BIOGRAFIA
(n. 1634 - m. 1675) - Duca 1634 - 1675

seconda moglie: MARIA GIOVANNA BATTISTA DI SAVOIA-NEMOURS
(n.1644 - m. 1724)

La vita di Carlo Emanuele II si può dividere in due periodi, che sono quelli anteriore e quello posteriore alla morte della madre. Nel primo, il secondogenito di Vittorio Amedeo I visse nell'ozio e nella mollezza, «bevve a larghi sorsi le aure di una corte galante, e fu distratto da vari amori»; nel secondo, dovette accorgersi che la negligenza è uno dei peccati più gravi per un sovrano, e si dedicò volonteroso alle cure dello Stato.
Di animo generoso, dotato di fondamentale buon senso, appena fu solo a regnare (nel '63) Carlo Emanuele si circondò di ottimi consiglieri e perfino di un collegio di teologi per risolvere le questioni religiose; ma non permise mai che cosa alcuna venisse decisa senza il suo personale intervento. Splendido e fastoso, ebbe tuttavia il senso della misura e dell'equità, e fu amato dal popolo perchè cercò di porre un freno all'orgoglio e alla prepotenza di certi nobili, e perchè provvide al risanamento delle finanze con l'affidarne l'incarico a Giambattista Trucchi, uomo salito in alto da umile origine, amministratore scrupolosissimo ed economista insigne, che istituì ed attuò il principio del concorso di tutte le classi alle spese dello Stato ed alleggerì il peso delle tasse distribuendolo con criteri di relativa giustizia fra tutte le categorie di sudditi.

Inoltre, Carlo Emanuele II riordinò efficacemente l'esercito; licenziò tutte le milizie straniere, eccettuati gli Svizzeri; attribuì allo Stato tutte le spese militari; stabilì norme regolari per la coscrizione e « diede abito uniforme alle truppe ». Nel 1655 proibì il gioco del lotto nel Piemonte; nel 1658 proibì che emigrassero gli artigiani e i contadini e che qualunque suo suddito si arruolasse in un esercito straniero. Nel 1664 ordinò ai Comuni di procurarsi dei maestri per provvedere all'educazione della gioventù, vietò la mendicità nelle vie cittadine ed aprì un ospizio per gl'indigenti incapaci di lavorare.

Nel 1673 ordinò la persecuzione «dei maghi e delle streghe », a cui fu comminata, con un editto speciale, la pena di morte. Il duca diede in fine grande impulso ai lavori pubblici : Bellariva ebbe un porto sul lago Lemano, perchè la Savoia potesse aver contatto con la Svizzera senza che fosse necessario passare per Ginevra; Grezin e Lucey ebbero dei ponti perchè fossero comode le comunicazioni con la Borgogna; Chambéry fu avvicinata a Lione con l'apertura del passaggio detto della Grotte des Échelles; e Torino venne abbellita con comodi portici, con begli edifici sull'ampia Strada di Po e sulla Piazza di San Carlo. Nella stessa città vennero inoltre costruiti il Palazzo ducale, la Cappella della Sacra Sindone, nella cattedrale, ed alcuni altri monumenti sacri.

Se si eccettui una lunga e non risolta controversia per il possesso della città di Ginevra, sempre ambito dai Savoia e mai potuto ottenere, si può dire che il regno di Carlo Emanuele II sia, stato pacifico, quasi sino alla fine, cioè, sino a quando, nel 1670, il duca s'impegnò in un'impresa che fu assai biasimata. Tra Savona e il Ducato di Savoia esistevano da molto tempo ragioni di dissidio, per i confini e per questioni di diritti doganali. Un giorno, Carlo Emanuele, preso da un improvviso desiderio di conquista, mandò a chiedere delle navi all' Inghilterra, per impadronirsi della città rivale, troncando in tal modo ogni contesa. E per riuscire meglio nell'intento, si lasciò indurre da Raffaele Della Torre, genovese (pessimo soggetto che aveva lasciata la patria per sfuggire alla forca, alla quale era stato condannato come autore di vari delitti) ad assalire anche Genova.

Il Della Torre, che aveva trovato asilo presso il duca, con grande scandalo dei galantuomini venne nominato capitano di una compagnia di lancieri, e mandato a sollevare banditi, contrabbandieri ed altri malfattori intorno a Genova, per portarvi dentro la sommossa, mentre le forze ducali avrebbero assalito Savona, quasi completamente priva di difensori. Ma il governo della Repubblica di Genova potè sventare quel piano. Raffaele Della Torre riuscì a salvarsi, ma alcuni suoi complici furono presi ed impiccati. Alle milizie del duca, che si accingevano ad assalire Savona, giunse appena in tempo l'avviso di retrocedere, il che fecero con grande scorno.

La guerra continuò poi sui monti, fra un alternarsi di false proposte d'accomodamento, finchè Genovesi e Corsi, aiutati da quanti, lungo la Riviera ligure, parteggiavano per Genova, finirono con l'infliggere al Duca di Savoia una grave sconfitta, nelle vicinanze di Castelvecchio, il 5 agosto 1672.

Durante la battaglia di Castelvecchio, venne in potere dei Genovesi tutto il carteggio di Carlo Emanuele II col capo della spedizione, conte Catalano Alfieri, dal quale carteggio risultò chiaramente la connivenza del duca e della Corte di Savoia col bandito Della Torre. I Genovesi protestarono, rivolgendosi anche al Papa ed ai re di Spagna e di Francia, e diedero pubblicità a quei documenti.

Secondo il Cibrario, « la guerra di Genova con tanta leggerezza intrapresa nel 1672, appare degna di qualche scusa, almeno in quanto all'intenzione, se si leggono i due volumi che Carlo scrisse di sua mano "Sul negocio di Genova". Il Della Torre lo aveva persuaso della tirannia della Repubblica, dove il Governo non "camminava con la bilancia uguale", ma i nobili opprimevano i plebei; e della "necessità di togliere a quelli che governavano l'audacia di continuare questa loro perniciosa maniera d'agire". "Fu dunque in nome - citiamo ancora il Cibrario - dell'uguaglianza di diritti e di doveri innanzi alla legge, e per domare l'insolenza dei grandi, dei quali principi e propositi era Carlo molto appassionato e tenace, che si mosse quella rovina. Ma chi gli aveva conferito il mandato di riformare lo Stato di Genova? Ma doveva egli, Carlo Emanuele, prestar fede alle parole d'un uomo reo di tanti misfatti, e legalmente infamato con criminali condanne dai Tribunali di Genova? Troppo facilmente si crede ciò che può servire di scusa a non legittimi appetiti».

Comunque, alla duplice vergogna Carlo Emanuele pose riparo con le armi. Recuperò Oneglia, che i Genovesi gli avevano tolta, ed occupò Ovada. Dopo aver salvato l'onore militare, venne a patti. Il re di Francia s'intromise, ed indusse le due parti ad una pace soddisfacente per tutti. Il Della Torre, condannato a morte in contumacia, finì poi pugnalato, a Venezia, da un profugo genovese.
L'esito della guerra contro Genova fu causa di profondo malcontento in Savoia contro tutti i personaggi che Carlo Emanuele aveva scelti per preparare e dirigere l'impresa, e il duca, senza curarsi di riflettere se il suo modo d'agire fosse giusto, non esitò a sbarazzarsi di loro. Il conte Catalano Alfieri fu imprigionato e morì in carcere; il marchese di Livorno, condannato a morte, riuscì a stento a fuggire. E il popolo applaudì.

Anche tenuto conto dei tempi e delle consuetudini, non è possibile non giudicare alquanto strana la psicologia di questo duca di Savoia, « che, come scrisse il Ricolti, per istinto adorava la giustizia, ma per difetto di mente e talora per soverchia bontà, falliva ». E tale psicologia riceve una luce curiosa dal seguente episodio. Quando, con la pace d'Aquisgrana, nel 1668, Luigi XIV acquistò il Brabante, Carlo Emanuele, che pretendeva di aver diritto alla successione dell'infanta Clara Eugenia, non potendo contendere con la Francia e non volendo compromettersi, redasse un atto di protesta, lo chiuse in un cofanetto d'argento e lo mandò a deporre nel tesoro della Madonna di Loreto. Poi, narrato il fatto nel suo diario, vi aggiunse questa conclusione : « Così fa chi ha da fare con più grandi, che non sanno et non sentono giustitia fuorchè quella del cannone! »

Il carattere di Carlo Emanuele II fu descritto come segue dall' ambasciatore veneto Balegno:
« Il Duca si governa con massime pacifiche, e l'essere un poco dedito al danaro lo fa credere perseverante od almeno astinente dalli impegni che possono turbare il riposo. Egli è principe vivacissimo, di buon talento, maestro nell'arte del fingere, e di prima impressione; affabile del resto con ognuno, nelle fatiche indefesso, sprezzatore dei pericoli, e per il suo oroscopo un poco inclinato alla severità. Sinora non ha ammesso alcuno al favore: accudisce da sè a tutti gli affari, è assiduo nei consigli, frequente nelle udienze, e dopo discusse le materie, delibera in molte cose a suo piacere, talvolta contro l'opinione dei suoi confidenti; e suol dire che piuttosto vuole errare da sè, che far bene col parere degli altri ».

Nota un biografo dei Savoia che Carlo Emanuele II visse sempre nel lusso e tra i piaceri più raffinati e che la sua Corte fu « tenuta alla francese per usi, eleganze, etichetta, amori ». Fu inoltre questo principe molto appassionato per la caccia. «Per soddisfare a questa sua passione, continua il biografo a cui abbiamo accennato, egli eresse la grandiosa villa della Veneria in un luogo chiamato Alto Altessano, propizio alla caccia per le foreste vicine. Vi spese oltre a due milioni, e istituì un gran numero d'impiegati di caccia subordinati a un Gran Cacciatore, che divenne titolare di una delle più insigni cariche della corte. Erano mantenuti alla Veneria duecento cavalli e duecento mute di cani da corsa, oltre i levrieri ed altre specie, con un esercito di bassa gente".
« Ma dopo la morte della madre Carlo Emanuele si consacrò interamente e col massimo impegno alle cure del governo. E questo dimostrano ampiamente i ricordi che lasciò, scritti di sua mano, l'immenso carteggio da lui tenuto con i suoi agenti presso le potenze estere, e con i ministri che quelle mandavano a lui, e le frequenti udienze che dava a tutti e a preferenza ai poveri.
« Nel tempo della pace la sua corte divenne magnifica, e madamigella di Montpensier scriveva nelle sue memorie, che la reggia di Torino era il soggiorno delle feste, la sede della leggiadria, e che la Veneria rivaleggiava con Versailles »
.

Dalla prima moglie, che fu Francesca Maddalena d'Orléans, che morì nel 1664 (dieci anni prima di lui) Carlo Emanuele II non ebbe figli. Ma siccome un duca di Savoia non poteva rimanere senza moglie e senza prole legittima, nel 1665 passò a seconde nozze con una consanguinea, la cugina Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, dalla quale l'anno seguente ebbe il figlio VITTORIO AMEDEO, che poi gli successe. Aveva già avuto due figlie illegittime da Giovanna Maria di Trécesson, che più tardi andò sposa a Maurizio Pompilio Benso di Cavour (avo del famoso Camillo).

Sorpreso da febbri infettive nella pienezza dell'attività e del vigore, Carlo Emanuele II morì a quarantun anni il 12 giugno 1675, dopo avere per testamento conferita la reggenza alla moglie, con potere assoluto, dandole per ministri il marchese di San Maurizio e Giambattista Trucchi.
Era stato principe assai popolare, e si dice che prima di morire volle che tutte le porte della residenza venissero aperte, perchè tutti potessero entrare a vederlo.

MARIA GIOVANNA BATTISTA DI SAVOIA-NEMOURS
(seconda moglie di Carlo Emanuele)
(n.1644 - m. 1724)

Rimasto vedovo, ed essendo costretto dalla ragion di stato a riprendere moglie quantunque non ne avesse alcun desiderio, Carlo Emanuele II aveva rivolto il pensiero ad una principessa che già gli era piaciuta: la sua cugina Giovanna Battista di Savoia-Nemours, figlia di Carlo Amedeo di Savoia e pronipote di Filippo Senza terra.
Di questa cugina egli era stato quasi fidanzato nella prima gioventù, e si dice che quando la duchessa madre, essendosi accorta ch'ella era molto capricciosa e piena di gravi difetti, l'aveva con bei modi allontanata dalla Corte di Savoia, egli avesse scritto su di una parete del castello di Rivoli le seguenti parole « La raison ne veut pas que j'épouse M.lle de Nemours, mais mon destin le veut ».

Maria Giovanna Battista sacrificò alla politica il proprio spontaneo amore per il principe di Lorena, al quale era fidanzata, ed accettò la mano del duca di Savoia, di cui fu moglie virtuosa sebbene egli le fosse marito infedele. Ma poi, rimasta vedova a sua volta, ella mutò condotta, e in breve tutta Torino parlò dei suoi amori col conte Emanuele Filiberto Chabot di San Maurizio, figlio del marchese primo ministro e molto più giovane di lei. A lungo andare, la duchessa non potè non tener conto dei pettegolezzi, e mandò il giovane amante a Roma, in missione diplomatica, e poi a Berna, vietandogli di ricomparire a Corte se non ammogliato. Di quel distacco però la duchessa reggente si consolò col ventitreenne conte Carlo Francesco di Masino, suscitando nuovo scandalo.

Ma ella non si occupò soltanto d'amore. Durante il suo governo, che durò fino alla maggiore età del figlio Vittorio Amedeo, provvide a che il Ducato godesse d'un periodo di pace e di miglioramenti interni. Alla sua iniziativa si dovettero l'istituzione dell'Accademia Reale di Torino, quella del Consiglio cavalleresco per decidere sui casi d'onore, e quella del Collegio dei Nobili, aperto in Torino dai Gesuiti nel 1678.
Si applicò inoltre con coraggio e perseveranza alla trattazione degli affari di Stato, dando prova di senno e di ponderazione; si rese accessibile ad ogni categoria di sudditi; non impose nuovi tributi, anzi diminuì quelli esistenti, e con altri mezzi riordinò le finanze; vietò lo scandalo delle vendite delle cariche; rimase neutrale tra la Francia e la Spagna, resistendo alle promesse come alle minacce di Luigi XIV.

Un grave errore di Maria Giovanna Battista, ch'ella dovette, più tardi, pagare assai caro, fu quello di trascurare quasi completamente il figlio e la sua educazione. Tutti i giorni, ad ora fissa, il conte Montresol, zio del duchino, lo conduceva alla presenza della madre. Il duchino baciava la mano della Reggente secondo tutte le regole del cerimoniale di Corte, ed ascoltava le osservazioni e i rimproveri ch'ella gli rivolgeva; poi, veniva ricondotto nel suo appartamento. Tali i rapporti fra madre e figlio. Nessuna meraviglia, quindi, che Vittorio Amedeo crescesse senz'alcun sentimento di tenerezza filiale, e che sua madre gl'ispirasse timore e in pari tempo desiderio d'indipendenza.

La reggenza di Maria Giovanna Battista doveva essere turbata da avvenimenti abbastanza gravi, e specialmente dai tumulti che scoppiarono nella città di Mondovì e nel suo contado, quando in conseguenza dell'infelice impresa di Genova fu necessario imporre la tassa sul sale anche in quella zona, che prima ne era stata esente. In quella circostanza, secondo qualche contemporaneo, la reggente fu anche troppo mite, e troppo spesso perdonò chi, abusando del perdono, non faceva che riaccendere la ribellione.

La reggenza di questa donna che ebbe grandi qualità e grandi difetti doveva finire il 14 maggio 1680, giorno in cui il duca avrebbe compito il quattordicesimo anno di età. Venuto quel giorno, la duchessa finse, con un bel discorso, di rimettere al figlio il governo del Ducato, mentre era già stabilito che sarebbe stata pregata di continuare a tenerlo. Infatti ella lo tenne ancora per alcuni altri anni, e cioè fino al matrimonio di Vittorio Amedeo II con Anna d'Orléans.

Anteriormente, era stato oggetto di lunghe trattative un altro matrimonio, pel quale il Duca di Savoia si sarebbe unito con l'infanta, Isabella Luigia, erede presuntiva del trono di Portogallo. Questa principessa era figlia di Don Pedro, reggente e poi re di quel regno, e di Maria Isabella di Nemours, sorella della duchessa di Savoia, che nel trattare per quel matrimonio tendeva a prolungare la propria reggenza, che a quanto pare le stava molto a cuore. Infatti, nel progetto di contratto era detto esplicitamente che Vittorio Amedeo si sarebbe recato in Portogallo per rimanervi fino a quando avesse avuto prole, e che qualora egli fosse morto lasciando figli in minore età, la reggenza del Ducato di Savoia sarebbe rimasta alla madre.

Insomma Maria Giovanna Battista tendeva evidentemente ad allontanare il Duca per rimanere sola a capo dello Stato, e di ciò si compiacque, naturalmente, il re di Francia, per le sue nascoste mire.
« Nella inattesa accondiscendenza reale (così commenta il Cibrairio) la Duchessa non vide nè comprese quel che videro e compresero i sudditi, i quali si affrettarono a far presente al Duca l'insidia nascosta sotto l'approvazione che il re di Francia dava a quel matrimonio, e lo pregarono di non andare a cercare altrove altri sudditi, "che certo non ne avrebbe trovati dei più mansueti di loro ».

Il Duca, ostile alla madre, avverso al re di Francia, e con l'animo gonfio di segreti ma tenaci propositi d'indipendenza assoluta, cominciò col protrarre di due anni la propria partenza per il Portogallo; e quando tutto fu pronto, e giunse una flotta portoghese per portarlo via... egli si ammalò.
« Venne il duca di Canoval, narra il Cibrario, con una flotta a Nizza, per levarne il futuro sovrano; ma alcun tempo dopo s'accorse che se la Duchessa desiderava ardentemente quel matrimonio, non volevano peraltro nè il popolo, nè la Corte, nè il Duca, ond'egli si decise a tornarsene a Lisbona. Servì di pretesto una passeggera malattia del duca. Questi fu dipinto dai medici come stato sempre così debole da far prevedere molto dubbiosa la guarigione. Non so se Canoval fosse ingannato o simulasse. Il fatto è che la Corte di Portogallo fu la prima a didire quel matrimonio; e quella di Torino, che null'altro desiderava, fece vedere di rammaricarsene. Ho detto ché il Duca e la nazione ripugnavano a quel matrimonio: si temeva infatti che, trasferito in Portogallo il sovrano, il Piemonte diventasse provincia francese; e ciò non era impossibile. Era certo almeno che sarebbe diventato una colonia portoghese, e
ciò sarebbe stato peggio. A Madama Reale (anche Maria Giovanna Battista era chiamata così) le passioni concitate mossero mille accuse indegne; ma forse è vero che in lei, accanto al desiderio della grandezza della famiglia, operava la speranza di conservare perpetuamente il potere, se il duca fosse andato ad abitare in un regno così lontano ».

Mentre tutto ciò accadeva, la guerra tra la Francia e la Spagna era diventata imminente, e Luigi XIV aveva bisogno dei soldati che teneva in Piemonte. Ma benchè costretto dalla forza delle cose a richiamarli, egli voleva aver l'aria di fare una concessione, e trovar modo di conservare una certa padronanza sul Ducato, certo non conoscendo bene l'animo di Vittorio Amedeo, che non voleva più sottostare ad alcuna tutela. Quel re dunque consigliò alla Duchessa di far risolvere suo figlio al matrimonio con una principessa d'Orléans, proponendo come compenso il ritiro delle milizie francesi. Il vantaggio offerto era tale da sembrare molto considerevole; e Giovanna Battista, per quanto a malincuore, poichè sapeva che con un tal matrimonio sarebbe completamente finita la sua ingerenza negli affari dello Stato, seppe rassegnarsi ad acconsentirvi.

Poco tempo prima delle nozze, il giovane Duca notificò ai ministri ed ai magistrati che ormai intendeva di assumere personalmente il governo del Ducato, e che a lui solo, in avvenire, dovessero rivolgersi in ogni circostanza. E il 14 marzo 1686, la Duchessa gli rimise l'effettivo potere.

La reggenza di Maria Giovanna Battista durò undici anni, nel corso dei quali, come già dicemmo all'inizio, ella fece anche non poche cose buone, le quali però non la resero mai molto gradita nè ai sudditi nè ai parenti. Soltanto la nuora e le piccole nipoti l'amarono sinceramente, e fra loro ella trascorse tranquilla la vecchiaia.
Morì a 80 anni, nel 1724.