CALCIO - Olanda 1974:


nasce il "calcio totale"

Nella Storia, il destino dei Grandi con la G maiuscola è innanzitutto quello di rappresentare uno spartiacque. Ovvero, di essere capaci di creare un 'prima' e un 'dopo'. Nel gioco del calcio, l'epoca moderna ha un ben preciso spartiacque, una squadra che marca nettamente la distinzione tra due periodi profondamente diversi dal punto di vista tattico. Questa squadra è la nazionale olandese di inizio anni Settanta, quella che nell'iconografia classica viene ormai definita inventrice del 'calcio totale'. Un termine che da quel momento venne usato spesso a sproposito, ingenerando specialmente negli anni immediatamente successivi una notevole confusione in chi non aveva capito quali fossero le origini del fenomeno e quali ne sarebbero stati gli sviluppi conseguenti.

Il momento in cui, per convenzione, si fa nascere il 'calcio totale' è il Mondiale del 1974, disputato in Germania ovest. Ciò perché è in questa occasione che per la prima volta si manifesta di fronte al grande pubblico la grandezza dell'Olanda, dei suoi interpreti e della sua filosofia. Una filosofia di vita prima ancora che una filosofia di gioco. Come tutti gli avvenimenti destinati a segnare un'epoca, anche la nascita dell'Olanda del '74 è il frutto della sedimentazione di parecchi elementi, un composto esplosivo nato non per caso ma risultante di un lungo periodo di crescita, partito una ventina d'anni prima.

DILETTANTISMO. In Olanda, il calcio rimane uno sport strutturalmente dilettantistico sino alla metà degli anni Cinquanta. Il campionato nazionale, tanto per fare un esempio, non ha una struttura professionale come ormai accade da sessant'anni in Gran Bretagna, o da trenta e più anni in Italia. Le squadre sono, per legge, composte da giocatori dilettanti veri e propri, i club non sono altro che associazioni più o meno danarose e/o organizzate. Certo, esistono già i potentati, espressioni di città o lobby di vario tipo (l'Ajax di Amsterdam, fondata nel 1900, è ad esempio la squadra della comunità ebraica della capitale; il Feyenoord di Rotterdam fa capo, bene o male, ai ricchi gestori del porto, tra i primi al mondo in quanto a movimentazione e passaggio di merci), ma il 95 per cento delle società vive di volontariato e di entusiasmo. Tanto che non esiste un club leader: il campionato nazionale viene disputato da tutte le squadre esistenti, suddivise in gironi con criteri regionali e successive finali tra le migliori di ogni zona. Logico che tale frazionamento porti a continui ribaltamenti di valori. La nazionale olandese è sì una buona squadretta, ma nelle competizioni internazionali non va mai oltre una decorosa presenza.

Nel 1954 viene deciso di creare una struttura professionistica anche nello sport, con la nascita di nuove società (gran parte di esse è la fusione di due, tre, quattro associazioni esistenti) e l'introduzione di un campionato a livelli gerarchici (Prima e seconda divisione, per intenderci, come in Italia). A salvaguardia della qualità vengono stabiliti alcuni criteri ancor oggi validi: un massimo di 36 squadre professionistiche in due serie, possibilità di entrata di nuovi club dalle serie inferiori - ovvero dal dilettantismo al professionismo - solo in presenza di determinati requisiti economici, logistici, di tradizione. Un numero chiuso, in pratica, che deve rappresentare la 'crema' del calcio nazionale e garantirne il livello. Dopo un primo periodo di assestamento (i fallimenti delle nuove società sono all'ordine del giorno a causa di strutture non all'altezza) questo sistema comincia a dare i frutti sperati.

RIVOLUZIONE. I valori, di competenze societarie e sul piano tecnico, che in precedenza erano frazionati in trenta-quaranta club, ora si ritrovano condensati in non più di sei-sette società di buon livello. Naturale che, nel giro di una decina d'anni, gli olandesi comincino a farsi valere anche sul piano internazionale. Nel 1969 l'Ajax di Amsterdam raggiunge, prima squadra del Paese a riuscirci, la finale della Coppa dei Campioni. Nella finale contro il Milan di Rivera è una disfatta: i rossoneri, nettamente più esperti di competizioni di questo tipo, quasi passeggiano, vincendo per 4-1. Ma già si capisce che qualcosa sta cambiando. Sulla scena appare un ragazzo poco più che ventenne, secco come un arbusto ma intelligente come pochi, che si muove in ogni angolo del campo con la maturità di un veterano.

Si chiama Johan Cruijff, ha la mania di indossare la maglia numero 14 (il suo portafortuna) e i suoi capelli lunghi iniziano a fare tendenza anche sui campi da calcio. La squadra è composta da giocatori ancora sconosciuti al grande pubblico, ma ciò che colpisce è il modo di affrontare la partita degli undici uomini in campo: la tradizionale rigidità dei ruoli viene scardinata dagli olandesi, che utilizzano in maniera completamente nuova i metri quadrati del terreno di gioco. Se fino a quel momento i numeri di maglia potevano identificare quasi senza ombra di errore il ruolo e la funzione di un giocatore (il numero due è il terzino destro, il numero cinque lo stopper, il numero sette l'ala destra e così via), ora tutto cambia. Il loro concetto di calcio, veramente rivoluzionario per l'epoca, rovescia le concezioni in vigore da sempre: non è più il singolo calciatore a rappresentare l'elemento centrale della manovra, bensì la zona del campo.
Ovvero, sull'ala destra - tanto per fare un esempio - non deve per forza giocare sempre lo stesso calciatore, ma chiunque può trasformarsi in ala destra all'interno di un meccanismo di movimenti perfettamente sincronizzato e dunque trovarsi a svolgere quella mansione. In questa maniera l'avversario è completamente disorientato, avendo di fronte, a ogni azione, un avversario diverso. Lo schieramento difensivo, in questo modo, viene evidentemente anch'esso disposto a zona e non con marcature dirette uomo contro uomo: un sistema che in Brasile è in vigore da sempre ma in Europa viene applicato quasi da nessuno.

Il secondo anello della catena è l'uso del pressing, ovvero dell'attacco diretto sul portatore di palla avversario allo scopo di bloccare l'azione. Una figura tattica che consente alla squadra di accorciare la zona di campo nella quale si sta svolgendo la manovra, aumentando il numero di giocatori presenti nella stessa e quindi mettendo in enorme difficoltà la costruzione del gioco da parte dell'opponente. Il numero di palloni strappati all'avversario cresce così in misura esponenziale, e nel calcio il possesso di palla è naturalmente il primo ingrediente per poter gestire il gioco.

Infine, gli olandesi letteralmente inventano una visione 'laterale' di una regola del calcio, esasperandola a proprio vantaggio: è nata la tattica del fuorigioco, che oggi sembra una banalità, ma che negli anni Settanta fa impazzire qualsiasi squadra. In pratica, la difesa che si schiera a zona è prontissima a scattare in avanti, mettendo in fuorigioco gli attaccanti avversi, ogni qualvolta il pallone si avvicina alla trequarti. Sono memorabili alcune immagini in cui cinque-sei olandesi in maglia arancione scattano contemporaneamente in avanti, tutti contro il giocatore in possesso del pallone, che quasi si spaventa di tale 'assalto' e praticamente rinuncia all'azione non sapendo che pesci pigliare. Dunque, una serie di incredibili novità, che messe tutte insieme generano un cocktail esplosivo. Che però non potrebbe essere tale se la qualità dei singoli chiamati a metterlo in pratica non fosse di assoluto livello.

VITTORIE. Chi è ancorato al tradizionalismo e non avverte i segnali che stanno arrivando dal futuro, preconizza vita breve al fenomeno degli olandesi. In realtà, che la bomba stia per esplodere lo si capisce quando, nel 1970, il Feyenoord Rotterdam si aggiudica la Coppa dei Campioni aggiudicandosi la finale di Milano per 2-1 sugli scozzesi del Celtic. Prima l'Ajax, poi il Feyenoord: è evidente che non può trattarsi di un caso. E infatti, l'anno seguente l'Ajax vince il trofeo superando i greci del Panathinaikos, ripetendosi nei due anni successivi prima con l'Inter poi con la Juventus.

Nel calcio internazionale, però, ben poco cambia: in nessun'altra nazione questo modo di giocare attecchisce, e quando si arriva al Mondiale 1974 gran parte dell'opinione pubblica è ancora scettica sulle possibilità della nazionale orange. Certo, i trionfi dei club non sono passati inosservati, ma sono pochi a credere che l'Olanda possa vincere o perlomeno figurare tra le protagoniste vere del Mondiale. Le nazionali accreditate sono sempre le stesse: il Brasile campione uscente, l'Italia del record di imbattibilità (la difesa azzurra mantiene la propria porta inviolata per quasi due anni, 1143 minuti il record di Dino Zoff), la Germania ovest padrona di casa, l'Argentina. Tutte squadre ancorate a un credo tradizionalista, a un gioco che rispecchia il calcio degli anni Sessanta o addirittura più vecchio ancora. Ma se è vero, come è vero, che anche lo sport è figlio del proprio tempo, tutto ciò che ha caratterizzato i cambiamenti sociali nel decennio precedente lo si ritrova in questo nuovo modo di interpretare il calcio, dentro e fuori dal campo.

GUARDALINEE. La grande Olanda del '74, in realtà, rischia di non nascere mai. Vero che i club avevano dettato legge in Europa e nel mondo, ma la nazionale arancione è spaccata in due blocchi contrapposti che per poco non ne mettono in gioco il radioso futuro. Da una parte ci sono i campioni dell'Ajax, dall'altra quelli del Feyenoord, le due squadre principali del Paese. C'è anche un terzo incomodo, un gruppetto di giocatori del PSV Eindhoven (la P della sigla sta per Philips, il colosso dell'elettricità) che - come tutti quelli che hanno il cinque per cento dei voti - diventa l'ago della bilancia tra i due schieramenti.
Nel corso delle qualificazioni mondiali, gli olandesi si trovano di fronte i vicini di casa del Belgio, forse gli unici che hanno compreso il profondo significato della rivoluzione olandese, mutuando e facendone propri numerosi aspetti tattici (il fuorigioco innanzitutto). I due scontri diretti finiscono entrambi senza reti, e a fare la differenza in favore degli olandesi è il numero di reti segnate alle due comprimarie del girone, Norvegia e Islanda: 24-2 il loro bilancio, 12-0 (nemmeno una rete subita in sei partite!) quello dei belgi.
Al Mondiale di Germania vanno dunque Cruijff e compagni, ma il Belgio reclama - nella partita decisiva - una serie di decisioni arbitrali sfavorevoli tra cui l'annullamento per presunto fuorigioco di un gol che all'esame televisivo risulta perfettamente regolare. Se quel guardalinee avesse visto giusto, l'Olanda sarebbe stata eliminata, e la storia del calcio sarebbe cambiata. O meglio, NON sarebbe cambiata...

MONDIALE. Una volta raggiunto l'obbiettivo qualificazione, il tecnico Rinus Michels (che allena il Barcellona oltre che la nazionale olandese) ha il compito di selezionare i ventidue per il torneo tedesco. Ma nei mesi che portano all'appuntamento il destino gli mescola più volte le carte. Tanto per cominciare, gli infortuni gli sottraggono gran parte della difesa titolare. Il gigantesco e barbuto Barry Hulshoff, centrale dell'Ajax, e il suo collega di reparto, Aad Mansveld del FC Den Haag, vengono bloccati da guai fisici, e l'esperto Rinus Isra‘l (tra l'altro capitano della nazionale) è squalificato per la prima gara. Michels deve così inventare qualcosa per affrontare la situazione d'emergenza: il risultato è un vero capolavoro di intelligenza e lungimiranza. Al centro della difesa viene inserito Wim Rijsbergen, poco più che un rincalzo (ha solamente una partita internazionale nella sua carriera), al cui fianco Michels sistema il centrocampista Arie Haan, uomo di grande esperienza e dalla forte capacità di contrasto sull'uomo. Un centrocampista trasformato in difensore, quindi portato a 'distrazioni' e comunque più a creare che a distruggere. Sulle fasce laterali gli danno comunque sicurezza gli ottimi Wim Suurbier a destra e Ruud Krol a sinistra: con tre difensori veri su quattro, c'è bisogno di un portiere che sappia leggere le situazioni di gioco e quindi capace di anticipare gli eventuali 'buchi' che si dovessero aprire nello schieramento. I migliori portieri olandesi non sono adatti a questo tipo di necessità, quindi Michels richiama in nazionale lo sconosciuto Jan Jongbloed, 34enne portiere del DWS Amsterdam che in realtà non è un calciatore professionista: gestisce una tabaccheria e per divertimento gioca a pallone.

La sua prima e unica partita in nazionale, Jongbloed l'aveva giocata nel 1962, ben dodici anni prima, ma è l'unico portiere che possa rispondere alle caratteristiche richieste dal tecnico. Jan Jongbloed confermerà, nel corso del Mondiale, di non essere un portiere di livello internazionale (per fortuna il meccanismo difensivo funzionerà quasi alla perfezione) ma da questo egli saprà affrancarsi, decidendo di diventare professionista tanto da essere confermato per il successivo Mondiale in Argentina, nel 1978. A carriera chiusa, vivrà una terribile tragedia: suo figlio Erik morirà sotto i suoi occhi, nel 1984, nel corso di una partita, colpito da un fulmine. L'anno dopo Jan Jongbloed, a 45 anni ancora in attività, dovrà chiudere la carriera a causa di un infarto e seri problemi a un occhio.

A centrocampo, Michels ha a disposizione tre giocatori che si completano a vicenda: Wim Jansen è il mastino pronto a mordere le caviglie avversarie su ogni pallone, Wim van Hanegem rappresenta il 'pensatore' della manovra, Johan Neeskens incarna perfettamente il ruolo di incursore e uomo-ovunque, in movimento per novanta minuti da un'area di rigore all'altra e sempre pronto a suggerire una soluzione ai compagni. Un trio delle meraviglie, che davanti a sé ha un attacco altrettanto completo: sulla destra c'è Johnny Rep, fortissimo nel gioco aereo, dall'altra parte Rob Rensenbrink, non molto considerato dalla critica ma che nel corso del Mondiale dimostrerà classe ed efficacia in ogni partita, un esterno dal buon dribbling e dall'ottimo fiuto del gol. Manca l'undicesimo giocatore, che in realtà è il migliore di tutti, il collante della squadra: Johan Cruijff.

Dall'estate precedente Cruijff ha lasciato l'Ajax, che ha condotto ai più grandi successi: gioca ora nel Barcellona (dove porterà dopo il Mondiale l'amico Neeskens) che ha guidato alla vittoria nel campionato spagnolo dopo un digiuno che sembrava non dovesse terminare mai. Cruijff è il leader di un gruppo spaccato, con mille frizioni interne, spesso tenuto insieme solamente dall'obbiettivo comune: la vittoria da monetizzare in sontuosi contratti all'estero (cosa che un po' tutti questi fuoriclasse sapranno fare nel corso della carriera: si sa che per gli olandesi il denaro è l'ingrediente principale della vita...).
Con questi undici titolari (durante il Mondiale questa squadra non cambierà mai fisionomia: al massimo entrerà qualche riserva a partita iniziata) gli olandesi partono per la Germania. Curiosa è la numerazione con la quale i giocatori vengono iscritti al torneo (il numero di maglia è fisso e mantenuto per tutta la competizione): viene adottato l'ordine alfabetico, per cui il numero 1 non spetta a un portiere ma all'attaccante Ruud Geels, primo della lista. Unica eccezione viene fatta per Cruijff, al quale è concesso il fidato numero 14. Il portiere Jongbloed, caratteristico nel suo maglione giallo, porta sulla schiena un bell'8...

TRAVOLGENTE. Il cammino degli orange nella prima fase del Mondiale è quasi travolgente: l'Uruguay viene battuto molto più largamente di quanto il 2-0 finale non possa esprimere. Sin dalle prime battute gli olandesi mettono in mostra quello che sanno fare: continuo movimento, disorientamento degli avversari con gioco rapido e palla a terra, pressing ossessivo (è di questo match l'episodio citato in precedenza, con l'uruguaiano Rocha letteralmente assaltato da cinque avversari insieme). I sudamericani commettono falli a ripetizione per tentare di arginare gli arancioni, che sprecano una decina di palle gol prima di trovare la rete della tranquillità con Rep a pochi minuti dal termine. L'impressione destata da Cruijff e compagni è enorme, mai si era visto giocare in questa maniera.

Il secondo impegno è contro la Svezia: una partita intensissima, con grandi errori sotto porta da entrambe le parti, che si chiude senza reti. L'ultimo ostacolo da superare per accedere alla seconda fase è la Bulgaria, che viene schiantata da un 4-1 senza discussioni. La partita da un lato passa alla storia per il fatto che molti non ci capiscono nulla per via del colore delle maglie delle squadre: l'Olanda è in arancione, la Bulgaria veste in rosso. L'unico elemento per distinguere al volo i giocatori sono i calzoncini: neri da una parte, rossi dall'altra. Ma per chi segue in tv la partita (in gran parte del mondo il torneo è trasmesso in bianco e nero) è una sofferenza incredibile.

Si va alla seconda fase, dove le avversarie sono Argentina, Germania est e Brasile. E' l'unica presenza in un mondiale della DDR, che nel primo turno ha giocato contro la Germania ovest. Una partita storica, che si chiude con la vittoria dei cugini più piccoli per 1-0: i maligni dicono che i tedeschi occidentali si siano fatti battere apposta per evitare di trovare l'Olanda nel secondo turno. Non è mai stato dimostrato, ma se così fosse si dimostrò sicuramente un'idea vincente...

Nella seconda fase, anch'essa a gironi, l'Olanda trova per prima l'Argentina. E' un'eccellente squadra, composta da elementi di grande temperamento, ottimi nella tecnica e pure nel saper picchiare. Nella prima fase ha eliminato l'Italia grande favorita qualificandosi con la sorprendente Polonia. Ma per i sudamericani non ce n'è sin dall'inizio: dopo 12 minuti Cruijff segna un gol da antologia, raccogliendo un lancio di van Hanegem con un perfetto stop e scavalcando il portiere Carnevali in dribbling con movenze dall'eleganza di un ballerino. Una delle più belle reti nella storia dei mondiali, che lancia gli olandesi verso una prestazione ritenuta dai più la migliore in assoluto di tutto il torneo. Finisce 4-0.

Sotto un vero diluvio Neeskens e Rensenbrink firmano il 2-0 sulla DDR nella seconda partita: l'ingresso in finale verrà deciso dallo scontro diretto col Brasile, a punteggio pieno anch'esso. I campioni del mondo uscenti non sono nemmeno alla lontana eredi della formidabile squadra del 1970: pochi fuoriclasse, alcuni di essi fuori forma, e tanti randellatori. I brasiliani la mettono subito sul piano fisico, e gli olandesi non si spaventano. Ne esce un match dove le botte da orbi si sprecano, culminando con l'espulsione del difensore Luis Pereira, autore di un fallo criminale su Neeskens. Cacciato dall'arbitro, Luis Pereira inizia a litigare prima con la panchina olandese poi addirittura col pubblico, rifiutandosi di uscire dal campo per parecchi minuti. Alla fine, si decide solamente quando vede che Isra‘l gli si sta facendo incontro con cattive intenzioni.
Neeskens e Cruijff (quest'ultimo con una prodigiosa rete in acrobazia) siglano il 2-0 che porta l'Olanda alla finale contro la Germania ovest, che ha superato Polonia, Svezia e Jugoslavia.

ILLUSIONE. Poche partite della storia come Germania ovest-Olanda, finalissima del Mondiale 1974, hanno fatto scrivere di sé. Da una parte i nuovi profeti del calcio totale, la nuova frontiera del pallone; dall'altra i campioni d'Europa in carica, depositari di un calcio molto meno brillante ma estremamente efficace, nella più completa tradizione del football mitteleuropeo. I fuoriclasse, nella squadra guidata da Helmut Schšn, sono tantissimi: leader è il 'Kaiser' Franz Beckenbauer, libero di nome ma primo creatore di gioco nella realtà dei fatti; in porta Sepp Maier garantisce rendimento costante, il 'cinese' Paul Breitner (così chiamato per la sua fede politica) è sulla fascia sinistra a spingere e creare palle-gol per i compagni, a centrocampo Wolfgang Overath illumina il gioco dall'alto di una classe e di una tecnica individuale sopraffine, mentre in attacco Gerd MŸller ha un solo compito, fare gol, ed è cosa che gli riesce benissimo. Sei elementi della Germania ovest appartengono al Bayern Monaco, fresco campione d'Europa per club: quasi un passaggio di consegne con l'Ajax che aveva vinto le tre edizioni precedenti della Coppa dei Campioni.

L'arbitro inglese Taylor fischia il via e l'Olanda, che ha battuto il calcio d'inizio, sembra cincischiare senza sapere cosa fare del pallone. Dopo una ragnatela di passaggi, il cuoio arriva a Cruijff (partito come uomo più arretrato) che scatta ed entra in area, venendo atterrato da Vogts. Taylor indica il dischetto del rigore, Neeskens si presenta al tiro e fulmina Maier. L'Olanda è in vantaggio 1-0 e la Germania ovest non ha ancora toccato il pallone! I tedeschi, si sa, non sono mai morti: alla ripresa del gioco i tedeschi non sembrano minimamente sfiorati dall'idea della sconfitta e iniziano a macinare azione su azione, mentre gli olandesi, col tempo che trascorre, danno l'impressione di potersi accontentare del minimo vantaggio, volendo controllare l'avversario. La sensazione di aver già in mano la vittoria gioca un brutto scherzo agli orange, che arretrano pian piano il baricentro, lasciando spazio alle sfuriate avversarie, le quali si concretano nell'azione che porta al fallo di Jansen su Hšlzenbein per il rigore di Breitner. 1-1 e tutto da rifare. Cruijff, che sino a quel momento ha giocato abbastanza indietro, avanza il raggio d'azione, ma Rensenbrink non è in condizioni fisiche ideali, e un po' tutta la squadra comincia ad avere il fiato corto. Partiti fortissimo all'inizio del torneo, gli olandesi sono ora in riserva, mentre i tedeschi sono via via cresciuti anche sul piano fisico.

Verso la fine del primo tempo l'episodio che decide l'assegnazione del titolo e della nuova edizione della Coppa FIFA (la Coppa Rimet se l'era aggiudicata definitivamente il Brasile nel '70). Un'azione di Bonhof sulla fascia destra, cross, corta respinta della difesa, MŸller che come un falco si avventa sul pallone e lo gira lentamente in porta. Il tiro non è irresistibile, ma Jongbloed rimane fermo a guardarlo mentre supera la linea bianca. Il risultato è rovesciato e non cambierà più. Ancora una volta, come nel 1954 contro l'Ungheria di Puskas, la Germania ovest parte sfavorita dal pronostico ma è capace di scrivere la storia.

Come spesso accade, la squadra che meglio ha giocato e che più spettacolo ha dato, al termine della competizione rimane con l'amaro in bocca e la medaglia degli sconfitti. Il miracolo della cenerentola Olanda resta incompiuto sul piano del risultato, ma da quel giorno - torniamo all'inizio - il gioco del calcio non sarà più lo stesso. Centinaia di falsi profeti del calcio totale tenteranno di emulare le gesta tecniche e tattiche dell'"Arancia meccanica", ma nessuno riuscirà a ripeterla veramente. Perché? Semplice: in superficie si vedeva un modulo di gioco completamente nuovo e teoricamente riproducibile. Sotto, invece, c'era un substrato fondamentale non duplicabile: quegli uomini, quel modo di pensare, quel periodo storico. Elementi che nessun tecnico, nemmeno la Natura stessa, ha il potere di riprodurre a distanza di tempo.
L'Olanda del 1974 non poteva che essere unica e inimitabile, in quanto risultato della mescolanza di componenti tecnico-tattiche ben precise: un allenatore che vedeva più avanti degli altri, un insieme di campioni sul quale era stato costruito un disegno particolare, uno spirito che solo in quegli anni - appena successivi al decennio della contestazione giovanile - poteva esistere. Gli olandesi seppero, in quelle poche settimane, far rifulgere tutte queste doti in un gioiello. Al quale mancò solamente un risultato. Che per costruire un'albo d'oro è indispensabile, per rimanere nella Storia come punto di partenza di una nuova era non lo è proprio.

 

Sandro Lanzarini

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

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