Una ricerca sulle cause della Guerra fredda
durante la quale il mondo rischiò di essere coinvolto nel terzo conflitto mondiale

STALIN, UN DITTATORE
OSSESSIONATO
DALL'INSICUREZZA
 

di ALESSANDRO FRIGERIO

Finita la Guerra fredda e ormai agli sgoccioli anche il secolo che l'ha generata, giunge inevitabile il momento dei consuntivi. Un taglio nuovo, e decisamente fuori dagli schemi, è quello che ha proposto recentemente Vojtech Mastny, professore di relazioni internazionali alla School of Advanced International Relations, con un saggio sulla fase più acuta della Guerra fredda. Quella cioè che abbraccia il periodo - breve ma intensissimo - che va dalla fine del secondo conflitto mondiale fino alla morte di Stalin. 

La tesi di fondo dell'autore, costruita consultando oltre a biblioteche e archivi statunitensi, gli archivi moscoviti, quelli della Repubblica Ceca e dell'ex partito comunista della Germania Est, è aliena da interpretazioni buoniste o colpevoliste di comodo. La causa dell'escalation crescente che portò al blocco di Berlino, alla scomunica di Tito, alla guerra in Corea, e che rese palpabile il pericolo di un possibile confronto armato tra Usa e Urss, deve essere ricercata nell'incapacità dei due blocchi a interpretare le esigenze di sicurezza politica dell'avversario. E, in particolare, in quel senso di insicurezza che, insito nella stessa dottrina bolscevica, in Stalin raggiunse forme ai limiti della paranoia. 

All'interno dell'Urss tale sentimento lo indusse ad eliminare con una serie di sanguinose "purghe" cicliche ogni avversario vero o presunto. All'esterno la paura del capitalismo determinò tutte le sue decisioni strategiche. Il marxismo, spiega infatti Mastny nel capitolo iniziale, aveva dato al dittatore georgiano una forma mentis che lo portava a vedere nel mondo esterno il nemico implacabile della rivoluzione prima e dello stato poi. Ecco perché una volta giunto al potere e sconfitto Trotzsky, Stalin iniziò a identificare la difesa della sicurezza statale interna con il suo potere personale.

In questa visione manichea dell'uno contro tutti era uno dei limiti fondamentali della sua visione politica. "Il suo difetto era quello di sopravvalutare la gravità dei conflitti e di distorcere la prospettiva, riducendo la politica internazionale a una partita a due, in cui le perdite di un giocatore sono automaticamente vincite per l'altro". Ciò gli impedì, inizialmente, di stimare il pericolo nazifascista per quel che era. In quest'ansiosa ricerca di sicurezza può essere inquadrato anche l'accordo con Hitler dell'agosto 1939, che nelle speranze di Stalin doveva servire, una volta raggiunto l'equilibrio in politica estera, a creare la sicurezza - che ancora una volta sarebbe dovuta passare attraverso l'eliminazione di ogni opposizione - all'interno dell'impero sovietico.

"L'inattesa invasione nazista del luglio 1941 [...] generò invece nella psicologia sovietica l'ossessione dell'attacco a sorpresa e il culto della potenza militare". Ossessione e culto che da allora diverranno fondanti nella politica sovietica non solo sotto Stalin, ma fino alla disgregazione finale del 1989.

E veniamo dunque alla parte più consistente del volume, dove l'autore analizza minuziosamente, seguendo una scansione rigorosamente cronologica, gli avvenimenti politici internazionali che dal settembre 1947 al marzo 1953 videro dispiegarsi il non sempre lucido decisionismo staliniano. Contrariamente a ciò che si è a lungo ritenuto in campo occidentale l'occupazione militare dei territori dell'Europa orientale da parte dell'Armata Rossa non fu in un primo momento la regola ispiratrice della strategia politica staliniana.


Sembra addirittura che tra il 1944 e il 1946 Stalin preferisse una Europa orientale divisa e docile piuttosto che completamente asservita, nella convinzione che i partiti comunisti locali sarebbero riusciti a conquistare il potere nel rispetto di regole sostanzialmente democratiche. Tuttavia, puntualizza Mastny, gli alleati commisero un grave errore di interpretazione a Yalta, non riuscendo a capire in anticipo che la mentalità sovietica non contemplava assolutamente l'accettazione, nella propria zona di influenza, di governi democratici qualora questi non fossero stati chiaramente orientati verso l'Urss.

Fu proprio quello che successe nel 1946, quando in Germania, Austria e Ungheria i comunisti subirono una batosta nelle prime libere elezioni. "I rappresentanti occidentali - spiega - non riuscivano a credere che Stalin potesse avere interesse a imporre governi non rappresentativi in [...] Europa orientale, mentre egli non riusciva a immaginare come potessero aspettarsi che egli facesse qualcosa di diverso".

Paradossalmente, la conclusione vittoriosa della guerra sulla Germania, che portò all'Urss quella sicurezza e quella stabilità di confini cui aveva anelato fin dal 1917, non bastò all'insaziabile dittatore georgiano. La prospettiva di una vita migliore e finalmente pacifica rappresentavano un ostacolo alla sua tirannide, che per sopravvivere aveva bisogno di inculcare nel popolo l'idea di una minaccia continua alla sua esistenza. La creazione del Kominform, nel 1947, rappresentò un tentativo per capitalizzare al massimo il prestigio di Stalin e dell'Urss come vincitori del nazismo, nonché per sfruttare l'enorme consenso di cui godeva in quegli anni l'idea comunista un po' in tutto il mondo.

Abbandonata l'ipotesi delle vie nazionali al socialismo, la parola d'ordine per tutti partiti comunisti che vi facevano parte ritornava ad essere quella dei due campi implacabilmente antagonisti, il socialismo e il capitalismo. Del resto, alla fine del 1947 Stalin sentiva che la situazione in Europa orientale poteva sfuggirgli di mano. La sicurezza assoluta non era ancora raggiunta.

Fu proprio per appagare questa necessità insoddisfatta che si lanciò allora in due imprese temerarie che avrebbero a lungo suscitato nell'immaginario occidentale l'idea di un'Urss aggressiva e oscura manovratrice di complotti. La prima fu la proclamazione da parte dei comunisti greci, alla vigilia di Natale, di un governo provvisorio in una parte del territorio sotto il loro controllo; proclamazione che faceva parte di un piano concordato al Comitato centrale del Pcus poche settimane prima. La seconda fu il colpo di stato a Praga nel marzo 1948.

In Occidente, entrambe vennero erroneamente interpretati come l'ennesima manifestazione della volontà espansionistica staliniana, quando invece, guardandole retrospettivamente, appaiono piuttosto come gli ultimi veri atti di sovietizzazione compiuti dal dittatore. Che da allora in poi dovrà battere sempre più in ritirata. Scrive infatti Mastny: "I nove mesi successivi al varo del Kominform, nello sforzo di puntellare il deterioramento delle posizioni sovietiche in Europa, ne avevano solo testimoniato l'ulteriore deterioramento. [...] Stringendo la morsa sull'Europa orientale per consolidare la
propria posizione nell'escalation del conflitto Est-Ovest, Stalin non fu così avventato come sembrava; si dimostrò infatti pronto a indietreggiare in Finlandia dopo aver oltrepassato i limiti in Cecoslovacchia.
 
Ma fu ancora abbastanza imprudente da spingere l'Occidente a impegnarsi con maggior determinazione nella creazione di uno stato tedesco e di un blocco militare antisovietico". Fu però proprio in questo periodo, tra la fine del 1948 e la prima metà del 1949, che in conseguenza della crisi di Berlino la Guerra fredda dal piano politico iniziò a spostarsi su quello più pericolosamente militare.

Gli Stati Uniti e l'Urss temettero in quei giorni un intervento militare da parte dell'avversario. Nonostante gli Usa godessero ancora del vantaggio della bomba atomica, erano tuttavia inclini a sovrastimare le capacità e la potenza bellica sovietica. Nel campo avverso, invece, "la tendenza ad attendersi il peggio dai capitalisti, che permeava la dottrina marxista, accentuò l'inclinazione dei rappresentanti sovietici all'estero a esagerare, per la loro stessa protezione, la possibilità dello scenario più catastrofico". 

L'incubo più ricorrente di Stalin, che riteneva gli americani capaci di azioni sovrumane, era quello di una invasione della Crimea grazie all'aiuto degli ebrei russi! Non poteva immaginare che i piani della neocostituita Nato prevedevano, in caso di attacco sovietico, il ritiro dall'Europa e la preparazione solo in un secondo tempo della riconquista del vecchio continente.

Dopo l'ulteriore smacco rappresentato dal successo del ponte aereo americano di Berlino, l'attenzione di Stalin si spostò verso i movimenti anticoloniali di tipo marxista nel sudest asiatico, ma senza riuscire a raccogliere neanche lì grandi successi, se non nei casi specifici dell'Indonesia e della Cina di Mao.
 
Il "secondo fronte" asiatico, aperto da Stalin per rifarsi dalle sconfitte in Europa e arginare la penetrazione americana in Estremo Oriente, si rivelò però anch'esso molto rischioso. Non solo perché l'amicizia con Mao fu cosa di breve durata, ma perché il sostegno offerto alla Corea del Nord nell'attacco a quella del Sud lo costrinse a combattere per procura una guerra vera contro gli Usa. Guerra che - immaginata come un blitzkrieg (guerra lampo) e durata invece tre anni - non riuscì a vincere neanche con il massiccio aiuto dell'esercito cinese.

Tutto si risolse in uno stallo, in una stabilità critica che però, pur allontanando il pericolo di uno scontro frontale, lasciava il livello di tensione sempre oltre il livello di guardia. E a risentirne fu soprattutto lui, Stalin, preda di incubi assillanti e di sindromi da accerchiamento sempre più ricorrenti. "Non mi fido più di nessuno, neppure di me stesso", sbottò nell'estate del 1951.

Secondo Molotov e Chruscev non era più padrone di sé stesso, preda ormai di vuoti mentali e perdite di memoria. Aggiunge Mastny che "la figlia di Stalin, Svetlana, raccontò in seguito di essere rimasta traumatizzata sentendo il padre affermare che non si fidava più nemmeno di Berija, il suo uomo della sicurezza.

Secondo l'albanese Enver Hoxha, Stalin temeva che "il nemico tentasse perfino di insinuarsi fin nel partito, anzi, nel Comitato centrale". Quale che fosse la precisione di queste testimonianze della progressiva paranoia del despota, esse vennero ampiamente confermate dalle dimensioni della purga che egli aveva avviato ed esteso quando, in conseguenza della fallita offensiva comunista in Asia, venne costretto sulla difensiva anche nell'Europa orientale". 

L'epurazione interna assunse un carattere antiebraico. Nel giugno 1952 a Mosca, in un processo segreto, vennero condannati più di venti ebrei e molti di loro furono giustiziati. Tra questi anche l'ex viceministro Lozovskij e personaggi legati al Comitato ebraico antifascista.
La "congiura dei medici", l'assurda storia secondo cui i medici ebrei del Cremlino avevano complottato per eliminare i loro importanti pazienti, segnò l'epilogo del delirio antiebraico staliniano poche settimane prima della morte del dittatore. "Il senso di insicurezza sovietico che fu all'origine della Guerra fredda la contenne anche entro certi confini. Le testimonianze interne delle capacità e delle intenzioni di Mosca non lasciano più dubbi sul fatto che i suoi dirigenti non abbiano mai voluto oltrepassare il limite", conclude Mastny.

Il sistema terroristico creato all'interno del blocco sovietico da Stalin fu uno degli elementi che rese ancora più forte la coesione delle democrazie "capitaliste" occidentali. Democrazie che, invece, secondo Stalin e secondo la più squisita dottrina marxista, sarebbero dovute crollare a causa dei contrasti interni al loro sistema. Ma il lieto fine del 1989 non deve ingannare.

Più che di insegnamenti da trarre dalla conclusione della Guerra fredda, occorre parlare di lezioni sbagliate da non imparare. Lezione prima, che "simili lieti fine sono stati straordinariamente rari nella storia". Lezione seconda e ultima, "presumere che, solo perché l'Unione Sovietica si dimostrò alla fine nulla più che una tigre di carta, lo stesso valga per tutti i regimi retti da ideologie universaliste, secolari o religiose".

di ALESSANDRO FRIGERIO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Il dittatore insicuro: Stalin e la guerra fredda di Vojtech Mastny - Editore Corbacci

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