-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

28. IL CITTADINO ROMANO E IL NUOVO STATO


Il Tevere in una antica scultura

 

Quando gli Etruschi occuparono la Toscana, vi trovarono una popolazione più antica, di razza indo-europea-italica. Essi non la scacciarono, ma la sottomisero; ridussero i proprietari del paese allo stato di servi della gleba e se ne fecero i padroni ed alti signori fondiari. I loro soggetti ci vengono paragonati ai penesti tessali e questi erano appunto dei servi della gleba.
Cosa significa alta signoria fondiaria e servitù della gleba? Si tratta di una forma particolare di economia agricola e di signoria fondiaria; il servo della gleba non é schiavo, ma nemmeno é libero; é un semilibertà. Egli coltiva la sua gleba, ma la terra non é in sua libera proprietà, egli vi ha soltanto un diritto di godimento trasmissibile in eredità, un diritto di proprietà di natura subordinata; la proprietà eminente spetta al signore fondiario. Questi non può a suo libero arbitrio privare della terra il servo, ma ha diritto a prestazioni da parte sua, che di regola sono fatte in natura, consistono in una quota dei prodotti della terra; e di esse vive il suo signore. Questi può anche coltivare direttamente una parte delle sue terre, ma ciò non é necessario; egli può far coltivare dai servi tutti i suoi dominii.
É chiaro che, avvenendo questo, il proprietario può fare a meno di risiedere nella campagna. Non é necessario che sia egli stesso agricoltore, ma può vivere in città delle prestazioni dei suoi servi. Si rende così possibile la formazione di una aristocrazia fondiaria che dimora in città.
Anche col sistema di dare in affitto le terre può formarsi una aristocrazia vivente in città, ma l'affitto é un rapporto contrattuale risolvibile d'ambo le parti e il colono é uomo libero. Dominio fondiario eminente e servitù della gleba invece non sono solamente un sistema di economia agricola, ma si basano sopra un rapporto di soggezione del servo al signore che si trasmette d'ambo i lati per eredità; la servitù della gleba é una condizione ereditaria di soggezione.
Dominio eminente fondiario e servitù della gleba non sono fenomeni particolari di determinati popoli e tempi, ma sorgono spontaneamente, date certe condizioni, nei luoghi e tempi più diversi. Sul cadere dell'antichità, nell'impero romano, la servitù della gleba ha preso la figura del colonato. A datare dai tempi della guerra contro Cartagine, Roma e l'Italia si riempirono di un enorme numero di schiavi, perché i prigionieri di guerra venivano ridotti in schiavitù. E il denaro che in seguito alle guerre vittoriose cominciò ora ad affluire incessantemente in Italia aprì ai Romani anche i grandi mercati di schiavi dell'Oriente.
L'economia romana dopo ciò si basò sul lavoro degli schiavi. Ma l'epoca augustea arrecò la pace universale, per due secoli tacquero le guerre e, non funzionando più la prigionia di guerra, si inaridì la fonte più copiosa della schiavitù; né essa si riattivò quando con Marco Aurelio spuntò una nuova era di guerre, perché il loro esito non fu più così favorevole ai Romani da far cader loro in mano schiere numerose di prigionieri.
E la mortalità degli schiavi divenne sempre più alta in confronto alle nascite che venivano a colmare i vuoti. Il mantenimento che si prestava agli schiavi addetti al lavoro era minimo assolutamente incapace a conservarli in condizione di poter lavorare; la durata della vita degli schiavi quindi, per lo meno in media, non era lunga. E matrimoni tra schiavi non ne esistevano. Le unioni contuberniali fra schiavi d'altra parte non erano assolutamente sufficienti per pareggiare anche approssimativamente
col numero delle nascite il deficit prodotto dalla mortalità.
Ne derivò che già nel secondo secolo dell'impero si fece sentire una forte deficienza di braccia. Ed allora si cercò di assicurarsi per lo meno quanto ancora si aveva col legare alla gleba gli uomini liberi di condizione economica precaria. Per tal via sui vasti possedimenti imperiali e dei senatori non soggetti agli ordinamenti municipali prese sviluppo la servitù della gleba nella forma del colonato, regolata da norme fiscali. Dapprima avvenne in via di fatto; ma dopo che si era mano a mano introdotto e divenuto una salda consuetudine, ebbe alla fine anche la sua sanzione formale di diritto.
Il XVIII ed il XIX secolo hanno passo a passo abolito in Europa la servitù della gleba ereditaria, e nessuno desidera od anche pensa soltanto a ripristinarla. Ciò malgrado é da ritenere che essa, date certe condizioni, risorgerebbe ancora oggi. Non vi è dubbio che alla deficienza di lavoratori di cui soffre la parte orientale della Germania settentrionale, arrecherebbe rimedio una norma che abolisse la libertà di movimento; ma in tal caso tornerebbe sicuramente a spuntare la servitù della gleba.
Nella leggenda di Giuseppe l'antico testamento rappresenta l'asservimento compiuto da Faraone dei contadini egiziani come un risultato cui egli giunse traendo profitto dal loro dissesto economico: per un pugno di grano, esso dice, costoro avevano venduto se stessi e le loro terre ed erano divenuti tributari e servi della gleba. Ma l'origine della servitù della gleba dall'abbassamento degli uomini liberi in precarie condizioni economiche, quale ci si offre in Egitto e nel colonato, non costituisce la regola. Nella maggior parte dei casi essa é una conseguenza della conquista.
La nostra terminologia politica rimonta ai Greci, ad Aristotele, ma la classificazione da lui fatta dei varii tipi di governo, la monarchia patriarcale, l'aristocrazia, la tirannide e la democrazia, non é esauriente neppure riferita alle sole condizioni della Grecia, perché essa non ha ancora avvertito la stretta connessione che intercede fra lo Stato e l'economia sociale, sulla cui importanza il XIX secolo ha richiamato l'attenzione ed affinato lo sguardo. Spesso anche la costituzione politica é l'esponente di una determinata situazione economica. Certamente la tirannide é la dominazione democratica di un solo, ma ciò non basta a renderci ragione della sua origine e della sua essenza.
La forma di governo aristocratico si basa sull'economia agricola, ma lo sviluppo del commercio e delle industrie porta al benessere ed alla ricchezza altri elementi della popolazione. Questi allora tendono a salire e reclamano una influenza sulla cosa pubblica proporzionata alla loro posizione economica; essi la trovano nella dominazione di un tiranno sostituita al governo aristocratico. Invece che dell'economia agricola la tirannide é l'esponente politico del capitale mobiliare: da ciò il colossale sviluppo degli Stati greci sotto la tirannide. Sotto i governi aristocratici e sotto i re la prevalenza assoluta era spettata all'agricoltura; ma l'economia agricola può essere organizzata in maniera differente, e questa diversità di organizzazione dell'industria agricola e della popolazione rurale genera differenze profonde anche nell'organizzazione dello
Stato. Riguardo agli antichi Stati ellenici la differenza essenziale consiste nel fatto che essi siano basati sulla servitù della gleba ovvero invece sul lavoro libero e sulla libera proprietà degli agricoltori.

Allo Stato omerico della costa ionica dell'Asia Minore é estranea la servitù della gleba; e le «Opere e giorni», il calendario agricolo di Esiodo, ci mostrano verso, il 700 a. C. il contadino beota quale libero proprietario del suo podere. Altrove invece l'organizzazione dello Stato e la vita sociale delle classi dominanti si basano sulla servitù della gleba: così soprattutto in Tessalia, a Creta ed a Sparta. Nella Tessalia una più antica popolazione greca venne sopraffatta dai Tessali e ridotta nella condizione quasi servile dei penesti. A Creta troviamo, accanto al dominio eminente fondiario dello Stato sui servi della gleba del fisco, i mnoiti, una signoria fondiaria dell'aristocrazia dorica sui suoi claroti e afamioti.
Ed in modo più profondo che altrove l'abbassamento della più antica popolazione rurale alla condizione di Iloti influì a Sparta sull'organizzazione dello Stato e della vita, sugli ordinamenti politici e sociali. Nella costituzione di Licurgo la distinzione fra signori e servi della gleba formò la base dell'organizzazione politico-militare dello Stato. L'aristocrazia dorica della Laconia e della Messenia vive delle prestazioni dei suoi servi, gli Iloti: essa dimora tutta nella città di Sparta. Gli Spartani non coltivano personalmente la terra, ma hanno soltanto il dominio eminente del paese; agli Iloti, i precedenti liberi proprietari, spetta soltanto un diritto di proprietà di natura subordinata, un diritto di godimento trasmissibile in eredità.
Gli Spartani vanno volentieri a caccia sui loro beni, dove hanno un pied-à-terre, ma la loro dimora abituale è la città di Sparta. A Sparta la loro vita é tutta rivolta agli esercizi militari ed alla politica.
In tutti questi luoghi, nella Tessalia, a Creta e nel Peloponneso, la servitù della gleba é stata una conseguenza dell'immigrazione e della conquista. Anche presso gli abitanti della terra di Canaan la servitù della gleba fu effetto dell'immigrazione dei figli d'Israele e della loro conquista della Palestina.
Nella Jonia, sulla costa dell'Asia Minore, l'immigrazione non fu abbastanza forte per ilotizzare in maniera generale od anche permanentemente la popolazione più antica che trovava appoggio nei grandi Stati asiatici posti alle sue spalle. Per quanto anche qui non manchino in tempi più remoti tracce di servitù della gleba, in Omero sono già scomparse. Inoltre nella Jonia si aggiunse il rapido sviluppo preso dalla navigazione, dal commercio e dall'industria, mentre sappiamo che la servitù della gleba è una organizzazione preminentemente di carattere agrario.
Anche in Sicilia i conquistatori greci recarono al momento della loro colonizzazione la servitù della gleba; a Siracusa i Gamori immigrati si costituirono in posizione di proprietari fondiari eminenti di fronte alla popolazione rurale locale più antica. Era questa una maniera comoda di trarre profitto dalla conquista. Con una organizzazione di questa sorta era possibile lasciare al proprietario sinora libero una proprietà limitata. Il conquistatore si collocò di fronte ad esso come signore eminente fondiario, percependo da lui una parte del reddito della terra.
In Egitto il Faraone percepiva dai suoi servi il quinto: assai più dura era l'oppressione degli Spartiati. Dei Messeni, divenuti Iloti degli Spartani, Tirteo, che pure era uno Spartano, dice che «simili agli asini oppressi dal peso enorme della soma, essi, costretti dalla dura necessità, pagavano al padrone la metà di tutto ciò che produceva il suolo». Ora questa metà aveva una portata ben diversa per il servo che non per il padrone. Ciò perché da un lato il servo doveva sopportar lui tutte le spese della cultura, e dall'altro lo Spartano aveva il vantaggio di possedere sotto di sé più famiglie di Iloti. Fatta l'ipotesi che queste fossero cinque, lo Spartano percepiva la metà del reddito di tutto il suo claros, del suo complessivo possedimento, mentre le singole famiglie di Iloti ne ritraevano soltanto il decimo.

Anche nella penisola dell'Appennino ci imbattiamo nella servitù della gleba, presso gli Etruschi; ed anche qui é chiaro che essa fu per effetto della conquista. La popolazione indo-europea della Toscana non emigrò dinanzi all'invasione etrusca, ma divenne serva della gleba degli Etruschi: e ciò vale tanto per gli Umbri quanto per i Latini a settentrione del Tevere.
Come stavano però le cose sulla sponda sinistra del Tevere? Sí é avuta pure qui, sí è avuta anche in Roma la servitù della gleba?
Sulla riva destra dell'Aniene, in Sabina, vi era ! qui vi dimorava una vasta gente di signori fondiari sabini, i Claudii. Questi inoltre pochi anni dopo la cacciata dei Tarquini aggregarono i loro dominii allo Stato romano, e, mentre i loro servi, i clienti, rimanevano legati alla gleba, trasferirono la propria dimora a Roma e furono accolti nell'aristocrazia romana, nel patriziato.
Verso il 500 a. C. pertanto la servitù della gleba era un istituto giuridico tuttora esistente e riconosciuto a Roma. Questa servitù era la clientela. Senza dubbio i clienti dei tempi posteriori sono uomini liberi, ma i doveri ch'essi hanno verso il patrono serbano ancora come fossilizzati i residui dell'originaria figura del rapporto, di una precedente completa soggezione. Probabilmente lo stesso nome di cliens significa addirittura il servo; ad ogni modo é certo che esso é in legame di dipendenza da cluere=audire.
È vero che cluere significa anche audire nel senso di portare un determinato nome; ma anche stando a questa accezione, i clienti sarebbero quelli appunto che traggono il nome che portano dal nome gentilizio del patrono. E quindi non é possibile derivare da ciò un dubbio sul fatto che la clientela dei tempi posteriori conservi le tracce di uno stadio più antico in cui era pura e semplice servitù della gleba.
Se i clienti sono servi, chi sono i loro patroni ? I patrizi. I patrizi romani furono una aristocrazia terriera, aristocrazia vivente in città delle prestazioni dei suoi servi. Tale essa era quando vi si fusero i Claudi. In seno alla popolazione romana già esistevano senza dubbio differenze di stirpe; nei riguardi del culto tali differenze si sono conservate nei plebei. Ad esse si aggiunse in seguito l'antitesi tra Latini ed Etruschi. Può darsi che già prima dell'età etrusca gli immigranti latini abbiano imposto la servitù della gleba ad una popolazione più antica. E quando gli Etruschi si estesero oltre Tevere e fondarono la città di Roma, non devono aver proceduto diversamente da quel che avevano fatto in Toscana con gli Umbri e Latini.

Se anche la servitù della gleba non fosse già esistita fra i Latini a sud del Tevere, gli Etruschi ve l'avrebbero introdotta allo stesso modo che in Toscana. I particolari più precisi di questa organizzazione sfuggono naturalmente ai nostri sguardi; possiamo dire soltanto che fra le genti patrizie di Roma si incontrano così nomi latini come nomi etruschi; e queste genti sono tutte di antica data, esse esistevano già quando vi si vennero ad aggregare i Claudi.
L'immigrazione etrusca e la fondazione della città per opera degli Etruschi ha dunque indubbiamente fruttato l'acquisto di terre, di servi o di diritti dominicali a certe famiglie etrusche, ma ha lasciato posto nell'ambito dello Stato romano anche all'aristocrazia patronale latina.
La servitù della gleba romana ci riporta pertanto all'epoca regia: accanto al re si trovava l'aristocrazia terriera del patriziato, d'origine così latina come etrusca. Se accanto ai servi della gleba esistessero anche liberi agricoltori é arrischiato dirlo. I contadini dimoravano permanentemente in campagna. Quella popolazione che invece abitava nella città di Roma insieme alle famiglie patrizie, non possedeva alcun diritti politici di sorta prima della fondazione del tribunato, tuttavia non deve essere stata in condizioni di clientela.

La cacciata dei re non mutò affatto la situazione dei rapporti fra patroni e clienti: patronato e servitù della gleba si perpetuarono dall'età regia nell'epoca repubblicana. Certo un mutamento si era verificato, ma solo nel senso che le famiglie aristocratiche ora avevano tratto nelle loro mani il governo dello Stato in luogo dei re. E lo conservarono intatto fino al momento della istituzione del tribunato e delle quattro tribù urbane locali.
Che a questa istituzione, che conferì alla popolazione cittadina non patrizia un principio di diritti politici, non si sia arrivati senza gravi convulsioni, emerge già dall'illimitato diritto di difesa, dal ius auxilii, che avevano conquistato i tribuni contro la magistratura. E il movimento, iniziatosi proprio nella città, prese ad estendersi nelle campagne e fra i contadini. Nel suo risultato finale esso condusse alla organizzazione del nuovo stato.
La legislazione delle dodici tavole presuppone la libera proprietà della terra; essa non conosce più la distinzione tra una proprietà eminente ed una proprietà subordinata. Questa distinzione era dunque stata abolita ed era scomparsa; coloro che prima non avevano avuto che un limitato diritto di proprietà sulle terre, ora ne avevano acquistato la piena proprietà.
In seguito la proprietà rurale trova la sua espressione nell'organizzazione delle tribù locali rustiche. Esse sono suddivisioni del suolo e le persone appartengono alle tribù in quanto possiedano una parte di questo suolo di piena proprietà. La fondazione della piena proprietà delle terre é dunque avvenuta con la fondazione delle tribù rustiche con la fondazione di esse i contadini semiliberi acquistarono la libera proprietà dei campi e venne meno la proprietà eminente dell'aristocrazia.
La fondazione delle tribù rustiche fu dunque un affrancamento dei contadini. L'affrancamento dei contadini romani é più recente della istituzione del tribunato e della fondazione delle quattro tribù urbane, ma é più antico del decemvirato e della legislazione delle dodici tavole.
Anche in Grecia i servi della gleba tentarono spesso di scuotere il giogo dei loro padroni; i Penesti tessali, gli Iloti spartani lottarono ripetutamente per affrancarsi. Verso il 500 a C. i servi si liberano ad Argo di propria iniziativa, ed a Siracusa verso il 461 molti di essi riuscirono ad ottenere terre in proprietà libera. Una affrancazione dei contadini fu compiuta nel 363 a. C. da un principe greco illuminato, il tiranno Clearco di Eraclea del Ponto; egli liberò i servi degli Eracleoti, i Mariandini, e concesse loro delle terre.
Quanto fossero in moto le correnti di idee verso l'affrancazione dei contadini nei decennii dopo il 500 a. C. si vede soprattutto a Sparta. Poco dopo il 470 a. C. il vincitore di Platea, Pausania, concepì il disegno di liberare gli Iloti. Le sorti a Sparta purtroppo volsero però contro Pausania e gli Iloti.
Diversamente andarono le cose a Roma: qui si ebbe l'abolizione della servitù della gleba ed intervenne un accordo fra gli antichi proprietari eminenti del suolo ed i contadini affrancati. Le terre furono divise fra loro. Il proprietario precedente ne ebbe una parte, naturalmente la maggiore; il contadino ottenne come superficie meno di quanto aveva posseduto fino allora, ma in compenso la ottenne in libera proprietà. Ed il precedente proprietario eminente nella coltivazione della sua parte non fu più vincolato dai diritti del servo della gleba; egli poté coltivare più razionalmente, dal momento che nell'introduzione di innovazioni non fu più impedito od ostacolato dal diritto consuetudinario dei servi della gleba. Ora poté egli stesso farsi agricoltore; solo adesso si rese possibile uno spettacolo come quello di Cincinnato che, tolto dall'aratro, sconfigge gli Equi. E benché i suoi servi fossero divenuti liberi il precedente signore fondiario non correva pericolo di mancar di braccia.
Quanto fossero feconde di prole queste famiglie romane si vede dai prenomi. Sino al quarto figlio esse si servono di solito di nomi particolari, ma dal quinto in poi cominciano semplicemente a contarli: Quinto, Sesto, Decimo; cinque, sei o addirittura dieci figli non erano dunque cosa per nulla rara. I figli minori dei contadini pertanto, che non trovano da occuparsi sul podere paterno, si prestavano a recare l'opera delle loro braccia, come liberi lavoratori, sui campi dei signori.
La suddivisione delle terre che fu allora compiuta sul suolo romano non ha traccia di comunità e di vincoli rurali. Quando i campi - stanno l'uno accanto all'altro senza soluzione di continuità e non si può accedere ai singoli poderi senza passare - su quelli degli altri, si stabiliscono di necessità la comunione delle terre e i vincoli di coltura. In tal caso la coltivazione ed il raccolto devono esser fatti da tutti contemporaneamente; in altri momenti non può concedersi nemmeno allo stesso proprietario di accedere sul suo fondo. Solo quando ogni singolo fondo é reso accessibile mediante una propria rete di sentieri si può fare a meno della comunione e dei vincoli, quali esistono ancora oggi nelle varie contrade, e ciascuno può arare, seminare e raccogliere quando vuole.
Una norma delle dodici tavole vieta l'usucapione dei fondi sino alla misura di cinque piedi. Si tratta di vie di confine larghe cinque piedi destinate a rendere liberamente accessibili i singoli fondi. Per evitare che questi limiti si andassero restringendo con l'invasione della coltura e finissero per rimanere cancellati, la legge li dichiara incapaci di usucapione. Altrimenti si sarebbe stati costretti a ricorrere nuovamente alla comunione delle terre ed ai vincoli.
La clientela con il carattere di servitù della gleba era rimasta abolita in seguito all'affrancazione dei contadini ed essa si perpetuò soltanto in taluni residui di diritti e di doveri di pietà verso il patrono. Parimenti venne meno la proprietà eminente. I Claudi furono l'ultima gente che avesse ancora ottenuto di essere accolta nel patriziato romano. E si comprende benissimo: il patriziato era stato in connessione necessaria con la signoria eminente territoriale, e questa ora era abolita. D'ora in avanti il patriziato é chiuso.
Il territorio rurale romano fu diviso in sedici tribù rustiche, che prendono nome da genti patrizie; il che vuol dire che in questi distretti erano allora situati i beni di ciascuna gente. Tutti i proprietari sono iscritti nella lista dei componenti di queste tribù, A questo punto il numero delle tribù locali sale a venti; le sedici tribù rustiche sono venute ad aggiungersi alle quattro urbane. I membri non patrizi delle tribù rustiche ottengono ora anche l'adito ai comizi plebei e partecipano all'elezione dei tribuni.
L'affrancazione dei contadini romani ebbe una portata di gran lunga superiore a quella di altre affrancazioni simili verificatesi nella storia antica, si può dire anzi che essa si presenta come l'affrancazione di più profonde conseguenze di tutta la storia universale. Perché ?

L'efficacia delle affrancazioni dei contadini può essere molto varia. Le riforme di SteinHardenberg fecero si che lo Stato prussiano trovasse la forza di sollevarsi dalle sue condizioni di profondissima depressione, perché posero l'affrancazione dei contadini a base di una nuova organizzazione dello Stato, perché con essi Scharnhorst poté creare l'esercito prussiano che combatté la guerra di libertà. Senza l'affrancazione dei contadini prussiani e la riorganizzazione militare basata sulla loro utilizzazione non si sarebbe avuto né un 1866 né un 1870. Come é andata invece sciupata l'abolizione dei servi della gleba operata in Russia da Alessandro II! E perché ? Perché in Russia questa abolizione della servitù della gleba non fu posta a base di una riorganizzazione dell'intero Stato.
L'affrancazione dei contadini romani al contrario acquistò il valore di un evento di portata fondamentale per tutta la storia di Roma, perché formò le basi di una organizzazione completamente nuova dello Stato e dell'esercito che pose capo ad una redenzione di tutte le energie esistenti prima vincolate. In seguito ad essa i liberi agricoltori della Campagna ebbero una organizzazione militare e diritti politici e la vigorosa gioventù di questi agricoltori costituì il nucleo dell'esercito romano. L'ordinamento centuriato, l'organizzazione politico-militare introdotta dalla così detta costituzione serviana, é un effetto dell'affrancazione dei contadini romani.
Anche se si volesse ammettere sia esistito un re etrusco-romano Servio, sarebbe certo che non si chiamò Servio Tullio, perché il nome dei Tulli é un nome plebeo, e la figura di Servio Tullio é poco probabile sia più antica della fine del quarto secolo a. C.
E la costituzione, che un'epoca posteriore ha ricollegato a questo nome, l'ordinamento su 193 centurie, non é venuta in essere se non al tempo della grande guerra sannitica. Più antico invece di questo schema é un altro ordinamento centuriato che gradua le varie classi non a seconda di una scala di somme di denaro, ma in base alla proprietà fondiaria. La libera proprietà fondiaria é il presupposto e la base dell'originario ordinamento centuriato, quella libera proprietà che era stata creata dalla istituzione delle tribù rustiche. Solo chi appartiene quale libero proprietario ad una delle tribù locali ha adito alle centurie con i loro diritti e doveri politico-militari. Quante siano state le centurie istituite in origine ci é ignoto, in ogni caso esse furono in numero notevolmente inferiore a 193, cifra che fu solo raggiunta durante la grande guerra sannitica grazie a un rilevante aumento di uomini validi per l'esercito.

Ma anche l'ordinamento centuriato originario del popolo era già una organizzazione a scopi militari. L'ordinamento della cavalleria patrizia continuò a sussistere quale era prima con le sei centurie dei Tities, Ramnes e Luceres. Non é dimostrabile che sin da allora un plebeo potesse servire a cavallo; sembra invece che soltanto la riforma compiuta a tempo della grande guerra sannitica abbia portato le centurie dei cavalieri da sei a diciotto. Nerbo dell'esercito però era già nell'ordinamento originario, non la cavalleria, ma la fanteria, e questo nucleo principale era reclutato fra i liberi agricoltori, fra coloro che possedevano un lotto normale di terra; essi costituiscono la classis e servono con l'armatura completa. Ma al servizio nella fanteria, benché con armatura ridotta, avevano diritto ed obbligo non solo i proprietari sopra detti, ma tutti i proprietari; chi aveva meno di un iugero serviva del pari, salvo l'incompleta armatura; costoro erano infra classem.
Il lotto normale d'un agricoltore romano constava di due iugeri di terra per tenervi casa ed orto, e di quattordici iugeri di terreno coltivabile; inoltre egli aveva il diritto di godimento sull'ager compascuus. Quest'ultimo va nettamente distinto dall'ager publicus; allora non esisteva affatto un ager publicus. Se in seguito nella deduzione di colonie si assegnavano ai coloni sette iugeri di terra, ciò non era che la metà del lotto normale degli agricoltori romani.
In grazia di tale organizzazione l'esercito romano divenne un esercito di contadini, un esercito di liberi agricoltori. Si pensi pertanto quanto diversamente si batte un esercito che lotta per il proprio focolare, per la sua terra e il gregge, in confronto ad un esercito di servi che si battono per il padrone! Anzi è un rischio incorporare nell'esercito i servi della gleba. Nella Laconia ad es., dove il servo odiava il padrone al punto che lo avrebbe ben volentieri mangiato vivo, non era possibile né servirsene in guerra per l'offesa, né affidargli la difesa; egli semmai desiderava che vincesse il nemico.
Ne derivò che Sparta, a causa del suo ordinamento statale basato sulla servitù della gleba, non poté utilizzare per il suo esercito le forze dei suoi contadini e fu costretta perciò poco dopo le guerre persiane a rinunziare ad una larga politica di espansione, che avrebbe richiesto per la sua attuazione un esercito assai più forte di quello che era a sua disposizione; ed un aumento dell'esercito non era possibile se non attraverso la liberazione degli Iloti, cioè una affrancazione dei contadini servi, cosa che Sparta non seppe mai risolversi a fare. Quindi Sparta andò perdendo terreno, non appena si trovò ridotta alle sue sole forze e le vennero meno gli aiuti esterni.
L'affrancazione dei contadini avvenuta a Roma invece rese possibile la piena utilizzazione delle forze degli agricoltori della Campagna, e sono i liberi agricoltori romani che assoggettarono il Lazio e l'Italia e prepararono la conquista del mondo. La costituzione di Licurgo, basata sulla servitù della gleba, ha sì all'inizio con l'educazione militare e la ferrea disciplina della classe dominante degli Spartiati fatto salire a somma altezza Sparta, ma in seguito ha provocato un arresto ed un regresso ed alla fine ha posto capo alla distruzione della classe medesima. Sparta cadde per aver voluto mantenere la costituzione di Licurgo, cadde per non averla abolita e per non aver affrancato i suoi contadini.
All'opposto della costituzione di Licurgo che organizzava una classe di proprietari eminenti ed una classe di servi della gleba, l'ordinamento centuriato romano si basò sull'abolizione di queste differenze e fece della classe dei liberi agricoltori il fondamento e il nerbo dell'esercito. La libertà fu in Roma generatrice di grandi energie e di grandi effetti; essa non solo assicurò durevolmente la vita dello Stato, ma lo portò a successi impareggiabili.
Peraltro, se a questi liberi agricoltori incombe la difesa dello Stato, se essi devono fare le sue guerre, é anche vero che ottengono diritti politici. Non solo essi partecipano nei comizi plebei all'elezione dei tribuni, ma anche le nuove centurie, che abbracciano patrizi e plebei, si adunano del pari a costituire assemblee deliberanti, per eleggere i magistrati e votare le leggi.
Ora i presidenti della repubblica salgono alla testa dello Stato per elezione dei comizi centuriati. E la facoltà legislativa di queste assemblee si esplicò ben presto con una legge che tutelava la vita dei cittadini, con l'introduzione della provocazione. La legge sulla provocazione, proposta da un console Valerio e votata dai comizi centuriati é il palladio della libertà romana. Dalla provocazione si svolse grado a grado la disciplina del processo penale romano.
Presso gli Arabi prima dell'islamismo, col loro Stato privo di magistrati, quale ce lo ha descritto Wellhausen, lo Stato non aveva potestà punitiva, non esisteva una coercizione statale. E noi sappiamo dalla storia greca come lo Stato non sia riuscito che lentamente e con grandi sforzi a strappare ai gruppi gentilizi il diritto di vendetta e ad avocare a sé la giurisdizione penale. E vi riuscì col non usare mitezza di sorta che sarebbe stata impopolare; se le leggi di Solone non conservarono di quelle di Dracone se non la parte di diritto penale, è evidente che quelle leggi di Dracone corrispondevano al sentimento popolare che non avrebbe rinunziato alla vendetta se non di fronte ad una severa punizione dei colpevoli da parte dello Stato.
A Roma è tuttora estranea all'epoca regia ed alla repubblica aristocratica dei signori fondiari una potestà punitiva dello Stato retta da norme apposite e procedente con forme stabilite, ma i re e i pretori della repubblica hanno un potere disciplinare illimitato per contenuto e senza vincoli di forma; questa coercizione non era cioè legata all'uso di forme di sorta e poteva arrivare per reprimere l'insubordinazione sino alla morte di chi si era ribellato all'obbedienza.
L'introduzione della provocazione lasciò sussistere intatta la potestà disciplinare nell'ambito della milizia, ma limitò localmente il campo dell'imperio militare al territorio fuori della città, mentre nell'ambiente cittadino non doveva regnare il diritto di guerra; qui pertanto fu ammessa ora la provocazione. Se la sentenza del magistrato condannava a morte un cittadino romano, essa non poteva eseguirsi in città se il condannato si appellava al popolo; ed allora decideva in appello il voto dei comizi centuriati. Questo, o confermava la sentenza e la rendeva con ciò eseguibile, o faceva grazia. Anche esteriormente il differente potere dei magistrati in città e fuori città si manifestava nel fatto che i littori soltanto fuori città recavano le scuri nei loro fasci di verghe.
Il diritto penale e la procedura penale dei Romani non sono per nulla conformi alle esigenze moderne. Ciò che noi esigiamo è una chiara determinazione delle figure dei reati, un'accurata disciplina della procedura per la prova della colpa e un preciso regolamento delle pene; ora tutto ciò manca spesso nella procedura penale romana. Ma nonostrante ciò il formarsi del diritto penale e della procedura penale romana é già stato un grande progresso in confronto all'illimitato diritto di coercizione. E questo progresso prese le mosse dalla provocazione, che per la prima volta tutelò la vita del cittadino ormai libero contro l'arbitrio. Ma base e presupposto di questo palladio della libertà romana sono l'abolizione della servitù della gleba e l'introduzione dell'ordinamento centuriato. Tantae molis erat romanam condere gentem.
Al provvedimento diretto alla protezione della vita dei cittadini ne seguì poco dopo anche uno inteso alla difesa dei loro beni. Una legge comiziale cioè provvide a che le multe, le pene patrimoniali, non superassero certi limiti e non riuscissero quindi rovinose. Ma il nuovo Stato esigeva anche una codificazione del suo diritto: esso la ebbe ad opera dei decemviri con la legge delle Dodici Tavole; questa fu redatta verso il 450 a. C.
Giudici, anche in materia civile, erano stati prima i re; poi subentrarono i consoli; costoro giudicavano in base alla consuetudine, agli usi non scritti. In queste condizioni era facile che colui il quale si sentiva gravato da una sentenza ne cercasse la causa non tanto nella struttura del diritto vigente quanto nell'arbitrio del giudice. Si ritenne pertanto che la codificazione, la redazione in iscritto delle consuetudini, avrebbe posto rimedio a tale inconveniente. Nel 1790 ancora il basso Vallese che dai tempi delle guerre burgunde era stato soggetto al dominio dell'alto Vallese, ha reclamato leggi scritte per porre argine ad arbitrii ed estorsioni. Le differenze di classe inoltre fomentano la diffidenza nell'amministrazione della giustizia, ed é perciò che ad Atene l'inizio della lotta fra le classi ha portato ad una codificazione del diritto, alla legislazione di Dracone.
Vero é che questa legislazione non ha retto a lungo e che passarono poco più di 25 anni ch'essa fu sostituita dalle leggi di Solone. Ma la causa di ciò non va cercata tanto in peculiari difetti della legislazione draconiana quanto nelle condizioni dello Stato. I Greci distinguono fra politeia e nomoi, tra costituzione e leggi; ora Solone diede ad Atene ambedue queste cose; prima una costituzionee poi le leggi; Dracone invece non aveva dato una nuova costituzione, ma semplicemente delle leggi, egli aveva fissato vagamente in iscritto solo il diritto esistente. Nessuna meraviglia quindi che le leggi di Dracone non abbian retto, mentre ressero quelle di Solone, giacché la codificazione di Dracone precedette la riforma della costituzione dello Stato, mentre la legislazione di Solone seguì a questa. Ad eccezione delle leggi penali, le leggi di Dracone non riuscirono più adatte al nuovo Stato organizzato dalla costituzione di Solone; Solone invece poté adattare le sue leggi alla sua costituzione, e perciò esse ebbero più lunga durata.
A Roma la legislazione delle dodici tavole fu bensì una prima codificazione del diritto esistente, come era stata per Atene quella di Dracone; ma, a differenza della legislazione draconiana, quella delle dodici tavole fu, similmente alle leggi di Solone, di lunga durata, perché anch'essa non procedé ma venne dopo la riforma costituzionale dello Stato. Le dodici tavole dettero dei nomoi, non una politeia, ma esse dettero questi nomoi per una politeia poco prima introdotta, per la nuova costituzione romana, l'ordinamento politico-militare centuriato, seguito alla affrancazione dei contadini. Il nuovo Stato consacrò in iscritto nelle dodici tavole il suo diritto.
Dieci persone, i decemviri, ebbero l'incarico della redazione di questo diritto; nel tempo stesso divennero, in sostituzione dei consoli, i presidenti della Repubblica. Dei nomi dei decemviri non ne conosciamo che uno, quello di Appio Claudio. Quando, come a Sparta e ad Atene, l'anno é intitolato dal nome del supremo magistrato, trae il suo nome da uno solo di quelli che coprono la detta magistratura; dei cinque efori spartani uno solo è eponimo, dà il suo nome all'anno, e del pari ad Atene, dei nove arconti, uno solo, l'archon kat' exochen, é epinomo.
È da escludere completamente che la lista romana degli eponimi, la lista dei consoli, nella sua redazione genuina originaria, recasse il nome di tutti e dieci i decemviri. È vero che in Roma ambedue i consoli intitolano l'anno, ma fra i dieci decemviri se ne poteva ben scegliere all'uopo uno, non due; ed inoltre la forma della lista che abbiamo e che reca dieci nomi offre essa stessa gli elementi per provare che un secondo nome fu aggiunto soltanto nel 304 a. C. al momento della prima pubblicazione dei fasti consolari, e che il completamento dei nomi sino a dieci fu fatto soltanto nel II secolo a. C.
Noi non sappiamo dunque se non che Appio Claudio fu decemviro. La verità dell'esistenza di un secondo collegio di decemviri, nel quale però si trovava compreso nuovamente Appio Claudio, secondo collegio dovuto al fatto che il primo non era arrivato a condurre a termine la codificazione e che si sarebbe illegalmente mantenuto in carica oltre l'anno e sarebbe stato poi abbattuto con la violenza, é incontrollabile; gli storiografi romani hanno innestato molte cose desunte da buona storia greca nella narrazione di una pretesa storia antichissima di Roma, e può darsi che la notizia della carica tenuta da Appio Claudio per due anni e della sua deposizione violenta nel terzo anno sia un plagio dell'episodio dell'arconte ateniese Damasia, che nel 583 e 582 a. C. si tenne a capo dello Stato per due anni e nel terzo ne fu allontanato con la forza.
Ma non per questo si deve senz'altro ritenere non storico il decemvirato di Appio Claudio. Il decemviro Appio Claudio non è per avventura un raddoppiamento ed una anticipazione riflessa del grande censore Appio Claudio dell'anno 310 a. C.; le tendenze politiche dei due uomini furono anzi diametralmente diverse. Opera del decemviro Appio Claudio sono le dodici tavole, ed il carattere di questa legislazione è di dare la preponderanza politica alla proprietà fondiaria. Il censore Appio Claudio invece ha fatto la parte dovuta all'economia monetaria ed al capitale mobiliare svoltisi nel frattempo - accanto all'antica economia naturale - ed ha come scopo di scuotere la preponderanza della proprietà terriera.
La legislazione delle dodici tavole mette in rilievo la differenza fra l'assiduus, il proprietario fondiario, e il proletarius, colui che non dispone che della sua discendenza, la sua proles; non è lecito che ad un assiduus, non ad un proletarius, far garanzia per un altro assiduus nel caso della procedura della vindicatio connessa all'assunzione di obblighi patrimoniali.
Verso il cliente anche il patrono è tenuto a doveri di pietà. Il debitore é trattato duramente e crudelmente. Il creditore può imprigionarlo, ma deve mantenerlo benché scarsamente; se dopo 60 giorni non ha pagato, può venderlo come schiavo, ma soltanto tran Tiberim, cioé all'estero; non gli é permesso quindi di farlo suo schiavo.
Che poi le dodici tavole avessero anche previsto il caso di Shylok, é cosa che si basa verosimilmente sopra una falsa interpretazione. Sono disciplinati i matrimoni fra patrizi, ma non è ancora riconosciuto il connubio tra patrizi e plebei. È garantito il diritto fondamentale della provocazione, ed é deferito ai comizi centuriati di decidere su di essa. Caratteristico per la cultura esteriore dell'epoca é il divieto di seppellire insieme con i morti oro, salvo quello adoperato ad assicurare i loro denti.
La legislazione delle dodici tavole é rimasta l'unica codificazione completa che Roma abbia vista sino al Corpus Iuris di Giustiniano, del 529-534 d. C.; nell'intervallo non si ebbero che codificazioni parziali, del diritto pretorio e delle costituzioni imperiali. A Roma ogni fanciullo imparava a memoria le dodici tavole, come da noi le tabelline. Ma le dodici tavole non solo codificarono il diritto vigente, ma servirono di base alla sua ulteriore evoluzione.
La vita, il traffico divennero più complicati e si presentarono dei casi non direttamente previsti dalle dodici tavole. In questi casi l'epoca moderna ricorre al lento meccanismo della legislazione; i Romani invece procedettero diversamente; essi provvidero con l'interpretazione, che perfezionarono con arte squisita.
L'interpretazione nel senso giuridico si differenzia dall'interpretazione letterale e filologica per il fatto che, pur muovendo da questa, non si arresta al senso della parola, ma con un processo di illazioni logiche e di conseguenze analogiche allarga il suo campo oltre la parola e cerca di determinare che cosa il legislatore, che in un dato caso ha deciso in un modo, avrebbe stabilito in un caso simile, che non ha invece previsto. Per questa via l'interpretazione nel senso giuridico mette capo ad uno svolgimento del diritto sostanziale, e le interpretazioni e conseguenze, accumulatesi in questa opera di svolgimento del diritto delle dodici tavole e mantenutesi coerenti al loro spirito, furono designate del pari col nome di diritto delle dodici tavole.
Giusta l'opinione degli antichi nei tempi posteriori, anche i plebei sarebbero stati eleggibili al decemvirato e per lo meno nel secondo anno avrebbero anche effettivamente fatto parte di esso; allora dunque per la prima volta dei plebei sarebbero divenuti presidenti della Repubblica. Stando a ciò, se dopo la caduta dei decemviri si ebbe un ritorno al consolato esclusivamente patrizio, bisognerebbe attribuire questa caduta all'aristocrazia che ne aveva tratto il vantaggio.
Ma l'opinione che siano esistiti decemviri plebei ha deboli basi. Essa si fonda soltanto sulle liste dei decemviri allungate posteriormente. E se anche potessimo fidarci di questi supplementi, dovremmo per lo meno trovare in carica un plebeo nel primo anno di decemvirato. In realtà invece noi non conosciamo che uno solo dei decemviri, Appio Claudio, e questi era patrizio. La conquista dei diritti politici da parte dei plebei era ancor troppo recente perché essi avessero potuto già arrivare alla presidenza della Repubblica.
Con la codificazione il decemvirato aveva assolto il suo compito: subentrò nuovamente l'antica forma della presidenza, il consolato. Il commovente episodio dell'attentata pudicizia della vergine, di Virginia (da ciò trae il suo nome il padre di lei, Virginio) esercita per il suo contenuto poetico e morale una sempre nuova influenza sul sentimento (ne è un'eco l'« Emilia Galotti » del Lessing), ed é giusto apprezzare al suo vero valore questa creazione poetica improntata al sentimento di libertà, ma non la si deve trasformare in storia.
Il governo consolare ripristinato nel 449 a. C. vide alla testa della plebe non più due, ma dieci tribuni, numero imitato da quello dei decemviri. L'affrancazione dei contadini con tutto ciò che vi si riconnetteva poteva tuttora dar luogo a controversie, e si comprende che siano stati istituiti appositi iudices decemviri per i processi di libertà relativi ai plebei. Dall'introduzione della provocazione, che trasferì le sentenze definitive dai supremi magistrati ai comizi centuriati, il console non poté più presiedere questa assemblea giudiziaria che poteva cassare la sua sentenza; a quest'uopo e per la necessaria istruzione egli nominò un questore, dapprima verosimilmente di moto proprio. In seguito la questura divenne una magistratura permanente ed ogni console ebbe il suo questore come aiutante; ed ora anche i questori uscirono dall'elezione popolare. Venticinque anni più tardi il numero dei questori fu portato a quattro perché quando i consoli andavano in campagna e conducevano con se i questori, ve ne fossero tuttavia due che rimanessero in città e si potessero dedicare all'amministrazione dell'erario.
Questa cassa pubblica si trovava nel tempio di Saturno presso il Foro. La classe dei patrizi e quella dei plebei si erano in quest'epoca ravvicinate tanto, che fu ammesso il connubio fra i due ceti, cosa che le dodici tavole ancora non concedevano. L'innovazione fu fatta da una deliberazione dei comizi plebei, da un plebiscito proposto dal tribuno Canulejo e che ebbe concordi i patrizi. All'esterno furono ottenuti dei successi contro i Volsci, che vennero vinti nel 446, e contro i Rutuli; nel paese dei Rutuli fu nel 442 occupata Ardea mandandovi coloni cui si assegnarono terre. Queste colonie non hanno nulla di comune con le colonie in senso moderno; sono piuttosto posti fortificati di confine. All'interno invece non regnò piena tranquillità; nell'anno 439 a. C. fu ucciso Spurio Melio, perché aveva ambito la tirannide. Se non che, come abbiamo già notato, i tentativi di salire alla tirannide si ricollegano sempre a tendenze popolari.
Nell'anno seguente, il 438, si ebbe una grande innovazione nella forma della presidenza della Repubblica: furono cioè posti ora per la prima volta alla testa dello Stato ufficiali dell'esercito, tribuni militari; essi governano lo Stato in luogo dei consoli; sono i tribuni consolari. Ogni legione ha sei tribuni e a seconda di esse vengono eletti tre, quattro o sei tribuni a presidenti della Repubblica, ma cinque mai, perché, essendo dodici i mesi dell'anno, non sarebbe stato possibile stabilire un turno conveniente fra loro. Indubbiamente fu una conquista dell'esercito quella che portò i suoi ufficiali alla testa dello Stato, e fra i tribuni militari della classis agricola certamente esistevano già da un pezzo dei plebei.
Se poi d'ora in avanti doveva decidersi anno per anno se si avessero ad eleggere consoli o tribuni consolari, ciò vuol dire necessariamente che tra le due cariche correva una differenza nei riguardi del diritto di accedervi. Il consolato deve essere rimasto riservato ai patrizi, mentre invece i plebei devono avere acquistato l'eleggibilità al tribunato consolare.
Se non che altro è la possibilità di essere eletti, altro l'essere realmente eletti. Persino al più basso gradino della magistratura, la questura, ci si dice che i plebei non arrivarono di fatto che a datare dal 409 a. C. E la critica dei fasti consolari ci dimostra che soltanto dal 399 a. C. furono effettivamente eletti dei plebei al tribunato consolare e sotto questa veste coprirono la presidenza della Repubblica. Si comprende del resto che essi abbiano ottenuto tale successo proprio in quell'epoca: era il tempo in cui ferveva la guerra contro gli Etruschi e contro i Veji.
La critica della lista consolare fa discendere al 438 a. C. il momento dell'introduzione del tribunato consolare; essa, come si vede, é in qualche modo in relazione con l'agitazione provocata da Spurio Melio che immediatamente precede. Veramente, la lista dei consoli nella forma da noi posseduta fa risalire i primi tribuni consolari sino al 444 a. C., all'anno seguente a quello del plebiscito di Canulejo, ma é dimostrabile che questa forma dei fasti consolari non é la forma originaria.
L'ordinamento centuriato si basa sul censo e quindi col mutarsi dello stato dei patrimoni esige revisione. Questa revisione periodica del censo venne assunta nel 435 a. C. da appositi magistrati di nuova istituzione, i censori. La revisione del censo richiedeva più lavoro di quanto si potesse esser sicuri di compiere in un anno. D'altro canto si aveva interesse a che il censimento fosse portato a termine dalle stesse persone che lo avevano iniziato. E siccome non si volle derogare al limite annuo della potestà dei supremi magistrati, non si adottò il sistema di deferire le revisioni del censo volta a volta che fossero necessarie ai presidenti in carica pro tempore, ma si creò nella censura una speciale magistratura non vincolata all'annalità, ma che poteva funzionare più a lungo.
Il limite massimo di permanenza in carica dei censori fu stabilito a 18 mesi; essi chiudevano il censo con un sacrificio, il lustrum, e siccome ogni cinque anni doveva procedersi ad una revisione del censo e dovevano nominarsi nuovi censori, ne derivò che questo periodo di cinque anni fu designato col nome di lustrum. Ma la censura acquistò una importanza assai maggiore di quella che le derivava dalla sola esecuzione del censo, quando le fu attribuita la nomina dei senatori; ciò avvenne nel 310 a. C., sotto Appio Claudio.
Le guerre contro i popoli finitimi, Equi e Volsci, continuarono in questo periodo. Dopo una vittoria riportata sugli Equi nell'anno 432, i Romani nel 418 e nel 414 a. C. presero le loro città di Labici e Bola. Con i Volsci, sui quali essi avevano ottenuto una vittoria nel 446, si riaccese la guerra nell'anno 407, e tre anni dopo i Romani deducono coloni nella volsca Velitrae, a Velletri; di questa località é originaria la famiglia degli Ottavi ed ancora l'imperatore Augusto vi possedeva nelle vicinanze un antico podere.
Già nell'anno 406 a. C. i Romani erano penetrati sul territorio volsco fin oltre il promontorio Circejo, la cui cima montana isolata sorgente dal mare si scorge sin da Antium, da porto d'Anzio; a quell'epoca essi giunsero al confine tra i Volsci e gli Ausoni od Aurunci e conquistarono la città volsca di Anxur, posteriomente denominata Tarracina.
La guerra contro i Fidenati, interrotta nel 477 per la catastrofe dei Fabi, era stata ripresa dopo più di cinquanta anni, nel 426. Anche questa volta Fidene trovò aiuto in Veji; il re dei Veienti, il Lar Tolumnius, prese personalmente parte alla lotta ed il magister equitum romano Aulo Cornelio lo uccise spogliandolo dell'usbergo linteo che dedicò a Giove Feretrio a titolo di spolia opima nel tempio del dio sul Campidoglio.
A quel tempo era considerata senz'altro tra le spoglie opime l'armatura del generale nemico conquistata in duello personale, anche se il romano che l'aveva conquistata non era il capo supremo dell'esercito. In seguito invece limitò a solo a quest'ultimo il diritto di dedicare spoglia opima di tal sorta, e quando venne il nuovo principato nella persona di Augusto, questi poté per questa ragione negare a L. Crasso, quando trionfò nel 27 a. C. la dedicazione in qualità di spoglia opima dell'armatura del capo dei Bastarni, Deldo, ch'egli aveva conquistato sul nemico in veste di proconsole di Macedonia nel 29 a. C.
Non é probabile sia stato a caso che in questa occasione si sia fatto richiamo all'usbergo del Lar Tolumnius e che proprio Augusto abbia affermato di aver letto che Cornelio lo conquistò e dedicò da console, nel 428 a. C.

Malgrado fosse stato ucciso il re dei Vejenti, l'appoggio di Veji riuscì tuttavia ad impedire la caduta di Fidene e la guerra dell'anno 426 a. C. rimase indecisa.
Alla fine però Fidene cadde e fu distrutta dai Romani, non sappiamo in quale esatto anno, ma probabilmente prima ancora dell'inizio della grande guerra con Veio. Quando Roma conquistava un territorio e lo distribuiva tra i suoi cittadini, questo territorio era eretto a formare una nuova tribù rustica; e la prima tribù rustica venuta dopo la istituzione delle sedici a noi note, fondate tutte d'un tratto, fu quella di Crustumerium, al di là di Fidene risalendo il corso del Tevere.

Dopo questi fatti si ebbe territorio romano sulla riva sinistra del Tevere così al di sopra come al di sotto di Fidene, e questa situazione deve aver reso possibile investire vittoriosamente Fidene e conquistarla.
L'antica alleata di Veio era caduta; ora era venuta la volta della stessa Veio.

Da questo momento ebbe inizio
uno dei più importanti avvenimenti di tutta la storia romana
la guerra per la conquista dell'Etruria meridionale


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