INIZIA IL XX SECOLO E IL MONDO
VA NEL PALLNE
( poi venne  il Fascismo )

di LIONELLO BIANCHI

II `900 avviato ormai alla sua conclusione é dominato dal gioco del calcio. E' proprio il pallone che punteggia e attraversa le vicende del XX secolo in Europa, in Sudamerica, arrivando in Africa e fino all'Estremo Oriente conquistando gli Stati Uniti che allestiscono addirittura un'edizione dei Mondiali nel `94. Non é però che con questo gli yankee vengano trascinati al gioco del pallone, il loro "soccer": per i nordamericani gli sport prediletti e più amati sono il baseball, I'hockey ghiaccio e il basket.

Le origini del gioco del pallone si fanno risalire al tardo Medioevo. A questo proposito si citano í tornei di calcio fiorentino che avevano luogo all'ombra del Palazzo della Signoria. In effetti, il gioco della palla divertiva anche gli antichi: se ne hanno testimonianza persino in Omero quando nell'Odissea descrive Nausicaa impegnata con le sue compagne in una singolare partita sulla spiaggia. L'abbiamo riferito nelle precedenti puntate.
Anche in India ci assicurano che quello della palla era un gioco abbastanza diffuso. Ad ogni modo il gioco del pallone come sport moderno nasce in Inghilterra ed é una derivazione, si dice, del rugby, altro sport esportato dagli inglesi in Africa e nei territori che controllavano, prima come colonie e poi come dominions del Commonwealth. II pallone con i piedi, dall'inglese football, verso la metà del XIX secolo era praticato da nobili e studenti. L'inventore, colui che dettò le regole, é stato difatti un lord.

In Europa attecchì soprattutto nei cosiddetti paesi latini, Spagna e Italia, ma attirò pure paesi di diversa estrazione e tradizione come l'Austria e l'Ungheria per cominciare. Proprio da questi due paesi che hanno espresso grandi campioni prese il nome quello che viene definito il calcio danubiano, un modulo differente da quello inglese fatto di palle lunghe e pedalare, con cross alti per la testa deglí attaccanti. Gli inglesi firmarono il cosiddetto sistema, gli austriaci il famoso WM, dallo schieramento delle squadre in campo.

In Italia giunse sul finire dell'Ottocento, dopo la proclamata Unità del 1861 e soprattutto con Roma capitale nel 1970. Si può dire che la breccia di Porta Pia apri la strada al football, di origine inglese e importato da noi proprio da inglesi residenti o che comunque avevano interessi di lavoro nel Bel Paese. La data di nascita della Federazione Italiana Gioco Calcio (FIGC) é 15 marzo 1898, a Torino., presidente Enrico D'Ovidio.

In un locale nei pressi del porto a Genova venne fondata la prima società di calcio, il Genoa Cricket & Football Club. I fondatori furono, inutile dirlo, alcuni inglesi che conquistarono al gioco un gruppetto di genovesi: correva l'anno 1893. Pian piano sorsero altri club in giro per l'Italia, a cominciare da alcune città del Piemonte: Vercelli, Novara, Casale e Alessandria, il famoso quadrilatero del pallone.

Nacque il campionato all'insegna delle rivalità tra comuni, un'antica tradizione questa che risale al Medio Evo. Ora, al posto delle guerre, si battagliava su un campo erboso o spelacchiato con un pallone, a suon di gol. Il campanilismo é sempre stato, fin dall'inizio della storia dei campionati, il pepe del gioco.

A Milano e Torino nel giro di pochi anni tra il millenovecento e il millenovecentootto sono nate Milan, Juventus, Torino e Internazionale, le quattro società che detteranno legge soprattutto dopo la prima Grande Guerra e poi negli ultimi anni di questo secolo.

Il primo scudetto venne vinto dal Genoa ( 1898). Una volta avviata la storia dei campionato si é snocciolata anno dopo anno, con qualche interruzione durante la guerra del 15-18 e la seconda guerra mondiale. Con un' amichevole Italia-Francia 6-2 il 15 maggio 1910 all'Arena di Milano si inaugurò la storia della nazionale. Questa la prima formazione dell'Italia: De Símone, Milanese, Varisco, Cali, Treré, Fossati, Capello D., Debernardi, Rizzi, Cevenini I, Lana, Boiocchi. Commissario Tecnico e allenatore Umberto Meazza, nemmeno lontano parente di un altro Meazza di nome Giuseppe soprannominato Balilla, genio pedatorio che furoreggiò negli Anni Trenta.

FASCI E SPORT - Il calcio si divulgò in Europa e in Italia, dove i campionati erano sempre più incandescenti, catalizzando l'interesse di migliaia e migliaia di persone, coinvolte nel tifo campanilistico. Passata la Prima Grande Guerra, superati gli anni tormentati e anche turbolenti immediatamente successivi, dello sport e soprattutto del calcio non poteva non impadronirsi Mussolini dopo la presa del potere e l'instaurazione, non senza spargimento di sangue e qualche nefasto delitto (caso Matteotti).

Non é questa la sede più idonea per soffermarsi in maniera dettagliata e analitica sulI'atteggiamento e le posizioni ufficiali del fascismo nei confronti del fenomeno sportivo. E' utile comunque tentare di definire due componenti di fondo della politica di Mussolini in materia.

 

Nell'ancora breve storia dello stato italiano è addirittura insolito il vivo desiderio in tutti i personaggi del regime di avvicinare le masse allo sport. Ciò accade a ogni livello. Si costruiscono impianti sportivi, tanto per cominciare, alcuni dei quali sopravvissuti fino ai giorni nostri. Ma quel che conta si inquadrano í giovanissimi tra i nove e i quattordici anni, organizzandoli nei nuclei di Balilla, si continua con I'attivitá ginnica degli studenti delle scuole superiori e con gli accordi tra i Gruppi Universitari Fascisti (Guf) e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Non basta: le attenzioni del regime non riguardano solo i giovani; coinvolgono anche operai, contadini e impiegati. A beneficio del popolo e in specie della classe operaia venne istituita allora l'Opera Nazionale Dopolavoro, che colmava una lacuna abbastanza grave, mentre si lasciava largo spazio alla pratica sportiva.

Del resto Mussolini non mancò di farsi ritrarre, a scopi propagandistici, in atteggiamenti atletici, mentre correva per i viali di Roma o a Villa Borghese o nuotava davanti al litorale di Ostia, il lido della Capitale. Le cronache del tempo riferiscono delle corse del Duce in motocicletta per le strade del Lazio o delle sue cavalcate. E il ministro Starace distribuiva e impartiva istruzioni per una pratica sportiva, anche tra gli adulti.

Naturalmente, il fascismo affrontò, per la prima volta dall'Unità d'Italia, il problema della preparazione di un corpo insegnante di educazione fisica. Infatti, venne istituita al Foro Italico la Scuola Superiore di Magistero per l'educazione ginnico-sportiva. Mussolini stesso incoraggiò e sostenne l'impegno degli atleti italiani nelle competizioni internazionali, in occasione delle Olimpiadi (1936) arrivarono anche prestigiosi risultati. La nazionale di calcio si distinse e in quegli anni si aggiudicò due titoli mondiali (1934 e 1938). Erano gli anni ruggenti del calcio italiano. La nazionale guidata dall'incomparabile Vittorio Pozzo, che, prima di ogni gara, radunava i giocatori e tutti insieme cantavano l'inno del Piave. Era l'epoca dei Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bettolini, Guaita, e Meazza, Schiavi, Ferrari, Orsi, tutti entrati nella leggenda. Il regime, proprio in quegli anni, allo scopo di rinforzare 'la squadra azzurra, concesse di allineare anche i cosiddetti oriundi, ovvero gli italo-americani (in prevalenza italo-argentini) che giocavano nel nostro campionato.

Insomma, il fascismo si adoperò fino al suo tramonto, anche negli anni terribili della guerra, per promuovere e consolidare I'attivitá sportiva, deliberando nel novembre del 1941 di equiparare l'Educazione Fisica a tutte le altre materie scolastiche. Ad ogni buon conto, come sosteneva il compianto e benemerito Vittorio Pozzo, il Commissario Tecnico di due Mondiali, il regime mussoliniano "anziché seminare con serietà l'amore dello sport, esaltò i valori sportivi". Così, il dopolavorista o il giovane faceva attività ginnica, ma, appena smessa la tuta, correva allo stadio o ai bordi delle strade o delle piste per assistere a manifestazioni agonistiche trasformandosi in tifoso.

In effetti, in quel periodo, lo sport italiano sembra disporre di un elevato numero di campioni nelle varie discipline e specialità. Campioni che monopolizzavano l'attenzione e l'interesse generale con le loro vittorie e i loro record, conseguiti in ogni parte del mondo. Non c'era ancora la tv e la radio era ancora a livello pionieristico, ma i giornali sportivi (alla Gazzetta dello Sport, il primo sorto sul finire del XIX secolo si aggiunsero il Littoriale poi Corriere dello Sport e Stadio, quindi Tuttosport del leggendario Carlin e di Renato Casalbore) provvidero ad ammantare di un mitico alone gli eroi nazionali paragonandoli spesso a dei dell'Olimpo facendo in modo che la gente li guardasse più con vivace passione e persino con fanatismo che con ammirazione.

Sognando di inseguire le gesta di Lanzi o BeccaIi, in atletica, di Meazza il Balilla del gol, o Silvio Piola (morto pochi mesi fa, ormai novantenne), Guerra o Binda, Nuvolarí o Tanzi, Bartali o Primo Carnera, la gente si dedicava allo sport, ma quel che più aveva valore era che in questo modo non si occupava di politica, lasciando che il regime padrone del campo spegnesse ogni parvenza di democrazia. In proposito vale la pena di citare alcune dichiarazioni di Lando Ferretti, l'uomo che fu scelto da Mussolini neI dicembre 1925 a presiedere il Coni: "Politico, e solo politico, il Duce vide anche nello sport, e apprezzò il lato politico. Per essere più precisi, la funzione politico-sociale. All'interno lo sport indubbiamente era, ed é nemico delle lotte di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente da vari strati sociali, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la medesima meta. Inoltre costituisce con i suoi spettacoli il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici".

GLI EVENTI - Con la mitizzazione degli atleti-campioni, ecco che nascono le grandi manifestazioni nazionali, prima in ordine di tempo la celeberrima Mille Miglia che tra I 'altro accontentava sia i futuristi -"un'automobile ruggente é più bella della Nike di Samotracia" (una scultura greca di incredibile bellezza e armonia: N.d.R) come scrisse il 20 febbraio 1909 il quotidiano francese Le Figaro - sia l'industria che a quei tempi "vestiva alla marinara" come recita un titolo di un libro di Susanna Agnelli.

Ma c'é di più. Quando un atleta italiano andava fuori dai confini della patria a gareggiare non era altro che un ambasciatore straordinario del Regno. II 28 ottobre 1930, parlando davanti ai ruderi del Circo Massimo, in occasione di un raduno di atleti di tutta Italia, Mussolini ebbe a proclamare, con il solito tono enfatico: "Ricordatevi che quando combattete oltre i confini, ai vostri muscoli e soprattutto al vostro cervello, é affidato in quel momento un sacro compito, l'onore e il prestigio della Nazione".

Tipico di tale mentalità é quanto accadde a Los Angeles, alle Olimpiadi del 1932, dove gli azzurri conquistarono dodici medaglie d'oro, dieci d'argento e undici di bronzo, a tal punto che I'Italia nella classifica per nazioni si piazzò subito dietro gli Stati Uniti. Per comprendere a fondo quale grande significato ebbero queste Olimpiadi per il regime, sembra giusto scorrere i commenti dei giornali. II 31 luglio 1932 sul Corriere della Sera apparve un epico articolo di Emilio De Martino, scrittore poeta delle imprese sportive, a commento della giornata inaugurale: "... passano gli atleti di tutte le razze e di tutti i costumi.... compaiono finalmente gli atleti d'Italia, preceduti da Ugo Frigerio, tre volte campione olimpico (1920 oro, 1924 oro, 1932 bronzo), che regge il tricolore. Gli italiani sono splendenti nella loro divisa azzurra, sulla quale spiccano le insegne del Littorio e lo scudo sabaudo....". E alla fine dei Giochi, il 12 agosto, sempre sul Corriere della Sera si leggeva questo titolo: "Il fulgido volo dello sport nazionale da Amsterdam a Los Angeles. Secondi nel mondo dopo gli Stati Uniti gli atleti azzurri lasciano la California". E sull'articolo di commento di Adolfo Cotronei c'era il titolo "Gli atleti di Mussolini".

Capisaldi ideologici dell'atteggiamento tanto retoricamente favorevole alla disciplina sportiva furono: una sintesi di superassismo niciano e impeti irrazionali, I'esaltazione indiscriminata della forza e del coraggio, l'imperativo a imitare il Duce, uomo politico e al tempo stesso atleta capace egli stesso di praticare qualsiasi sport, I'educazione fisica in senso para e pre-militare, infine la superiorità della "razza italiana".

METAMORFOSI - Crollato il fascismo e conclusa la seconda guerra mondiale, dopo gli anni bui della Repubblica di Salò, la Resistenza e la Liberazione, si pose per I'Italia martoriata e distrutta in ogni sua istituzione il gravissimo problema della ricostruzione. Tutti i dissidi che già esistevano tra i partiti antifascisti riaffacciatisi sulla scena politica (seppure in forma ufficiosa ancor prima dell'arresto e dell'uccisione di Mussolini) e che erano stati accantonati, in nome di un generico desiderio di liberazione nazionale, tornarono prepotentemente alla ribalta dopo il 25 aprile 1945. Tra mille contrasti e contraddizioni, attraversati dal referendum nazionale che istituì la Repubblica (2 giugno 1946), si arrivò alla Costituzione., che in maniera clamorosa non scrisse nemmeno un rigo sullo sport. Forse l'unico articolo in cui la voce sport potrebbe rientrare è il 117 laddove si parla della competenza delle Regioni in cui si dice tra I'altro: "La regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con I'interesse nazionale e con quelle di altre regioni... altre materie indicate da leggi costituzionali", dove tra queste "altre materie" dovrà trovare spazio anche lo sport.

A fronte di necessità pressanti (miseria, disoccupazione, scarsa diffusione della cultura, profondo dislivello tra nord e sud, grande divario tra classi sociali, ecc.), é chiaro che il fenomeno sportivo passò in sottordine se non fu quasi dimenticato. Ad ogni buon conto né l'aggrovigliarsi di questioni vitali per il futuro dello stato né l'ostracismo costituzionale riuscirono a impedire un rapido sviluppo dello sport, affidato a iniziative diverse, ma incapace di togliersi il marchio del regime: il che non consenti di svolgere un'attività sportiva che fosse veramente servizio sociale. Metamorfosi in ogni settore, grandi cambiamenti, ma non nello sport, dunque.

Ci volle il fatto clamoroso della vittoria di Gino Bartali al Tour del 1948 per risvegliare la passione del paese per lo sport, e quella vittoria come si é più volte sostenuto salvò I'Italia da una guerra civile che sembrava imminente specie dopo l'attentato di Antonio Pallante a Palmiro Togliatti. Anche il campionato di calcio dopo la parentesi bellica (durante la quale si giocarono due tornei, uno in Alta Italia e un altro nel resto del paese) riaccese l'interesse: gli anni dell'immediato secondo dopo guerra sono quelli del grande Torino di Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola, tutti tragicamente scomparsi il 4 maggio 1949 quando I'aereo che li riportava da una tournée in Portogallo precipitò a Superga.

Più che la pratica dello sport, anche per la penuria di impianti, fini per prevalere l'aspetto agonistico e spettacolare. Insomma, gli italiani diventarono sempre più un popolo di sportivi seduti, tifosi di atleti e di squadre, nazionali e di club. Nei primi Anni Sessanta, però, si assiste a una profonda evoluzione sociale ne! Paese. E in coincidenza di ciò si assisté a un imponente processo di sviluppo anche nel campo scolastico; con l'istituzione della media obbligatoria si incrementò in questo periodo la popolazione scolastica in ogni tipo di scuola superiore, migliorarono le condizioni di vita. Accanto a questi mutamenti di ordine economico e sociale, vengono a trovarsi quei fenomeni che la sociologia angloamericana aveva già messo in luce molto tempo prima: il consumismo, l'opera di persuasori occulti, I'industria culturale.

In conseguenza di tutto ciò, con il diffondersi dei media e l'affermarsi della tv, lo sport non poté che risentire di questi condizionamenti. il consumismo peraltro contribuì non poco a far crescere il fenomeno del divismo. La società, che dopo varie trasformazioni, ha puntato sull'urbanizzazione, sulla tecnologia, sui mass-medía, ha caricato di questi valori e delle tensioni a essi derivati, anche tutto quanto riguarda la sfera sportiva, che ora sembra interessare tutti gli strati della popolazione. Prevale sempre di più lo sport spettacolo, si afferma il professionismo che sacrifica l'attività dilettantistica con la degenerazione del divismo e dello sport industria, con l'esplosione di episodi drammatici di violenza e di teppismo negli stadi.

Proteso alla ricerca di sempre migliori risultati, lo sport agonistico in chiave professionistica comporta l'adozione di nuove e più raffinate tecniche di allenamento, tese al raggiungimento del risultato: e per questo fine assoluto si tende a usare qualsiasi mezzo, da qui il diffondersi anche di sostanze stimolanti, dopanti al limite del lecito. In tutto il resto del mondo, lo sport progredisce ma come attività culturale, di massa. Sono diverse l'educazione e la mentalità. Ad ogni buon conto, dilaga dovunque il professionismo, che giunge a intaccare anche i Giochi olimpici.

 

di LIONELLO BIANCHI

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

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