HENRI SANSON - "LE MEMORIE DEI CARNEFICI DI PARIGI"

LIBRO QUINTO
L'AUTO DA FE' DI VERSAILLES

( da pag. 173 a pag. 219 )

La fine della ruota - L'udienza reale
Il marchese di Favras
La ghigliottina
Il tribunale del 17 agosto 1792
La morte di Luigi XVI

L'ultima parte del regno di Luigi XV è sobria di sangue. Dopo Lally e la Barre, la sete è placata. La corte si ingolfa nei vizi, ma non li macchia di crudeltà. Sui registri del mio avo noti trovo dunque solo condannati comuni volgari scellerati i cui crimini non superano quel livello di depravazione che è inerente alle cattive eccezioni della natura umana. La sola cosa degna di nota è che tutti, o quasi tutti, presentavano ricorso al Parlamento contro le sentenze pronunciate contro di loro da tribunali inferiori, e che, quest'appello andava per lo più a risolversi in un aggravamento di pena. Succedeva di rado che semplici tribunali di provincia condannassero un disgraziato alla rottura delle ossa e alla ruota. La forca e il capestro parevano loro sufficiente castigo. Ebbene, generalmente il Parlamento non modificava la sentenza che per sostituire il supplizio proposto con quello feroce della ruota. Ci chiederemmo invano la ragione di questo eccesso di rigore da parte di una corte sovrana, alla quale gli sciagurati si rivolgevano con la speranza di ottenere una mitigazione della loro sorte.
L' ultima volta che s' ebbe ad applicare, sebbene odioso per la giustizia, il supplizio della ruota, fu nel 1788, ed ecco in quali circostanze.

Vi era a Versailles, in via di Montreuil, un maniscalco che si chiamava Mathurin Louschart.
Era un uomo che si poteva dire il rappresentante tipico degli artigiani d'altri tempi, con le loro simpatie, le loro antipatie, i loro odi di casta, le loro presunzioni di maestria professionale. Tutto compenetrato della superiorità della sua professione, non avrebbe scambiato il suo grembiule di cuoio per la zimarra del magistrato o per il collarino del monsignore. Egli odiava le idee nuove: un Montmorencv, un Rohan non avrebbe avuto il disprezzo che egli affettava per un'uguaglianza umana da lui qualificata chimerica: di un asino, diceva, non si farà mai un cavallo. Del resto, fuor di queste manie, mastro Louschart era un brav'uomo, probo e scrupoloso, e adorava l'unico figlio che la signora Louschart gli aveva lasciato morendo.

Gian Luigi, il figliuolo, a vent'anni era un bel giovane, di robustezza singolare; mastro Mathurin, che era ricco, gli aveva fatto dare anche un'educazione superiore alle sue condizioni. Però, non ammetteva che egli seguisse altra carriera che quella del maniscalco; era per lui una questione di principio sociale e di tradizione famigliare. Gian Luigi, a malincuore, s'era rassegnato, e uscito dal collegio, batteva il ferro tutto il giorno, e solo la sera leggeva qualche libro.

Tra quel libri vi erano anche i moderni, dei quali si disputava intorno a lui: Voltaire, Rousseau, Montesquieu e Diderot. Il giovane si accese di quei nuovi principii, e si trovò immediatamente in contrasto con le idee autoritarie del padre. La situazione divenne tesa fra loro, e una circostanza inaspettata venne a complicarla, aumentando il corruccio di Mathurin verso il figlio.
Il ministero, premuto dal disavanzo crescente, al quale non si poteva far fronte che creando imposte sempre nuove, aveva convocato la prima assemblea dei notabili.
Questi avevano tenuto molti discorsi, ma si erano ben guardati di stendere la mano per salvare la monarchia che pericolava: si erano separati lasciando il Re Luigi XVI in preda al raddoppiato imbarazzo che gli creavano il dissesto finanziario e l'opposizione del Parlamento a registrare nuove fiscalità.

Per obbedire alle necessità economiche del momento, il re introdusse importanti economie nella sua casa. Tra altro, la cavalleria addetta alla casa reale fu ridotta alle sole guardie del corpo.
Mastro Mathurin si trovava solo indirettamente toccato da questa soppressione che diminuiva la sua clientela; ma molto più che nell'interesse, essa lo colpiva nel sentimento. Per lui la grandezza della monarchia non poteva manifestarsi se non nel numero dei cavalli che essa teneva radunati intorno a sè. Pensando alla longanimità con cui il re si rassegnava a rinunciare alla più bella delle sue prerogative, il maniscalco ne aveva le lacrime agli occhi; poi la sua natura violenta schiattava in furore; egli torceva le mani, agitava il pugno minaccioso verso quelli che con lo spirito di rivolta e gli indecenti schiamazzi avevano provocato la misura incredibile. Tra questi, necessariamente, gli appariva in prima linea suo figlio. In lui vedeva ormai incarnati tutti i fautori del disordine.

Gian Luigi ne soffriva crudelmente, anche perchè ogni giorno gli sembrava vedere il vecchio più pallido, gli sembrava scorgere una nuova ruga su quel viso alterato. Facendosi amari rimproveri, egli si propose di venire a una spiegazione col padre e di tentare che essa riconducesse la pace nella casa.
Ma egli scelse male il momento.
Le scuderie reali si servivano di mastro Mathurin, che ogni anno portava allo scuderie il libro dove registrava i suoi conti con la casa del re, affinchè questo ufficiale li verificasse e ci mettesse il visto per il pagamento del tesoriere.

Alla vigilia, il vecchio maniscalco aveva fatto la sua visita annuale a cotesto funzionario.
Questi esaminato il conto, pareva lo avesse trovato in piena regola; tuttavia lo aveva restituito all'artigiano dicendogli con un sorriso pieno di tristezza
- Quest'anno avrò il piacere di vedervi due volte anzichè una, signor Louschart; da qualche tempo i nostri creditori ci molestano, per quanto noi siamo il tesoro reale, e tanti denti si son conficcati nella torta che non ci resta nemmeno un bocconcino da offrire a voi.
Il viso di mastro Mathurin s'era contratto, ed egli aveva fatto una smorfia che forse non fu interpretata nel giusto senso dal tesoriere.
- Signore, - egli aveva detto, -- voi avete riconosciuto l'esattezza di questo conto?
-- Perbacco! vi conosciamo da molti anni, e sappiamo che non vi manca nè bravura nè onestà, signor. Louschart.
_ E' quello che volevo sapere, signore - aveva soggiunto il maniscalco; e stracciate dal libro le pagine che costituivano il suo titolo di credito, le aveva gualcite fra le sue larghe mani e gittate nel fuoco.
- Che diavolo fate? - aveva gridato il tesoriere.
- Signore - rispose il maniscalco - io non sono uno di quegli uccelli di malaugurio che beccano e piagano la mano che li ha nutriti, quando la mano è vuota. Il re mi deve cinquemila ottocento trentadue lire e sei soldi, ecco tutto. II re mi pagherà quando gli farà piacere.
E senza ascoltare i complimenti del tesoriere, mastro Mathurin se n'era andato col cuore tutto gonfio d'angoscia per quel disagio del re.

Ora tornava dalla chiesa: ma come ieri il palazzo reale gli era sembrato abbandonato e quasi disertato dai cortigiani, così ora la chiesa gli era apparsa spopolata di fedeli : non c'erano che donne e bambini.
Egli tornava a casa lamentandosi a modo suo, cioè maledicendo coloro che egli accusava di questo abbandono. La presenza di suo figlio non fece che ravvivare le sue piaghe e inasprire il fiele che gli riempiva il cuore.
L' incontro, che doveva essere di conciliazione, finì in rampogne, in epiteti, in imprecazioni : travolto da una vera frenesia, Mathurin dichiarò a suo figlio che non voleva più dormire sotto lo stesso tetto con un rinnegato, e gli ordinò di andarsene di casa all'istante.

Gian Luigi per qualche giorno non cessò d'aggirarsi intorno alla casa paterna, sempre sperando che la sua assenza avrebbe placato il furore del vecchio: ma la domestica che l'aveva allevalo, e lo amava molto, e s'era provata a intercedere per lui, lo avvertì che c'era ancora da aver pazienza e aspettare.
Ma per aspettare bisognava vivere. Gian Luigi non aveva altra risorsa che il lavoro. Egli si cercò dunque una occupazione, e trovò da impiegarsi a buone condizioni presso un mercante di tele.
Questi però, benchè fosse un fornitore di corte, passava per infervorato delle idee nuove. Il fatto che Gian Luigi avesse abbandonato il mestiere paterno, la sua scelta d'un padrone noto come rivoluzionario, esasperarono ancora di più il vecchio Mathurin; egli si considerò separato per sempre dal figlio, ostentò di non pronunciarne più il nome; e un bel giorno fece sapere a tutti i suoi vicini che intendeva riammogliarsi. E la scelta da lui fatta era nuova testimonianza dell'odio che ormai egli portava a suo figlio.

Da cinque anni, una sua cugina, rimasta vedova, era venuta ad abitare nella casa del maniscalco. Ella si chiamava Elisabetta Verdier, e aveva una figlia, di nome Elena, che entrata nella casa a dieci anni, era ora una modesta, affettuosa, intelligente giovinetta. Gian Luigi aveva concepito un vivo affetto per lei; egli incominciò ad istruirla; e senza che egli se ne accorgesse, o lo sospettasse nemmeno, i sentimenti che la fanciulla gli ispirava si modificarono all'ombra di questa tenera pedagogia. Ma soltanto la sua partenza dalla casa paterna gli fece comprendere, per il dolore che provava di sentirsi separato da Elena, come ella gli fosse molto più cara che una semplice allieva.
Egli cercò di riavvicinarsi a lei ad ogni costo. Ma i suoi tentativi fallirono. Giunse tuttavia a parlare a sua madre, e a confessarle che intendeva prendere in moglie la sua figliuola; ma la trovò fredda, severa, e tanto più arcigna quanto più egli parlava, finchè ella gli disse che per Elena ella aveva altre prospettive, e che mai sarebbe appartenuta a un giovinotto i cui principi erano condannati da tutte le persone oneste.

Pochi giorni dopo quella scena, la domestica confidò a Gian Luigi che la Verdier aveva preso in casa un ascendente di cui tutti si stupivano e che inquietava lei stessa. Ben presto le cause di tali novità non furono più un mistero per alcuno, e la voce pubblica informava Gian Luigi che suo padre stava per sposare la figlia della povera vedova.
Il giovane fu come colpito dalla folgore. Rientrato in casa, si lasciò cadere sul letto e passò tutta la notte a gemere e a disperarsi. La sera del dì seguente, un vecchio operaio di suo padre, di nome Perlet, lo vide nascosto dietro il pilastro d'una bottega da fruttivendolo che era dirimpetto alla casa del vecchio maniscalco. Perlet gli rivolse qualche parola. Gian Luigi Louschart, egli narrò più tardi, gli parve imbarazzato, inquieto, come qualcuno di cui si disturbi un convegno galante. Egli non volle essere indiscreto, e lasciò quasi subito il figlio del suo principale.

Gian Luigi non attendeva in verità alcuno. Non potendo dire addio ad Elena (poichè aveva deliberato di partire), s' inebriava della sola consolazione che gli fosse concessa, quella di rimirare ancora una volta i vecchi muri della casa dove sua madre era morta e dove sarebbe vissuta colei che egli amava.
Gian Luigi rimase lì fino a mezzanotte. Mentre se ne andava, ed imboccava la via dell'Orangerie, egli intravvide una forma di donna che si teneva rannicchiata in un angolo. Al suo avvicinarsi, la donna si alzò; ella parve esitare un istante; poi gli si lanciò incontro chiamandolo in suo aiuto.
Gian Luigi aveva gia riconosciuto Elena.

Ella tremava e balbettava. Soltanto con vive insistenze egli ottenne di farla parlare. Ella aveva saputo la conversazione avuta da lui con sua madre, e in quel momento aveva compreso che unirsi a lui sarebbe stata la più grande felicità della vita. Si era gettata ai piedi della madre per cercar di piegarla, e quella le aveva risposto che tra un figliuolo, destinato a esser povero, e un padre, il quale pure la domandava in moglie, non c'era da esitare. Ogni supplica, ogni preghiera era stata vana, e allora, perdendo la testa, la fanciulla si era decisa a fuggire e a venire a chiedere soccorso all'uomo che amava.

Tutti i progetti di matrimonio del vecchio erano stati l'opera accorta di sua madre. Era stato poi il suo trionfo quando era riuscita a fargli sospettare che Gian Luigi amava Elena, e che di quante nozze egli, Mathurin, potesse combinare, sarebbero state quelle le più sgradevoli al figlio.

Gian Luigi affermò in seguito che, dopo il racconto di Elena, egli non ebbe altro pensiero che quello di persuadere la sua amica a tornare presso la madre. Egli desiderava che ella rientrasse in casa senza essere scorta, in modo che la sua fuga non divenisse pretesto a nuove violenze della Verdier.
Il ritorno sembrava facile, poichè Elena, nel suo turbamento, credeva ricordare di non aver richiuso la porta dell'appartamento che ella e sua madre abitavano.

La casa, quando vi giunsero, era muta e tenebrosa. Tutti parevano dormire dietro i suoi muri. Gian Luigi condusse la fanciulla fino alla porta del viale che conduceva alla corte interna dov'era la scala; non avevano nè l'uno nè l'altra la forza di dirsi addio.
Alfine la fanciulla entrò. Egli voleva attraversare la strada per andarsi a mettere in osservazione sotto il tetto spiovente del fruttivendolo. Ma non aveva fatto dieci passi che un grido terribile lacerò il silenzio, e in quel grido riconobbe la voce d'Elena che lo chiamava a soccorso.
Gian Luigi, smarrito, si precipitò nella casa.

II viale, pur ora oscuro, s'era illuminato di una fievole luce che veniva dalla stanza di mastro Mathurin a pianoterra. La porta era aperta. Sulla soglia si staccava la figura del vecchio maniscalco; le braccia incrociate e la testa inclinata sul petto.
Ma Gian Luigi non vide suo padre; egli non vide che Elena rovesciata sui gradini, svenuta, e sua madre che, come una furia, trascinava la poveretta per i capelli e le sbatteva la testa sulle pietre.
Egli si slanciò per strapparla dalle mani di quella megera; ma il vecchio Louschart fece un passo e gli sbarrò la via, piantandosi muto e immobile dinanzi a lui.
--- Padre mio, - gridò Gian Luigi sopraffatto da quell'apparizione, - ella è innocente! Per la memoria di mia madre, ve lo giuro. Soffrirete che ella sia ammazzata sotto i vostri occhi?
-- Innocente?! -- strillò la voce acuta della Verdier.
-- Sì, sarebbe così, senza di te, miserabile. Tu t' hai perduta. Tu I' hai condotta in disgrazia.
Si accese una scena spaventevole. Sotto la grandine delle ingiurie e delle incolpazioni, Gian Luigi s'infiammava; il padre da parte sua lo investiva con la più furiosa violenza. Infine, dopo avergli dato del miserabile e del rinnegato, gli sputò in faccia.

La Verdier, al principio dell'orribile alterco, aveva abbandonato sua figlia; questa a poco a poco aveva ripreso i sensi, ma era troppo debole per rialzarsi.
La madre s'era accostata al maniscalco e, con le mani sui fianchi, attizzava con le sue esclamazioni quella collera folle. Ella sghignazzò quando vide sputacchiato il viso di Gian Luigi.
- Mio padre può ingiuriarmi e battermi - esclamò questi - ma da voi, buona madre, non sopporterò nulla.
-- Sì -- strillò il vecchio - tu l'hai con lei perchè ha dato il fatto suo alla tua prostituta.
- Padre - urlò Gian Luigi con una voce terribile - padre, non parlate così....
-- Tu mi minacci... tu minacci tuo padre! Oh, io non ti cercavo, Gian Luigi, io ti avevo maledetto e non ti cercavo. È stato Dio che t'ha mandato qui perchè io ti punisca.
Proferendo queste parole, il vecchio Louschart aveva raccolto una delle sbarre di ferro che si trovavano nel viale e ne misurò un colpo terribile al giovane.
Il corridoio era così stretto che l'estremità dell'improvvisata arma incontrò la muraglia e vi smorzò il suo colpo in uno schizzar di faville. Gian Luigi scansò l'attacco; ma vide che suo padre s'accingeva a ripeterlo.
-- Fuggite! fuggite! - gli gridò Elena.

Difatti Gian Luigi non pensava che a fuggire. Fece un passo verso l'uscio di strada. Più rapida di lui, nel suo orribile desiderio d'una catastrofe sanguinosa, la Verdier s'era precipitata verso questa porta e gli vietava il passo risolutamente.
Lottare con lei sarebbe stato dare a suo padre il tempo di colpirlo. Già per miracolo egli era sfuggito al secondo colpo.
Approfittando dal momento che questi risollevava la sua leva, egli passò rapidamente nella camera del vecchio, e da quella raggiunse l'officina, d'onde poteva ancora lanciarsi nella stanza.
Gian Luigi sentì il padre che lo inseguiva, sentì Elena che gridava aiuto.
La porta era chiusa.
Tirò il catenaccio, intravvide la debole luce del giorno nascerete; quando una pesante mazza di ferro fischiò sopra la sua testa e andò a fracassarsi sopra uno dei battenti.
Era il vecchio Louschart, che aveva abbandonato la leva per armarsi del suo tremendo martello.
Solo il turbamento, l'accecamento del vecchio nel vibrare il colpo, avevano potuto salvare per la terza volta suo figlio.

Egli volle slanciarsi fuori, ma una mano che aveva la rigidità d'una tenaglia gli afferrò il braccio e lo attirò indietro con violenza.
Gian Luigi comprese che egli era perduto; non poteva salvar la vita se non accettando la lotta di cui sentiva tutto l'orrore.
Egli fermò la mano del padre e cercò di strappargli l'arma, già rialzata sulla sua testa.
Ma il maniscalco era ancora d'un vigore straordinario, e il furore raddoppiava le sue forze: egli resistette. Gian Luigi dovette lottare corpo a corpo con lui.
Finalmente, spossato, il vecchio Louschart piegò le ginocchia: egli barcollò, e cadde riverso trascinando il figlio con lui.
Ma nella caduta le sue dita si erano dischiuse, e Gian Luigi aveva potuto impadronirsi del martello. Egli si svincolò dalle braccia del padre, si alzò e si slanciò fuori.

Varcando la soglia, egli lanciò macchinalmente dietro di sè la pesante mazza che teneva in mano e fuggì in preda a un'agitazione indicibile.
Nel disordine del suo spirito, non sentì nemmeno il grido che era risuonato nell'officina quando egli vi aveva gettato il martello.
Proprio in quell'istante, mastro Mathurin stava risollevandosi: il grave martello di ferro lo aveva colpito sopra il sopracciglio destro e gli aveva fracassato la testa.
Solo all' indomani, quando lo arrestarono a Sévres, Gian Luigi seppe che era accusato di avere ucciso suo padre.

Il suo primo grido fu un grido di dolore. La perdita che gli si annunciava aveva assorbito tutte le forze vive del suo spirito; altro egli non comprendeva, nemmeno il sospetto che pesava su di lui. Ma ben presto quella parola « parricida » gli saltò agli occhi in tutto il suo orrore. Aveva compreso che lo si accusava di aver assassinato quegli che egli piangeva così amaramente, ed esclamò con veemenza indignata
- Si uccide forse il proprio padre?
Più volte rinnovò quella protesta d'innocenza.
Si ricordò di tutto, quando, condotto nella casa della vittima, gli fu mostrata la larga ferita alla tempia del vecchio, e in pari tempo gli si presentò il martello sul quale si vedevano le tracce d'un sangue nero e coagulato.

Allora Gian Luigi cadde in ginocchio.
Rammentò che s'era sbarazzato di quel martello lanciandolo dietro di sè con una concitazione che il disordine del suo spirito spiegava abbastanza. La possibilità del delitto gli apparve nettamente. Delitto involontario; ma non per questo i rimproveri che egli si muoveva erano meno amari; ed egli comprendeva pure che non sarebbe mai riuscito a convincere i giudici della propria innocenza.
Egli spiegò la circostanza che poteva aver fatto di lui un parricida, e soggiunse:
- Ora, signori, io non mi difenderò più e non mi lamenterò; ho causato la morte di quegli che mi ha dato la vita; per quanto rigorosa sia la pena che mi sarà inflitta, la accetterò come una giusta espiazione.
Il processo fu deferito allo Chàtelet, che iniziò l'istruttoria.
Intanto nell'opinione pubblica, l'orrore suscitato dalla morte di Mathurin Louschart andava attenuandosi per la riflessione e per ciò che traspirava della verità della tragedia.
Gli amici di Gian Luigi non rimanevano inattivi. Essi cercavano di concitare le simpatie popolari all'accusato, e vi riuscirono così bene che quella causa criminale prese ben presto a Versailles le proporzioni d' un processo politico.

Gian Luigi, come aveva detto, non si difese. Il suo avvocato non riuscì nemmeno a fargli discutere la testimonianza della Verdier. Dinanzi a questa tacita confessione, la corte gli applicò la penalità del tempo in tutto il suo rigore.
La sentenza del 3 luglio 1788 lo condannava ad aver spezzate, lui vivo, le gambe, le coscie, le braccia e le reni sul patibolo da rizzarsi a quest'uopo nella piazza di Versailles, e ad essere quindi esposto sopra una ruota prima dì dare il suo cadavere al fuoco.
Contro ogni precedente, gli si era fatto grazia dell'ammenda onorevole dinanzi alla chiesa di San Luigi, ciò che avrebbe comportato la mutilazione della mano: era indizio d'un avviamento, per quanto limitato, verso la soppressione delle crudeltà inutili. Infine alla sentenza i giudici avevano aggiunto un "retentum" così formulato
" Retentum" è stato che il detto Gian Luigi Augusto Louschart non sentirebbe vivo alcun colpo, e che sarebbe segretamente strangolato prima che lo si colpisca ».

Ma questa disposizione era ignorata dal pubblico, e la sentenza suscitò un'effervescenza generale a Versailles.
L'esecuzione di Gian Luigi fu fissata per il 3 agosto, e Carlo Enrico Sanson partì per Versailles con tutti gli ordigni necessari.
Egli non fu poco sorpreso di trovare la piazza Saint-Louis coperta di una tal folla, che gli aiutanti avevano ogni pena a mantener libero lo spazio dove i carpentieri rizzavano il patibolo.
Questa folla non manifestava tuttavia intenzioni ostili; era rumorosa, ma piuttosto canzonatoria che irritata. Lazzi e scherni piovevano sugli operai intenti a edificare la funebre piattaforma.
Tuttavia, quella folla aveva la mobilità di tutte le moltitudini. Avendo un carpentiere trattato rudemente un monello che lo molestava con le sue provocazioni, si udirono qua e là grida di morte. In un istante tutte quelle fisionomie schernevoli divennero cupe e minacciose; le file si serrarono ondulando, le grida si mutarono in vociferazioni. La debole barriera che si era opposta alla calca fu infranta, e aiutanti e carpentieri si trovarono alle prese col popolo.

M a quasi nello stesso momento un centinaio d'uomini di atletica statura, dai visi abbronzati nel fumo, si riconoscevano fabbri, e alcuni giovani che parevano appartenere alla corporazione degli scrivani, si erano slanciati tra gli assalitori e riuscirono a farli ritirare prima che commettessero qualsiasi atto violento.
In quel momento il mio avo scosse la testa: egli capì che la folla obbediva a una parola d'ordine, che egli e i suoi aiutanti non erano stati polverizzati perchè quella gente era decisa ad attendere l'ora opportuna, e che le risa, i canti di prima, dissimulavano la coscienza dell'onnipotenza e della volontà popolare. Egli si recò a Parigi per comunicare queste sue osservazioni al procuratore generale. Fu disposto che si portassero a Versailles alcuni soldati per prestare man forte alle autorità locali.
Nella serata la moltitudine si ritirò calma e tranquilla rimasero soli, e quasi in osservazione, alcuni dei fabbri, alcuni dei giovani dei quali ho parlato.

Alle due del mattino il mio avo lasciò la piazza per recarsi alla prigione. Gian Luigi Louschart fu fatto entrare nella carretta alle quattro e mezza del mattino, i giudici commissari speravano che, grazie alle disposizioni del retentum, tutto sarebbe stato finito prima che la popolazione si svegliasse.
Ma s'ingannavano. Tutte le vie intorno alla prigione, nonostante l'ora mattutina, rigurgitavano di popolo. Regnava un'agitazione febbrile. La comparsa della carretta fu salutata da clamori assordanti, e solo a stento il veicolo potè aprirsi un passaggio fra la folla.

Il condannato forse sentiva in quelle grida l'espressione della ripulsa popolare contro il suo delitto. Egli ascoltava con raccoglimento le esortazioni del confessore e non alzava gli occhi a guardarsi d'intorno.
Tuttavia, all'altezza di via Satorv, un grido lamentevole, un richiamo disperato dominò per un istante il fremito della folla, e si vide una giovinetta, pallida come una morta, che agitava un fazzoletto.
Al suono di questa voce. Gian Luigi Louschart aveva alzato la testa, e subito, benchè legato le braccia e le gambe, egli era scattato in piedi volgendo il capo verso la giovinetta. I suoi occhi erano pieni di lacrime; egli cercò di sorridere, indi lo si sentì mormorare
-- Addio, Elena, addio!
In quel momento un fabbro di statura gigantesca, che fin dall'uscita della prigione era proceduto di conserva con la carretta, si avanzò e, aggrappandosi alla sponda della vettura, gridò con voce stentorea
-- Arrivederci bisogna dire, Gian Luigi. Non si arruota la brava gente come te.
Un soldato a cavallo lo respinse; ma gli applausi scoppiati provarono che tutti i presenti dividevano questa opinione.
Tuttavia si arrivò senza incidenti ai piedi del patibolo.
- Facciamo presto, signore - disse il condannato volgendosi verso il mio avo, dopo aver parlato col confessore.
Signore - gli rispose mio padre, dopo avergli mostrato le masse furiose e oscillanti che scuotevano la barriera eretta intorno al patibolo - se c'è qualcuno che sia giunto qui alla sua ultima ora, quegli non siete voi.

Carlo Enrico Sanson non aveva ben finito quelle parole, quando una tempesta d'urla si sollevava, vero ruggito leonino del popolo. La palizzata volava in pezzi, e da tutte le parti la folla irrompeva, precipitandosi sul patibolo.
Il fabbro che aveva parlato a Gian Luigi Louschart nel tragitto era in prima fila; egli strinse il condannato nelle sue braccia muscolose, e lo alzò sulle spalle per portarlo in trionfo.
Si vide allora una scena mai più avveratasi. Il paziente in lotta contro i suoi liberatori, il paziente che li respingeva, che li supplicava di non strapparlo al meritato castigo, che domandava la morte creduta dalla sua pietà filiate necessaria all'espiazione.
Ma i suoi amici lo avevano circondato, i loro sforzi raccolti trionfarono della sua resistenza, essi riuscirono a trascinarlo via.

I ntanto la situazione del mio avo si faceva tutt'altro che rassicurante. Separato dai suoi aiutanti, isolato in mezzo a una moltitudine ebbra della sua facile vittoria, egli non aveva nemmeno la risorsa di vender cara la vita.
Ma il gigantesco fabbro che aveva liberato il paziente, s'avvicinò, a lui ed esclamò afferrandolo al braccio :
- Non aver paura Carletto, non ce l'abbiamo con te, ma coi tuoi strumenti. Da ora in poi, Carletto, quando ti verrà per le mani un avventore, bisognerà ammazzarlo per ammazzarlo, e non ammazzarlo per farlo soffrire. Lasciamo l' inferno al buon Dio.
E rivolgendosi alla folla soggiunse :
- Lasciatelo passare, e non una parola contro Carletto.
Le file s'aprirono, e mio nonno si eclissò.

In meno tempo che non occorra a scriverlo, il patibolo e tutti i suoi sinistri accessori erano stati messi in pezzi; furono gettati nel rogo preparato per i cadaveri, e la spaventevole ruota, ultima confidente di tanti martirii, coronò il singolare edificio. Vi si mise il fuoco, e uomini e donne, tenendosi per mano, ballarono intorno all'auto da fè. Fino a notte tarda, la piazza risuonò di canti giocondi.
Ho raccontato un po' distesamente questo episodio, che gli storici disdegnano e ignorano, poichè mi è sembrato che da esso sbocciasse la prima festa popolare della Rivoluzione.
LA FINE DELLA RUOTA - L'UDIENZA REALE
Quella di Versailles fu l'ultima ruota che si vedesse drizzare sul palco delle esecuzioni capitali. Non si è d'accordo sull' origine di cotesto mostruoso supplizio, ma tutto fa credere che se ne trovasse l'idea nella favola mitologica d'Issione, e che se più tardi esso rappresentò sì gran parte nel sistema punitivo delle società cristiane, ciò avvenne per sostituire la crocifissione, che queste non avrebbero potuto conservare senza temer di commettere sacrilegio.

Ho già detto la terribile predilezione del Parlamento per questo orrendo supplizio nelle disposizioni delle sue sentenze. Si deve fremere quando si pensi che la nostra vecchia legislazione criminale puniva di morte cento e quindici specie di crimini e di delitti. Si deve a Francesco I, il restauratore delle lettere, e al suo ministro il cardinale Duprat, un uomo di chiesa, l'introduzione in Francia di questo raffinamento di barbarie come istituzione legale. Un editto ne fece il castigo particolare dei malandrini da strada maestra o dei ladri con effrazione, mentre la forca era riservata agli omicidi. Convien credere che a quell'epoca la vita umana sembrasse meno sacra che la proprietà, poichè si punivano più crudelmente gli attentati contro questa che quelli contro la prima. Tale anomalia non poteva durare; onde, sotto il successivo regno, ladri, assassini, parricidi, tutti divennero giustiziabili sulla ruota, con le aggravanti o le attenuanti particolari che noi abbiamo più volte osservato. La forca non fu più che un castigo secondario, molto decaduto dalla sua importanza.

Dal 1770 al 1780 io trovo nelle memorie di mio nonno che i disgraziati rotti vivi furono molto più numerosi, uomini e donne, che quelli periti di capestro. Il supplizio della ruota rivoltava però talmente l'opinione pubblica, e da tempo, tutti i mandati dei deputati agli Stati generali del 1789 ingiungevano loro di chiedere l'abolizione di questa bruttura, che fu difatti decretata dall'Assemblea Nazionale.
Alla morte di Giambattista Sanson, avvenuta nel 1778, mio nonno Carlo Enrico era già da molti anni il capo effettivo della famiglia. Dopo una giovinezza d'avventure, egli aerea sposato Maria Anna Jugier, figlia di un agiato ortolano, che aveva allora già trentadue anni ed era alquanto più vecchia di lui. Egli non tardò ad applaudirsi della scelta che aveva fatta. Era un'eccellente donna, autorevole e dolce, che ispirava rispetto ed affetto.

Carlo Enrico Sanson aveva seguito, con quella potenza meditativa che s'acquista nella vita appartata, tutti i progressi della Rivoluzione: le lotte della Corte contro i Parlamenti, il Letto di giustizia, le assemblee dei notabili, tutti gli espedienti della monarchia ridotta a difendersi, gli avevano rivelato chiaramente il pericolo della situazione. La riunione dei tre ordini in Assemblea nazionale non gli lasciò più alcun dubbio che la intera società fosse alla vigilia di trasformarsi.
Egli aveva adottato con entusiasmo le idee nuove. Ma devo soggiungere che, malgrado la sua ammirazione per i principii del 1.789 nei quali presentiva il vangelo politico dell'avvenire, egli rimaneva profondamente attaccato alla monarchia e alla persona del re. Egli apparteneva al numeroso partito di quelli che limitavano i loro desideri all'instaurazione di una monarchia costituzionale.
Prima del loro terribile incontro sul patibolo, mio nonno aveva avuto due volte l'onore di avvicinare Luigi XVI. La prima fu al principio di quell'anno 1789. La penuria del tesoro aveva fatto sospendere da lungo tempo i pagamenti degli importi dovuto a Carlo Enrico Sanson, il quale si trovava alle prese con serie difficoltà e gravato di debiti.

Luigi XVI, a cui egli si rivolse, portava la sera dell'udienza un vestito di seta lilla, ricamato d'oro, sul quale brillava la decorazione dello Spirito Santo, calzoni corti, calze di seta e scarpe a fibbia. Il re era come fisico vigoroso, ma di statura comune. Non aveva di veramente aristocratico che la gamba nervosa, modellata con finezza. I suoi capelli incipriati e arricciati formavano sulle tempia due rotoli e si riunivano sulla nuca in una coda secondo l'uso del tempo.
- Voi avete indirizzato un'istanza per somme a voi dovute - egli disse senza volgere la testa e senza guardare in faccia il mio avo. Ho ordinato che i vostri conti fossero riveduti e che non si tardasse a liquidarli; ma i forzieri dello Stato sono quasi esausti in questo momento, e voi reclamate, credo, cento e trentasei mila lire, che fanno una somma abbastanza cospicua.
-- Ringrazio con riconoscenza uguale al rispetto la Maestà Vostra per la sua bontà - rispose Carlo Enrico Sanson - ma la supplico umilmente di permettermi di farle osservare che la cifra dei miei debiti è salita così tanto che i miei creditori non pazientano più e che la mia stessa libertà si trova minacciata.
Luigi XVI gettò allora uno sguardo sul suo interlocutore. Il suo atteggiamento quasi prosternato non permetteva alcun dubbio sulla sincerità dei suoi sentimenti; tuttavia il re non potè reprimere un involontario sussulto. Era un presentimento, ovvero - più probabile ipotesi - l'orrore che ispira la nostra professione?
- Aspettate - egli disse - questo si metterà in regola.
E il mio avo ottenne un curioso salvacondotto, col quale, in nome del re, era proibito per tre mesi ai suoi creditori di esercitare qualsiasi coercizione contro di lui, agli uscieri, alle guardie, e ad altri di arrestarlo e di molestarlo, e ai portieri di prigione e carcerieri di riceverlo in carcere, sotto pena di perdere il posto.

Mentre Carlo Enrico Sanson stava per uscire dal palazzo, una signora dal passo maestoso, splendidamente ornata, seguito da due altre dame e da un gentiluomo, gli apparve sul pianerottolo della scala. Tutte le fronti s'inchinarono a lei, giacchè l'usciere, aprendo la grande porta a due battenti, aveva annunciato ad alta voce
- La regina.
Nel momento stesso, da una porticina che conduceva alle tribune della cappella, usciva una giovine donna vestita modestamente d'un abito accollato di seta grigia, dai cui tratti puri e armoniosi spirava una bontà angelica. Appena la regina la scorse, un'espressione affettuosa le si dipinse nel viso
- Venite dunque, cara sorella! - ella esclamò - oggi non vi ho nemmeno veduta.
- Sono le nostre due principesse: la regina e Madama Elisabetta - disse a Carlo Enrico Sanson l'usciere che lo riconduceva fuori dal palazzo.

Un malessere indefinibile, un imbarazzo di cui non poteva rendersi conto, erano pesati sul mio avo tutto il tempo che egli era rimasto fra quelle mura.
E vi era qualche cosa di profetico in questo serramento di cuore da lui provato all'udienza reale, mentre una coincidenza strana lo metteva dinanzi per la prima, volta, e quasi simultaneamente, alle tre più nobili teste predestinate al suo fatale coltello.
IL MARCHESE DI FAVRAS
Siamo entrati nella Rivoluzione: i morti stanno per andar presto, secondo le parole della ballata.
Il 21 gennaio 1790 l'Assemblea Nazionale aveva proclamato l'uguaglianza dei supplizi: tutti dovevano essere ammessi all'onore del supplizio dei gentiluomini: la decapitazione,

Ma prima che la deliberazione divenisse legge, il 4 febbraio, due giovani di eccellente famiglia, i fratelli Agasse, erano stati condannati a morte per contraffazione ed emissione di falsi biglietti di Stato.
Essi furono giustiziati l'8 febbraio, mediante capestro. Il carnefice, narra Prudhomme nelle sue Rivoluzioni, portava la coccarda nazionale al cappello. L'uno fu giustiziato dopo l'altro, e dovette vedere il corpo del fratello spenzolante dalla forca.
« Ho letto la sentenza dei fratelli Agasse - scrive Proudhomme- non ci ho trovato che l'uno o l'altro fosse condannato a essere testimonio dell'impiccagione di suo fratello.
« Poichè erano condannati l'uno e l'altro soltanto alla morte, bisognava eseguire letteralmente la sentenza, e dopo l'impiccagione del primo sottrarre il suo cadavere agli occhi dell'altro. Vi sono qui dunque ad un tempo prevaricazione ed inumanità, sia da parte del giudice che presiedeva all'esecuzione, sia da parte dell'esecutore. Essi hanno sorpassato la sentenza creando una circostanza che aggrava singolarmente la pena ».


Questi sublimi principi di umanità, il popolo e lo stesso Prudhomme dovevano dimenticarli ben presto sotto l'influenza dei risentimenti politici.
In quell'epoca tre grandi processi pendevano davanti allo Chatelet, divenuto tribunale supremo, e tutti e tre sovraeccitavano ugualmente le passioni popolari. Erano il processo dell'intendente generale Augeard, accusato di aver fornito alla Corte i fondi coi quali essa aveva stipendiato le truppe raccolte al Campo di Marte; quello del barone di Besenval, colonnello generale degli Svizzeri, che comandava al Campo di Marte nel luglio precedente; e infine il processo del marchese di Favras, incolpato di aver voluto introdurre di notte a Parigi soldati armati per disfarsi dei capi delle principali amministrazioni, per trafugare i sigilli dello Stato, e per condurre il re e la famiglia reale a Péronne.
Augeard e Besenval erano stati assolti, e questa assoluzione, sollevando un' indignazione riattizzata ogni giorno da giornali e libelli, rendeva la situazione del marchese di Favras estremamente pericolosa.

Tommaso Mahy, marchese di Favras, era nato a Blois nel 1745, e aveva avuto una vita avventurosa. I suoi quarantacinque anni non avevano smorzato in lui gli ardori dell'immaginazione e l'entusiasmo delle arrischiate imprese.
Egli aveva concepito un piano per il rapimento del re. In quell'epoca non c'era servitore della monarchia che non avesse il suo. Ma col carattere intraprendente del signor di Favras, egli non poteva contentarsi d'una fuga reale che rimanesse teoretica : egli si occupò con zelo superiore alla prudenza, di trovare i mezzi per mettere in esecuzione il proprio progetto.
Se questo progetto è quale il delatore Bertrand de Molleville lo riporta nelle sue Memorie, esso ci sembra non mero chimerico di quanti altri furono sottoposti a Luigi XVI.

Si trattava idi raccogliere un esercito di trentamila realisti, l'arruolamento e l'armamento dei quali dovevano effettuarsi tanto segretamente che nulla ne trapelasse fino al momento dell'esecuzione.
Tre arruolatori, di nome Morel, Turcati e Marquies lo denunziarono, e nella notte del 25 dicembre, il comitato istituito dell'Assemblea Nazionale per punire i crimini di lesa nazione, faceva arrestare il marchese e la marchesa di Favras.
Si tentò di coinvolgere nella cosa il conte di Provenza, fratello del re. Questi prontamente si recò all'Hòtel de Ville per discolparsi. Un tale atto da parte di un simile personaggio lusingava i primi slanci d'orgoglio che il popolo attingeva dalla coscienza della propria importanza.

Il conte di Provenza se ne tornò al Lussemburgo in mezzo alle grida che lo amnistiavano da ogni sospetto, ma coteste grida preludevano a quelle che avrebbero imposto la morte del signor di Favras.
Il 18 febbraio, egli comparve davanti ai giudici. Dai clamori del pubblico, dal contegno dei presenti, dall'atteggiamento cupo e disfatto dei magistrati, il signor de Favras dovette comprendere che egli era condannato in anticipo. Ma questo convincimento non alterò nè la sua calma, nè la sua presenza di spirito.
Le deposizioni degli arruolatori erano poco verosimili, e il marchese domandò sorridendo ai giudici di produrre altri accusatori.
Non soltanto questi non si presentarono, ma il tribunale si rifiutò di udire i testimoni a discarico.
Uno sdegnoso sorriso passò sulle labbra dell'accusato
- Credevo d'essere giudicato - egli disse - dallo Chàtelet, di Parigi; mi sono ingannato; il giudizio sarà quello dell'inquisizione di Spagna.

Il 29 febbraio, lo Chàtelet pronunciò la sua sentenza.
Il marchese di Favras era condannato a essere impiccato, dopo aver fatto ammenda onorevole davanti a Notre Dame.
Da quando i dibattimenti erano incominciati, una immensa folla s'accalcava intorno allo Chàtelet, vociferando e chiedendo la morte di Favras con alte grida. Gli appetiti sanguinari volevano questa volta la loro preda, e i giudici erano decisi a non far languire questa impazienza.
Nello stesso momento in cui s'incominciava la lettura della sentenza, era portato all'esecutore l'ordine di erigere la forca in piazza di Grève.
Il signor di Favras uscì dal tribunale per avviarsi diritto al patibolo, e nessuno fece caso del terribile precedente che lo Chatelet stabiliva con ciò.
La precipitazione nei preparativi era così grande che al momento di montare sulla carretta il mio avo s'accorse che aveva trascurato di far spogliare il condannato per conformarsi alle prescrizioni della sentenza.
-- Signore - gli disse - bisogna che vi togliate i vestiti.
Il signor di Favras non rispose; ma quando ebbe slegate le mani, si spogliò con l'aiuto dei famigliari, e rimase in camicia, nudo dai piedi alla testa.
Allora grandi grida si levarono dalla folla
-- La corda al collo! La corda al collo! - si strillava.
Il paziente fece segno a Carlo Enrico Sanson di obbedire, e non trasalì al contatto del canape che doveva togliergli la vita. Egli temeva nella mano un cero giallo.
Il corteo si mise in cammino.

Tanta era la ressa sul ponte di Notre-Dame che la scorta che precedeva la carretta dovette sostare per aprirsi il passaggio. I clamori raddoppiarono d'intensità; il condannato li ascoltava con un'indifferenza non simulata, senza manifestare nè disprezzo ne collera.
Davanti alla chiesa il paziente doveva discendere dalla carretta, inginocchiarsi e pronunciare la formula dell'ammenda onorevole, dopo aver ascoltato una seconda lettura della sentenza.
Il signor di Favras lesse la formula a voce alta e distinta, e vi aggiunse alcune parole, perdonando ai suoi accusatori e proclamandosi innocente.
Poi s'inginocchiò e pregò alcuni minuti a voce bassa.
Quando si arrivò sulla piazza di Grève, egli chiese di salire all'Hòtel-de-Ville. Corse la voce che egli volesse far rivelazioni, e il popolo si agitò, temendo che lo si volesse privare della tragedia aspettata. Egli dettò in realtà alcune dichiarazioni: quello che si chiamava il suo testamento. Era un modello di coraggio spinto fino allo stoicismo.
Dettata la sua dichiarazione, il signor di Favras chiese e ottenne di poter scrivere alcune lettere.

Frattanto la notte era venuta : si era dovuto supplire alla povera illuminazione della piazza accendendo sull'Hòtel-de-Ville delle lanterne: e con riguardo ai bisogni dell'esecuzione, se ne collocarono anche sul patibolo che si disegnò sulla notte con un profilo di fuoco.
Uscito dall'Hotel-de-Ville, il signor di Favras si diresse con passo uguale verso la forca.
Il coraggio straordinario che egli dimostrava era lo stupore dei presenti, e sembra li commovesse : giacchè fra le grida di morte, si udì anche qualche grido di « grazia! »
Nell'istante che egli s'accostava alla scala, un tale gli gridò
- Andiamo, salta, marchese!
Il signor di Favras rimase insensibile a questo supremo insulto, e non volse il capo: egli salì alcuni gradini, e quando fu abbastanza in alto per dominare la folla, disse alzando la voce
_ Cittadini, io muoio innocente, pregate per me.
Ripetè questa protesta su ciascuno dei tre gradini che gli restavano da salire, e giunto sull'ultimo, volgendosi verso l'aiutante che si trovava sopra di lui, a cavallo sul braccio della forca
- E tu, fa il tuo dovere - soggiunse.
Aveva appena detto ciò, che, sotto la vigorosa spinta data al suo corpo, esso già penzolava nel vuoto.
Nel momento che gli ultimi sussulti dell'impiccato denunziavano il dipartirsi della vita, nella folla si gridò
« bis! »

Ci volle l'intervento della Guardia Nazionale per risparmiare oltraggi al primo giustiziato politico della Rivoluzione; e lo si dovette seppellire in tutta fretta nella chiesa di Saint-Jean-en-Grève per sottrarlo alla rabbia popolare.
LA GHIGLIOTTINA
L'abolizione della pena di morte ebbe la sua ora all'Assemblea Costituente. Essa ispirò ad Adriano Duport uno di quei discorsi che il tempo non scuote e che rimangono a protesta eterna della ragione e della verità contro l'oscurantismo e la barbarie delle giurisprudenze criminali. Per uno di quei bizzarri contrasti che mostrano tutta l'inconseguenza dello spirito umano, l'abolizione fu sostenuta altrettanto vivamente da Robespierre che da Marat, cioè dai due uomini che poco dopo dovevano fare il massimo abuso di questa pena tremenda : l'uno pretendendo vedervi la salute della patria, e l'altro ergendola a sistema di governo.

Stanca di una lunga legislatura, spaventata forse di tutto ciò che aveva distrutto, l'assemblea non si risolse a spogliare la società delle sue prerogative omicide. Quanti di quei votanti gettarono quel giorno la loro testa nell'urna senza saperlo?
Frattanto il dottor Guillotin, dopo aver fatto consacrare con un decreto l'uguaglianza delle pene per i colpevoli di tutte le classi sociali e una serie d'altre proposte relative alla pena di morte, si accingeva a far trionfare qualche cosa che gli stava ben più profondamente a cuore. Rivoltato della barbarie degli antichi supplizi, preso da profondo disgusto al cospetto della forca che, sfigurando i cadaveri e lasciandoli in quello stato esposti agli sguardi della plebe, sembrava oltraggiare la morte, egli aveva giurato a sè stesso di rovesciare tutto ciò, immaginando un supplizio umano, che sopprimesse se possibile la sofferenza, che non si compisse direttamente per mano dell'uomo e che permettesse, a esecuzione compiuta, di nascondere alla folla i tristi resti della vittima.

Le meditazioni di Guillotin sull'argomento gli avevano fatto intravvedere nella decapitazione un avviamento verso il suo ideale. Era quello il supplizio più degno: colpiva l'uomo nel più nobile e più possente dei suoi organi, la presunta sede dell' intelligenza e del pensiero. Ma quanti casi non si citavano nei quali la inesperta mano degli esecutori aveva fatto della decapitazione un orribile macello? Bisognava trovare un mezzo più pronto, più sicuro, più infallibile, che solo uno strumento meccanico poteva offrire. Da allora la soluzione del problema si circoscrisse per Guillotin nella scoperta della miglior macchina da decapitare.
Egli propose all'Assemblea il principio che tutti i condannati a morte sarebbero stati decapitati, e che ciò avverrebbe per mezzo di un semplice meccanismo. Tale principio fu accolto nel Codice penale durante il 1791, ma senza determinare ancora il sistema di decapitazione. Mio nonno si inquietò vivamente di tale decisione che, in mancanza d'un mezzo meccanico, faceva dipendere tutti i supplizi dall'abilità dell'esecutore, aggravandolo d'una responsabilità che lo spaventava con piena ragione. Egli inviò al ministro della giustizia un memoriale, dove gli esponeva tutte le difficoltà della decapitazione con la spada: la necessità di una fermezza e di un coraggio che non tutti i pazienti posseggono; l'impossibilità delle esecuzioni multiple, causa il logorio delle spade che s'intaccano e perdono il filo. Dovendosi giustiziare parecchi condannati, egli diceva, il terrore prodotto della vista di tanto sangue indebolirà l'animo degli ultimi destinati al supplizio. Essi non potranno più reggersi, e ciò metterebbe all'esecuzione un ostacolo, dal quale non si potrebbe prescindere senza mutare l'esecuzione stessa in un vero massacro. Infine, se, chiedendo il condannato, come più volte avviene, di essere condotto all'Hòtel-de-Ville per farvi rivelazioni, si facesse notte, l'esecuzione non potrebbe più compiersi quel giorno, essendo impossibile decapitare un uomo al lume delle fiaccole, e il disgraziato dovrebbe passare un'altra notte di agonia.

Da tutte queste osservazioni, Carlo Enrico Sanson traeva la conclusione essere indispensabile adottare l'uso di una macchina che fissasse il paziente in posizione orizzontale, per modo che egli non avesse più a sostenere il peso del suo corpo, e che permettesse di operare con maggior precisione e sicurezza che non fosse possibile alla mano dell'uomo.
Era proprio quello che cercava Guillotin. I due uomini avevano avuto tra loro lunghi colloqui, ma non ne erano uscite che combinazioni difettose. Si era passato in rivista tutto ciò che nel passato e in altri paesi si era immaginato in proposito. Tre stampe tedesche, di Pentz, d'Aldegreder e di Luca Cranach, una stampa italiana del 1555, fatta da Achille Bocchi, offrivano dei modelli, ma tutti lasciavano a desiderare. L'ultima di tali stampe, rappresentava uno strumento di supplizio che sotto il nome della « mannaia » aveva servito qualche volta in Italia, particolarmente a Genova, quando vi si giustiziò il cospiratore Giustiniani. L'apparecchio era eretto sopra un patibolo, l'ascia collocata al sommo di due antenne, il condannato a ginocchi, la testa posata sopra un ceppo e l'esecutore contro una delle due antenne di fianco, pronto ad abbandonare la corda che teneva la mannaia sospesa.

Le stampe tedesche davano qualche cosa di simile, e in altri paesi e perfino in Francia s'erano fatte esecuzioni con questi apparecchi.
Ma mio nonno non cessava di obiettare che essi non risolvevano la questione dell'atteggiamento del paziente, e che non è molto più facile il far stare un uomo a ginocchi anzichè farlo stare in piedi, quando di lui si è impadronita la prostrazione di chi aspetta la morte. Bisognava aver veduto davvicino e più volte queste cose per poterne parlare. Si poteva bensì alzare sulla forca un corpo quasi inanimato, si poteva attaccarlo a una ruota; ma altra cosa era il farlo reggere in piedi, o anche inginocchiato, perfettamente immobile, per ricevere il colpo mortale. Qui ci volevano i Montmorency, i Tollendal, i La Barre, portenti di stoica rassegnazione. Far tenere il paziente dagli aiutanti, non solo era cosa difficile, ma significava esporre questi ad esser feriti.

Carlo Enrico Sanson insisteva dunque vivamente perchè si trovasse il modo di assicurare l'immobilità del paziente, e la posizione orizzontale che gli risparmiasse il peso del corpo e gli diminuisse in pari tempo la libertà dei movimenti.
Per fortuna veniva in quei tempi da lui un meccanico tedesco di nome Schmidt, a cui egli aveva parlato qualche volta della perplessità sua e del dottor Guillotin. Lo Schmidt era costruttore di pianoforti, e appassionato musicista; d'onde l'amicizia con mio nonno, che era pure un melomane e suonava abbastanza bene il violino e il violoncello.
Ora, una sera, tra un'aria d'Orfeo ed una d'Ifigenia in Aulide, si entrò nell'argomento della macchina per decapitare.
- Aspettate: credo di avere l'affare vostro: ci ho ben pensato - rispose Schmidt, e presa la matita, tracciò rapidamente, in pochi tratti, un disegno.
Era la ghigliottina!

La ghigliottina, con la sua tagliente lama d'acciaio, sospesa tra due assi scannellate e obbediente a un semplice giuoco di corda; col paziente disposto orizzontalmente sopra una tavola mobile, in modo che abbassando quella tavola il suo collo si trova sul punto preciso in cui la lama viene a colpire cadendo. La difficoltà era vinta, il problema risolto: Schmidt aveva alfine trovato il modo di giustiziare il paziente nella posizione voluta e di rendergli impossibile di far fallire l'esecuzione.
Carlo Enrico Sanson non potè trattenere una esclamazione di sorpresa e di soddisfazione.

All'indomani della preziosa scoperta, egli ne informò subito il dottor Guillotin, che non ebbe limiti alla sua gioia, poiché non si può immaginare con quale passione e quale intensità egli si fosse attaccato alla sua idea. Certi biografi poco esatti si sono compiaciuti a rappresentare Guillotin amareggiato dalla sua opera nei vecchi anni e tormentato da dubbi sul reale servizio che egli avrebbe reso all'umanità. Non è vero. Fino all'ultimo sospiro egli fu persuaso di aver preso un'iniziativa utile e adempiuto a un dovere di coscienza. E se il popolo ha lasciato al moderno strumento di morte il suo nome, benchè egli non ne fosse il vero autore, fu in ogni caso un atto d'alta giustizia, giacchè sono gli sforzi suoi quelli che hanno fatto adottare la pena della decapitazione e questo congegno.

Nella seduta del 31 aprile 1791, egli comunicò il ritrovato all'Assemblea. Trasportato dal calore dell'improvvisazione, egli ebbe qualche frase poco felice, che suscitò una folle ilarità e poco mancò non compromettesse il successo della sua causa. Egli disse a un certo punto che il paziente avrebbe provato tutt'al più un leggero senso di frescura sul collo. La frase era già arrischiata; ma quando egli soggiunse: con questa macchina io vi faccio saltar la testa in un batter d'occhio, e voi non ne soffrite punto, tutta l'assemblea scoppiò in un'interminabile risata, che non si potè calmare se non passando all'ordine del giorno.

Il progetto però rimase allo studio. Vi furono lunghi scambi d'idee tra Guillotin e altri personaggi. L'Assemblea incaricò infine il dottor Antonio Louis di presentarle un parere motivato su quel modo di decapitare
Louis era il medico del re, e il suo reale cliente conobbe la missione di cui egli era investito. E nota la passione di Luigi XVI per il mestiere del fabbro e la sua abilità nel lavorare il ferro. Egli desiderò esaminare il piano della macchina proposta da Guillotin. Questi fu avvertito da Louis di presentarsi a una conferenza alle Tuileries e di farsi accompagnare da mio nonno.

Questa conferenza si tenne il 2 marzo 1792. Il palazzo delle Tuileries non era già più che l'anticipata tomba di una monarchia moribonda. I tre uomini giunsero al gabinetto del dottor Louis, che essi trovarono seduto davanti a una tavola coperta d'un tappeto di velluto verde a frange d' oro. Il medico reale domandò di vedere i piani della macchina. Mentre egli stava esaminando il disegno di Schmidt, corredato di note esplicative da mio nonno, una portiera fu sollevata e un nuovo personaggio comparve nel gabinetto.
Il dottor Louis si alzò in piedi. Guillotin fece un profondo inchino.
-- Ebbene, dottore, che ne pensate? - chiese il sopraggiunto.
-- Mi pare una cosa perfetta - rispose il dottore - e giustifica pienamente il bene che ne ha detto il signor Guillotin. Del resto, giudicate voi.
Quegli considerò il disegno per un istante: poi scosse la testa in segno di dubbio.
-- Questo ferro in forma di mezzaluna - egli disse -sarà proprio il più adatto? Credete che un ferro così tagliato possa adattarsi a qualunque collo? Ve ne saranno di quelli che esso soltanto intaccherà, e degli altri che esso non riuscirà a circondare.

Carlo Enrico Sanson già alla prima impressione aveva riconosciuto il re, in abito oscuro, senza ordini sul petto, e che voleva questa volta conservare il suo incognito.
Egli fu colpito dalla giustezza dell'obiezione udita, e portando gli occhi macchinalmente sullo stesso collo del re, sempre scoperto sotto le tenui cravatte di merletto, osservò che il sovrano, di corporatura robusta, aveva un collo muscoloso le cui proporzioni superavano di molto la mezzaluna indicata da Schmidt. Un fremito involontario corse in lui: e in quella sentì la voce del re che sussurrava al dottor Louis, accennando a lui con l'occhio
- E quello l' uomo?
Il dottore fece un segno affermativo.
- Domandategli la sua opinione.
- Voi avete udito l'osservazione del signore - fece il medico reale; - qual'é il vostro giudizio sulla forma della lama?
-- Il signore ha perfettamente ragione - rispose mio nonno, calcando con una leggera affettazione sulla prima parola.
Il re sorrise soddisfatto; poi prese una penna e corresse il disegno, sostituendo alla mezzaluna una lama con la linea obliqua.
- Del resto -- aggiunse - posso ingannarmi. E quando si faranno delle esperienze, bisognerà provare le due maniere.
Poi si alzò e si ritirò salutando con la mano. Non era più il giovane re che mio nonno aveva veduto pochi anni prima a Versailles, a cui spirava in volto una dolce serenità; era un monarca precocemente invecchiato, dai tratti impressi di stanchezza e di preoccupazioni crudeli.

Fu questo il secondo incontro di mio nonno col re. Cinque giorni dopo quella seduta, il dottor Louis presentava all'Assemblea il suo rapporto favorevole, proponendo di sperimentare tutte e due le varianti della lama. II 20 di marzo l'Assemblea adottò le conclusioni del rapporto, e un certo Guidon, maestro carpentiere, fu incaricato di costruire la prima macchina da decapitare. Egli chiese cinquemila cinquecento franchi per questo lavoro.

Il 17 aprile mio nonno e due suoi fratelli furono chiamati alla prigione di Bicètre per fare l'esperienza del congegno su tre cadaveri. Vi erano presenti tre medici, i dottori Louis, Pinel e Cabanis. Le due prime esecuzioni,
con la lama in linea obliqua, come l'aveva indicata il re, riuscirono, la terza, col ferro a mezzaluna, fallì. La lama obliqua aveva dunque causa vinta.

Otto giorni dopo, mio nonno ebbe ad applicare per la prima volta il nuovo sistema sopra un condannato per furto e violenze, Giacomo Nicola Pelletier. Si temeva che l'effervescenza popolare se la prendesse col nuovo apparecchio come già con la ruota; esso già veniva chiamato da alcuni "Louison" o "Louisette" e da altri, "guillotine", appellativo che poi gli rimase. Ma il popolo si mantenne tranquillo. Pelletier era un farabutto volgare, la cui sorte non poteva eccitare movimenti di pietà o di simpatia.
L'esecuzione confermò pienamente le giudiziose affermazioni di mio nonno. Pelletier, caduto in completo sfacelo, dovette essere quasi portato al supplizio. Se lo si fosse dovuto giustiziare con la spada, si sarebbe dovuto massacrarlo a terra, mentre egli si sarebbe dibattuto, mosso dall'istinto di conservazione.
IL TRIBUNALE DEL 17 AGOSTO 1792
Siamo nel mese d'agosto 1792.
Fin dal 20 giugno la sommossa aveva invaso il palazzo reale; ma gli invasori si erano contentati d'infliggere al re i loro crudeli oltraggi .
L'indignazione sincera che questo attentato sollevò in tutta la Francia aveva insegnato ai faziosi che si chiamavano patrioti non doversi toccare un trono se non per abbatterlo; la lezione che davano loro tutti i Comuni di Francia, mandando a Luigi XVI l'espressione del loro rammarico, non andò perduta : essa ispirò loro il 10 agosto.

In quel giorno funesto si vide il monarca in fuga dinanzi alla sommossa armata; l'Assemblea impotente, costretta a riconoscere nei comandi della Comune una legge superiore alla legge che essa rappresentava; infine la monarchia costituzionale, nata appena da un anno, inabissata senza che vi fosse una mano capace di strapparla al naufragio.
L'Assemblea legislativa aveva deciso che il re fosse condotto al Lussemburgo; la Comune pretese che egli avesse la sua prigione al Tempio, e l'Assemblea obbedì.
La Comune e il Comitato di sorveglianza, presieduto da Marat, chiedono a grandi grida la punizione dei cospiratori del 10 agosto e dei traditori. Robespierre, in nome della Municipalità, si presenta all'Assemblea ed esprime imperiosamente la volontà del popolo.

Dopo qualche vana velleità di resistenza, l'Assemblea cede ancora, e affida al corpo elettorale la nomina dei membri d'un tribunale straordinario, destinato a giudicare senz'appello i delitti commessi nella giornata del 10 agosto e altri connessi ed affini.

Il vero terrore non data che dalle giornate funeste di settembre: nell'agosto, la paura o l' ebrezza del sangue non avevano ancora agghiacciato o spento ogni istinto di umanità nei cuori. li tribunale del 17 agosto non fu di violenza rivoluzionaria; esso usò la spada con una certa moderazione, benchè nel suo seno contasse uomini il cui nome ha un'eloquenza sinistra, come Fouquier - Tinville. Esso applicò severamente leggi severe; ma rispettò le forme tutelari che l'applicazione di queste leggi impone.
Nell'ultimo anno la criminalità era cresciuta enormemente, come in tutte le epoche di torbidi e di rivolgimenti sociali. Un nuovo delitto forniva un contingente numeroso al patibolo. La carta monetata, di recente creazione, coi suoi tagli numerosi, eccitava vivamente la cupidigia dei falsari. In sette mesi, dal 1° gennaio al 20 agosto, 15 dei cosiddetti « fabbricatori d'assegnati » pagarono con la testa in piazza di Grève.

Il 19 agosto toccava a un certo Collot. La ghigliottina era eretta nel solito luogo. Al momento che la carretta su cui si trovava Cario Enrico Sanson al fianco del condannato, sboccava sulla piazza, sorse un tumulto di grida. Si urlava:
- Al Carosello!
Il cavallo continuava ad avanzare; ma un uomo del popolo lo prese violentemente alla briglia chiedendo al conduttore se non avesse udito.
Carlo Enrico Sanson intervenne: e allora l'uomo gli spiegò che per volontà della Comune, la ghigliottina, ormai destinata a punire schiavi e strumenti dei tiranni, doveva drizzarsi dirimpetto al palazzo dell'ultimo re.

Mio nonno rispose che suo dovere era seguire gli ordini ricevuti, non di prevenire le intenzioni dei magistrati: d'altronde sarebbe stato troppo tardi, quel giorno, per spostare il patibolo.
Ma la violenza delle grida raddoppiò, e si riuscì a voltare il cavallo nella direzione delle Tuileries.
Solo a forza di parlamentare, mio nonno ottenne il permesso di far procedere la carretta fino al patibolo, impegnandosi a salire all'Hòtel-de- Ville per chiedere nuove istruzioni.
Egli sperava che la Comune avrebbe risparmiato al paziente la crudele angoscia di una nuova passeggiata. Ma non fu così. Dopo breve esitazione, il procuratore della Comune ordinò a Carlo Enrico Sanson d'eseguire la volontà del popolo.
Un formidabile evviva scoppiò dalla folla quando essa s'accorse, dai primi colpi di martello, che aiutanti e carpentieri stavano smontando la macchina. Era scomparsa la ripugnanza che il popolo aveva sempre mostrato a prestare il suo concorso anche indiretto ad un'esecuzione capitale. Cento braccia erano venute in aiuto, sollevando le travi, svitando i cavicchi, disgiungendo le assi della piattaforma. In pochi momenti tutta l'attrezzatura era scomposta e trasportata a braccia nei carri che si erano requisiti. E il funebre corteo si rimise in marcia, tra l'echeggiare dei ritornelli patriottici.

Benché quasi paralizzato dal terrore, il condannato aveva compreso che non sarebbe sfuggito al supplizio. Ma quando la carretta si mise di nuovo in cammino, il gran tumulto scosse completamente la sua ragione vacillante. Alla prostrazione succedette il delirio della demenza: egli cercò di rompere i suoi vincoli, si dibattè con grida da bestia feroce, morse atrocemente alla mano uno di quelli che cercavano di trattenerlo, e non potendosi ridurlo alla calma, si dovette mettergli il bavaglio.

Quando si giunse al Carosello, mio nonno s'accorse che, dei quattro aiutanti, tre avevano sì copiosamente fraternizzato nelle osterie incontrate per via, da rendersi incapaci di prestare il loro servizio.
Con grande inquietudine pensava Enrico Carlo Sanson a ciò che sarebbe avvenuto quando si sarebbe trovate per così dire solo col disgraziato a cui la frenesia decuplicava le forze e che si sarebbe certamente dibattuto fin sulla piattaforma.
Per completare i guai, la notte sopraggiungeva e già si erano dovute accendere le torce.
Spaventato della responsabilità che si sentiva addosso, mio nonno confidò le sue angosce ad alcuni di quelli che gli erano intorno, supplicandoli che corressero a riferirne alla Comune e che ottenessero il rinvio dell'esecuzione.
Questa comunicazione fu accolta da fischi, e quando essa arrivò a diffondersi fino alla fine dei più lontani, gli schiamazzi divennero generali ed intensi.

Un giovane dal viso imberbe, coperto idei berretto rosso, si fece largo tra la folla e s'avanzò.
- Ah - disse - tu vuoi salvare i nemici della nazione, tu sei un traditore, e noi ti faremo mostrare il naso dal tondo della ghigliottina.
Carlo Enrico Sanson gli ripetè con alquanto impazienza ciò che aveva detto ai suoi camerati.
-- I tuoi aiutanti sono ubriachi? - esclamò il giovane -
Troverai qui aiutanti quanti ne vuoi. Il sangue degli aristocratici dev'essere il cemento della felicità della nazione, e non c'è un patriota che non sia fiero di versarne, è vero, voialtri?

Gli si rispose di sì: frattanto però si cercava di tirarsi alla larga e l'accerchiamento si diradava.
Mio nonno comprese che questo intiepidimento generale avrebbe potuto estendersi allo stesso suo interlocutore, e si affrettò a metterlo nell'impossibilità d'indietreggiare prendendolo in parola e accettando la sua offerta.
Il paziente, disceso dalla carretta, si rifiutava a salire i gradini che conducono alla piattaforma. Bisognò portarlo e benchè nuove corde fossero state aggiunte ai suoi ceppi, i suoi soprassalti erano così violenti che mio nonno, avendolo cinto con le braccia, stava per essere rovesciato.
Quando egli vide la macchina, il suo furore divenne disperazione. Grosse lacrime uscivano dai suoi occhi sbarrati, fissi sul coltello triangolare che scintillava al lume delle torce, e con un accento lamentevole egli domandava grazia, egli gemeva:
- Non voglio morire!

La folla era divenuta silenziosa: si vedeva che la pietà aveva guadagnato i cuori più duri.
L'esecutore improvvisato si conteneva bene: tuttavia il suo pallore, la sua fronte imperlata, dicevano che egli sosteneva contro sè stesso una terribile lotta.
Alfine, dopo un'ultima sua resistenza, il paziente fu cinghiato sull'asse mobile; ma le sue contorsioni erano ancora così vigorose che uno degli aiutanti dovette stendersi su di lui per tenerlo fermo.
Egli continuava a gridare e a chiedere grazia.
Carlo Enrico Sanson aveva detto al giovane che, in omaggio al suo patriottismo, gli cedeva la prima parte, e gli aveva messo nella mano la corda che corrispondeva al coltello.
Dàtogli il segno, il giovane tirò la corda, il coltello piombò, le grida cessarono, la testa rotolò nel paniere.

Da quando il pubblico era divenuto ghiotto di supplizi, esso esigeva che gli si mostrassero le teste recise dalla ghigliottina. Mille voci, anche quella sera, domandarono il completamento dello spettacolo.
Mio nonno spiegò al giovane ciò che egli aveva da fare, proponendogli tuttavia di ordinare a un suo aiutante di sostituirlo, qualora sentisse una ripugnanza troppo forte.
Egli rifiutò con disdegno, quasi con collera; sollevò il coperchio del paniere di cuoio, prese la testa ai capelli, s'avanzò sulla piattaforma, e nel momento che egli alzava il braccio per mostrare il sanguinolento trofeo, lo si vide a un tratto cadere all' indietro.

Si accorse. Si credeva a un deliquio. La lotta interna aveva fatto ben più : essa aveva provocato un'apoplessia fulminante.
Tale fu la prima esecuzione sulla piazza del Carosello, dove la ghigliottina ebbe per parecchi mesi il suo teatro.

In quegli anni tempestosi, la difesa non era meno aspra e veemente che l'attacco. Gli scrittori realisti lottavamo d'estro e talvolta d'insolenza coi loro avversari. Due giornalisti, Suleau e Durosoy, avevano conquistato per la loro virulenza il pericoloso onore dl attirare sulle loro teste i più ardenti odi popolari. L'uno fu massacrato nella corte dei Feuillants. Meno felice di lui, Durosoy subì il supplizio dei criminali, e morì con grande fermezza il 27 agosto. Un ex ufficiale, Collinot d'Agremont, accusato di partecipazione a quella che si chiamava la congiura del 10 agosto, gli succedette sul patibolo.
Il 29 agosto, Laporte, intendente della lista civile, un venerabile vecchio, sopportò la pena degli atti di prodigalità dei quali era stato il passivo strumento, e sopra tutto del proprio attaccamento al suo signore.

Il 31 agosto furono giustiziati Sellier e Despierres, condannati per spaccio di falsi assegnati.
Il 2 settembre cadde la testa del carrettiere Jean Sullien, un ladro, per grida realiste dall'alto della gogna dov' era esposto.
Il 3 settembre la ghigliottina non ebbe lavoro.
E' vero che quel giorno coloro che sospingevano il popolo sulla via dei sangue, coloro che trovavano la giustizia troppo lenta al loro ardore vendicativo, si diedero ampio risarcimento della vacanza che lo Stato accordava ai suoi servitori.
Nel penoso compito che mi sono assunto, ringrazio il cielo di non aver da rifare la storia di quelle giornate di settembre nelle quali una folla di scannatori usurpò tanto bene il nostro mestiere orrendo e macchiò le prigioni di esecuzioni degne dell'atrocità degli antropofaghi.

Il tribunale del 17 agosto sedeva allo Chàtelet. Nel momento in cui cominciò il massacro, esso teneva seduta e giudicava il maggiore Bachmann, ufficiale degli svizzeri. Le urla delle vittime, le grida degli scannatori si sentivano nella cinta del tribunale e interruppero parecchie volte l'udienza. Bachmann, condannato a morte, fece un movimento come se avesse voluto recarsi tosto a dividere la sorte dei suoi compagni; lo si fermò; lo si riservò al patibolo che senza di lui avrebbe riposato un giorno di più.
Poi fu la volta del vecchio Cazotte, quello della famosa profezia. Poi, nell'ottobre, nel novembre, nel dicembre, tutta una lista di oscure vittime, che noi qui non faremo. Quella che fornirà argomento al prossimo capitolo occupa ben altro posto nella storia, e con profonda e rispettosa commozione io m'accingo al racconto.
LA MORTE DI LUIGI XVI
La vita del re fu la prima posta della lotta tra le due fazioni che aspiravano a dominare la Convenzione. La Gironda non voleva da principio la morte di Luigi XVI, essa aveva il triste presentimento che quell'omicidio politico non sarebbe stato l'ultimo e avrebbe inaugurato male il regno della Rivoluzione; ma intimidita dai clamori frenetici della piazza, dalle sfide audaci della Montagna, essa si lasciò strappare quella concessione a una sete di popolarità ingannevole, giacchè pochi mesi dopo aver abbandonato quel sanguinoso ostaggio al popolo che si credeva adulare, essa era a sua volta abbandonata da quella plebe, espiava sullo stesso patibolo dell'infelice monarca il suo acciecamento e la sua pusillanimità.

Ma era proprio il popolo quella moltitudine che assediava i tribunali per applaudire o per fischiare gli oratori a seconda che essi parlassero pro o contro le sue passioni selvagge, che tutto il giorno batteva, il lastrico al suono dei tamburi e tra fracasso d'armi portava in ogni dove i suoi appelli incessanti alla rivolta; che la sera faceva risuonare nei « clubs » declamazioni furibonde miste a mozioni incendiarie; e che alfine, di quando in quando, si rimboccava le maniche per tuffare le braccia nel sangue fino al gomito?

Quante volte, in quei gruppi armati che percorrevano la capitale, mio nonno riconosceva suoi antichi clienti della frusta e del marchio, o per lo meno spettatori abituali di esecuzioni! Tutto ciò, come ho detto, aveva indebolito di molto il suo entusiasmo per la Rivoluzione.
Del resto, al pari di mio padre, allora già in età di ventisette o ventotto anni, egli viveva quanto più possibile lontano dagli avvenimenti.
Alle elezioni degli ufficiali e sottufficiali della Guardia Nazionale mio nonno e mio padre furono però nominati sergenti, e il mio secondo zio Carlomagno caporale. E questo servizio li obbligò a portare una parte più attiva che non avrebbero voluto alle manifestazioni politiche che in quell'epoca strana si erano sovrapposte ad ogni altra occupazione della vita.

Luigi XVI era comparso l'11 dicembre 1792 alla sbarra della Convenzione presieduta da Barrère, la cui fredda dialettica doveva esercitare così decisiva influenza sul voto definitivo; la sentenza regicida fu pronunciata il 17 gennaio. Dapprima lo stupore fu così grande che non si osò credere all'esattezza dello spoglio dei voti, e bisognò ricominciare l'operazione il dì seguente. Riconosciuto esatto il risultato della vigilia, Vergnaud, presidente di turno, dichiarò che la pena pronunciata contro Luigi Capeto era la morte.

Nella seduta del 19 fu esaminata la questione dell'appellazione; e qui ancora fallirono quelli che cercavano i timidi temporeggiamenti: una maggioranza di 380 voti su 690 votanti decretò che non vi fosse ricorso possibile contro l'esecuzione del condannato.
Fu la prima notizia che mio nonno ricevette; non ho bisogno di dire il colpo terribile che egli ne ebbe. Quella giornata del 20 gennaio doveva essere per lui una festa di famiglia: era l'anniversario del suo matrimonio e il compleanno della mia buona nonna, allora sessantenne. Per non risvegliare i sospetti di lei, e dopo aver raccomandato a tutti i famigliari un assoluto silenzio, mio nonno e mio padre uscirono, ciascuno per conto suo, e girarono la città per raccogliervi le voci che già traspiravano. Si sapeva che il re aveva domandato una dilazione di tre giorni per prepararsi alla morte.
La Convenzione non oso accordarla, e Carlo Enrico Sanson, che s'era avventurato fino alle vicinanze del palazzo legislativo, seppe in forma positiva che le sole ed ultime grazie fatte al re di Francia erano quelle di ricevere gli addii della sua famiglia e d'essere accompagnato al supplizio da un prete della sua religione. Non c'era dunque più dubbio che l'esecuzione dovesse farsi all'indomani.

Mio nonno rincasò abbattuto dalla disperazione; mio padre lo aveva preceduto con notizie altrettanto tristi. Parecchie persone si presentarono durante la giornata, dicendo di dovergli parlare di cose urgenti; gli si consegnarono pure diverse carte, tra le quali c'era l'ordine fatale di far inalzare il patibolo nella notte e di aspettarvi il condannato dalle otto del mattino in poi. Le altre carte erano lettere, le più delle quali anonime, con l'avviso che tutte le misure erano prese per la liberazione del re nel tragitto dal Tempio alla Piazza della Rivoluzione, e che alla minima resistenza fatta da lui, Sanson, egli sarebbe caduto trafitto da mille colpi. Altre, senza ricorrere a coteste minacce, prendevano la forma di invocazioni supplichevoli. Lo si scongiurava di unirsi ai liberatori della vittima, di trascinare l'esecuzione in lungo per permettere ad alquanti uomini risoluti che si trovavano nella folla di rompere le file della milizia e di sottrarre il re al patibolo.

Quest'ultimo mezzo, che mio nonno non considerava nè impossibile né improbabile, era il solo che gli lasciasse un barlume di speranza. Mentre egli attraversava la sala da pranzo, dov'era apparecchiata la mensa per la celebrazione dell'anniversario nuziale, gli parve sentire il suono di due voci d'uomini che chiedevano soccorso. Egli spinse rapidamente la porta, e scorse mio padre ed un giovane sconosciuto, intenti a far rinvenire mia nonna che era caduta priva di sensi.
Quel giovane, venuto a cercare Carlo Enrico Sanson, non avendolo trovato, aveva chiesto di parlare con suo figlio, e alla presenza di mia nonna, aveva rivelato fin dalle prime parole il terribile secreto della giornata. Era ancora un liberatore che veniva per il re : spingendo la devozione al di là d'ogni altro, si offriva a morire invece di lui, ove gli si fossero procurati vestiti assolutamente identici in maniera che sulla piattaforma la sostituzione potesse effettuarsi senza che la folla se ne accorgesse.

Questa cavalleresca utopia non era nemmeno da discutersi: così nemmeno i progetti che contavano sulla complicità di mio nonno nel trafugamento del re durante il tragitto, giacchè questa volta, a differenza dei casi comuni, non avrebbe avuto egli l' incarico di condurre il condannato al supplizio.
Quando mia nonna fu rinvenuta, si congedò il visitatore facendogli comprendere l'impossibilità del suo sacrificio generoso. La festa dell' anniversario, ora che mia nonna sapeva tutto, non si fece più. Mio nonno non toccò cibo. Tutta la notte egli passeggiò in lungo e in largo nella stanza vicina a quella dove mia nonna pregava.
Mio padre si gettò un momento tutto vestito sul letto, ma non dormì che qualche istante, d'un sonno agitato. Alfine l'alba comparve; i tamburi battevano la diana per invitare le sezioni ad armarsi; ciascuna doveva fornire un battaglione per la cerimonia lugubre. Mio padre faceva parte di quello che era comandato nella nostra sezione. In fondo, non gli rincresceva, giacché era un mezzo per potersi pronunciare qualora se ne offrisse occasione, e in ogni caso, ciò lo associava ai pericoli che suo padre poteva correre in quella fatale giornata. Egli vestì dunque la sua uniforme, e scese accanto a Carlo Enrico Sanson, che da parte sua si accingeva a partire accompagnato da Carlomagno e da un altro dei suoi fratelli. Erano tutti e tre armati fino ai denti, sotto i grevi tabarri, abbottonati fino al collo, che li coprivano interamente.
Quando fu il momento di separarsi, mia nonna ruppe in pianto e mio padre e mio nonno ebbero gran pena a strapparsi dalle sue braccia. Ella aveva la triste persuasione di non doverli più rivedere, tanto sentiva che, in qualunque modo essa andasse a finire, l'orribile giornata avrebbe messo in pericolo le loro esistenze.
Mio padre andò a raggiungere il suo battaglione, collocato sulla Piazza della Rivoluzione a sette od otto metri dalla ghigliottina che gli aiutanti incominciavano ad innalzare. La piazza era letteralmente coperta di truppe di tutte le armi, fra le quali si notava il battaglione dei Marsigliesi, che aveva preso con sé i suoi cannoni e li aveva puntati verso il patibolo.

Su ciò che poi seguì, lascio qui la parola a Carlo Enrico Sanson:

« Sono partito questa mattina alle otto dopo aver abbracciato la mia povera moglie e mio figlio che non speravo di veder più: sono salito in un fiacre coi miei due fratelli Carlomagno e Luigi Martino. La folla era così fitta nelle vie che erano già le nove quando siamo arrivati in Piazza della Rivoluzione. Gros e Barrè, i miei aiutanti, avevano fatto montare la macchina, ed io la esaminai appena, tanto pensavo che non avrebbe servito. Eravamo, i miei fratelli ed io, solidamente armati; avevamo sotto i nostri mantelli, oltre la spada, dei coltelli a pugnale, quattro pistole alla cintura, un corno da polvere e le saccocce piene di palle. Pensavamo che si sarebbe fatto un tentativo per liberare l'infelice principe, e che i mezzi non erano mai abbastanza per aprirgli il passaggio.
"Appena arrivai sulla piazza, cercai con gli occhi mio figlio, e lo scorsi col suo battaglione, a poca distanza da me. Egli mi guardava con un'aria d'intelligenza. lo tendevo l'orecchio inquieto, tentando di percepire qualche rumore che lui fosse indizio di uno di quei tentativi di liberazione che mi si erano annunziati il giorno innanzi. Godevo al pensiero che a quest'ora il re era stato forse strappato alla sua scorta e fuggiva sotto la salvaguardia di amici devoti, ammenocchè quel popolo incostante e mobile, di cui è sì faclle il far mutare il sentimento, non l'avesse preso sotto la sua tutela e non avesse convertito in acclamazione il supplizio che gli si era preparato.

"Mentre così mi cullavo in chimere e mi lasciavo andare a quel sogno, quale risveglio mi aspettava!
A quando a quando i miei occhi si sprofondavano con ansietà dalla parte della Maddalena. Tutt'a un tratto, vedo sboccare un corpo di cavalleria, e poco dopo una berlina a due cavalli, attorniata anch'essa da una doppia siepe di cavalieri e scortata da un altro distaccamento della stessa arma. Nessun dubbio possibile, nessuna illusione: è il martire che viene. La mia vista si intorbida, un fremito s'impossessa di me; getto gli occhi su mio figlio; vedo che un pallore livido copre anche il suo viso.
In questo frattempo, la berlina giunge. Il re era seduto nel fondo, alla destra, avendo al suo fianco un prete, il suo confessore; sulla banchina d'innanzi sedevano due marescialli d'alloggio della gendarmeria. La vettura si ferma, la porta si apre: i due gendarmi discendono primi, indi quel venerabile prete vestito dell'abito proscritto che da qualche tempo non ero abituato a vedere, e finalmente il re, più dignitoso, più calmo, più maestoso che non l'avessi veduto a Versailles e alle Tuileries.

"Vedendolo avvicinarsi alla scala, getto intorno a me uno sguardo disperato: da ogni parte non vedo che truppe. Il popolo, relegato dietro a questa soldatesca, sembra colpito di stupore, e serba un cupo silenzio. II rullo dei tamburi, che non cessano di battere, soffocherebbe d'altronde ogni grido, seda qualunque parte sorgesse un appello alla pietà. Dove sono dunque i salvatori tanto annunziati? Carlomagno ed io siamo costernati; Martino, più giovane e più padrone di sé, si avanza e fa osservare al re essere necessario levargli il vestito.
- E inutile - egli risponde - mi si può finire come sono.
Mio fratello insiste, e aggiunge pure che è indispensabile legargli le mani.
Quest'ultima condizione sembra ripugnargli ancora di più, e fa salire il rossore alla sua fronte.
- E che - gli dice - oserete mettere la mano su di me? Prendete, ecco il mio vestito, ma non mi toccate.
Cosi dicendo, egli si toglie da se il vestito. Carlomagno viene in aiuto a Martino, e in grave pena per dover parlare a quella illustre vittima coi riguardi che traboccano dal suo cuore, senza urtare le feroci orde che circondano il patibolo, gli dice in un tono freddo, sotto il quale si indovina la commozione.
- E assolutamente necessario. L'esecuzione è impossibile senza di ciò.
Richiamato alfine alla parte mia e non potendo più lasciar tutto il peso sui miei fratelli, io mi chino all'orecchio del prete
- Signor abate - gli dico - ottenete questo dal re, ve ne supplico. Mentre gli si legheranno le mani, noi guadagneremo tempo, ed è impossibile che un tale spettacolo non finisca col commuovere le viscere di questo popolo.
L'abate si rivolse a me con un triste sguardo, nel quale si dipingevano insieme lo stupore, l'incredulità e la rassegnazione; poi, volgendosi al re
- Sire - gli disse - rassegnatevi a quest'ultimo sacrifizio, che vi renderà più simile a quel Dio che saprà ricompensarvene.

"Luigi XVI presentò egli stesso le braccia, mentre il confessore gli faceva baciare l'immagine del Cristo. Due aiutanti legarono quelle mani che avevano portato lo scettro. Mi pareva dovesse essere quello il segnale della reazione che non doveva mancare in favore di quella toccante vittima; invcece niente, solo il rullo infernale dei tamburi.
Il re, sostenuto dal degno prete, salì lentamente e con maestà i gradini del patibolo.
- I tamburi non cesseranno dunque? - egli chiese a Carlomagno.
Questi gli fece intendere con un gesto che non ne sapeva nulla. Giunto sulla piattaforma, il re s'avanzò dalla parte dove il popolo sembrava più fitto, e fece della testa un movimento imperativo verso i tamburi, che sospesero il loro rullo, per un istante.
- Francesi - egli disse con voce forte - voi vedete il vostro re pronto a morire per voi. Possa il mio sangue cementare la vostra felicità. Io muoio innocente di tutto quello di cui mi si accusa.

"Voleva forse continuare, quando Santerre, che era lì a capo del suo stato maggiore, fece segno ai tamburi, i quali ripresero il loro rullo, e non avrebbero più permesso di sentirlo.
In un istante egli fu attaccato sull'asse fatale, e nel momento che il coltello guizzava sulla sua testa poté ancora sentire la voce grave del pio ecclesiastico che l'aveva accompagnato fino al patibolo, pronunciare queste parole
-- Figlio di San Luigi, salite al cielo!

"Così è finito questo infelice principe, che un migliaio di uomini risoluti sarebbero bastati a salvare in quell'ultimo momento, quando all'infuori della soldatesca, egli incominciava a suscitare una vera compassione; e realmente io non ho compreso, dopo tutti gli annunzi ricevuti ieri, che egli sia stato abbandonato in modo così crudele. Il minimo segnale sarebbe bastato a creare una diversione in suo favore; giacchè si vide che, quando il mio aiutante Gros mostrò quell'augusta testa ai presenti, se alcuni forsennati lanciarono grida di trionfo, la maggioranza torse gli occhi con profondo orrore e con un fremito doloroso. »

Tale è il racconto che mio nonno ci ha lasciato della morte di Luigi XVI; esso è conforme, del resto, alla lettera che egli ebbe il coraggio di scrivere al Thermomètre du jour per rettificare le allegazioni erronee di questo giornale, che nemmeno un tal morto rispettava nella sua tomba. Questa lettera è troppo conosciuta perché io abbia bisogno di riprodurla qui.
La relazione che ho data differisce molto, per esempio, da quella del signor de Lamartine nella "Storia dei Girondini"; ma per quanto sia l'autorità dell'eminente scrittore, essa non potrebbe rivaleggiare per esattezza con quella dell'uomo che ha avuto la sventura di prender parte attiva al doloroso avvenimento.
E piaciuto allo scrittore mostrare mio padre, ovvero uno dei suoi fratelli dare del tu al re dinanzi al patibolo, e rappresentarli in atto di levar la mano, pronti a esercitare indegne violenze sul martire. Sono grossolane invenzioni tanto per inscenare carnefici da melodramma, e io mi son domandato se il prendere la pena di smentirle non era abbassare la memoria dei miei.

AL LIBRO SESTO - LA MESSA ESPIATORIA > >

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