I "miracoli" della tecnologia scatenano le ambizioni degli automobilisti

AGLI INIZI DEL '900
UN SOGNO OSSESSIVO:
RAGGIUNGERE 100 ALL’ORA

di PIETRO BREVI

Il commissario Bochet, delegato dal Prefetto di Parigi per la tutela dell’ordine pubblico, aveva una bella gatta da pelare. Si stava diffondendo sempre più la mania della "vettura automobile", e questo poneva in serio pericolo la pubblica incolumità. Già l’anno precedente nella corsa Parigi-Trouville si erano toccate velocità superiori ai quaranta chilometri all’ora! Per non parlare di analoghe notizie che giungevano dalla vicina Italia, dove un tentativo della municipalità della città di Milano, per sottoporre ad autorizzazione ogni uscita delle automobili dalle rimesse, era stato frustrato dall’opposizione combattiva del neonato "Club Automobilisti Italiani". Ma ora si stava oltrepassando ogni misura: i Club di Francia e Belgio avevano organizzato una corsa di "vetture automobili" da Parigi ad Amsterdam!

Passare le frontiere correndo? Ma dove andiamo a finire? Gli organizzatori avevano il permesso delle autorità di frontiera, ma non di quelle di polizia! E ora, giovedì 7 luglio 1898, si sarebbe finalmente visto chi comandava in Francia: la legge, rappresentata dai suoi legittimi esecutori, o le stravaganze di un po’ di giovanotti annoiati che avrebbero fatto molto meglio ad andare a lavorare? Il Prefetto aveva dato un ordine preciso: bloccare quei matti. Tra l’altro, dalle informazioni in suo possesso, alcune macchine erano in grado di toccare anche i sessanta all’ora. E per essere sicuro che il suo ordine sarebbe stato eseguito, il Prefetto aveva fatto mettere a disposizione del commissario Bochet un contingente di truppa.

7 luglio 1898. Alle sei del mattino il commissario Bochet era già a Champigny, luogo di raduno dei partecipanti alla gara, e da una mezz’ora erano arrivati anche un centinaio di soldati di fanteria. Il bravo funzionario era diviso tra vari sentimenti: era orgoglioso dell’importanza del compito che gli era stato affidato, anche se gli seccava non poco la presenza del capitano di fanteria, tramite il quale dovevano passare tutti gli ordini ai soldati. Ma il responsabile era lui, Bochet, su questo la legge non lasciava dubbi. D’altra parte era anche preoccupato: se quei fanatici avessero opposto resistenza agli ordini? In teoria lui, Bochet, avrebbe potuto dichiarare in arresto tutti quanti... già, ma c’era il particolare seccante che questa smania delle "vetture automobili" colpiva soprattutto la buona società.

Quella, per intenderci, formata da persone che potevano permettersi di spendere per questo divertimento quanto il bravo poliziotto guadagnava in un paio d’anni di lavoro. E il commissario Bochet aveva proprio poca voglia di mettere le mani addosso a personaggi che il giorno dopo avrebbero potuto signorilmente lamentarsi con lo stesso Prefetto che oggi gli aveva messo in mano questa patata bollente... Comunque, la legge è la legge, e gli ordini sono ordini. Mentre il commissario di polizia era afflitto da questi travagli spirituali, un centinaio di soldati brontolavano per l’alzataccia, il capitano chiacchierava coi suoi due tenenti, tanto per darsi un tono, e la popolazione di Parigi iniziava la sua giornata, tutto sommato indifferente a quella messa in scena, a un paio di chilometri di distanza, a Villiers, sessantanove piloti e meccanici si accingevano a partire per la gara programmata. Già, perché l’ordine del Prefetto era. noto già da giorni, e così gli automobilisti, ben decisi a fare la loro corsa, ma non desiderando avere grane, avevano cambiato segretamente il luogo di raduno. La scelta di Villiers non era casuale, trovandosi questo sobborgo fuori della competenza della Prefettura di polizia. E i corridori partirono, ben protetti dagli occhialoni e dal bavaglio, necessari su strade in cui il polverone sarebbe ben presto diventato insopportabile. Alle nove il commissario iniziò a maturare il sospetto di essere stato fatto fesso. Alle dieci questo sospetto era un certezza.

A mezzogiorno il Prefetto e il Comandante militare di zona concordavano sul fatto che meno si fosse parlato di questa figuraccia, meglio sarebbe stato per tutti.
La corsa si svolse regolarmente, per fortuna senza incidenti di rilievo alle persone, e fu vinta da Charron su Panhard, alla media di 45,422 km/h ma con punte in qualche rettifilo di 63 km/h. Al Prefetto restò, se non altro, la soddisfazione di constatare che i suoi informatori avevano lavorato bene: in effetti esistevano vetture automobili che ormai viaggiavano oltre i sessanta all’ora! Voleva dire che in un minuto queste macchine chiassose e pericolose percorrevano un chilometro. Un chilometro ogni minuto! Dove si andava a finire di questo passo? Nessuna strada della Francia sarebbe stata mai più sicura, con mostri del genere in circolazione. Non gettiamo la croce addosso a due onesti funzionari di polizia: facevano solo il loro dovere, né faceva parte dei loro doveri capire che le grandi passioni non si frenano in alcun modo, tanto meno con la forza pubblica.
E la passione per la "vettura automobile" andava dilagando, anche se restava ancora, come vedevamo sopra, una passione riservata a quella ristretta schiera di personaggi decisamente non afflitti da problemi di reddito. Ma era una passione che ben si innescava in quel clima di fine secolo, in cui tutti quanti vivevano nella convinzione che il "progresso" fosse qualcosa di inarrestabile. Giulio Verne aveva già fatto sognare viaggi fantastici in cielo, in terra, addirittura sotto il mare. Ma ora la "vettura automobile" incominciava a rendere i sogni concreti.

Dieci giorni dopo la beffa di Villiers (che rese popolare l’automobile anche tra le classi più umili, che mai se la sarebbero potuta permettere, perché prendere in giro l’autorità rende sempre popolari) il Club Automobilisti Italiani organizzava la corsa Torino-Asti-Alessandria e ritorno. Grande successo di pubblico e ampie cronache sui giornali. I tempi erano ormai maturi per inseguire un sogno: la velocità, tanto più che alcuni "esperti" avevano dissertato sul fatto che ci si stava avvicinando alla "velocità limite" oltre la quale la struttura di qualsiasi vettura automobile avrebbe ceduto rovinosamente. Chi indicava questa "velocità limite nei 70 km/h, chi negli 85, chi si spingeva a dire che "una velocità di 100 km/h era pura fantasia, ma fantasia malata...". Suggestione dei numeri; probabilmente tutti i soloni sparavano il loro giudizio nella tranquilla certezza che, comunque, certe velocità fossero irraggiungibili e che quindi sarebbe sempre mancata la prova dei fatti...
Inoltre una nuova polemica appassionava gli automobilisti, che si erano ormai divisi in tre schiere. i "vaporisti", i "petrolieri" e gli "elettricisti". I primi difendevano la superiorità del buon vecchio motore a vapore, che non pativa tutti i guasti che così frequentemente affliggevano i neonati motori a scoppio. I "petrolieri" erano ovviamente i vessilliferi del progresso: il motore a scoppio, dicevano, dava tanti problemi, ma la scienza e la tecnica, madri del progresso, avrebbero presto superato tutti questi problemi.

Già, ma se vogliamo essere difensori del progresso (cosa allora molto di moda), dobbiamo sviluppare il sano e silenzioso motore elettrico: questa era la tesi degli "elettricisti", forti anche del fatto che era opinione corrente che il Novecento sarebbe stato il "secolo dell’elettricità", che avrebbe risolto tutto.
Non era ben chiaro come, ma sostenere il contrario voleva dire essere dei retrogradi. In tutta questa confusione, tra discussioni sulla "velocità limite" e sul tipo migliore di motore, il giornale "La France Automobile" decise di tagliare la testa al toro: il parco di Achères, nei dintorni di Parigi, presentava un rettifilo di oltre due chilometri. Era l’ideale per la gara del "chilometro lanciato". Dal 17 gennaio 1899, col patrocinio del giornale, potevano esibirsi coloro che ritenevano di avere vetture automobili idonee all’alta velocità. Questa volta la cosa era organizzata bene, alla luce del sole, e i gendarmi e i soldati erano presenti per coadiuvare gli organizzatori, muniti di regolare permesso della Prefettura di Polizia. La storia non ci dice se il Prefetto avesse ancora comandato in servizio per quella bisogna il commissario Bochet. Le cronache invece ci dicono che i militari avevano un bel daffare a contenere la folla, che non era più formata solo dai pochi ricchi che potevano permettersi questi costosi divertimenti, ma anche da centinaia di "tifosi" che affidavano ai temerari piloti le loro speranze e i loro sogni.

Dopo qualche esibizione senza storia di vetturette, fu subito chiaro che la sfida era tra due personaggi di spicco: il francese De Chasseloup-Laubat (che già due anni prima si era messo in luce vincendo il circuito di Nizza alla media di 35 km/h), che guidava una vettura elettrica Jeantaud di 40 CV, e il belga Camille Jenatzy, che gareggiava con una vettura di sua costruzione, anch’essa elettrica, cui aveva dato un nome significativo: "Jamais Contente". La vettura del corridore belga aveva una forma decisamente insolita: sembrava un grosso siluro a due punte montato su ruote. Anche il materiale della carrozzeria era nuovo, si chiamava "partinium", era una speciale e leggerissima lega di alluminio. Le ruote erano di tipo tradizionale, ma i pneumatici erano stati studiati appositamente dalla ditta Michelin. 17 gennaio 1899: Jenatzy avvia il suo strano veicolo: un ronzio dolce, quasi inavvertibile, e una partenza di scatto, che fa vacillare non poco il pilota. Infatti, particolare curioso, in una vettura di forma così aerodinamica, il pilota sedeva con quasi tutto il busto fuori. Dopo cinquecento metri di "lancio" iniziava il controllo del tempo necessario per percorrere un chilometro. Il siluro di Jenatzy ha concluso la sua prova e dopo qualche minuto un signore con l’aria molto seria, in cilindro e cappotto col collo di pelo, comunica i calcoli ufficiali dei cronometristi: tempo di percorrenza 54 secondi, pari a una velocità di 66,5 km/h.

C’è una certa delusione tra la folla, che si aspettava qualcosa di più emozionante. Le velocità attorno ai sessanta all’ora non erano così straordinarie. C’era bisogno di costruire quello strano proiettile per fare quello che, in fondo, avevano già fatto le Panhard nella gara che l’anno prima era costata un attacco di ulcera al commissario Bochet? Tra tanti insoddisfatti, un signore si lisciava i baffi con soddisfazione: ovviamente, era de Chasseloup-Laubat; pressato dai giornalisti, si limitò a dare appuntamento a tutti di lì a cinque giorni, aggiungendo "non basta travestirsi da proiettile, per avere la velocità di una cannonata... ". Un altro signore era soddisfatto; era quello stesso che poco prima aveva comunicato i risultati della prova, era il signor Mauran, proprietario e direttore del giornale "La France Automobile". Tutto quello che accadeva si traduceva, inevitabilmente, in aumenti di tirature per il suo giornale e per le sue tasche. De Chasseloup-Laubat fu di parola: il 22 di quello stesso mese toccò i 70 km/h, mentre Jenatzy si fermava dopo cento metri per la rottura di un giunto delle ruote anteriori. Ormai il francese era lanciato e il 27 gennaio superò un’altra soglia, quella degli ottanta all’ora, facendo registrare precisamente la velocità di 80,5 km/h. Jenatzy sembrava afflitto da problemi irresolubili: la sua Jamais Contente aveva noie meccaniche, che sembravano dare ragione ai sostenitori della "velocità limite". Già, ma allora come faceva De Chasseloup-Laubat a toccare certe velocità?

C’era di che deliziare il pubblico con articoli in cui si cercava di scavare nel segreto: come faceva il "mago della velocità" a raggiungere simili traguardi? E cosa si provava viaggiando a quelle velocità? De Chasseloup-Laubat era avaro di interviste, non solo perché questo aiutava ad alimentare il mito, ma anche perché egli stesso non avrebbe saputo dire con precisione in che modo ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta, e questo era già una bella cosa, tanto più che il testardo belga sembrava non essere in grado di risolvere le noie meccaniche della sua vettura. Pressato però dal giornale il campione francese non potè esimersi dal fare un’altra pubblica prova il 20 marzo di quell’anno, 1899. E fece la prova in beata solitudine, perché Camille Jenatzy nel frattempo si era riportato a casa il suo "siluro", dichiarando che doveva studiarselo con calma.
E quel 20 marzo una giuria stupefatta registrò una velocità incredibile: 93,750 km/h! Dal Belgio arrivò un telegramma di felicitazioni da parte di Camille Jenatzy, che un mese dopo spedì un altro telegramma, questa volta al direttore del giornale "La France Automobile". Voleva il direttore organizzare un’altra gara? Lui, Jenatzy, era pronto, aveva ormai risolto tutti i problemi che si erano presentati sulla sua Jamais Contente, che di sicuro avrebbe superato la soglia dei 100 all’ora.

Cento all’ora? Il Prefetto ricominciò ad entrare in fibrillazione: già quella storia dell’alta velocità andava avanti da un po’ troppo tempo. I giornali si scatenarono, i sostenitori delle varie teorie ebbero di nuovo spazio per i loro sproloqui. Cento all’ora? Teorico, teorico, e poi cosa voleva questo belga, non l’aveva capito che la tecnologia francese era superiore? Ma sì, facciamolo gareggiare, si fermerà a metà percorso... 1° maggio 1899: la folla era quella delle grandi occasioni. Il solito ronzio dolce, la solita partenza di scatto, ma questa volta la Jamais Contente non si blocca affatto, anzi, fatica a fermarsi alla fine del rettifilo, tanto era lo slancio. E il signor Mauran ripete tre volte al megafono il responso della giuria: chilometro percorso in 34 secondi netti, velocità 105,88 km/h. Per la prima volta nella storia umana era superato il traguardo dei cento all’ora! Gioia, festeggiamenti, foto celebrative, e grande tripudio per i sostenitori dell’auto elettrica, che per prima ha superato una delle soglie che sembravano assolutamente insuperabili. Gli industriali intanto, sapendo fare i conti, continuavano ad investire in auto col motore a scoppio, ben consci del fatto che è molto diverso fare un chilometro lanciato su strada piana, o doverne percorrere cento sulle dissestate strade dell’epoca. Ma intanto Jenatzy poteva godere il suo attimo di gloria, peraltro effimera come tutte le umane glorie: solo dodici anni dopo, nel 1911, la vettura Fiat 300 cv (un "mostro" con motore a scoppio di 28.338 cc) già toccava la velocità di 248 km/h. Erano ormai morti e sepolti i tempi dell’automobilismo eroico e solitario, l’auto elettrica andava in soffitta, la grande industria faceva cose impensabili per chi, armato del suo coraggio e della sua tenacia, si vantava di essere, come il suo mezzo, "mai contento".

di PIETRO BREVI

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

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