-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

7. DAL FUOCO AL LINGUAGGIO
DALL'AGRICOLTURA AL PANE

Quando l'uomo scoprì che era possibile controllare il fuoco e, in molte cose, il suo utilizzo poteva essere vantaggioso, si ebbe un salto considerevole nell'organizzazione degli ominidi.
Il fuoco è sorgente di calore nelle stagioni fredde oltre che una sorgente di luce nella notte. Inoltre il fuoco è una arma di difesa e di offesa. Cosicchè l'utilizzo del fuoco, permise all'umanità di compiere il primo grande passo verso la comprensione delle leggi della natura, e dall'emancipazione da essa. I vantaggi acquisiti riguardavano sia miglioramenti della vita nelle dimore che nelle tecniche di caccia. All'interno delle caverne e nelle capanne vennero create zone di sonno, calde e luminose di notte, dov'era possibile difendersi dai grossi predatori. La fobia del fuoco degli animali fu utilizzata anche come strategia di caccia, come spingere gli animali in una trappola. Inoltre s'inventò una nuova tecnica -forse scoperta per caso- per rendere le punte di lance e giavellotti di legno con l'uso della fiamma più duri ed efficaci.

Probabilmente il fuoco era conosciuto prima di questa data (Dagli scavi nella grotta di Swartkrans in Sudafrica è emerso il primo focolare, datato circa 1,5 milioni di anni fa (Renfrew e Bahn, 1995). Ma probabilmente era un fuoco originato da fulmini, dalle lave dei vulcani, dall'autocombustione di sterpaglie nelle torridi estati, che poi veniva conservato alimentandolo con altro materiale infiammabile come la legna (In india più tardi divenne perfino un rito religioso rinfocolarlo e conservarlo).
Purtroppo quando per tante cause il fuoco si estingueva bisognava aspettare un nuovo incendio. Tuttavia ben preso si fu in grado non solo di conservarlo ma anche di trasportarlo durante gli spostamenti. Perfino difeso strenuamente chi voleva impossessarsene. E forse fu durante una di queste carenze che l'uomo notando che lo sfregamento di due bastoncini di legno dolce emanavano calore, ebbe l'idea di insistere nello sfregamento fino ad infuocare uno dei bastoncini, al punto di accendere il fuoco in un cumulo di foglie secche. Altri ipotizzano che nello scheggiare le selci, le scintille di quella che divenne la "pietra focaia" fu il primo accendino semi-naturale per i successivi fuochi.

Comunque sia, gli uomini il fuoco non lo ricevettero un bel giorno dal mitico Prometeo, nella realtà, lo hanno acquisito con la conoscenza della natura attraverso il tempo. L’osservazione dei fenomeni e i vari tentativi di riproduzione o di controllo di essi, ha fatto sì che in alcuni casi si arrivasse a felici risultati. Il più importante, da quando il fuoco l'uomo lo poteva ottenere quando voleva -procurandosi così calore- fu quello di poter fare migrazioni in altri luoghi lontani molto più freddi.
Fornì inoltre la possibilità di allungare il giorno. Con più tempo a disposizione, la sera i nostri antenati si sedevano attorno al fuoco, e indubbiamente fra gesti e grugniti, questi convegni stimolarono lo sviluppo di un linguaggio, e questo impulso alla cooperazione e alla socialità fu dato dalla trasformazione proprio del suo ambiente.
L'AMBIENTE - Scoperta la funzionalità delle mani, dopo aver modellato un bastone, scheggiato una pietra, edificato una capanna, costruito un utensile, l'uomo inizia a trasformare anche l'ambiente, dove vive e opera con altri suoi simili. Ma nei rapporti con gli altri bisogna capirsi, ed ecco nascere un "linguaggio" che non è ancora fonico, ma mimico, gestuale. Nel corso di altre 8.000 generazioni questi gesti ripetuti milione di volte diventarono un vero e proprio linguaggio (ancora oggi non del tutto scomparso).
LINGUAGGIO GESTUALE - MIMICO - E' il primo vero e pratico linguaggio della "comunicazione" fra gli ominidi. Inizialmente i gesti furono accidentali ma nel ripeterli per farsi capire diventarono mimici e comprensivi, poi espressivi, poi simbolici ed infine tecnici con una precisa codifica. Questo linguaggio, ancora primitivo, si tramette a vista, ma serve benissimo per eprimersi e farsi capire. Inizialmente lo si usò per indicare cose, azioni, pericoli, successivamente l'espressività dei gesti - soprattutto quelli della faccia per le varie occasioni - furono in grado di esprimere anche i propri pensieri e i sentimenti. I primi gesti furono semplici, i successivi ibridi (combinazione di due gesti distinti) poi si giunse a quelli composti, che sono più gesti indipendenti ma che in sequenza possono formare una frase e perfino un intero discorso (ancora oggi i gesti mimici li utilizziamo: se ci fermiamo al bar e indichiamo al barista con l'indice il tavolino, portiamo indice e pollice alle labbra, e mimiamo l'atto di bere, il barista -senza che noi pronunciamo una sola parola - capisce subito che deve fare quattro operazioni: servirci al tavolino, portarci un caffè dentro una tazzina. Ancora oggi esistono dei gesti basati su un sistema formale, cioè sono codificati, hanno un proprio significato - come quello dei sordomuti, delle bandiere aereo-portuali, della borsa, del vigile ecc. ).
Il linguaggio gestuale lo potremmo definire di comprensione universale, ma come sono oggi le parole di altre lingue, anche il gestuale è soggetto a diverse interpretazioni, perchè, come le parole, molti gesti sono locali. Fino al punto che alcuni possono essere amichevoli in un luogo e ostili in un altro, perchè in modo diverso inizialmente furono codificati nei vari luoghi.
Oltre a questi gesti che indicano cose e azioni, nascono gesti di rito, della soddisfazione o dell'amarezza, quello dei saluti, dell'accoglienza e del commiato, con tutte le variazioni di gerarchia e di ruolo sociale. Nascono anche quelli più complessi, e sono quelli del "legame", del "contatto fisico", un linguaggio prudente che deve superare l'inclinazione naturale di ogni individuo che vuol difendere il proprio spazio personale.

Per alcuni nostri simili certi contatti ravvicinati con gli altri sono ancora oggi una vera fobia angosciosa ed esistenziale - guai a toccarli mentre si parla, e si sentono perfino a disagio se ci avviciniamo un po' troppo a loro. Questo perchè i nostri progenitori ci hanno lasciati impressi nel nostro ipotalamo centinaia di segnali spiacevoli sul contatto fisico. Alcuni, anche se ci sembrano incomprensibili e banali, creano avversione, ostilità, angoscia, repulsione verso un nostro interlocutore, anche se oggi facciamo fatica a capirne il motivo. Bellissmo il volume di Desmond Morris, "L'uomo e i suoi gesti - La comunicazione non-verbale nella specie umana". Mondadori, 1977. Un libro sulle azioni, sul modo in cui le azioni diventano gesti e i gesti trasmettono messaggi. Un catalogo completo del comportamento umano, un'antologia del linguaggio del corpo, dei gesti e delle espressioni del viso che accompagnano i nostri veri sentimenti, spesso nascosti sotto la maschera delle convenzioni, verbalmente recenti rispetto al linguaggio dei gesti che si era invece perfezionato (e nonostante il parlato, hanno resistito) nell'arco di centomila anni. E sono gesti con i quali noi esprimiamo mimicamente il significato che sta sotto il nostro comportamento esteriore in tutta una gamma di occasioni sociali: rapporti famigliari, amichevoli, di lavoro, di accoppiamento, della preminenza, dello status, della difesa del territorio, e degli innumerevoli riti.

E oltre ai gesti, spesso solo dopo un prudente contatto fisico scopriamo verso i nostri simili alcune inclinazioni o avversioni, e quest'ultime sono alcune volte intolleranti anche se il malcapitato è da tempo un nostro carissimo amico/a. Ancora più complesso poi, il linguaggio mimico è il contatto fisico con l'altro sesso. L'intimità non la conquistiamo abitualmente solo con un colto e intelligente discorso; ma solo con i gesti e con un cauto preliminare contatto fisico, che soprattutto per la donna è spesso essenziale oltre che determinante per giungere ad una vera e propria unione fisica oltre che psicologica. Si può fingere per opportunismo (es. sposare un uomo ricco) ma poi per entrambi la vita a due è un inferno se non esiste un'affinità a livello "epidermico" (e non solo metaforico) . Possiamo ignorare i nostri feromoni, aggirarli, ma questi non ignorano noi e se ci sono affinità sanno come far centro.
CON IL FUOCO LA COTTURA DEI CIBI - Nell'utilizzare il fuoco la scoperta più importante fu che le carni cotte sui carboni ardenti o su pietre riscaldate dalla fiamma, erano non solo più saporite, ma anche meno dure da masticare. Inoltre la cottura uccide i parassiti e i batteri, responsabili di numerose malattie. Si pensa che l'uso di arrostire le carni risalga a circa 80.000 anni fa.
Prima di allora, i denti utili per macinare e frantumare erano grandi, dopo questa data si fanno piccoli, perchè poco impegnati a fare grandi sforzi nella masticazione. L'usanza di cuocere il cibo può aver contribuito a rimodellare i contorni del volto umano. "I cibi più morbidi sollecitano meno la mascella e i muscoli mascellari, che divennero più piccoli insieme ai molari. Questo a sua volta si ripercosse sul disegno dell'intera faccia: le grosse e prominenti sporgenze ossee sopraorbitali, e altre spesse protuberanze ossee, sostegno dei potenti muscoli mascellari, si ridussero di molto quando il volume dei muscoli diminuì. Il cranio divenne più sottile, favorendo un'espansione della calotta cranica che doveva ospitare un cervello di maggior volume" (Pfeiffer, 1971).
Per Alan Woods e Ted Grant, la modifica delle relazioni sociali è in relazione con il consumo di carne, così l'organizzazione della caccia e l’aumento del volume del cervello (Wood e Grant, 1997). Quest’ultimo consuma il 20% dell’energia prodotta dall’organismo, nonostante costituisca soltanto circa il 2% del peso totale. A sostenere l'incremento dell'encefalo, come conferma anche Francesca Giusti, vi fu il passaggio all'alimentazione carnea (Giusti, 1994). La carne con il suo contenuto di calorie, proteine e grassi fornì una serie di sostanze importantissime per l’organismo umano, soprattutto per il rinnovamento dei tessuti (Engels, 1876).
Tale alimentazione, con la cottura, accorciò i tempi di digestione e i processi vegetativi. La cottura è in sostanza una frantumazione delle grandi molecole di proteine, carboidrati e grassi in molecole più piccole, più digeribile e assimilabili. In definitiva, la carne "portò all’acquisto di tempo, di sostanze e di energia" (ibidem).

Il fuoco rivoluziona quindi la dieta. Nuovi alimenti vegetali ed animali immangiabili crudi, permettono ora in territori pur ristretti la vita di comunità più numerose. Infatti, insieme ai cambiamenti fisici si verificarono nuovi stimoli alla vita di gruppo, il mangiare insieme favorisce l'aggregazione (ancora oggi si va a cena con gli amici anche se non si ha per nulla fame). Gli uomini potevano passare più tempo nelle loro dimore attorno al focolare, mangiando insieme agli altri membri del gruppo e passando il tempo a gesticolare. Le ore dopo il tramonto, di relativo riposo, potevano essere impiegate per progettare le attività sempre più complesse del giorno successivo. Questa nuova complessità richiedeva l'evoluzione di più elaborati e raffinati mezzi di comunicazione. "Il linguaggio, la forma più umana dell'umano comportamento, deve aver preso un enorme impulso quando la caccia si sviluppò e i focolari ardevano allegri dopo il tramonto" (
Pfeiffer, 1971).

Ma come vedremo più avanti, il fuoco, o meglio il focolare, ebbe un ruolo centrale anche nelle prime esperienze mistico-religiose dell'uomo. Ovvero tracce di manifestazioni nella sfera spirituale. Coscienza del se. Immedesimazione nei propri simili. Culto dei propri famigliari e amici morti. Credenze che la vita continua dopo la morte. Convinzione soggettiva con una sensazione dell'esistenza di un essere supremo che governa la natura, gli uomini, l'universo. Forse per gli stessi motivi, e come riti propiziatori, nei più remoti meandri delle caverne, nacquero all'incirca in questo periodo, le prime espressioni di arte, i primi dipinti, i primi graffiti. E ancora, il fuoco rese molti millenni dopo possibile vari cambiamenti chimici nella materia inanimata, come la fusione dei metalli.
DAL FUOCO IL FOCOLARE - Il focolare, il luogo di incontro giornaliero del gruppo, dove si consumava il cibo frutto dell'organizzazione sociale e della caccia, fu sicuramente anche il posto dove lentamente si sviluppò il linguaggio umano. La facoltà di esprimersi per mezzo della parola o l'espressione stessa; un insieme di locuzioni con cui l'uomo esprime i propri pensieri e sentimenti. Ancora oggi in alcuni popoli il focolare è sacro. Lo è fra le tribali genti delle montagne caucasiche della Cecenia, ma lo è anche nelle civilissime metropoli del Giappone. Ma anche in occidente, fino a pochi decenni fa ogni cosa - non a caso - la si apprendeva accanto al focolare, il cosiddetto "filò". Da questi filò, prima ancora dell'alfabetizzazione di massa, e prima ancora dell'avvento della scrittura, sono stati tramandati i miti, le grandi epopee del passato, i disastri provocati dalla natura, le prime cronologie dell'umanità, le prime storie di un popolo, di una tribù, del proprio clan, quelle della propria famiglia e quelle di ogni suo componente. Tutto questo farà nascere l'amicizia, l'affettività, l'amore, la famiglia.
L'AMORE e LA FAMIGLIA - Con molta probabilità fu proprio accanto al focolare che nacque l'amore e anche il concetto di famiglia. Nel momento in cui era già avvenuto un personale processo di identificazione con la conoscenza del mondo del Sè e dell'Io, forse fu nel buio di una grotta, rischiarata da una calda fiamma di un focolare, che un uomo e una donna una sera guardandosi scoprirono sulle reciproche labbra un sorriso e improvvisamente si levò ad entrambi un lampo di felicità, un'espressione di gioia intensa, una emozione nuova. Il processo di identificazione dei due crea da quell'istante un "Noi", un legame capace di costruire una vita con un suo fulcro e una precisa direzione che porta a vivere questo "noi" insieme, uniti.
Non è ancora un "matrimonio", ma non è nemmeno una semplice unione carnale o di beni. Ma è un'unione di felicità condivisa da due individui uniti nell'anima con un anelito interiore, quello di vivere nel profondo una comunanza di vita. Nasce così la prima cellula famiglia, una istituzione sociale che porterà in breve alla nascita della vera e propria società umana. Nella famiglia formatasi con i figli inizia la suddivisione dei compiti, ci si organizza nelle funzioni, nasce la cooperazione e il rispetto gerarchico di padri e figli, di giovani e vecchi; mentre prima d'ora questi ultimi erano quasi considerati inutili al gruppo.

Ed infatti, nei reperti delle esumazioni, troviamo solo da questa data i primi scheletri di persone anziane, perchè prima non erano nè inumati nè venerati. E' da questo momento che l'anziano assume un'importanza determinante per la famiglia e per il gruppo anche se non è più impegnato nella caccia e nelle altre attività faticose. Infatti, è lui, con molto tempo a disposizione, a raccogliere le notizie dei fatti, è lui il privilegiato osservatore di ogni cosa. Ed è sempre lui a ricombinare le notizie, a metterle in associazione, per creare quindi nuove strategie della cooperazione legate alla sopravvivenza "si fa questo, non si fa quest'altro".

Quando poi più tardi nascerà il linguaggio parlato sarà lui a raccontare agli altri le storie, gli avvenimenti del mondo che lo circonda, a narrare cose che non ha mai visto direttamente ma sa che esistono, di cose che non ha mai fatto ma sa come si fanno. Lui diventa il "magazzino" delle esperienze sue e di altri del gruppo. Questi altri, fra di loro, impegnati come sono nella caccia si conoscono poco, ma l'anziano patriarca li conosce tutti, al ritorno vede gli umori, osserva i loro visi, le loro espressioni di gioie o di dolori, coglie le sfumature di ogni manifestazione dei sentimenti. Con i suoi occhi indaga, e il suo sguardo scrutatore alcune volte quasi paralizza l'osservato, perchè è ormai capace di intuire anche ciò che gli si vuol nascondere. Questo disagio millenario resiste tutt'oggi. Gli occhi puntati su di noi ci creano un indefinito malessere, temiano di essere messi a nudo, di essere letti nel nostro pensiero. Ci sono mille ragioni per cui un individuto che si sente fissato in viso, storna gli occhi, ma il nostro vecchio ora le ha comprese tutte. Questo vecchio è il "saggio" del villaggio, poi diventa lo "stregone", ma in effetti è il primo psicologo. E' diventato il lettore dell'animo altrui, e allenato com'è a osservare tutte le mille sfumature dei suoi simili, capisce intenzioni, verità e menzogne già al primo sguardo.
LINGUAGGIO e LARINGE - L’uomo forse proprio accanto al focolare e con tanto tempo a disposizione elaborò una forma di comunicazione straordinariamente complessa, riuscendo a dare ad ogni cosa un significato specifico. Questo perché, "l’uomo riuscì ad articolare suoni più complessi degli animali grazie all’uso delle consonanti, possibile soltanto con lo sviluppo della stazione eretta" (Wood e Grant, 1997).

Già con il bipedismo, l'uomo aveva sviluppato una serie di modifiche che riguardarono la testa. La sua posizione rispetto al corpo, cambiando, era diventata anch'essa eretta, allineata con la spina dorsale. La mandibola subì un ridimensionamento. Anche la posizione della lingua cambiò, invece di essere situata completamente penzolante all’interno della bocca, una parte di essa si adagiò nel cavo, e una parte si posizionò all’interno della gola andando a formare la parte posteriore del tratto orofaringeo. La mobilità della lingua consentì non più un suono gutturale ma la modulazione dello stesso suono nella cavità orifaringea. Ma..."La forma dell’apparato vocale e la capacità fisica di combinare vocali e consonanti sono i presupposti fisici del linguaggio umano, ma niente di più. Solo lo sviluppo della mano, connesso inscindibilmente con il lavoro e la necessità di sviluppare una società altamente cooperativa, ha reso possibili l’aumento delle dimensioni cerebrali e del linguaggio" (ibidem).

Comunque sia, sappiamo, dopo attenti studi che i primi utilizzatori del linguaggio (escludendo i gridi animaleschi a bocca spalancata) pronunciarono come prima sillaba la P; è il fonema che si ottiene nel modo più semplice: dopo la chiusura della bocca basta spingere con forza fuori l'aria e aggiungere i 5 principali suoni non occlusivi che sono poi le vocali; formando cosi pa, pe, pi, po, pu. Seguì poi strigendo le labbra la B e la M , più tardi le palatali C , infine le dentali T, D, G, N, e per ultime la S, Z ecc. Con questi suoni ancora quasi gutturali, nacquero le prime sillabe, che accoppiate (ma spesso anche singole come vedremo più avanti) formarono i primi vocaboli per dare un nome alle cose. E sono tutti nomi semplici, quasi tutti bisillabi occlusivi. Se sfogliamo un antico dizionario Babilonese, Caldeo, Sanscrito, Egiziano, troviamo che quasi tutti i vocaboli risentono di quest'iniziale periodo arcaico, diciamo di "esplorazione" fonetica: mas  indicava il mese, mon  la luna, tag  il giorno, set  la settimana, vag  le stelle erranti (i pianeti), anu  era il cerchio ma poi indicò l'arco dell'anno, buc  indicava la bocca o il mangiare, l'illirico bat  il bastone, l'egiziano ba  o bai   il cavallo, il sanscrito bad  il bagno, sempre in sanscrito pa  il padre, pitu  il bere, par  il parlare, pat  l'arrabbiato pazzo e stupido, mentre pac  un pecorone; e molti altri, che dopo 25 mila anni in alcune lingue sono rimasti tali e quali, oppure come radice.

In sostanza questi suoni articolati provati e riprovati iniziano a creare dei fonemi e questi, soli o abbinati ad altri, formano tutti i vocaboli che conosciamo. Con soli 40 fonemi si può creare una lingua. I primi linguaggi forse fino al 5000 a. C non andarono oltre questa cifra. Successivamente si arrivò al massimo, cioè a 124 fonemi. Con questi 124 "suoni" oggi (strano ma vero) si possono pronunciare tutte le parole esistenti in qualsiasi lingua, compresi tutti i dialetti. (nel mondo sono circa 10.000 i linguaggi). Un buon sintetizzatore vocale oggi ne utilizza 120-122 di fonemi. L'autore qui di Cronologia, ha utilizzato pionieristicamente circa 25 anni fa i primi sintetizzatori vocali della Texas Instrument; quando dalla stessa tastiera bisognava creare con le lettere dell'alfabeto i vari fonemi per far dire al computer questo o quel vocabolo. Oggi è tutto più semplice, con l'immissione diretta o di una registrazione vocale, è il computer che lavora, scinde i vari fonemi in bit, poi li riproduce fedelmente. Sembra che parli pure lui con la laringe, ma in effetti ci rimanda indietro velocissimamente -in un insieme- una lunga serie di suoni più o meno modulati dal sintetizzatore, che operando in un altro modo, se vogliamo, ci suona Beethoven, Mozart, ci fa sentire il cinguettio di un uccello, e genera perfino gli ultrasuoni che noi non siamo in grado di sentire con le nostre orecchie.
ABITAZIONI e AGRICOLTURA - Se la sedentarietà come abbiamo visto stimoplò il linguaggio e la formazione della famiglia, i numerosi gruppi di famiglie che si andavano formando stimolò la costruzione di ripari stabili e comodi, e insieme a questi, accanto, la nascita dell'agricoltura.

Le grotte erano sempre stati i ripari dei primi ominidi. Forse spingendosi nella savana dove questi ripari naturali non erano presenti, i cacciatori fin dal 10.000 a.C. avevano improvvisato la costruzione di capanne a struttura conica formata da pali robusti, riuniti al vertice e ricoperta da frasche o da pelli. Per difendersi da animali predatori, lungo il perimetro esterno, venivano infissi profondamente nel suolo altri pali robusti perpendicolari al terreno. Forse da queste costruzione a qualcuno venne l'idea di utilizzarle come pareti di un abitazione, ricoprendole con dei grossi pali, facendo nascere i primi tetti, i primi orizzontali o inclinati, in seguito erigendo a fronte un'altra palizzata a struttura a doppio spiovente gravante su un grosso trave centrale. Questo permise un ampia metratura e all'interno le prime divisioni in locali.
Con lo stanziamento fisso e la nascita della civiltà agricola, questi ripari oltre che costruirli con questa tecnica, avendo più tempo a disposizione, probabilmente si usarono blocchi di pietra, e per chiudere gli interstizi fango argilloso crudo che al sole indurisce come una malta. Quest'ultimo materiale suggerì un'altra idea, di "prefabbricare" dei blocchi di fango seccati al sole per poi utilizzarli a piacere; nel ca. 7000. a.C. già vi sono alcune case costruite con mattoni crudi, con ambienti interni intonacati, perfino colorati, ed alcune perfino imponenti di 6 m per 4.  Uno dei più antichi che si conoscono di questi villaggi  è quello di Qual'at Jarmo che sorge su un ettaro e mezzo nella pianura di Chamchama (Iraq settentrionale). Poco lontano in Giordania, subito dopo, sorse su quattro ettari Gerico, e a Konya in Anatolia su dodici ettari Catal Huyuk.
Queste costruzioni contenevano all'interno un focolare centrale, vari utensili, e più tardi, nel 6000-5000 a.C. anche decorazioni interne. Il sistema dei mattoni di argilla cotti al sole divenne usuale in molti luoghi. Inoltre, le case iniziarono ad essere quasi sempre quadrate o rettangolari. Alcune con i muri rialzati senza un'apertura e per accedere all'interno si entrava da una terrazza sul tetto tramite una scala di legno. Con più ingegnosi accorgimenti -forse nel costruire edifici sacri - nacque la prima idea della porta e quindi dell'....

ARCHITRAVE - Esso rappresenta il primo elemento costruttivo impiegato dall'uomo in opere edili. Costituito da una trave di legno orizzontale, sostenuta da due elementi verticali. Ideale per costruire la cornice superiore di una porta d'entrata, o delle finestre. Quando poi si cominciò a utilizzare la pietra, dalla porta dei Leoni di Micene, dal tempio di Karnak (che ha colonne alte 21 metri, 3 di diametro con sopra un architrave di 70 t ) e fino al Partenone di Atene, Egiziani e Greci portarono al massimo grado di grandiosità le costruzioni fatte con architravi. Furono poi i Romani a sviluppare il principio dell'arco, diventandone poi maestri.
Pur con le prime case in pietra e mattoni, la costruzione della casa in tronchi di legno - retaggio arcaico - non fu del tutta abbandonata dagli abitanti di zone lacustri. Il miglior sistema per difendersi da animali aggressivi era quello di costruire capanne sopra una piattaforma ricavata da pali infissi nel terreno acquitrinoso o sulle rive dei laghi. Sembra che questa tecnica "palafitticola" sia stata praticata -prima ancora dei laghi prealpini- nell'antica Tracia, sulle sponde del mar Nero, alla foce del Danubio. Qui - a Varna- esistono ancora numerosi siti archeologici di antichi villaggi palafitticoli databili 4000-5000 a.C. Ma ne esistono anche in Italia, fra i quali quello al lago di Ledro (TN); dopo il prelievo di acqua per una diga, è emerso dal lago un intero villaggio palafitticolo del 1500-1000 a.C., con numerosi reperti che sono i più antichi rinvenuti in Italia, e che dimostrano che queste genti erano in stretto contatto con i micenei, ma anche con gli scandinavi (si è rinvenuto un pugnale che è molto simile a quello trovato a Micene nella tomba dell'olio databile 1500 a.C., e si è trovata dell'ambra la cui provenienza è indubbiamente del mar baltico).

Le capanne del villaggio erano costruite su piattaforme sollevate sopra il livello dell'acqua, mediante pali tondeggianti infissi nella melma del fondo. Il tavolato era pure questo costruito con tronchi d'albero, talvolta spaccati in due, e non si limitava a sostenere una sola capanna, ma si estendeva sotto l'intero villaggio. - Sulle sponde del lago oggi sorge uno dei più interessanti e importanti musei italiani dell'epoca palafitticola. Da questo e altri laghi vicini, i palafitticoli verso il 1000 a.C. li abbandonarono, scesero nella pianura Padana, disperdendosi e integrandosi con le culture locali. Meno un gruppo che portandosi a est sulle rive dell'Adriatico, quando in seguito dovettero trovare un luogo non accessibile alle orde nemiche, l'antica tecnica della palafitticultura fu riesumata e iniziarono a costruire su delle isolette degli insediamenti, che via via perfezionandosi portarono a far sorgere quella bellissima città che porta oggi il nome di Venezia.
L'AGRICOLTURA. - Fin quando i primi uomini conducevano una vita nomade, e costretti a inseguire animali da cacciare se volevano alimentarsi, non ebbero tempo per occuparsi di agricoltura. Era del resto ancora carnivoro, e quindi i vegetali interessavano ancora poco. Probabilmente in una certa data ci fu una periodo di carestia, dovuta ad una caccia povera. Dovettero per forza di cose trovare alternative alimentari per sopravvivere. Questo grosso problema si pose forse per la prima volta nella zona nord dell'odierno Iraq - che più tardi doveva diventare l'Assiria -   nella zona meridionale degli Zagros, dove non molto lontano a ovest sorgeranno i futuri stati di Sumer, Akkad e dell'Elam; cioè la Mesopotamia.
Da circa 25.000 anni gli ominidi della seconda grande migrazione erano giunti in queste zone iraniche, e dopo circa 800 generazioni che si erano da allora succedute, gli insediamenti dovevano essere numerosi. Lo testimoniano moltissimi insediamenti di civiltà neolitiche non ancora dissepolti. Qui sorse il "Paradiso Terrestre"  (l'etimo nacque proprio qui in Iran) della vegetazione mondiale. Sulle rive del Caspio c'è il museo naturale dell'agricoltura mediterranea e perimediterranea. I maggiori centri della coltura intensiva sono qui. Qui l'origine di quasi tutti i frutti e le varietà di verdure che si conoscono al mondo, compresa tutta la varietà di cereali, riso, grano, segala, soia, granoturco; compresi gli agrumi, i legumi, il cotone, il tabacco, il tè, la canna da zucchero, gli olivi;   la stessa vite è stata specificatamente individuata come originaria di questa zona, nel Turkestan, sulle sponde del Caspio.

Se da poco avevano addomesticato i piccoli animali per la propria alimentazione, qui "addomesticarono" anche le piante. La vegetazione spontanea esisteva, ma non era certo sufficiente all'alimentazione per lunghi periodi. Ciononostante tutto partì da questi "Giardini" (anche questo etimo da "zardis" nacque qui,  e indica ancora oggi in Iran gli orti e i frutteti locali, cioè degli appezzamenti di terreno coltivati e recintati) e ogni pianta o frutto raggiunse in varie epoche sia l'Occidente sia l'Oriente (non per nulla che la pista per la Cina rimase per altri 7000 anni quella del Turkmenistan, trasformandola nel crocevia di due mondi. Da questi luoghi e proprio da queste piste scesero in estremo Oriente le piante selvatiche,  trasformando i cinesi nei migliori ibridisti del mondo.

In questi territori iraniani del Caspio, prosperano ancora oggi tutte le famiglie delle piante selvatiche sopra citate. Che sono in pratica quasi tutte le piante che ci sono utili nell'alimentazione vegetale. Ma anche l'allevamento intensivo nacque qui. Sembra proprio che il nonno della pecora e della capra siano entrambi del Turkmenistan dove vive l' argali, una pecora selvatica dei monti Elburz. Il bovino, il bos primigenius é nativo di questa zona; era un animale gigante, ma gli abitanti selezionarono le specie nane (quelle attuali) e le addomesticarono. Per quanto riguarda il maiale, le più antiche ossa finora note al mondo (della Sus  scrofa)  sono quelle recuperate dalla spedizione di Coon proprio sulle sponde del Mar Caspio (a Belt).

E arriviamo alla coltura dei cereali e dei legumi. Nascono qui (ed esistono ancora) le prime piante selvatiche di quasi tutti i cereali che conosciamo. Prendiamo i due più importanti per la futura alimentazione umana: il grano e il riso. La coltivazione avvenne forse occasionalmente per un errore che la natura ogni tanto commette.  Nella sua forma selvatica, la pianta del frumento regolarmente giunta alla maturazione, il suo baccello inizia ad aprirsi facendo cadere i semi che si disperdono sul terreno pronti a rinascere la successiva stagione. Probabilmente non avendo altro da mangiare gli abitanti si misero (facendo concorrenza agli uccelli) a raccogliere con tanta pazienza i chicchi sul terreno sparpagliati. La lingua sumerica diede il nome all'oggetto  con il verbo chiamando il chicco  gran  o ghan , che significa appunto sparpagliare.

Di tanto in tanto la pianta selvatica annuale subisce per alcune ragioni (es. il clima) un mutamento che ne determina accidentalmente l'estinzione quando la spiga (o il baccello di alcune leguminose) perde la propria capacità di aprirsi. Il chicco non cade e la pianta marcisce con il suo stelo assieme ai suoi potenziali semi. Quando questo accade, non solo a terra non ci sono chicchi da raccogliere ma l'anno dopo in questo terreno non vi cresce ovviamente nulla. L'osservazione avvenuta forse in più stagioni, portò alla grande scoperta. Se infatti l'uomo interviene su questa piantina prima che marcisca e provvede al momento giusto a raccogliere i chicchi  battendo la spiga con i baccelli non aperti, non solo ottiene il prodotto da utilizzare subito nell'alimentazione ma può usarne anche una parte per la successiva e necessaria  seminagione. Inoltre può tagliare le spighe e portarle a casa, senza perdere neppure un chicco se raccolte al tempo giusto: cioè con un chicco già maturo ma non abbastanza maturo per cadere. E cosa più interessante e pratica, può seminarli questi chicchi in un terreno vicino alla sua dimora.

Iniziò tutto così. I primi proto-agricoltori iraniani da semplici raccoglitori si trasformarono in coltivatori seminatori dopo aver sgranato (!!) da queste spighe i semi,  assicurandosi così non solo la pappa quotidiana ma anche il prossimo raccolto se fatto con oculata intelligenza: cioè attento a far ripetere ad ogni stagione quello che prima faceva la natura con la piantina; cresceva, emetteva il chicco, questo maturava, cadeva, e l'anno dopo (se c'erano però le condizioni) tornava nuovamente a germogliare. 
Altrettanto accadeva alla piantina del riso, ai piselli, alle fave, alle lenticchie, e a molti altri cereali, legumi e tante varietà di verdure. Molti ortaggi vanno in semenza, ma se il clima non è favorevole, la semenza non cade ma marcisce sulla stessa pianta.
Per queste prime esperienze di semina, per rompere la terra e mettere a dimora i semi occorreva un attrezzo, e questo fu all'inizio una specie di punteruolo in selce con una impugnatura (che usiamo ancora oggi per mettere a dimora semi o piantine già germogliate), poi si ricorse a una rudimentale zappa, in seguito qualcuno ebbe l'idea di far trascinare questa zappa da un animale, e meglio della zappa utilizzò scapole di animali di grossa taglia per tracciare il solco, infine iniziò a modellare un grosso tronco di legno con una punta curvata, che via via migliora fino a diventare poi l'aratro che vedremo in seguito, sempre più perfezionato.
Nel 500 a.C. con a disposizione il bronzo gli aratri cambiarono anche la foggia: furono realizzati pesanti, capaci di penetrare più a fondo nel terreno. Nel II secolo d.C. con a disposizione una buona fucinatura del ferro l'aratro compare munito di una grossa lama verticale che taglia il terreno (coltro) e una triangolare affilata (vomere). Più tardi gli si aggiunse il "versoio" che ha la caratteristica di riversare ai lati del solco la terra arata.
Se l'aratro pur arcaico fin dal primo momento fu l'attrezzo più importante della storia della civiltà, subito dopo non meno importanza ebbe la macina.

Per i cereali, soprattutto per il grano la macinazione all'inizio non fu un compito facile, richiedeva pazienza, resistenza fisica e tanto tempo. All'inizio si usava per i cereali un utensile ideato molto tempo prima per pestare bacche.
Consisteva in una base di pietra, e una pietra più piccola che veniva impugnata. Spingendo quest'ultima sulla prima, avanti e indietro, frantumava i chicchi, li riduceva in farina che poi scendeva ai lati. Di altre soluzioni col tempo ne trovarono diverse. Una fenditura laterale, poi una scanalatura centrale, poi per frantumare e schiacciare s'inventarono un sistema tipo grosso mattarello. Quest'ultimo metodo suggerì forse quello definitivo: apparso nel V secolo a.C. consisteva in un grande sasso al centro con sopra una specie di grande mattarello fatto a ruota, che girava in cerchio sulla stessa pietra, macinando e riducendo in farina ogni cosa. Era nato un nuovo straordinario attrezzo: la mola.

Che aveva due altre grosse potenzialità, una tecnica e l'altra economica: la prima (subito applicata) era che piazzando un palo in orizzontale con una estremità infissa nella mola e all'altra estremita una forza motrice a spinta muscolare, il lavoro era di molto semplificato; inoltre essendo un banale moto rotatorio si potevano impiegare anche animali tipo asini che dovevano semplicemente girare in cerchio attorno al basamento della mola. La seconda potenzialità (anche questa subito divenuta effettiva) era che procedendo in questo modo la farina ottenuta in una sola giornata era prodotta in una quantità enorme, tale che l'operatore si trovò a praticare un'attività molto redditizia, quella di macinare una grande quantità di grano anche per terzi. Era nato il mugnaio del molino che lavora per conto terzi.

Ma da cosa nasce cosa; avendo disponibile la materia prima, presto i mugnai divennero anche fornai. Allestendo grandi forni per cuocerci dell'ottimo pane (nell'immagine sotto mola e forni dell'epoca romana sono ancora visibile a Pompei - si noti al centro della mola il foro quadrato dove veniva inserito il palo per la trazione circolare animale).
ILO PANE - Quando un uomo o una massaia impastò la prima farina di grano, oppure di orzo, farro, miglio, segala, avena, e la mise a cuocere a forma di focaccia sulla cenere calda, una data precisa non la si conosce. Forse da alcuni millenni. Ma ciò che ottenevano doveva essere poco presentabile, poco buono, e anche poco digeribile. Galeno che fu il primo dietologo della storia, nei suoi trattati di medicina occupandosi del pane, ancora nella sua epoca (129-201 d.C.), quindi già piuttosto avanzata, affermava "il pane cotto nella cenere è pesante e di difficile digestione. Quello cotto in un piccolo forno o in una stufa causa dispepsia ed è indigesto. Quello cotto su un braciere è piuttosto malsano. Mentre il pane cotto in grandi forni eccelle invece in tutte le buone qualità, giacchè ha un buon sapore, fa bene per lo stomaco, è facilmente digeribile e viene assimilato molto facilmente".
Dunque, quando insieme ai mugnai nacquero anche i grandi forni del pane, questo alimento migliorò in modo considerevole, in tutte le sue specie: fatto a focaccia, a pagnotta, a cialda ecc. Ovviamente la principale bontà era data dal tipo di farina, questa dal tipo di grano, quest'ultimo secondo il tipo di terreno e di coltivazione, ed infine come e con che cosa si impastava la farina, perchè oltre la semplice acqua era già in uso aggiungere olio o sugna animale (strutto) per rendere il pane soffice. Quello spugnoso, lievitato (da levit che significa alzarsi), sembra sia nato in Egitto. Qui un particolare tipo di grano la cui farina ottenuta conteneva una maggiore quantità di glutine, una volta impastato in condizioni ideali e quando probabilmente alcuni microrganismi favorevoli si insinuarono, fermentando produceva anidride carbonica, formando così minuscole bolle di gas nell'impasto. Quest'ultimo lasciato per un po' di tempo da parte prima della cottura, cioè a lievitare quanto bastava, nel cuocerlo il pane ottenuto aveva quella fraganza che ancora oggi tutti conosciamo. Essendo stato quello della fermentazione un processo accidentale, per riprodurlo deliberatamente si mobilitarono tutti i "chimici" del tempo con scarsi risultati. Il metodo più comune rimase per secoli quello di usare "quella materia serbata del dì innanzi". Cioè conservare una piccola quantità di pasta fermentata e incorporarla nell'impasto del giorno successivo. Ancora oggi pur essendoci i lieviti secchi pronti all'uso quasi istantanei, il metodo del "dì innanzi" è tuttavia sempre rimasto in uso.

 

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