CALCIO


Il gioco del pallone col bracciale:
 quattro secoli di storia.


 di Leone Cungi 

Prima ancora che gli sport dell'Inghilterra vittoriana si diffondessero in Italia, erano i giochi "sferistici"che la facevano da padroni. Su tutti, il più amato e il più praticato era il pallone col bracciale. Per oltre quattro secoli, a partire dal Cinquecento, il bracciale ha tenuto banco fino a toccare nell'Ottocento i vertici massimi del consenso e della popolarità. 
La straordinaria abilità dei giocatori "nell' addomesticare" con un pesante attrezzo irto di punte (il bracciale) una capricciosa sfera di cuoio e scagliarla con precisione e vigore da una parte all'altra di un rettangolo da gioco, in un duello a distanza di botta e risposta, estasiava talmente le folle che annotava messer Antonio Scaino da Salò: "tanto è il piacere dè spettatori, ch'io più volte gli ho veduto in tal modo intenti che nè trar fiato, nè aprir bocca, nè batter occhi si vedevano" .
Tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, con la costruzione di impianti specifici (sferisteri), con la codificazione delle regole e con il propagarsi del professionismo, il pallone assurse al ruolo e all'importanza di sport nazionale acquisendo tutte le caratteristiche dello spettacolo pubblico modernamente inteso.

Numerose insigni testimonianze del tempo ci fanno conoscere il vastissimo seguito che il gioco aveva: Wolfgang Goethe, per esempio, ricordava di aver assistito, a Verona nel 1786, ad una partita in compagnia di altri quattro- cinquemila spettatori ; De Amicis confermava lo stesso numero di presenze nello sferisterio di Bologna verso la fine dell'Ottocento ; alla metà dello stesso secolo , ci informa Pesci, l'arena del pallone fuori della porta a Pinti a Firenze " non bastava a contenere i numerosissimi spettatori, e molti dovevano restar fuori dallo steccato ad aspettare le notizie della partita ed i palloni sbagliati" . Nel capoluogo toscano il richiamo del pallone era così forte che nel 1895, in una città di circa 200.000 abitanti , funzionavano contemporaneamente due sferisteri, quello " Caroti " alla porta alla Croce e delle "Cascine" fuori porta al Prato, frequentati quotidianamente dalla primavera alla fine dell'estate da qualche migliaio di appassionati.

Per un partita di pallone il 21 luglio 1849 le truppe di Giuseppe Garibaldi ,in marcia verso Venezia dopo la caduta della Repubblica Romana, rischiarono di essere sorpresi dagli austriaci a Castiglion Fiorentino (AR) mentre assistevano con attenzione e curiosità alla sfida tra i giocatori locali e quelli di Monte San Savino ( un derby di quel tempo) se non fossero stati avvisati al grido: " Chè state a giocare al pallone mentre fra poco sarà giocato alle palle ?" . Ben altre palle, quelle dei fucili, avrebbero solcato l'aria di quel pomeriggio domenicale se i garibaldini non avessero rimosso in tutta fretta le loro tende .

A favorire questa estasi collettiva, a calamitare l' attenzione di un sempre maggior numero di spettatori , " gente di tutte le età e di tutte le condizioni: impiegati, artisti, professionisti,bottegai, nobili, studenti, faccendieri, giubilati, spiantati" , era, oltre alla bellezza e il fascino del gioco, la bravura dei giocatori, veri artisti, attori eccezionali di un esercizio che sommava in sé " lo spettacolo dell'acrobazia, della scherma, del ballo e del pugilato" .
Non era facile diventare bravi giocatori e per aspirare, poi, a far parte dell'elitè dei campioni era necessario possedere potenza, agilità, destrezza, resistenza, coordinazione e, a detta degli esperti in materia, coraggio, molto coraggio per ribattere di "posta" (al volo) il pallone colpito con forza dall'avversario.

La febbre del pallone colpì soprattutto l'Italia centro settentrionale. La Toscana, non per nulla definita "culla del bracciale", fu una madre generosa che fornì un grosso numero di giocatori di talento, basti pensare che una cittadina come Poggibonsi (SI) contava, ci racconta il De Amicis, ben diciasette professionisti. Altro merito fu quello di aver dettato, agli inizi dell'Ottocento, le nuove regole di gioco che contribuiranno non poco al passaggio del pallone da passatempo e gioco di piazza a quello di vero e proprio spettacolo pubblico: " Fu una rivoluzione quando vennero i toscani a portarci il vestiario bianco, il pallone grosso, il bracciale di due chilogrammi, e le riverenze e l'allegri e una famiglia di nuovi termini dell'arte, e quel che più importa, il nuovo gioco del cordino, più largo e più cavalleresco del vecchio".

Ma anche il Piemonte, l'Emilia Romagna e le Marche furono fertili procreatrici di giocatori di gran "razza" che si elevarono per classe e personalità al di sopra di tutti e guadagnarono nella loro carriera onori , fama e ...somme di denaro considerevoli che farebbero invidia agli stessi fuoriclasse del calcio attuale.

Un esempio su tutti, quello di Carlo Didimi da Treia, il "garzon bennato" cantato dal Leopardi che nel maggio 1830 chiedeva per una sua eventuale esibizione nella vicina Macerata un compenso di "non meno di 600 scudi romani". Contando che all'epoca un maestro elementare dello stato ponticifio intascava dai 25 ai 60 scudi all'anno, è facile valutare l'entità del cachet richiesto .
L'infatuazione per questi mitici "eroi" era d'altronde tanta e tale che si arrivò a collezionarne l'immagine fotografica negli album di famiglia , come fanno i ragazzi d'oggi con le celebri figurine Panini. Di alcuni massimi campioni si vendevano statuette in ceramica raffiguranti il giocatore nella classica divisa bianca su cui facevano bella mostra le medaglie vinte in memorabili sfide.
Sfide che divisero, ci raccontano le cronache, intere città in fazioni parteggianti per questo o quel giocatore. 

Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, a Firenze si scontrarono, come tanti guelfi e ghibelllini, i sostenitori del pisano Maestrelli , giocatore di grande classe, e quelli del pratese Puccianti, atleta potente famoso per le sue "volate" eccezionali. I due campioni, anticipando le lotte tra Banchinisti e Ziottisti di un trentennio dopo, si contesero anche i favori dei bolognesi che per loro "spesso e volentieri trascorsero a forme incivili di contesa, e si maltrattarono non soltanto a parole " .

Ma il culmine della faziosità si riscontrò, sempre nella città felsinea, definita "Università del bracciale", negli anni '80 quando sull' arena si confrontarono due squadre "di pregio insuperabile" composte dai battitori : Augusto Frullani e Antonio Dirani, dalle spalle: Bruno Banchini e Giovanni Ziotti, dai terzini: Giovanni Martini e Giuseppe Banchini. Per i due "fantasisti", Ziotti e Banchini, si creò un acceso dualismo tra i rioni di Borgo San Pietro e del Pratello, tifosi rispettivamente per l'uno e l'altro campione.

La contrapposizione delle due tifoserie continuava oltre l'ambito dello sferisterio: cortei cittadini, scritte sui muri,risse e cori animarono le calde estati bolognesi.
In tutto questo delirio di esaltazione collettiva i due grandi antagonisti (amicissimi fuori dallo sferisterio) da bravi commedianti, stavano al gioco: nei cambi di campo non si salutavano o si ignoravano del tutto quasi volessero evitare di "trascendere ad atti gravi" .
Di ben altro spirito furono animati i giocatori romani delle due squadre facenti capo rispettivamente al Belvedere al Vaticano ed a palazzo Rospigliosi al Quirinale. Le loro disfide terminavano spesso a pugni e a braccialate, quando non finivano in modo peggiore indirizzando i contendenti parte all'ospedale e parte nelle patrie galere. Nel luglio 1739 per un diverbio sul punteggio, dalle parole si passò rapidamente ai fatti e Vincenzo il Mancino pensò bene di aprire le menti agli avversari dando il bracciale sulla testa del Botteghino .

Un altro aspetto caratteristico della grande popolarità del gioco furono i soprannomi e gli pseudonimi affibbiati dai tifosi ai giocatori: "Tremoto", al secolo Giuseppe Barni di Peccioli (PI); " Gran Diavolo", Antonio Malucelli di Bassano del Grappa; "Moschino" Giovanni Bastianello di Firenze; "Galinot", Filippo Gallina di Santo Stefano Belbo (CN); "Diavolone", Angelo Donati di Faenza; "il Veneziano", Angelo Martini; "il Moro", Raspolini; "il Belloni", Gianni Foscaro di Poggibonsi; "el Cin", Lorenzo Amati di Santarcangelo di Romagna; "Omnibus", Gaspari; "il Bimbo", Antonio Agostinelli di Mondolfo (PS); "Rosina",Mantellini; "Napoleone",Lorenzo Nidiaci di Poggibonsi; "Piombo", Francesco Zappi di Faenza; " Ghindò" Giuseppe Filippa di Cravanzana (CN); e l'elenco potrebbe riempire pagine e pagine , tanto fertile era la fantasia popolare e l'affetto per i propri beniamini . 

Nel corso del '900, poi, si prese il vezzo di scrivere nei manifesti, nelle cronache sportive e perfino nei documenti federali solo il nome dei giocatori più noti e famosi: Balilla (Magri), Danilo (Cipriani), Gino (Padova), Gustavo (Tripolini), Franco (Silimbani), ecc.
Ad accrescere l'aureola di popolarità e di leggenda contribuirono gli episodi e gli aneddoti legati agli " assi" del pallone. Tra quelli tramandatici dalle testimonianze orali e dalle cronache del tempo ne ricordiamo alcuni riferiti ai giocatori Ziotti, Frullani e Lotti. 
Giovanni Ziotti, famoso anche per riuscire a ribattere il pallone portando il bracciale dietro la schiena, sbalordiva per la sua precisione e il suo colpo d'occhio. Era capace di colpire in pieno con il pallone un tamburello posto a terra nel campo opposto così come riusciva a prevedere dove sarebbe caduta la sfera collocando sempre un tamburello nel punto esatto d'impatto con il terreno.

Di Augusto Frullani ( Monte San Savino, 1858-1940), "recordman" di volate dalla battuta nelle arene più importanti, si racconta che ormai in là con gli anni, era solito trascorrere il tempo allo sferisterio del suo paese natale, Monte San Savino, assistendo ai palleggi o alle partite dei giovani dilettanti del luogo. Invitato ad effettuare qualche scambio, dichiarò che avrebbe volato tre palloni nel terrazzino ( ad oltre 100 m dalla battuta ed alto circa 20 m da terra) della casa situata a fianco della porta San Giovanni dove l'amico Nofri stava lavorando al suo tavolino da calzolaio. Salito quindi sul trampolino e chiamato il mandarino al lancio, effettuò tre magistrali colpi andando sempre a bersaglio, tra la sorpresa e lo spavento dell'inconsapevole Nofri e l'ammirazione dei presenti .

Lotti Giuseppe (Poggibonsi,1874-1945) oltre ai trionfi conquistati a Firenze, Roma, Pisa,Torino, Arezzo,ecc. fu protagonista di un episodio dal sapore boccaccesco legato alla sua passione per il gentil sesso. Donnaiolo impenitente amava farsi accompagnare, nelle lunghe stagioni agonistiche lontano dalla sua Poggibonsi e dalla famiglia, da donne di facili costumi. Una volta, in un noto e rinomato ristorante di Torino dove era solito pranzare si presentò con la sua bella ed elegante moglie e mentre stava a tavola con lei gli si avvicinò un amico che dandogli una pacca sulla spalla disse: " O Beppe, che puttana di gran classe ti sei scelto questa volta!". Le conseguenze dell'imbarazzante intervento sono facilmente immaginabili. Beppe da allora ebbe sempre al suo fianco un attento angelo custode: la sua dolce metà.

Fra le stelle di prima grandezza ci piace ricordare anche quel Dante Ulivi ( Monte San Savino,1868-1953) che si contraddistinse come giocatore eclettico, polivalente, capace di giocare ad alto livello in tutti i ruoli della squadra, un jolly. Alle doti tecniche univa serietà e professionalità tali da essere considerato un vero "signore" nel variopinto mondo del pallone. Il De Amicis, che ebbe modo vederlo giocare a Torino, ne tessè le lodi nel suo celebre libro: " La correttezza e la grazia della scuola toscana sono incarnate nell'Ulivi, una figura di giovane amoroso di compagnia drammatica, battitore, spalla e terzino di egual valentia, il giocatore più sereno della squadra, il solo che non nomini mai invano il nome di Dio, e simpatico a tutti..." .

Dopo tanta gloria, per il pallone col bracciale giunse lentamente ed inesorabilmente il tramonto. Altri sport, altre mode, altri spettacoli travolsero nel corso del secolo passato l'antico gioco. Relegato ad un ruolo marginale conobbe anche l'onta, soprattutto nei paesi, di vedere usurpato il "sacro" terreno dello sferisterio da neofiti calciatori, nonostante le ire, gli improperi dei giocatori di bracciale . 
In qualche situazione non furono solamente gli sport emergenti, ciclismo e football in particolar modo, a decretarne la fine. A Pescia (PT), per esempio, sarà il progresso sotto la forma dei fili dell'energia elettrica, fatti passare , per una malaugurata idea, proprio lungo il muraglione del gioco, a privare i pesciatini del ginnastico esercizio del pallone alla fine dell'Ottocento . 

Dimenticato, allontanato dai grandi centri che ne avevano fatto la storia, il pallone trovò rifugio e salvezza nella quiete di alcune cittadine delle Marche (Treia e Mondolfo) e della Romagna (Faenza). E qui, grazie all'amore di indomiti appassionati il bracciale continuò a vivere come manifestazione folkloristica o come momento rievocativo.

Dal 1992, con la costituzione di un Comitato Nazionale, con sede a Treia, il bracciale e tornato sulla scena agonistica con la disputa, a distanza di circa trent'anni dall'ultima edizione, del campionato italiano. Campionato che ha assegnato in questo scorcio di tempo i titoli a Faenza (1996), a Mondolfo (1994 - 1999), Monte San Savino (1998-2000), Santarcangelo di Romagna (1992) e Treia (1993-1995- 1997). 

Attualmente fanno parte del Comitato Nazionale del Gioco del Pallone i rappresentati delle città di Faenza, Mondolfo, Monte San Savino, Santarcangelo di Romagna,Treia e della provincia di Ravenna. A loro è affidata la difficile rinascita, il recupero storico-culturale e l'eredità di quattro secoli di storia del "principale e sovrano di tutti gli altri giuochi" .


 di Leone Cungi 

 

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

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