: "Se Vostra Santità vuole congedare il mio ministro è libero di farlo: è libero di preferire gli inglesi e anche il califfo di Costatinopoli; ma io, non volendo esporre il cardinal Fesch a questi affronti, lo sostituirò con un secolare". Contemporaneamente Napoleone scriveva al cardinal Fesch, suo ministro a Roma, una lettera molto significativa: "Dite che Costantino ha separato il civile dal militare e che io posso anche nominare un senatore che comandi a Roma in nome mio [...]; per il Papa io sono Carlomagno, perché, come Carlomagno, riunisco la corona di Francia, quella dei Longobardi, e il mio Impero confina con l'Oriente. Io intendo dunque che la sua condotta sia regolata con me su questo punto di vista. Io non cambierò nulla alle apparenze se si comporta bene; in caso diverso ridurrò il Papa a semplice vescovo di Roma".

La curia Romana non mancò di protestare ed ebbe assicurazione che il Reynier si sarebbe allontanato non appena l'esercito del GOUVION SAINT-CYR, reduce dalla Puglia, fosse giunto al Po. Il Reynier, infatti, si ritirò, ma lasciò ad Ancona il generale MONTRICHARD.
Una lettera ben più importante scrisse ancora una volta Napoleone al Pontefice, un mese dopo, il 13 febbraio del 1806: "Tutta l'Italia sarà sottomessa alla mia legge. Io non menomerò per nulla l'indipendenza della Santa Sede, le farò anche pagare i danni che le recheranno i movimenti del mio esercito; ma i nostri patti dovranno essere che Vostra Santità avrà per me, nel temporale, gli stessi riguardi che io le porto per lo spirituale, e che Ella cesserà d'avere inutili rapporti verso eretici nemici della Chiesa e verso potenze che non possono farle alcun bene. Vostra Santità è sovrano di Roma, ma io ne sono l'imperatore. Tutti i miei nemici debbono essere i suoi. Conviene dunque che nessun agente del re di Sardegna, nessun Inglese, Russo o Svedese risieda a Roma o nei vostri Stati e che nessuna nave appartenente a queste potenze entri nei vostri porti. Io avrò sempre per Vostra Santità, come capo della nostra religione, quella filiale deferenza che in tutte le occasioni le ho dimostrata, ma io debbo rendere conto a Dio, il quale ha voluto servirsi del mio braccio per ristabilire la religione".

Nello stesso tempo che giungeva al Papa questa lettera, il cardinale Fesch chiedeva ufficialmente l'espulsione degli Inglesi, dei Russi, degli Svedesi e dei Sardi. Ma Pio VII, con il consenso di 31 cardinali su 32, il 21 marzo, non solo si oppose all'espulsione ma rispose energicamente alle affermazione dell'Imperatore: "Vostra Maestà stabilisce per principio che Ella è imperatore di Roma. Noi rispondiamo con apostolica franchezza che il Sommo Pontefice, divenuto da tanti secoli, quanti non ne vanta alcun regnante, anche sovrano di Roma, non riconosce e non ha mai riconosciuto nei suoi Stati altra podestà superiore alla Sua; che nessun Imperatore ha alcun diritto sopra Roma; che V.M. è immensamente grande ma è però eletto, coronato, consacrato, conosciuto Imperatore dei Francesi e non Imperatore di Roma; che l'Imperatore di Roma non esiste e né può esistere senza spogliare dell'assoluto dominio ed impero che esercita in Roma il solo Pontefice; che esiste solo un Imperatore dei Romani, ma che questo titolo, riconosciuto da tutta l'Europa e da V.M. nell'Imperatore d'Alemagna, non può competere contemporaneamente a due sovrani; che questo stesso non è che un titolo di dignità e d'onore, il quale in niente diminuisce l'indipendenza reale od apparente della Santa Sede; che infine questa dignità imperiale non ha avuto mai alcun rapporto con la qualità ed estensione dei domini, ma è sempre fino dalla sua origine stata preceduta da un'elezione".

Ma Napoleone non si arrestò. Con un tratto di penna detronizzò (1806) Ferdinando IV e la dinastia borbonica nell'Italia Meridionale e fece Re di Napoli il proprio fratello maggiore Giuseppe Bonaparte. Pio VII mandò Consalvi a protestare presso il Fesch, perchè il nuovo re non aveva chiesto l'investitura. Napoleone ne fu irritatissimo: il 3 maggio richiamò il Fesch che riteneva debole e lo sostituì con l'energico ALQUIER; qualche giorno dopo ordinò al generale DUHESME di occupare Civitavecchia e il 18 e il 20 maggio fece indirizzare dal Talleyrand al cardinal Caprara e all'Alquier due aspre note che dovevano esser comunicate al governo pontificio: "Le pretese della corte di Roma su Napoli sono quelle del secolo XI; ma i tempi sono mutati e le opinioni devono seguire il cammino della ragione e degli avvenimenti".

Il 30 maggio l'Alquier presentò al Consalvi una nota in cui si minacciavano gravi rappresaglie se la S. Sede tardava a riconoscere Giuseppe come Re delle Due Sicilie; ma Pio VII si rifiutò di accordare il suo riconoscimento se prima Giuseppe non riconosceva l'alto dominio della Chiesa sul Regno.
Al rifiuto del Pontefice seguì immediata la rappresaglia di Napoleone, il quale, con decreto del 6 giugno 1806, s'impadronì di Pontecorvo e Benevento, provocando le dimissioni del Consalvi da Segretario di Stato, sostituito dal cardinal CASONI. Intanto a Civitavecchia il Duhesme spadroneggiava e peggio ancora faceva ad Ancona il generale LEMAROIS che incorporò le truppe pontificie in quelle francesi e volle che nelle sue mani fossero pagate le imposte delle province di Ancona, Urbino, Pesaro e Macerata.
Il Pontefice non poteva fare altro che protestare; ma ogni protesta era inutile, anzi, aumentava ancora di più la tensione dei rapporti tra Parigi e Roma. Nei primi di luglio l'Imperatore tentò di costringere la Santa Sede a stipulare un trattato in cui s'impegnava a chiudere i suoi porti alle navi inglesi commerciali e da guerra, e di consegnargli, in caso di guerra, tutte le fortezze dello Stato; ma Pio VII oppose un nuovo rifiuto, accompagnandolo con parole che non lasciavano dubbio sul suo proposito di resistere fino all'ultimo alle minacce e alle violenze imperiali. "Voi - disse all'Alquier - siete i più forti; fate ciò che vi è utile e ciò che vi sembra conveniente. Quando avrete deciso, sarete i padroni dei miei Stati e disporrete a vostro piacere di tutte le risorse che vi possono offrire; ma non avrete mai la mia autorizzazione. Del resto Sua Maestà può, quando vuole, mettere in esecuzione le sue minacce e togliermi quel che possiedo: io sono rassegnato a tutto e pronto, se lo desidera, ritirarmi in un convento o nelle catacombe di Roma, secondo l'esempio dei primi successori di San Pietro".

Parve, poi, che le relazioni tra il Pontefice e l'Imperatore dovessero migliorare quando Pio VII nominò il cardinale DI BAYANNE ministro plenipotenziario e lo mandò a Parigi per risolvere tutte le controversie, fra cui un'importanza speciale avevano quelle riguardanti il numero dei cardinali francesi, l'abolizione dei conventi, la dispensa ai vescovi del Regno d'Italia di recarsi a Roma per la consacrazione e l'estensione del Concordato Italiano del 1803 a Venezia e alla Dalmazia (ottobre 1807); ma la missione del cardinale fallì. In primo luogo perché proprio in quel tempo (4 novembre) il generale LEMAROIS occupava il ducato di Urbino, Macerata, Fermo e Spoleto e faceva arrestare parecchi prelati che avevano osato protestare. In secondo luogo perché il di Bayanne spediva al Pontefice, consigliandogli di accettare, uno schema in cui veniva stipulato che il Papa si unisse all'Imperatore contro gli Inglesi, desse in custodia ai francesi Ancona, Ostia e Civitavecchia, riconoscesse il re Giuseppe, approvasse quanto ere stato fatto in Germania e in Italia, rinunziasse a Pontecorvo, a Benevento e a qualsiasi pretese su Napoli, portasse a un terzo del numero totale i cardinali dell'Impero francese, estendesse il Concordato Italiano a Venezia, alla Dalmazia, a Piombino e a Lucca, concedesse ai vescovi del regno la dispensa di recarsi a Roma per la consacrazione e facesse un concordato speciale per gli stati della Confederazione Renana.

Pio VII riunì i cardinali, sottopose a loro lo schema del trattato, e, sentito il loro parere, il 2 dicembre 1807 scrisse al di Bayanne ordinandogli di lasciar Parigi con il cardinale Caprara e il cardinale DELLA GENGA (futuro Leone XII) nunzio di Germania (che era allora in Francia per trattare gli affari religiosi della Confederazione), se il governo imperiale persisteva in quelle domande inaccettabili.
Napoleone, tornato allora dall'Italia (gennaio 1808), fece sapere ai cardinali Caprara e di Bayanne che avrebbe restituito le province occupate se la S. Sede avesse somministrato 400.000 franchi per le spese occorrenti a scavare il porto di Ancona, avesse riconosciuto il re Giuseppe, cacciato da Roma il Console ed altre persone che dipendevano da Ferdinando IV, arrestato un centinaio di fuorusciti napoletani, entrato nella lega contro gli Inglesi ed infine portato il numero dei cardinali francesi ad un terzo dei componenti il Sacro Collegio. In caso di rifiuto avrebbe unito al Regno d'Italia le province occupate, e alla Toscana il territorio di Perugia. Pio VII rispose il 28 gennaio: accettava le prime quattro condizioni, ma rifiutava le ultime due.

Per appoggiare le sue richieste Napoleone, il giorno dopo in cui le aveva formulate, cioè il 10 gennaio, ordinò al generale LEMAROIS di muovere da Ancona su Perugia e al generale MIOLLIS, che si trovava in Toscana, di marciare su Foligno, assumere il comando generale delle truppe denominate "divisione d'osservazione dell'Adriatico" e, rinforzato da 3.000 uomini inviati da re Giuseppe con il pretesto di recarsi a Napoli, di occupare Roma, dichiarando di rimanervi finché la città non fosse ripulita da tutti i nemici della Francia.
Dei veri obbiettivi della spedizione non fu fatto saper nulla all'ambasciatore francese ALQUIER, che si sapeva amico della S. Sede; a lui, anzi, il Miollis, il 29 gennaio, mandò un falso itinerario delle truppe che l'Alquier si affrettò a trasmettere al segretario di Stato cardinal Casoni. Questi, sospettando che l'esercito francese fosse diretto a Roma anziché a Napoli, il 31 gennaio fece andare un ufficiale a Civitacastellana perché domandasse al Miollis delle spiegazioni circa la marcia delle truppe francesi. Il Miollis confermò l'itinerario comunicato all'Alquier, e questi, con una lettera datata 1 febbraio, cercò di tranquillizzare il Pontefice, assicurandogli che l'esercito francese, se pur avesse dovuto fermarsi a Roma, non vi sarebbe rimasto che poco e non avrebbe costituito alcun pericolo per la S. Sede. Aggiungeva inoltre di essere autorizzato a dichiarare che l'imperatore "desiderava vivamente di porre fine per mezzo di vie conciliatorie alle discussioni che esistevano tra la Francia e Roma, e che un accomodamento così desiderabile, stringendo più strettamente che mai i legami che uniscono da tanti secoli le due Potenze, sarà una nuova garanzia, certamente assai efficace, della sovranità della S.V. e della piena ed intiera conservazione dei suoi possedimenti".

Quel giorno stesso però l'Alquier riceveva una lettera con la quale, in data 22 gennaio, da Parigi il ministro degli esteri CHAMPAGNY lo informava che il Miollis sarebbe giunto a Roma il 3 febbraio e vi si sarebbe fermato, e gli ordinava di rinnovare al Pontefice le richieste avvisandolo che l'Imperatore voleva esercitare sullo Stato romano la stessa influenza che esercitava a Napoli, in Spagna, in Baviera e negli Stati della Confederazione. "Alla prima bolla e pubblicazione del Papa contraria ai propositi di Sua Maestà, immediatamente, con la pubblicazione di un decreto, cancellerebbe la donazione di Pipino e Carlo Magno e riunirebbe gli Stati della Chiesa al Regno d'Italia. Questo provvedimento non avrebbe nulla di contrario all'autorità spirituale della Santa Sede; non è sulla sovranità di Roma che si è appoggiata la religione, e, se la condotta del Papa obbligasse ad emanare un tale decreto, sarebbe facile dimostrare i mali che il potere temporale ha prodotto alla religione ed opporre la vita umile di Gesù Cristo a quella dei suoi successori che si sono fatti re".

Infine lo Champagny concludeva: "L'Imperatore vuole che il soggiorno delle sue truppe abitui il popolo di Roma a vivere con loro e le renda familiari agli abitanti con la corte di Roma, affinché, se la corte papale continua a mostrarsi così insensata com'è stata finora, essa cessi insensibilmente e senz'avvedersene di esistere come potenza temporale".
Il 3 febbraio 1808, nelle prime ore pomeridiane, senza incontrare alcuna resistenza, i Francesi entrarono per la via Flaminia a Roma e nonostante le proteste del colonnello piemontese ANGELO COLLI, che comandava Castel S.Angelo, occuparono questa fortezza, mentre quattro cannoni erano posti in piazza del Quirinale con la bocca rivolta al Palazzo Pontificio e quattro in piazza Colonna. Pio VII, che sapeva di non poter opporre la forza alla forza temendo guai maggiori, quel giorno stesso protestò per i cannoni puntati sul suo palazzo, ottenendo che il Miollis ordinasse che fossero tolti, e pubblicò un proclama molto discreto e prudente, in cui informava di avere rifiutato alcune richieste imperiali, protestava per l'occupazione dei domini della Chiesa, di cui proclamava l'intangibilità; ed esortava i cittadini a non recare alcuna offesa ai Francesi che tanto affetto gli avevano dimostrato nel suo viaggio a Parigi, "Vicario in terra di quel Dio di pace, che insegna con il divino esempio suo la mansuetudine e la pazienza, non dubita che i suoi amatissimi sudditi metteranno ogni impegno a conservare la quiete e la tranquillità sia privata che pubblica".

Il giorno dopo, l'Alquier fu ricevuto dal Papa e gli presentò il generale Miollis, con il quale il Pontefice si lagnò del modo con cui era stato trattato. A lui Pio VII dichiarò, che si sarebbe considerato come prigioniero, finché i Francesi fossero rimasti a Roma e che fino alla loro partenza non avrebbe acconsentito ad alcuna negoziazione. L'8 febbraio il Pontefice ricevette gli ufficiali dello Stato Maggiore francese ed ebbe per loro buone parole: "Noi amiamo sempre i Francesi; quantunque siano ben dolorose le condizioni nelle quali ci vediamo, siamo commossi dall'ossequio che ci prestate. Voi siete celebri in tutta Europa per il vostro coraggio, e dobbiamo rendere giustizia alle vostre sollecitudini per mantenere l'ordine e la disciplina".

Sebbene i Francesi ostentassero grande ossequio verso il Pontefice, il generale Miollis faceva di tutto per ridurre al minimo l'autorità papale. Si impadronì della direzione delle poste e della polizia, fece arrestare numerosi laici ed ecclesiastici noti per i loro sentimenti avversi alla Francia, fece accompagnare alla frontiera napoletana, i cardinali Saluzzo, Pignatelli, Ruffo e Caracciolo per obbligarli a giurar fedeltà al nuovo Re di Napoli che non volevano riconoscere, ordinò che fosse perquisita la casa dell'ambasciatore di Spagna VARGAS e incorporò nelle truppe francesi le milizie pontificie, affinché, come scriveva il Viceré EUGENIO al colonnello Fries che ne aveva il comando, non ricevessero più ordini "da preti o da donne, bensì da altri soldati capaci di condurli al fuoco". Alcuni ufficiali che rifiutarono di entrare nell'esercito francese o, appena entrati si dimisero, furono deportati nella fortezza di Mantova.

Verso la metà di febbraio l'Alquier fu richiamato a Parigi; il giorno 24 ricevuto del Pontefice per prender congedo da lui e per presentargli il LEFEBVRE, suo successore. Pio VII dopo aver protestato per la deportazione dei cardinali napoletani, disse all'Alquier energicamente: "Potete dichiarare a Parigi che, anche se mi facessero a pezzi o mi scorticassero vivo, io non accetterei di entrare nelle federazione. Siate pur certo che, malgrado tutti i tormenti che mi si sottoponete, la Chiesa non perirà mai".

Continuarono le violenze francesi e continuarono le proteste della Santa Sede fatte attraverso il cardinale DORIA PAMPHILY che aveva sostituito nella carica di Segretario di Stato il CASONI. Il 21 marzo il Miollis intimò a tutti i cardinali - eccettuati gli ammalati e i vecchissimi - di tornare ciascuno al proprio paese. Dovettero partire i cardinali LITTA, LOCATELLI, DUGNANI, CRIVELLI, ROVERELLA, DELLA SOMAGLIA, BRASCHI, CASTIGLIONI (futuro Pio VIII), CARAFFA, GALEFFI, SCOTTI, TRAJETTO, VALENTI e DORIA. Quest'ultimo fu sostituito nella carica che ricopriva, dal cardinale romano GABRIELLI.

La misura era quasi colma. Questa volta il Papa non si accontentò di protestare, ma scrisse al cardinale Caprara di lasciare immediatamente Parigi. Il Caprara chiese i suoi passaporti e li ricevette insieme con una nota dello Champagny (3 aprile 1808) in cui era detto che i cardinali, essendo sudditi del sovrano del paese dov'erano nati, dovevano risiedere nel proprio paese e che il Pontefice, se non voleva perdere il dominio temporale e rimanere soltanto vescovo di Roma, doveva stringere con gli altri stati italiani una lega offensiva e difensiva. Contemporaneamente si mandava ordine al Lefebvre, incaricato di affari a Roma, di presentare al Pontefice un ultimatum, e, in caso di rifiuto, di chiedere i passaporti. Alla rottura diplomatica doveva seguire immediatamente l'annessione al Regno d'Italia di Urbino, Ancona, Macerata e Camerino, il cui decreto imperiale era già pronto.

L'ultimatum fu presentato il 13 aprile; ma una settimana prima i Francesi avevano commesso una gravissima violenza: un distaccamento era penetrato nel palazzo del Quirinale, aveva disarmato gli svizzeri e le guardie nobili ed aveva assunto la guardia del palazzo; gli ufficiali Altini, Braschi, Giustiniani e Patrizi, che avevano osato protestare, erano stati imprigionati in Castel S. Angelo. Una tale violenza non poteva certo benevolmente disporre il Papa alle concessioni; e Pio VII, difatti, rispose con un rifiuto e il 13 aprile, al Lefebvre andato in visita di congedo, disse: "Dite al vostro Imperatore che si sta scavando la fossa con le proprie mani".

Partito il Lefebvre, si mandarono ad effetto le minacce che avevano accompagnato l'ultimatum. Il 22 aprile, il governatore di Roma monsignor CAVALCHINI fu arrestato e deportato a Fenestrelle di Piemonte, il 30, a Milano, fu pubblicato il decreto di annessione delle Marche, le quali dovevano formare tre dipartimenti del Regno d'Italia, del Metauro, del Musone e del Tronto. Pio VII, il 19 maggio, inviò una protesta al cav. ALBERT, rappresentante a Roma del Regno Italico, e un'altra la mandò ai ministri degli esteri; tre giorni dopo partì per i vescovi delle province usurpate una "Istruzione", però firmata dal cardinale GABRIELLI, nella quale si accusava il "governo imperiale come invasore della Spirituale potestà e protettore di tutte le sette e di tutti i culti", e s'ingiungeva a tutti, laici ed ecclesiastici, di "non accettare uffici e di non prestare altro giuramento che quello di fedeltà ed obbedienza in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della Chiesa".

Se i Francesi pretendevano di più, i sudditi dovevano affrontare con serenità l'ira degli oppressori, pensando a "quel Divin Maestro che ai suoi, come nella vita futura promette eterni premi, così nella presente non predice che tribolazioni e persecuzioni e che perciò ha insegnato loro a non temere quelli che uccidono il corpo e più oltre non possono fare, ma a temere solo quello che può mandare l'anima e il corpo alla eterna perdizione". Della "Istruzione" i Francesi vollero tener responsabile non il Papa ma il cardinale Gabrielli e, per vendicarsi di lui, il 16 giugno gli sequestrarono le carte e gli intimarono di lasciare entro due giorni Roma e di ritornare al suo vescovado di Senigaglia. Protestò il Pontefice, protestò lo stesso Gabrielli in una vibrata lettera al Miollis; ma a nulla valsero le proteste: trascorsi i due giorni, il cardinale fu costretto a partire e dovette recarsi sotto scorta a Senigaglia.
Allontanato il Gabrielli, fu scelto come Segretario di Stato il cardinale PACCA, uomo risoluto ed energico, che non si era lasciato intimorire dalle minacce del generale Miollis il quale aveva dichiarato di aver ricevuto l'ordine di fucilare chiunque si fosse opposto alla volontà imperiale; anzi il Pacca gli aveva risposto: "Generale, dal giorno del vostro ingresso a Roma avete dovuto convincervi che i ministri di Sua Santità non si lasciano intimidire da minacce. Da parte mia eseguirò fedelmente gli ordini, e lei faccia ciò che vuole e può".

Dato il carattere del nuovo segretario di Stato e il fermo proposito del Pontefice di resistere fino all'ultimo al mandato del Miollis, i rapporti tra la Francia e la Curia Pontificia non potevano che farsi di giorno in giorno costantemente più tesi. Da un canto le violenze, dall'altro le proteste. Proteste vane perché i Francesi oramai erano i veri padroni di Roma e di tutto lo Stato: organizzavano la guardia civica e il corpo di gendarmeria da cui esigevano il giuramento di fedeltà, sorvegliavano le amministrazioni comunali, arrestavano pubblici ufficiali civili e militari, fra cui mons. BARBIERI fiscale generale e il marchese GILBERTI comandante di Foligno, e commettevano ogni sorta di violenze. Il 13 agosto drappelli di soldati francesi penetrarono negli uffici giudiziari, nelle case private dei magistrati Papali e nel palazzo del Quirinale.
Poco tempo dopo, il Miollis, temendo una rivolta a causa delle gravi notizie che giungevano dalla Spagna, fece chiudere in Castel S. Angelo mons. TOSI vescovo di Anagni, fece arrestare il cardinale ANTONELLI, prefetto della Sacra Penitenzeria, che fu mandato a Spoleto, e confinò monsignor AREZZO, governatore di Roma, in Corsica. Anche al Pacca si tentò di far violenza. Il 6 settembre due ufficiali francesi penetrarono nel suo ufficio del Quirinale e gli intimarono di partire entro ventiquattro ore per Benevento sua patria, dove sarebbe stato accompagnato da una scorta. Il cardinale rispose che non riceveva ordini dalla Francia, ma dal Pontefice e che avrebbe in proposito interrogato il suo sovrano; ma gli ufficiali gli proibirono di recarsi dal Papa e gli permisero soltanto di scrivergli un biglietto.

Informato così, Pio VII raggiunse il suo ministro e, rivoltosi ai due francesi: "Andate - disse - annunciate al vostro generale che io sono stanco di soffrire tanti insulti da parte di un uomo, che osa ancora chiamarsi cattolico. Non ignoro lo scopo di queste violenze; si vuole, separandomi a poco a poco da tutti i miei consiglieri, mettermi nell'impossibilità di esercitare il mio ministero apostolico e di difendere le ragioni della mia sovranità temporale. Ordino al mio ministro di non obbedire alle ingiunzioni di un'autorità illegittima. Sappia il vostro generale che per tradurlo prigioniero egli dovrà far atterrare tutte le porte del mio palazzo, e lo dichiaro fin d'ora responsabile di tutte le conseguenze di un sì enorme attentato".

Per l'energico intervento del Pontefice il cardinale Pacca rimase a Roma, ma le violenze dei francesi non ebbero termine.
Nello stesso mese di settembre l'anconetano GIUSEPPE CANNI, colonnello al servizio borbonico siciliano e capo di uno dei tanti drappelli che si tenevano pronti nelle vicinanze di Roma per agevolare un'eventuale fuga del Papa, fu arrestato e, nonostante i reclami pontifici, fucilato.
Il 19 gennaio del 1809 il Miollis dichiarò prigioniero in casa l'ambasciatore spagnolo Antonio Vargas e gli fece sequestrare tutte le carte. Centoquaranta cittadini spagnoli, essendosi rifiutati di prestar giuramento al re Giuseppe, furono incarcerati. Avvicinandosi il carnevale, il Papa proibì le maschere e le feste pubbliche; il Miollis invece le permise e le organizzò, ma non riuscì a far divertire il popolo, che, quasi per protesta, il 2 febbraio fece trovar chiuse le finestre e rimase tappato in casa. Il 20 marzo però, anniversario dell'incoronazione di Pio VII, furono fatte grandi luminarie e Roma mostrò l'aspetto dei giorni di festa.

Nel maggio, dopo le prime vittorie contro l'Austria, accadde finalmente quel che da qualche tempo occupava la mente di Napoleone e che l' Europa non pensava potesse avvenire. Il 17 di quel mese l'Imperatore emanava da Vienna il famoso decreto con il quale aboliva il potere temporale dei Papi e univa all'Impero gli Stati della Chiesa. "Considerando - egli scriveva - che, allorquando Carlomagno, Imperatore dei francesi e nostro augusto predecessore, fece donazione di parecchie contee ai vescovi di Roma, le donò per il bene di questi stati e che per questa donazione Roma non cessò di far parte del suo impero; che, in seguito, questo insieme di potere spirituale e di autorità temporale è stato ed è ancora sorgente di dissensi e ha portato spesso i Pontefici a impiegare l'influenza dell'uno per sostenere le pretese dell'altra; che, così, gli interessi spirituali e le cose celesti, che sono immutabili, sono stati mescolati agli affari terrestri, i quali per la loro natura cambiano secondo le circostanze e la politica del tempo; che tutto ciò che noi abbiamo proposto per conciliare la sicurezza dei nostri eserciti, la tranquillità e il benessere dei nostri popoli, la dignità e l'integrità del nostro impero con le pretese temporali dei Papi, non s'è potuto realizzare, noi abbiamo decretato e decretiamo quanto segue...".
Seguivano 7 articoli in cui si stabiliva che gli Stati della Chiesa si riunissero all'Impero, che Roma fosse dichiarata città imperiale e libera, che alle quattro proposizioni della Chiesa gallicana i futuri Pontefici ne giurassero l'osservanza, che al Papa fosse assegnata una rendita annua di 2.000.000 di franchi, che Egli potesse risiedere in qualsiasi città dell'impero e i suoi palazzi e le sue terre fossero esenti da ogni imposta e avessero speciali immunità, e che i cardinali e il collegio di propaganda fossero mantenuti dallo Stato.
Con un secondo decreto si ordinava di formare una Consulta straordinaria, presieduta dal generale Miollis e composta dal Saliceti, dal Janet, dal De Gerando, dal Del Pozzo e da Cesare Balbo, la quale doveva curare il trapasso dal vecchio al nuovo regime, dividere il territorio in dipartimenti, nominare un senato di 60 membri ed applicare il Codice civile.

Il 10 giugno 1809 a suon di tromba il decreto imperiale fu notificato in Roma e contemporaneamente da Castel S. Angelo e da tutti gli edifici pubblici fu abbassata la bandiera pontificia per lasciare posto al tricolore francese. Pio VII ricevette la notizia con molta serenità e al Cardinal Pacca disse: "
Consumatum est!". Quindi indirizzò ai suoi sudditi un proclama: "Sono finalmente compiuti i tenebrosi disegni dei nemici della Sede Apostolica. Dopo lo spoglio violento ed ingiusto della più bella e considerevole porzione dei nostri domini, Noi ci vediamo con indegni pretesti e con tanto maggiore ingiustizia interamente spogliati della nostra sovranità temporale con cui è strettamente legata la nostra spirituale indipendenza. In mezzo a queste fiere persecuzioni ci conforta il pensiero che Noi incontriamo un così gran disastro non per alcuna offesa fatta all'Imperatore o alla Francia, la quale è stata sempre l'oggetto delle nostre amorose, paterne sollecitudini, non per alcun intrigo di mondana politica, ma per non aver voluto tradire i nostri doveri e la nostra coscienza".

Il Pontefice continuava dichiarando nullo il decreto imperiale, e respingeva ogni rendita o pensione che l'imperatore voleva assegnare a lui e ai membri del Sacro Collegio, dichiarando che preferiva condurre vita misera anziché accettare il vitto da un usurpatore dei beni ecclesiastici.
Lo stesso giorno (10 giugno 1809) fu composta la bolla di scomunica "Quum memoranda", che durante la notte fu affissa nelle basiliche di S. Pietro, di S. Giovanni Laterano e di S. Maria Maggiore e che subito dopo fu strappata dai Francesi.
Tuttavia questa scomunica è stesa in una forma ambigua, poiché nella bolla non è fatto il nome di Napoleone, ma si riferisce a coloro che hanno favorito, consigliato o approvato gli attentati diretti contro la Santa Sede. Non vuole pronunciare il terribile nome, e non sappiamo se è per mancanza di coraggio nell'assumersi questa grande responsabilità. Ma non dimentichiamo che è un Papa settuagenario, e in una circostanza come questa, questo Papa si eleva ad una delle altezze più eccelse, con un coraggio che è pari a quello napoleonico, ed affronta una delle lotte più disuguali e più eroiche che conosca la storia della Chiesa.

Il 20 giugno, avuta notizia della scomunica, Napoleone tornò a scrivergli: "Basta con gli accomodamenti; è un pazzo furioso e bisogna rinchiuderlo. Fate arrestare il cardinal Pacca ed altri aderenti del Papa".
In queste lettere imperiali si parlava della possibilità dell'arresto del Papa, ma non si ordinava di arrestarlo; e certo se i Francesi, a Roma, avessero avuto i nervi a posto avrebbero evitato un atto che non poteva recar nessun vantaggio all'Imperatore. Ma in quei giorni i Francesi di Roma erano in grande agitazione. Il Quirinale rimaneva chiuso come se dentro si preparasse qualche cosa; si era sparsa la voce che Pio VII volesse il giorno di S. Pietro comparire in pubblico e percorrere le strade in processione con il Crocifisso in mano per sollevare i cittadini, e il generale RADET, mandato da Firenze a Roma per coadiuvare il Miollis, scriveva al ministro della guerra: "Il Papa governa con le punta delle dita molto meglio di noi con le nostre baionette".

Questo stato d'animo suggerì le soluzioni più avventate. Fu alla fine stabilito, di arrestare il Pontefice. Il 5 luglio giunsero da Napoli a Roma 800 soldati al comando del generale PIGNATELLI CERCHIARA, e quel giorno stesso il Miollis avvisò il colonnello SIRES, direttore generale di polizia, di fare i preparativi per il colpo che doveva essere eseguito all'alba del giorno dopo.
Nelle prime ore del 6 luglio, mentre i soldati di Napoleone si preparavano ad attaccare gli austriaci nella pianura di Wagram, a Roma il generale Radet scalava in tre punti le mura dei giardini del Quirinale abbattendo, con l'aiuto di alcuni impiegati infedeli, le porte.

Seguito da soldati, gendarmi e borghesi filo-francesi e anticlericali, penetrava negli appartamenti del Pontefice, il quale si era già alzato e insieme al cardinal Pacca e ad altri prelati aspettava sereno. Il Radet, quando fu al cospetto del Capo della Chiesa, in nome del governo imperiale invitò a rinunziare al potere temporale. A lui rispose Pio VII:
"Noi non possiamo né cedere né abbandonare quello che non ci appartiene. L'Imperatore potrà farci a pezzi, ma non potrà ottenere questo da noi. Dopo quanto abbiamo fatto per lui dovevamo attenderci una simile condotta ?".
E quando il Radet gli comunicò l'ordine di arresto....

... soggiunse: "Ecco la ricompensa che mi è riservata per quanto ho fatto per il vostro Imperatore. Ecco il premio per la mia grandissima condiscendenza verso di lui e verso la chiesa di Francia! Ma forse sotto tale riguardo sono stato colpevole dinanzi a Dio; e adesso che vuol punirmi mi sottometto a Lui con umiltà". Pio VII chiese due ore di tempo, ma non gli furono concesse; espresse il desiderio di essere accompagnato da alcune persone di sua fiducia, ma soltanto la compagnia del cardinal Pacca gli fu accordata; allora il Pontefice prese un breviario e un Crocifisso e, montato in una carrozza....
... si mise sulla via dell'esilio. I due illustri viaggiatori non possedevano che pochi quattrini e, avendo il cardinale osservato: "Viaggiamo proprio all'apostolica", il Papa esclamò: "È ciò che mi resta del mio principato".

Accompagnato dal Radet e da una scorta di gendarmeria, Pio VII fu condotto a Firenze, in quella Certosa che dieci anni prima aveva accolto Pio VI; poi a Genova, Alessandria, Torino, Grenoble, Valenza infine Avignone. Separato dal cardinal Pacca, che fu invece rinchiuso nel forte di Finestrelle. Ma con il passar del tempo il Papa in Francia iniziò a diventare un peso ingombrante, e fu ricondotto in Italia e, per Nizza, Monaco, Oneglia e Finale giunse il 17 agosto a Savona, dove, rigorosissimamente sorvegliato, dapprima era stato alloggiato nella casa del conte Egidio Sansoni, sindaco della città, poi si era stabilito nel palazzo vescovile, dove in apparenza era libero, ricevendo pellegrini, che da ogni parte accorrevano a vederlo, e dando udienza, ma in realtà era prigioniero, perché sempre sorveglialo da spie, da funzionari e da soldati; pur non mancandogli gli agi, l'Imperatore in persona aveva ordinato che fosse circondato.
Le apparenti cure che l'Imperatore aveva prestabilito per il Papa avevano un duplice scopo: mostrare al mondo cattolico che il Capo della Chiesa era circondato del massimo rispetto, e tentare di addolcire l'animo di Pio VII per potersi riconciliare con lui. Ma se il primo scopo si poteva con relativa facilità conseguire, impossibile era raggiungere il secondo, perché Napoleone, se da un canto faceva colmare d'ipocrite cortesie il Papa, dall'altro lo inaspriva sempre più con atti che menomavano quella stessa autorità spirituale che l'Imperatore aveva dichiarato di riconoscere nel Pontefice.

Ma le sofferenze del Papa non si conclusero in prigione. Il 17 febbraio 1810 Napoleone proclamava il diritto imperiale su Roma e sul suo territorio, che fu diviso in due dipartimenti, del Tevere e del Trasimeno. Roma era proclamata città libera e in questa doveva risiedere un principe consanguineo dell'Imperatore o un altro dignitario della sua corte; inoltre Napoleone, per solennizzare il suo decimo anno di regno, avrebbe ricevuto una nuova consacrazione in S. Pietro. L'erede del trono avrebbe portato il titolo di Re di Roma. Nel senatoconsulto inoltre si stabilì che i Papi, appena eletti, dovevano giurare rispetto alle quattro preposizioni gallicane del 1682, che erano estese a tutto l'impero. Inoltre, per trattare gli affari religiosi, Napoleone aveva costituito una commissione ecclesiastica composta dal cardinale MAURY, vescovo di Montefiascone, dal DE BARRAL, arcivescovo di Tours, dal CANAVERI, vescovo di Vercelli, dal DUVOISIN, vescovo di Nantes, dal FONTANA, generale dei Barnabiti, e dall'abate EMERY. A questa commissione l'Imperatore, nel gennaio del 1810, aveva proposto una serie di "questioni" intorno ai diritti imperiali di fronte alla Chiesa, ai rapporti dei vescovi con il Pontefice e alle proprie controversie con il Papa; inoltre aveva costituito una "Ufficialità diocesana metropolitana e primaziale", che concesse all'Imperatore di annullare il suo matrimonio con Giuseppina, per sposare MARIA LUISA, figlia dell'imperatore d'Austria.

Questo matrimonio, che avvenne il 2 aprile, alienò maggiormente da Napoleone l'animo di Pio VII, in primo luogo perché una causa che spettava al Pontefice era stata giudicata da un tribunale ecclesiastico non autorizzato e riconosciuto, in secondo luogo perché 13 cardinali, non avendo voluto partecipare alla cerimonia religiosa delle nozze imperiali, furono privati della pensione e costretti a lasciare la porpora (il che valse loro il nome di "cardinali neri": essi furono gli italiani CONSALVI, BRANCADORO, DI PIETRO, GABRIELLI, DELLA SOMAGLIA, MATTEI, OPIZZONI, PIGNATELLI, GALEFFI, LITTA, RUFFO, SCOTTI, SALUZZO) per essere relegati in varie città della Francia.

C'era infine la questione della nomina dei vescovi. Circa 20 ne aveva nominati Napoleone, ma Pio VII non voleva dare loro l'istituzione canonica. Tentò nel maggio il METTERNICH di riconciliare, per mezzo del Lebzeltern, Imperatore e Pontefice, ma non vi riuscì; il tentativo fu ripetuto nel luglio dai cardinali SPINA e CASELLI ma sempre con risultato negativo. Allora Napoleone invitò i vescovi da lui nominati a prender possesso delle loro diocesi; però, avendo Pio VII spedito un Breve in cui dichiarava intrusi i nuovi eletti, questi trovarono delle opposizioni da parte del clero delle diocesi loro assegnate, opposizioni che furono vinte con arresti e deportazioni. Più vivaci furono le opposizioni degli ecclesiastici dell'ex-Stato Romano al giuramento di fedeltà, ma non meno energici furono i provvedimenti di Napoleone, che soppresse 20 vescovadi, deportandone in Francia i titolari, e relegò nell'Italia settentrionale parecchie centinaia di parroci.

Dopo il breve incontro con i vescovi nominati da Napoleone, Pio VII fu trattato con molto rigore e senza consueti segni di onore; gli furono cambiati i domestici, non gli fu lasciata alcuna persona di fiducia, fu sottoposto alla sorveglianza più rigida e gli furono perfino tolti i libri e l'occorrente per scrivere.
Il 6 gennaio 1811, in una solenne udienza, il card. Maury lesse un "indirizzo" con il quale, commemorate le quattro proposizioni gallicane del 1682, affermava l'autorità dei capitoli ad eleggere i vescovi nominati dal sovrano. In tal modo il Pontefice era messo completamente in disparte! Tale indirizzo fu tuttavia approvato non solo da tutti i capitoli di Francia, ma anche da tutti, o quasi, quelli del Regno d'Italia: e questo forse avvenne non tanto per paura di rappresaglie da parte del governo, quanto per il prestigio straordinario che allora godeva l'Imperatore. Davanti a lui tutte le opposizioni avevano ceduto: dominatore dell'Europa, vincitore dei partiti politici che a gara lo esaltavano, egli aveva ai suoi piedi tutte le Chiese e ormai sperava di sottomettere anche il Papa.

Il 5 marzo 1811, la Commissione ecclesiastica, da lui interrogata, espresse il parere che, allorché fossero disgraziatamente rotte le comunicazioni fra il Papa e i fedeli, i vescovi potessero dare le solite dispense concesse dalla S. Sede. La Chiesa di Francia poteva provvedere da sé alla propria conservazione, facendo a meno dell'investitura pontificia dei vescovi. Proponevano un concilio nazionale e le deliberazioni uscite da questo, ratificate dall'Imperatore, si dovevano presentare all'approvazione del Papa. Se questi si rifiutava di sanzionarle, i vincoli con la Santa Sede potevano essere finalmente spezzati. Napoleone, assai soddisfatto di questa risposta, non si contentò: egli non era re di Francia, ne era l'Imperatore, e perciò avrebbe preferito un Concilio Ecumenico canonicamente raccolto dal Papa. Infatti, non voleva diventare il capo della Chiesa francese, bensì essere l'arbitro dell'intera Chiesa Cattolica. Mandò allora a Savona, nel maggio 1811, un arcivescovo e due vescovi con un indirizzo firmato da tutto l'alto clero residente a Parigi. Pio VII, assediato e insidiato da ogni parte, finì con il fare qualche concessione, soprattutto per paura che dal concilio uscissero, insieme con lo scisma, mali maggiori. Pertanto prometteva di dare l'istituzione ai vescovi nominati secondo le forme del Concordato, il quale era esteso a Parma e alla Toscana, e inoltre dichiarava che, se dopo sei mesi non avesse ancora concesso le bolle d'investitura agli ecclesiastici scelti dall'Imperatore, il metropolitano della Chiesa vacante o, mancando questo, il vescovo più anziano della provincia, sarebbe stato autorizzato a concedere lui stesso le bolle medesime in "nome del Papa".

Queste ultime parole miravano a salvare il principio della supremazia pontificia almeno sulla Chiesa, anche se, di fatto, il Papa rinunciava ad ogni sua autorità, dal momento che, né sceglieva i vescovi, né poteva negare loro l'investitura. L'importanza di simili concessioni non sfuggì a Pio VII, il quale dichiarò di aver fatto questo passo "nella speranza soltanto che queste (le concessioni) avrebbero preparato la via agli accomodamenti che avrebbero ristabilito l'ordine e la pace della Chiesa restituendo alla Santa Sede la libertà, l'indipendenza e la dignità che a lei conveniva".
Questa riserva naturalmente non piacque a Napoleone, tanto più che Pio VII, timoroso di aver compromesso gli interessi supremi della Chiesa, andava ripetendo in alcune lettere al card. Fesch che le concessioni fatte sulla nomina dei vescovi s'intendevano nulle se l'Imperatore non restituiva al Papa, i suoi Stati e la sua libertà. Perciò il Concilio, che era stato convocato con lettera del 25 aprile, si raccolse ugualmente (17 giugno 1811).
Napoleone voleva che Pio VII capitolasse senza condizioni, sottomettendosi nel medesimo tempo all'autorità imperiale e a quella del Concilio. Furono 95 i vescovi partecipanti al Concilio di Parigi, e furono anche presenti, come commissari imperiali, BIGOT di PRÉAMENEAU, ministro dei culti, e il MARESCALCHI, ministro del Regno d'Italia, i quali, fin dall'inizio, riuscirono a capire come i convenuti non erano per nulla disposti ad accettar senza discutere tutto ciò che voleva l'Imperatore. All'approvazione del Concilio fu dai commissari imperiali proposto un decreto, il quale stabiliva che le nomine dei vescovi dovevano farsi secondo le forme del Concordato e che l'istituzione canonica, se il Pontefice non la concedeva entro sei mesi, doveva esser data dal metropolita.

Come si vede, erano le concessioni verbali fatte da Pio VII, ma non si faceva parola della fondamentale condizione voluta dal Papa che cioè i metropoliti avrebbero dato l'investitura in suo nome. Il concilio, a maggioranza, rifiutò di approvare il decreto senza l'autorizzazione scritta del Pontefice, e Napoleone ne rimase così indignato che ordinò l'arresto di tre vescovi e lo scioglimento del Concilio (12 luglio). Ma ciò che l'Imperatore non aveva potuto ottenere dal Concilio, l'ottennero i ministri del culto dai singoli membri dello stesso, i quali posero la loro firma al decreto, confermando la verità di quanto il cardinal Maury aveva detto: "il vino non buono in botte riesce meglio in bottiglie". Dopo di ciò il Concilio fu convocato di nuovo (3 agosto), il decreto fu nuovamente proposto all'approvazione e di 80 vescovi presenti soltanto 10 votarono contro.
Una delegazione, fra cui era il cardinale FABRIZIO RUFFO, si recò subito a Savona e indusse Pio VII ad approvare, con qualche lieve modificazione, il decreto; ma il Pontefice, dietro consiglio del cardinale Spina, per non riconoscere la legittimità del Concilio ed affermare di fronte ad esso la sua superiorità, diede l'approvazione sotto forma di Breve indirizzato ai vescovi riuniti a Parigi e nello stesso aggiunse le parole "in nome del Papa" a quell'articolo con il quale si concedeva ai metropoliti di dare l'investitura. Il principio era salvo.

Dopo il concilio di Parigi Pio VII continuò a rimanere a Savona, segregato e sorvegliato come prima, fino a quando Napoleone, sia per timore che riuscisse a fuggire con l'aiuto degli Inglesi, sia per poterlo meglio piegare alla sua volontà, ordinò che fosse condotto a FOINTAINBLEAU nella massima segretezza. La notte dall'8 al 9 giugno del 1812 fu fatto travestire da prete e con la scorta di un cameriere, del medico Porta e del capitano Lagorse, per Novi, Alessandria e Susa, giunse il 12 al Moncenisio. Qui dovette fermarsi tre giorni perché ammalato (non dimentichiamo che ha 72 anni!) e fu richiesta l'opera di un chirurgo di Lanslebourg, un certo CLAROZ, il quale, quando la sera del 15 giugnio il Pontefice si rimise in viaggio, lo accompagnò fino a Fontainebleau, dove il 19 giugno Pio VII giunse, in modo alquanto diverso da quello in cui vi era arrivato otto anni prima.

Dopo qualche giorno ebbe inizio la campagna di Russia: per Napoleone fu un disastro;
l'inizio della fine era cominciata.

Nel 1813 Napoleone tentò nuove trattative con il Papa. Furono deliberati 11 articoli per un nuovo Concordato (di Fointanbleau, 25 gennaio 1813) .....
... in cui si prevedeva che il Papa avrebbe avuto la sua sede in Italia o in Francia con un appannaggio annuale di 2.000.000 di franchi, che avrebbe conferito l'istituzione canonica dei vescovi secondo le disposizioni del Concilio parigino, mantenendo, però, il pieno diritto solo per i 6 vescovi suburbicari del Lazio e per altri 10 da specificarsi, mentre tutti gli altri vescovi dell'Impero sarebbero stati nominati dall'Imperatore. Ulteriori pretese furono respinte tenacemente da Pio che aderì a quelle citate solo a causa di aperte minacce che contribuirono a peggiorare il suo stato di prostrazione fisica.
Mentre Napoleone faceva solennizzare con un Te Deum in tutte le chiese la conclusione della pace e la pubblicava come CONCORDATO DI FOINTANBLEAU, il Papa attorno al quale si erano adunati i cardinali ora divenuti liberi, era tormentato da gravi ansie di coscienza, specialmente per la rinuncia indiretta allo Stato Pontificio. Perciò in uno scritto autografo del 23 marzo 1813, scomparso dagli archivi francesi e riapparso solo nel 1962, ritirò le concessioni fatte e invitò l'Imperatore a intavolare nuove trattative.
Non fu necessario perchè la potenza di Napoleone si andava sfasciando repentinamente fino al punto in cui, il 6 aprile 1814, abdicò in favore di suo figlio rinunciando alla totalità dei suoi poteri.
Con un Breve del 4 maggio 1814, inviato a Cesena, Pio VII diceva ai Romani che "nutriva ardente brama di migliorarne le sorti e stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto i figli amorosi dopo lungo ed amaro pellegrinaggio" ed annunziava loro l'arrivo del cardinale Rivarola. Questi - secondo quel che il Breve diceva - doveva riprendere per il Pontefice e "rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati, dal Papa prescelti, l'esercizio della sua sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la sua indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una commissione di stato, dal Papa nominata, alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni le quali potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettono, alla felicità dei fedelissimi sudditi".

L'11 maggio il Rivarola assumeva il governo dei dipartimenti (del Tevere e del Trasimeno) e due giorni dopo pubblicava un editto con il quale dichiarava abolito il codice napoleonico, civile, commerciale, penale e di procedura; richiamava in vigore l'antica legislazione civile, criminale e giudiziaria, sopprimeva i diritti di registro, la carta bollata e il demanio e sospendeva fino ad ulteriore determinazione i diritti feudali. Per provvedere temporaneamente agli affari urgenti dello stato il Rivarola nominò una commissione di governo che fu composta da mons. RUSCONI, cui fu affidata l'amministrazione dell'Archiginnasio, della Sapienza, dell'Università Gregoriana, delle altre scuole e biblioteche, delle poste, delle antichità e dell'edilizia; di mons. SANSEVERINO, che fu preposto alla guerra, alla marina, alle acque, alle strade, agli archivi e alla zecca; di mons. PEDICINI e di mons. BARBERI, cui fu data la cura degli affari ecclesiastici della sacra consulta e delle santità, e di mons. CRISTALDI, incaricato agli affari del buongoverno e della beneficenza.
Il cav. GIUSTINIANI fu eletto governatore di Roma e presidente delle carceri, il marchese ERCOLANI tesoriere generale, il conte PARISANI direttore dell'annona e della grascia.

Il 24 maggio 1814, da Savona, Pio VII fece il suo solenne ingresso a Roma.

E questa volta Napoleone non potè che restare a guardare durante il suo forzato soggiorno all'Isola d'Elba (maggio 1814 - marzo 1815), fantasmatico sovrano dell'isola su cui ripristinerà una pallida imitazione della sua passata corte.
Un breve sussulto si ebbe quando, sfuggendo alla sorveglianza inglese, Napoleone riuscì a rientrare in Francia nel marzo 1815 dove, sostenuto dai liberali, tentò di instaurare un secondo ma breve Regno, conosciuto con il nome di "Regno dei Cento Giorni". Il Papa dovette rifugiarsi per breve tempo a Genova. La nuova e riconquistata gloria non durerà a lungo: presto le illusioni di ripresa verranno cancellate dal disastro seguito alla battaglia di Waterloo, ancora una volta contro gli inglesi. La storia si ripete, dunque, e Napoleone deve nuovamente abdicare al suo ripristinato ruolo di Imperatore il 22 Giugno 1815.

Unico vincitore morale sul geniale eroe della storia mondiale fu Pio VII che, il giorno dopo, concedeva un generale perdono con un bando in cui, però, vi erano anche enunciate parole di ammonimento: "La giustizia reclami la punizione di chi si era reso disubbidiente alle istruzioni ed ai decreti del Capo visibile della Chiesa e infedele ai doveri verso il legittimo sovrano; ma la pietà alzando più potente la voce fa tacere il meritato rigore della legge. Ora non potendo il Santo Padre resistere agli impulsi del suo animo pietosissimo, condona generosamente ai suoi sudditi ogni pena corporale fossero incorso per infedeltà al pontificio governo; ma protesta peraltro che se taluno si abbandonasse a nuova colpa consimile, cesserebbero per lui i benigni effetti di questo perdono e si riunirebbero a suo carico insieme con i nuovi anche i passati trascorsi, né potrebbe andare esente dalla severità del meritato castigo".

Ormai in mano agli inglesi, questi assegnarono a Napoleone come prigione la lontana isola di Sant'Elena, dove prima di spegnersi il 5 maggio 1821, evocherà spesso con nostalgia la sua isola natale, la Corsica. Il suo rammarico, confidato alle poche persone che gli erano rimaste vicine, era quello di aver trascurato la sua terra, troppo occupato in guerre ed imprese.
Col suo ritorno a Roma Pio VII volle cancellare dal suo Stato ogni traccia del governo napoleonico, ed anziché dedicarsi, come mons. GIUSEPPE ANTONIO SALA lo esortava, alla "grande opera di quella universale riforma, che Iddio vuole da noi e che tutti i buoni ardentemente sospirano", rimise in vigore tutto quel che cinque anni di dominazione francese avevano fatto dimenticare. Così il 30 luglio erano rimessi in vita i diritti feudali e il 7 agosto, con la famosa bolla "Sollicitudo omnium", era ristabilito in tutto il mondo cattolico l'Ordine dei Gesuiti, che lo stesso Pontefice, con Breve del 7 marzo 1801, aveva ristabilito solo nell'impero Russo e, con Breve del 30 luglio 1804, nei regni di Napoli e Sicilia.

Al CONGRESSO DI VIENNA (22 settembre 1814 - 10 giugno 1815) l'abilità diplomatica del Consalvi, ridivenuto segretario di stato, riusci ad ottenere, nel giugno 1815, la restituzione dello Stato Pontificio "Non è certamente - concludeva la nota - per spirito di dominazione (crede averne date sufficienti attestazioni) che il Santo Padre richieda che la Santa Sede sia reintegrata nella totalità dei suoi possessi. Il Santo Padre obbligato dai suoi più stretti doveri, come amministratore del Patrimonio di San Pietro e per i giuramenti solenni da lui fatti, a conservarlo, a difenderlo, a recuperarlo".

Ritornato a Roma, il CONSALVI riprese le redini dello stato, cercò di inaugurare un governo giusto ed onesto e di attuare alcuni necessari provvedimenti - era imprudenza chiamarli riforme - date le mutate condizioni della popolazione. Molti furono gli ostacoli incontrati e non tutti fu in grado di superarli, tuttavia riuscì col Motuproprio del 6 luglio 1816 a metter su un ordinamento amministrativo e giudiziario, che nonostante le sue imperfezioni, segnava un progresso non lieve sulle legislazioni precedenti. Purtroppo l'Austria, e lo stesso Stato Pontificio non apprezzò molto la sua opera. Nel preambolo del Motuproprio sono esposti i motivi che consigliarono il governo pontificio a dare allo Stato quel nuovo ordinamento: "Se pertanto in una gran parte dei domini, distaccati da lungo tempo dal pontificio governo, il ripristinamento degli antichi metodi si rende pressoché impossibile, o tale, almeno, che non possa ottenersi senza un notabile disgusto o incomodo delle popolazioni, diviene indispensabile, per l'integrità del corpo e per la riunione di tutte le membra, lo stabilimento di un sistema che tutte le comprenda nella medesima uniformità".

Lo Stato pontificio fu diviso in 20 "province": 5 (Roma con la Comarca, Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì) governate da cardinali legati e perciò dette "legazioni"; le altre 15 da monsignori delegati e dette quindi "delegazioni". Ogni provincia era suddivisa in "mandamenti" detti "governi", retti da un governatore di nomina regia; ogni governo comprendeva parecchi "comuni" amministrati da "Consigli Comunali". Questi, per la prima volta, erano nominati dai Cardinali Legati o dai Monsignori Delegati fra i professionisti, il clero, i possidenti, i negozianti e gli uomini di lettere; essi stessi, in seguito, rinnovavano annualmente un quinto dei loro membri, confermando gli uscenti o sostituendoli con nuovi eletti. Da un elenco di nomi proposti dai Consigli Comunali, i Legati e i Delegati sceglievano i membri delle "Magistrature Municipali", che si componevano di quattro o sei "anziani" e di un capitano detto nelle città "gonfaloniere" e nei paesi "priore". Un "senatore" ed otto "conservatori" tenevano l'amministrazione municipale di Roma; i membri del Consiglio comunale di Bologna, in numero di 48, erano chiamati "probiviri" e in mezzo ad essi era scelta la magistratura, composta di un senatore e sei conservatori.

L'ordinamento giudiziario fu il seguente: i governatori avevano le funzioni di giudici di pace in tutto lo Stato, due a Roma, uno a Macerata e uno a Bologna; vi erano infine due tribunali supremi, quello della Segnatura, per le cause penali e quello della Sacra Rota per le cause civili. Accanto a questi tribunali funzionavano i tribunali ecclesiastici, del Campidoglio, della Congregazione dei vescovi, della dataria, della congregazione del buon governo, della camera, dell'uditore, del tesoriere, degli assessori comunali, del presidente della grascia, del giudice dei mercenari, dei giudici dell'annona, dei giudici dell'agricoltura, del cardinal vicario, dei commissari della fabbrica di S. Pietro. Fu prescritto l'uso della lingua italiana affinché i litiganti potessero "conoscere lo stato e l'andamento dei loro affari", fu ammesso il confronto dei testimoni davanti ai giudici, s'istituirono giudici processanti e l'avvocato dei poveri, fu abolita la tortura, ma si conservarono le giurisdizioni eccezionali dell'Inquisizione, della Congregazione dei Vescovi, del Prefetto dei palazzi apostolici.

Basi fondamentali della parte legislativa furono il privilegio agnatizio nella successione, la perpetua minorità della donna, il ripristinamento dei fidecommissi, la facoltà di farne di nuovi e di istituire la causa pia. Nelle Marche e nelle Romagne furono abolite le giurisdizioni baronali; nelle altre province furono lasciate, ma essendosi fatto obbligo ai feudatari di sostenere tutte le spese occorrenti all'amministrazione della giustizia, quasi tutti i baroni rinunziarono e la giurisdizione baronale rimase di fatto soppressa in quasi tutto lo stato.
Perché le imposte fossero ripartite più equamente si stabilì il rinnovo del catasto rustico e urbano, e perché il pubblico denaro fosse meglio amministrato si ordinò che ogni anno, non più tardi del primo d'aprile, tutti gli amministratori delle finanze pubbliche rendessero conto al Tesoriere generale e che questi, entro il primo di giugno presentasse i conti verificati alla Camera Apostolica. Infine si prometteva la pubblicazione dei nuovi codici.

Nello stesso tempo venivano regolarizzate le relazioni della Curia con gli Stati europei mediante la conclusione di Concordati con il Piemonte (1817), la Baviera (1817), la Russia per la Polonia (1817), le Due Sicilie (1818), la Prussia (1821), mentre, per quel che riguarda la Francia si tornava al Concordato del 1801. Pio VII diede, infine, nuovi impulsi all'opera missionaria riorganizzando la Congregazione di Propaganda Fide e la penetrazione cattolica nel Medio ed Estremo Oriente.
Ma l'Italia e l'Europa intera erano profondamente cambiate; venti liberali spiravano sempre più impetuosi. Nello Stato Pontificio, dopo il fallito tentativo rivoluzionario di Macerata (1816-1817) subito represso salle truppe papaline, il movimento settario aveva avuto un periodo di rallentamento, ma ben presto le società segrete avevano ripreso la loro attività. Fino al 1817, infatti, pare che i settari più forti erano stati i "Guelfi", ma nell'ottobre di quell'anno si fusero con i "Carbonari" in una società sola mediante la cosiddetta "Costituzione latina" escogitata da COSTANTINO MUNARI e adottata dai settari di Romagna in un convegno tenuto nel palazzo Ercolani di Bologna. Allora la propaganda settaria s'intensificò così tanto che pochi mesi dopo, sotto la protezione di cardinali reazionari quali il RUSCONI, l'ALBANI e il CASTIGLIONI, si costituì, con un programma ferocemente reazionario, la setta dei "Sanfedisti".

Il cardinale Consalvi sorvegliava con grande diligenza l'attività delle sette liberali, ma più che su queste, da lui ritenute non pericolose, vigilava (e a ragione) sull'Austria della quale conosceva le mire sulle Legazioni; infatti, scoppiata la rivoluzione di Napoli, si dichiaravò contrario all'intervento austriaco nel Regno delle Due Sicilie ed opponeva un reciso rifiuto al Metternich il quale chiedeva che gli eserciti austriaci presidiassero lo Stato Pontificio. Ma intanto Pontecorvo e Benevento si ribellarono costituendosi in governi indipendenti, e in tutto lo Stato i settari si agitarono, destando grande preoccupazione nel governo pontificio, il quale, intensificò la vigilanza, riuscendo nell'ottobre del 1820 ad arrestare, a Macerata e in altre città delle Marche, una decina di persone, di cui cinque, e cioè ALESSANDRO CELLINI, LIVIO AURISPA, ANTONIO FIORETTI, BENEDETTO ILARI E GIUSEPPE PASSINI, furono poi condannati ad alcuni anni di segregazione nella fortezza di Civitacastellana.

Questi arresti crearono lo scompiglio fra i rivoluzionari marchigiani; alcuni si rifugiarono in Abruzzo e vi costituirono la "Legione romana" comandata dal maceratese VINCENZO PANNELLI, la quale, nel febbraio del 1821, con il proposito di indurre i sudditi del Pontefice ad insorgere, si spinse fino a Ripatransone, in provincia di Ascoli, ma, non sostenuta dalle popolazioni ed affrontata dalle truppe pontificie, si disperse. Dei legionari, alcuni furono fatti prigionieri subito, altri, fra cui il Pannelli, furono catturati a Messina, dove erano riparati, e consegnati al governo papale; altri riuscirono a mettersi in salvo.

Intanto nelle Romagne l'attività delle sette era tale ed i delitti di sangue erano tanti che il cardinale Consalvi, temendo che l'Austria, preoccupata dell'esistenza di società segrete ai confini del Lombardo-Veneto, occupasse le Legazioni, ordinò ai cardinali SANSEVERINO e RUSCONI, legati delle province di Forlì e di Ravenna, di cacciare o di confinare (e non di ammazzare) i liberali più impetuosi. I due legati eseguirono gli ordini senza misura e discernimento provocando una vivissima agitazione nelle Romagne, che trovò perfino eco sdegnato nella stampa estera e suggerì al cardinal Consalvi una lettera al Sanseverino datata 1 agosto 1821: "Tutti gli esiliati o gli arrestati esclamano tutti contro la tirannia e l'abuso della forza. Tutti dicono d'avere almeno il diritto di essere sentiti e di discolparsi costituendosi in un forte. Come negarsi a tale giusta istanza? O almeno, come lusingarsi che ad altri entri nella testa che si possa saltar sopra ad ogni forma e ad ogni regola? [...] Dividendo il futuro dal passato, il partito da prendersi per il futuro non è difficile, astenendosi cioè (salvo il caso che i cattivi esigano provvidenze contro i loro portamenti) astenendosi dico, almeno per ora, da nuovi arresti e nuovi colpi. Ma quanto al passato, lì sta la difficoltà, non essendo possibile di mantenere fermi tanti numerosi arresti e tante procedure e dovendosi badar bene, dall'altra parte, a non svistare, non disgustare, infine a non urtare con tutti gli altri".

Il 13 settembre del 1821, Pio VII, sollecitato da alcuni sovrani e specialmente da Francesco I, lanciava contro tutti i settari e in particolar modo contro i Carbonari, con la bolla "Ecclesiam a Jesu", la scomunica; ma né questa né le proscrizioni e gli arresti valsero a scoraggiare i settari, anzi inasprirono maggiormente i loro animi e si ebbe una lotta silenziosa, ma feroce tra liberali e "Sanfedisti", che fu la causa di un iniquo spargimento di sangue. I disordini andavano di giorno in giorno aumentando e le sette, invano perseguitate, acquisivano vigore.

E fu proprio in questo clima di disagio generale che Pio VII si spense, stremato dalle fatiche, il 20 agosto del 1823, all'età di 81 anni, dopo 23 anni e mezzo di pontificato. Ci piace ricordarlo con le sue stesse parole (Etsi longissimo, Breve del 1816): "Noi siamo rappresentanti di Colui che è il Dio della pace e che, nascendo per redimere il genere umano dalla tirannide del demonio, volle annunciare la pace agli uomini; abbiamo creduto che questo sia proprio di quella funzione apostolica che, sebbene senza merito, esercitiamo".




LEONE XII
ANNIBALE DELLA GENGA
(Genga (AN) 20 Ago. 1760 - Pontificato 28 set 1823 - 10 feb. 1829)
ANNIBALE SERMATTEI DELLA GENGA nacque a Genga presso Fabriano (Ancona) il 20 agosto 1760 dal Conte Flavio e dalla contessa Maria Luisa Periberti di Fabriano. Fu il sesto di dieci figli.
Compì gli studi nel collegio Campana di Osimo e nel collegio Piceno a Roma e, successivamente, nel Seminario dell'Accademia Ecclesiastica. Il 4 giugno 1783 fu ordinato sacerdote. Pio VI, che ebbe per lui una stima e una particolare affezione, provvide nel 1794 a nominarlo vescovo di Tiro e a inviarlo Nunzio Apostolico in Germania a Lucerna e Colonia, presso la dieta germanica del 1805.

L'intervento di Napoleone fece fallire le sue trattative con la Baviera. Stesso destino per le trattative a Monaco e Stoccarda con il governo del re Federico I del Wurttemberg nel 1806-1807.

Fu Nunzio Apostolico a Parigi nel 1808 dove si scontrò con il cardinal Consalvi. Stessa sorte fallimenare anche per la sua missione a Bratislava, nel tentativo di una conciliazione con Napoleone e, quando quest'ultimo fece occupare Roma, Annibale si rifugiò a Monticelli dove sperava di poter vivere il resto dei suoi giorni; e in questa convinzione preparò perfino la sua pietra tombale con il relativo epitaffio ancora oggi visibile.
Tuttavia diversamente era stato disposto a suo riguardo e Pio VII, nella nomina di 21 cardinali del 1816, incluse anche il suo nominativo. Poco dopo fu nominato Vescovo di Senigallia, ma dovette rinunciare all'incarico nel 1818 a causa delle precarie condizioni di salute. Nel 1820 fu nominato vicario per la città di Roma.

Il 20 agosto del 1823 moriva Pio VII e il 2 settembre 49 dei 53 cardinali di cui si componeva il Sacro Collegio si riunirono in Conclave. Questo risultò diviso in due partiti: quello degli 'zelanti' filo-austriaci capitanato dai cardinali ALBANI, DE GREGORIO, DELLA SOMAGLIA, FALZACAPPA, PALLOTA, TESTAFERRATA, e quello dei 'moderati' guidato dai cardinali CONSALVI, PACCA, AREZZO, MOROZZO. I due gruppi, come influenza, si equivalevano. Il Conclave durò 26 giorni. Sembrava che la scelta del nuovo pontefice dovesse cadere sul cardinale SEVEROLI, che il 21 settembre aveva avuto 26 voti, quando il cardinale ALBANI, in nome dell'Austria, lo dichiarò non eleggibile. Altri votati furono i due antagonisti per eccellenza: il Somaglia e il Consalvi.

Il 27 settembre, al 51esimo scrutinio, il cardinale ANNIBALE DELLA GENGA raccolse 34 voti, grazie all'arrivo di nuovi cardinali filo-austriaci, e fu eletto papa con il nome di LEONE XII. Fu solennemente incoronato il 5 ottobre.
Il nuovo pontefice non confermò alla carica di segretario di Stato il cardinale Consalvi, essendo ostile alla sua politica cautamente riformatrice. Questi cessò di vivere quattro mesi dopo, il 24 gennaio 1824, a 69 anni di età.
Al suo posto Leone XII scelse il cardinale GIULIO MARIA DELLA SOMAGLIA, uomo politico avverso ad ogni forma di liberalismo e di rinnovamento.
Provvidenzialmente guarito da una malattia mortale, sul finire del 1823, da san Vincenzo Maria Strambi, suo consigliere personale che si offrì al suo posto, Leone XII enunciò il suo programma di restaurazione della fede, di lotta all'indifferentismo religioso, di condanna del liberalismo e delle “sette” nell'enciclica 'Ubi primum' del 5 maggio 1824.

Uno dei primi passi fu la nomina, nel 1824, del cardinale AGOSTINO RIVAROLA il quale aveva già una pessima fama: quella di essere un intransigente. A poche ore dalla nomina, fu inviato in Romagna con pieni poteri, con il grado di legato straordinario, per poter stroncare, dalle radici di quella provincia e da altre vicine, tutte le società segrete. Alla base delle sentenze, prive di ogni regolare procedura, c'erano semplici indizi. Alla sentenza seguiva poi un bando, con il quale si perdonavano tutti i settari e si dichiarava che se nuovamente si fossero accostati alle società segrete, sarebbero stati puniti anche della colpa di cui erano in precedenza stati assolti; inoltre si minacciava ai capi e ai propagandisti delle sette la pena capitale e la pena di sette anni di galera per tutti coloro che non denunciavano i settari. Il 31 agosto del 1825 furono condannati 508 cittadini (di cui 7 finirono sul patibolo); fra i condannati figuravano nobili, possidenti, impiegati, medici e chirurghi, avvocati e notai, farmacisti e flebotomi, ingegneri, veterinari e maniscalchi, studenti, militari, preti, negozianti, operai ed esercenti piccole professioni o mestieri.

Calmato il primo impeto, il Rivarola mitigò e perdonò alcune condanne, si adoperò per comporre le discordie causate dalle fazioni, cercò di riappacificare per mezzo di matrimoni famiglie nemiche, mandò frati a predicare la pace e la concordia, ma con la fama che si era guadagnato ottenne poco; quasi nessuno si fidava della sua ipocrita magnanimità. Per questo motivo ricevette un severo avvertimento, diventando il bersaglio, nel 1826, di un attentato a colpi di pistola. Ebbe salva la vita (fu ferito solo il suo accompagnatore), ma ugualmente rimase sconvolto e intimorito. A quel punto il pontefice richiamò il Rivarola e al suo posto inviò una commissione speciale presieduta da monsignor FILIPPO INVERNIZZI, la quale cominciò a perseguitare i settari e, promettendo impunità ai delatori, riempì le carceri peggio che il Rivarola.

Ma la pietra miliare del pontificato di Leone XII, che fu anche l'avvenimento più difficoltoso, fu il grande Giubileo del 1825, volto a rilanciare la fede cristiana, messa così a dura prova dai tentativi sovversivi. Dissuaso da tutti per le gravi contingenze dello Stato pontificio e per la situazione europea a seguito del terremoto napoleonico, Leone XII rimase inflessibile nella sua decisione e sin dal 1823 iniziò la preparazione della complessa macchina organizzativa con impavido ardimento. Fra le iniziative assunte curò la sicurezza delle strade per l'affluenza dei pellegrini.

Il Giubileo, apertosi solennemente durante i Vespri della Vigilia di Natale 1824, si risolse in un autentico trionfo per il numero dei pellegrini e per l'ordine con cui si svolse. In tale occasione il papa riuscì perfino a far catturare, con l'aiuto prima di monsignor PALLOTTA dai metodi repressivi e poi del cardinale BENVENUTI maggiormente diplomatico, la famigerata banda dei briganti di Gasperone il quale si rassegnò a piegarsi con l'assicurazione di clemenza. Tutti finirono in carcere, ma nessuno ebbe la morte.
Sempre nel 1825 tolse dall'Indice le opere di Galileo.

Nel 1826 emanò dei provvedimenti di carattere pubblico nei riguardi di coloro che erano sbandati e praticavano la mendicità. Fu consentita la questua solo se i bisognosi si fossero raccolti sul sagrato delle chiese: questo permise di controllare i randagi e, con la frequentazione, anche di conoscerli uno per uno.
Meno indulgente fu con gli ebrei a cui limitò la libertà, confiscò loro ogni diritto di proprietà obbligandoli a commerciare in tempi stabiliti; ne aggravò la ghettizzazione ordinando che venissero sorvegliati dal santo Ufficio. Ciò ne favorì l'emigrazione a Trieste, a Venezia, in Lombardia e in Toscana.
Durante il suo pontificato riuscì a compiere alcuni lavori nel suo luogo di origine, migliorando, fra l'altro, le strade ed eseguì la monumentale opera del Santuario di Frasassi.

Con il motuproprio del 1824 "Quod sapientia" creò una suprema Congregazione di cardinali che doveva vigilare sulle università e su tutte le altre scuole dello stato. Prescrisse che nello stato le due università primarie di Roma e di Bologna, dovevano essere presiedute da un arcicancelliere, e le cinque secondarie, Ferrara, Perugia, Camerino, Macerata e Fermo, presiedute da cancellieri; restituì, infine, il Collegio Romano ai Gesuiti.
Diede, sempre nello stato pontificio, maggiore potere ai vescovi ampliandone la giurisdizione nei giudizi civili; si dava loro facoltà di istituire fidecommissi e primogeniture; si prescriveva che le donne congruamente dotate fossero escluse dalle successioni degli ascendenti e dei discendenti; si escludeva nei tribunali l'uso della lingua italiana ripristinando il latino e si restituiva in parte il vecchio sistema di procedura nell'azione penale.

Per quanto riguarda la politica economica, mentre in Europa il libero scambio è in questo periodo il tema dominante, Leone XII gravò i prodotti stranieri di dazi pontifici altissimi (il costo di uno staio di grano nel regno pontificio, rispetto agli altri stati della penisola, poteva variare fino a cinque volte in più). E non essendoci all'intero dello Stato grandi manifatture, industrie, razionali produzioni agricole, la circolazione delle merci é fortemente penalizzata, i costi sono altissimi e i consumi bassissimi, la carenza alimentare per 2.600.000 abitanti si fa drammatica, al limite della sussistenza con estesi fenomeni di malattie legate alla malnutrizione.

La politica estera si compì tra complesse e confuse difficoltà, data la situazione degli Stati europei minati alle fondamenta da Napoleone, e che in quei tempi si andavano assestando e restaurando. Spiacevoli controversie sorte tra la Santa Sede e la Spagna, a motivo della nomina di Vescovi nelle colonie americane, furono da lui personalmente risolte con la sua consumata abilità diplomatica. Stipulò concordati con il Belgio e l'Olanda. Incontrò grandi difficoltà con gli Stati germanici per la caparbia e pervicace contrarietà dei Protestanti. Cercò di frenare le tendenze gallicane in Francia e combattè quelle febroniane in Austria e Germania.
Si spense a 69 anni, il 10 febbraio 1829, dopo 6 anni di pontificato: pochi, ma decisamente molto intensi.




PIO VIII
FRANCESCO SAVERIO CASTIGLIONI
( Cingoli 20 -XI - 1761 - Pontificato 31 mar. 1829 - 30 nov. 1830)
FRANCESCO SAVERIO nacque a Cingoli, nelle Marche, il 20 novembre 1761 dalla nobile famiglia CASTIGLIONI. Fu uomo di ottima volontà, colto e coscienzioso. Si laureò in teologia nel 1785.
Nel 1800 Pio VII lo aveva consacrato vescovo di Montalto. Avendo, nel 1808, rifiutato di prestare il giuramento imposto da Napoleone, era stato relegato prima a Milano, poi a Pavia e infine a Mantova.
Nel 1816, dopo la Restaurazione, era stato creato cardinale e vescovo di Cesena, poi di Frascati (nel 1821) e, infine, Penitenziere maggiore.

Alla morte di Leone XII seguì il conclave apertosi il 24 febbraio 1829 che durò tutto il mese di marzo. All'inizio parve che dovesse essere eletto il cardinale De Gregorio che il 7 marzo ottenne 24 voti; poi i voti più numerosi si raccolsero sui cardinali Pacca, Cappellari e Castiglioni; infine, quest'ultimo, il 31 marzo, raccolse al primo scrutinio 36 voti e al secondo 47 e fu eletto Papa il 31 marzo 1829, assumendo il nome di PIO VIII.

Fu avverso alle società segrete e ai giansenisti; appoggiò le dottrine morali di s. Alfonso M. de' Liguori di cui promulgò il decreto di canonizzazione (ma la solenne cerimonia si svolse solo 9 anni dopo con Gregorio XVI). Scelse Giuseppe ALBANI, già protettore dell'Austria, come segretario di Stato e diede a lui la direzione della politica. Se si deve credere alle dicerie del tempo e alle affermazioni del visconte Chteaubriuand, ambasciatore francese a Roma, pare che l'Albani fosse segretamente stipendiato dal Metternich, oltre che favoritore delle ambizioni del trono sardo del duca di Modena di cui era parente.

Durante il suo pontificato si ebbe l'emancipazione dei cattolici in Inghilterra e la rivoluzione del luglio a Parigi. Nella contesa prussiana sui matrimoni misti in Renania il suo intervento fu efficace.
Morì, dopo soli 20 mesi dall'elezione, il 30 novembre del 1830.

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