-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

53. LE INVASIONI BARBARICHE


La vasta pianura che si stende fra il Baltico e il Mar Nero fu sempre la grande via di passaggio dei popoli dall'Asia nell'Europa centrale. Verso l'anno 370 vi apparvero inaspettatamente gli Unni, un popolo di selvaggi cavalieri, probabilmente di origine uralico-finnica. Costoro giunsero dalle steppe orientali dei centro dell'Asia e si imbatterono per primo nel popolo, forse di razza germanica, degli Alani, lo vinsero e lo dispersero. Il secondo urto toccò ai Goti. Questi ultimi
avevano raggiunto un certo grado di sedentarietà, prima sotto il re Amala, il fondatore della famosa stirpe regia degli Amali, e poi sotto Ostrogota verso la metà del terzo secolo.
Fama ancor maggiore si acquistò Ermanarico, un bellicoso conquistatore che estese la signoria gota sino all'alto Volga. Ma questa stessa espansione, forse congiunta ad antiche differenze di stirpe, affrettò la separazione del popolo goto in due parti, i Goti occidentali ed i Goti orientali. Mentre i Goti orientali riunirono le loro forze sotto la guida di re Ermanarico, fra i Goti occidentali invece Atanarico il Balto che aspirava all'egemonia trovò un pericoloso rivale in Fritigerno. Scoppiò fra loro la guerra; Fritigerno fu sconfitto e si rifugiò in territorio romano. A questo punto giunse il turbine degli Unni.
Ermanarico, quando vide che non era in grado di resistere, si tolse la vita. Il suo regno si disfece, e la massima parte di esso cadde sotto l'alta sovranità degli Unni, pur conservando le popolazioni gotiche i propri re. Dopo questi primi eventi il flusso dell'invasione progredì andando ad urtare i Goti occidentali, indeboliti dalle lotte intestine. Atanarico dovette ritirarsi con gravi perdite nelle montagne della Transilvania.
Carichi di bottino gli Unni avanzarono verso il Danubio; e dinanzi ad essi fuggirono atterriti masse di popoli. Fritigerno ne riunì attorno a sé quanti poté e pregò l'imperatore Valente di accoglierlo nella Tracia e nella Mesia, promettendo in compenso di assoggettarsi alla sua sovranità. L'imperatore aderì alla domanda; su canotti e zattere circa 200.000 uomini abili alle armi passarono il Danubio. Essi avrebbero potuto riuscire della massima utilità all'impero romano; ma la sorte volle diversamente.
L'incapacità e la disonestà dei funzionari imperiali provocò un acceso malcontento. Un gruppo disperso di Goti orientali passò di proprio arbitrio il fiume, Fritigerno si collegò con questi suoi connazionali e la guerra si accese. L'esercito romano comandato da Lupicino rimase sconfitto presso Marcianopoli. Da ogni lato affluirono rinforzi ai vincitori; tutta la Tracia cadde nelle loro mani. Ma truppe romane avanzarono rapidamente dalle due parti dell'impero per fronteggiarli; avvenne una formidabile e terribile battaglia cui soltanto la notte pose per il momento un termine. Ricevuti rinforzi d'ambo le parti la lotta si riaccese, ma i barbari ottennero il sopravvento e avanzarono su Costantinopoli devastando ogni cosa nel loro cammino. Sarebbe stato necessario raccogliere contro di essi tutte le forze. Ma già la fama dei loro successi si era propagata lontano in Occidente stimolando i germani ad agire. Gli Alemanni invasero l'Alsazia con 40.000 uomini, e l'imperatore Graziano fu costretto ad affrontare prima questi. Li vinse ad Argentaria (presso Kolmar), ma arrivò troppo tardi in Oriente.
Qui l'imperatore Valente che prima aveva cercato con troppa precipitazione la battaglia, si lasciò poi tenere in scacco da Fritigerno sotto il pretesto di negoziati, fin quando il barbaro vide arrivare i propri rinforzi. Questi, che erano composti di cavalieri goti orientali ed Alani, sbucarono dalle gole montane nei pressi di Adrianopoli. Ben presto infuriò la battaglia; la cavalleria romana fu travolta e messa in fuga, la fanteria si difese valorosamente, ma alla fine soccombette all'urto del nemico.
I Romani furono, non soltanto battuti, ma annientati; due terzi di essi rimasero sul campo, e fra i suoi soldati cadde l'imperatore Valente. L'esistenza stessa dell'impero parve in pericolo, ira ed angoscia infiammarono gli animi. I pagani cercarono di attribuire l'ira degli Dei dando la colpa dei Cristiani, gli ortodossi lo sdegno del loro Dio per colpa degli Ariani.
Graziano battè in ritirata a Sirmio, ove emanò una legge a favore dei sacerdoti ortodossi. Così il successo in battaglia dei Goti ariani si trasformò in un trionfo della Chiesa cattolica.

Vero é che per il momento le cose presero una piega ben diversa. Ebbri della vittoria i Goti marciarono su Costantinopoli, ma non furono in grado di spuntarla contro le poderose mura della città. Quindi si scompaginarono in tante orde separate che corsero in lungo e in largo inondando la penisola. Graziano non osò intraprender nulla con le sue truppe demoralizzate e perciò nel 379 si associò all'impero un uomo che godeva la fiducia generale, lo spagnolo Teodosio, cui era riservato il compito di arrestare il torrente germanico. Egli vi riuscì mostrandosi condiscendente a soddisfare i bisogni dei vincitori e traendo profitto dal loro scarso spirito di unità nazionale, ma nel tempo stesso provvedeva ad aumentare le proprie forze.
I Goti orientali si separarono dai Goti occidentali. Fritigerno morì ed Atanarico dalla Transilvania si recò a Costantinopoli presso l'imperatore. Senza combattimenti di rilievo si riuscì a pacificare il paese, cosicché il 3 ottobre 382 poté essere annunziato che era stato concluso un accordo pacifico con l'intero popolo dei Goti. Il maggior numero di essi, e soprattutto il re, ottenne sedi nella Tracia, ove i barbari si domiciliarono in qualità di federati, vale a dire conservarono la loro autonomia sotto l'alta sovranità dell'imperatore, rimanendo obbligati alla prestazione di truppe ausiliarie.
Ovviamente questi accordi contribuirono all'imbarbarimento dell'Oriente che aumentò in maniera precipitosa. Ma assai più pericolosa fu la romanizzazione per i Goti occidentali. Ben presto essi caddero in discordia per odi politici e religiosi. Un capo tribù abbatteva l'altro con reciproche lotte sanguinose. In tali miserie sorse un uomo che era abbastanza romano per tener testa ai Romani nelle loro arti, ed abbastanza tedesco per mantener ferma l'antica bellicosa indole nazionale; quest'uomo fu Alarico il Balto.
Nel frattempo la massa principale degli Ostrogoti con alla testa il re Unimondo aveva vissuto in buona armonia sotto la dominazione unna, riuscendo ad affermare considerevolmente la propria superiorità sul vincitore assai meno progredito. Peraltro ambedue i popoli si perdettero per alcuni decenni nelle regioni a nord del Danubio e del Mar Nero.
In Occidente, alla corte di Graziano, il franco Merobaude al servizio romano raggiunse una posizione predominante, favorendo dappertutto l'elemento germanico. Ma sia lui che l'imperatore furono soccombenti in una sollevazione militare.
A questo punto tra il successore Massimo e Teodosio scoppiò la guerra, nella quale il primo si appoggiò sostanzialmente su truppe romane, il secondo si avvalse in modo considerevole di milizie germaniche; i soli federati Goti gli fornirono 40.000 uomini. La guerra si mise male per Massimo, che rimase due volte sconfitto e infine nel 388 fu ucciso.
Il Franco Arbogaste assunse le redini del governo in nome del giovane Valentiniano II. A lui fecero seguito Stilicone, Ricimero ed Odoacre, autentici Germani. Per un vasto ristabilimento della supremazia dell'elemento romano, come aveva sognato Massimo, era ormai troppo tardi.
Arbogaste ristabilì i rapporti turbati con i suoi connazionali della riva destra del Reno e favorì una completa preponderanza dei Germani, soprattutto dei Franchi, nell'Impero d'Occidente. A misura che Valentiniano aumentò l'elemento straniero divenne per lui sempre più critica la situazione, perchè in sostanza comandavano ora i Germani. Alla fine osò presentare ad Arbogaste il suo benservito. Il barbaro però stracciò il documento dicendo:
«La mia carica non mi é stata concessa da te, e non sarai tu che me la potrai togliere».
Poco dopo l'imperatore fu trovato impiccato ad un albero. A questo punto si fece avanti Teodosio. L'Oriente e l'Occidente tornarono ad armarsi l'un contro l'altro; cosicchè d'ambo i lati la maggioranza delle forze era costituita da Germani.
Il 5 ottobre 394 si venne a battaglia non lontano da Aquileja. All'inizio Arbogaste ebbe il sopravvento, ma, tradito da una schiera di truppe ausiliarie e sorpreso da un furioso gelido vento da est che prendeva il suo esercito di fronte, alla fine ormai sconfitto sul campo si tolse la vita.
I cristiani attribuirono l'inatteso esito della battaglia all'intervento divino. Ma anche al vincitore il "vento divino" non gli fu risparmiato, nell'esaltazione della vittoria, sudato e stando, si prese una broncopolmonite e così anche il vincitore morì dopo pochi mesi dopo essere stato ricoverato a Milano.

Teodosio aveva avuto attorno a sé uomini d'ogni parte del mondo, fra i quali il franco Ricomero, il gallo Rufino ed il vandalo Stilicone, quest'ultimo altamente benemerito per le vittorie riportate sul Danubio.
Per la sua successione l'imperatore aveva disposto che il maggiore dei suoi figli, Arcadio, avesse l'Oriente, il minore, Onorio, l'Occidente. Ma con questo egli non intese operare una definitiva divisione dell'Impero; ed infatti nominò Stilicone a comandante di tutto l'esercito imperiale e quindi tutore dei due fanciulli, il che voleva dire avere in mano l'intero governo dell'impero.
Se non che, mentre il piccolo Onorio e Stilicone risiedevano a Milano, Arcadio era rimasto a Costantinopoli con accanto Rufino, e questi seppe prendere nelle sue mani le redini del governo dell'Oriente.
Stilicone si trovò così ridotto al solo Occidente, dove per 13 anni sostenne vittoriosamente le sorti di Roma contro i barbari. Inoltre si impegnò instancabilmente a mantenere l'unità fra le due parti dell'impero e di ringiovanire lo Stato decrepito con vigorosi elementi germanici. Ciò gli costò la vita; l'orgoglio romano levò la testa altezzosamente ed i Germani che ormai vivevano all'interno dell'Impero cominciarono a trasformarsi da ausiliari sottomessi in nemici coscienti della propria forza. La prima rottura avvenne in Oriente tra il governo imperiale ed i Visigoti capitanati da Alarico. Questi era l'uomo di cui aveva bisogno il suo popolo; tenace, accorto e bellicoso, pieno dell'ideale di conquistare per il suo popolo stabili e sicure sedi territoriali.

Alarico venne così a guerra con Arcadio, e l'Oriente romano non fu capace di soffocare il movimento. Accorse Stilicone e ricacciò Alarico in Tessalia, ma ebbe lo stupido ordine di Arcadio di tornarsene indietro immediatamente. Lui obbedì, - ma un reparto di truppe germano-gotiche al comando di Gaina marciò su Costantinopoli ed uccise Rufino (la mente stupida di quell'ordine) a al suo fianco anche l'imbelle imperatore Arcadio.
Alarico passò in Grecia e di qui, volgendo a nord, in Epiro, dove concesse ai suoi di stanziarsi sotto la sovranità romana. Nel frattempo a Costantinopoli Gaina prese in mano tutto il potere, ma non potè mantenerlo. Tutto andò sottosopra. Ben presto Alarico comprese che nell'Epiro, incuneato come era fra l'impero d'Oriente e l'impero d'Occidente, non gli sarebbe stato possibile di godere una quiete durevole. Ovunque, ai confini e nell'interno dell'impero si era prodotto un vivo fermento fra i Germani. Nella Pannonia si misero in agitazione gli Ostrogoti, ed insieme con torme di Alani, Vandali e Svevi, sotto la guida dell'ostrogoto Radagaiso, penetrarono nel 400 nella Rezia.

Coperto così alle spalle da Germani, Alarico marciò nel 401 verso l'Italia e assediò Onorio in Milano. Ma Stilicone liberò la città e dopo due sanguinose battaglie ricacciò l'invasore in Illiria. L'Italia era salva.
Ma una nuova tempesta ben presto minacciò dal nord. Nel 404 Radagaiso calò dalle Alpi ed arrivò fino a Firenze. Egli era pagano; tutto il mondo cristiano tremò di fronte all'eventualità di una vittoria degli Dei germanici. Ma il pericolo fu evitato; le poco - all'inizio compatte orde dei barbari - si sparpagliarono e vennero perciò più facilmente distrutte dall'esercito di Stilicone.
Un'onda di infinito giubilo corse per tutto il paese. Stilicone era giunto all'apice della sua fortuna e sperò di poter ricostituire l'antica unità con la parte orientale dell'impero. A tal punto forti masse di Vandali abbandonarono la Pannonia, si ingrossarono con Alani, Svevi, Marcomanni, Quadi e persino Burgundi, ed a capo d'anno del 407 passarono il Reno.
Contro di loro mossero i Franchi federati, anch'essi rinforzati da Alani, ma vennero sconfitti in una sanguinosa battaglia. Era questa la prima volta che Germani indipendenti condotti da capi propri avevano combattuto per l'impero, sebbene invano.

I vincitori non contenti del successo procedettero in avanti e devastarono le terre galliche sino in Aquitania. I Germani del Reno approfittarono pure loro della confusione per estendersi sempre più sulla sponda sinistra del fiume. Contemporaneamente si levò un usurpatore del trono imperiale ed il partito romano (antigermano) pose in moto tutte le forze per abbattere Stilicone. Vistosi a mal partito questi era già entrato in contatto con Alarico, il quale impaziente invase la Pannonia ed il Norico; anche il debole ed incerto Onorio nutriva da un pezzo profondi sospetti su Stilicone. Essendo venuto a conoscenza della morte di Arcadio, temendo anche lui per la sua vita, Onorio diede l'ordine di arrestare Stilicone, che fu preso e giustiziato, dopo aver impedito ai suoi seguaci di opporre resistenza.
Con Stilicone però sparì l'unico uomo, ad opera del quale era stata tenuta ancora in piedi, almeno sino ad un certo segno, la potenza dell'impero. Ora il disordine divenne generale. Trentamila ausiliari germanici si ribellarono e passarono sotto la bandiera di Alarico, che calò per la seconda volta in Italia. Per ottenere che se ne tornasse indietro Roma pagò tanto denaro che per procacciarlo si dovettero fondere le statue d'oro e d'argento.
Ingrossati da schiavi che nell'anarchia si erano resi liberi, i Goti svernarono in Etruria ed aprirono trattative con Onorio per ottenere la concessione di terre. Invano. Visto il rifiuto, I Goti l'anno seguente ricomparvero dinanzi alle porte di Roma e costrinsero il senato a dichiarare Onorio decaduto e proclamare imperatore d'Occidente Attalo che nominò Alarico suo magister militum.
Quest'ultimo, non avendo ottenuto neppure con tale rimedio quanto desiderava, ed avendo invano assediato Ravenna, occupò il 24 agosto 410 Roma e l'abbandonò al saccheggio delle sue truppe. Dopo questa razzia si spinse nel mezzogiorno d'Italia, sinora rimasto immune da invasioni, dove però morì in seguito a una breve malattia. Si dice che i suoi prodi lo abbiano seppellito presso Cosenza nel letto del fiume Busento. Essi gli elessero a successore nella dignità regia il cognato Ataulfo.

Il nuovo re rinunziò alla posizione così avanzata raggiunta da Alarico e si ritirò attraverso l'Italia centrale verso il nord, entrando ripetutamente in trattative con Onorio. Finalmente si decise a volgersi verso la Gallia, dove le orde vandalo-alano-sveve erano discese fino ai Pirenei per poi penetrare nell'anno 409 nella Spagna e qui espandersi e stanziarsi.
I tre popoli si divisero il paese così: gli Svevi ebbero la Galizia, gli Alani la Lusitania e i Vandali la Betica (Vandalusia, Andalusia). Essi si accordarono mediante trattati con gli abitanti di queste regioni e rispetto all'impero devono avere assunta la posizione di federati. Ben presto, desiderosi di quiete, deposero la spada e si diedero all'agricoltura.
Nel frattempo la Gallia era stata messa sottosopra dalle guerre fra vari usurpatori del trono imperiale. Uno di questi, Giovino, perché sostenuto da Burgundi capitanati dal re Gundahar e da schiere alemanne con alla testa Goar, aveva scelto a sua capitale Magonza. Così i Germani del Reno si spingevano sempre più avanti nella Gallia, allorché nel 412 vi fece la sua comparsa anche Ataulfo con i Goti, probabilmente col tacito consenso di Onorio. Egli debellò Giovino e cominciò a stabilirsi a viva fora nel mezzogiorno della Gallia.
La sorella di Onorio, la bella e nobile Placidia che era stata fatta prigioniera alla presa di Roma, concesse al re barbaro la sua mano di sposa allo scopo di indurre a questo modo una conciliazione con l'impero ed una fusione tra Goti e Romani. Ma l'altezzoso Onorio guardò questo matrimonio come un disonore per la sua famiglia e proseguì la guerra, per effetto della quale i Goti furono spinti al di là dei Pirenei.
All'improvviso, nell'agosto del 415, Ataulfo venne assassinato. L'ideale della sua vita era stata l'amicizia di Roma, ed ora egli lo pagò con la rovina propria e della sua famiglia. Il partito nazionale gotico, che non era stato estraneo alla sua morte, prese dopo la sua morte il sopravvento e gli diede a successore Siegerich, fratello di un mortale nemico di Ataulfo. La situazione divenne estremamente pericolosa, perché Siegerich non era un vero e proprio re, ma era semplicemente un anonimo capo-tribù, mentre l'avvenire del popolo dipendeva tutto da un fattore molto importante, quello di avere un vero carismatico sovrano accettato da tutti in modo che si conservasse l'unità dell'intero popolo.
Questo pur vago sentimento nazionale vinse, e Siegerich fu ucciso come il suo predecessore, e venne innalzato al trono, quale vero e proprio re, Vallia, principe appartenente ad una antica stirpe nazionale.
Vallia estese le conquiste di Ataulfo sino allo stretto di Gibilterra e si riconciliò con Onorio cui restituì Placidia. I Goti ora strinsero alleanza e si misero alla dipendenza dell'Imperatore, cui promisero di combattere gli altri Germani stanziati nella Spagna, in compenso della concessione di stabili sedi nel paese.
Spinti gli uni contro gli altri i popoli fratelli si dilaniarono con terribile furore. Una parte dei Vandali restò completamente distrutta, ed gli scampati si rifugiarono negli inaccessibili monti della Galizia.
La guerra fatta dai Goti venne considerata come una campagna di guerra fatta dall'imperatore stesso ed infatti Onorio solennizzò la vittoria con uno splendido trionfo. Tuttavia egli mantenne la promessa ed assegnò ai Goti il sud-ovest della Gallia, la fertile regione bagnata dalla Garonna. Nel 419 i Goti vi si stanziarono e posero la capitale a Tolosa. Dopo infinite peregrinazioni, pericoli e lotte questo popolo tanto provato dalla sorte aveva finalmente una patria, premio meritato a questa unità che era stata capace di mantenere per il raggiungimento di questo fine.
Poco dopo, nel 423, mori Onorio. Divenne Augusto per l'Occidente il giovane Valentiniano III sotto la guida di sua madre Placidia, la stessa che era stata moglie di Ataulfo. Ma accanto ad essi entrarono in gara per la supremazia due uomini che divennero inconciliabili nemici, Ezio in Gallia ed in Italia, Bonifazio in Africa.
Entrambi sarebbero stati capaci da soli di sorreggere le sorti dell'impero in decadenza; mentre in due non fecero che dividerne le già fiacche energie, ed intanto i Germani guadagnarono tempo per i loro fini. Già nel 413 i Burgundi avevano ottenuto in seguito a trattato di occupare una parte del territorio gallico lungo il Reno medio; un residuo del loro popolo era rimasto però sul Meno e nell'Odenwald.
Con questo stanziamento sul Reno coincide la loro conversione alla fede cattolica. Avendo essi poi voluto estendersi ancor più in là nella Gallia, vennero sconfitti nel 433 da Ezio e nel 437 piuttosto duramente dagli Unni, questi ultimi certamente al servizio romano. In questa battaglia cadde il loro re Gundahar. Ciononostante i Burgundi ottennero nel 443 la Sabaudia, corrispondente alla futura Savoja, ma con un territorio maggiore verso l'interno della Francia.
I loro connazionali rimasti ad oriente del Reno devono averli poi seguiti nel nuovo territorio.
Immediati vicini dei Burgundi erano gli Alemanni. Essi mantennero in sostanza le loro sedi sulla destra del Reno superiore e lungo il Neckar, e da qui si estesero sino alle Alpi, al Giura ed ai Vosgi.

Meritano speciale attenzione i Franchi, i quali dalla metà del IV secolo si incontrano sotto le due denominazioni di Franchi Salii e Franchi Ripuarii. Essi abitavano la provincia della Germania inferiore, una parte dell'attuale Belgio e del nord della Gallia e fra i barbari sono quelli che si mantennero più fedeli ai Romani. All'inizio sembra che come gli Alemanni, essi abbiano vissuto sotto piccoli re dei singoli pagi (clan, tribù) fra i quali spicca la figura di Clojo, morto nel 450. Dopo la sua morte sorse conflitto fra suo figlio Clodobaldo ed un parente di Meroveo (Merovig), conflitto che portò alla fama la casa dei Merovingi e contribuì a provocare l'invasione di Attila.
Su quanto detto sull'interno della Germania va segnalato anche lo spuntare dei Turingi che dimoravano nella regione montuosa della Verra e della Saale e temporaneamente si spinsero molto avanti verso mezzogiorno.
Mentre i Sassoni fecero il loro ingresso nella storia con la conquista della massima parte della Britannia. Due regoli, Engisto ed Orsa, secondo la tradizione, avrebbero iniziato l'impresa con solo tre navi. L'impero romano aveva in sostanza rinunziato al possesso dell'isola; Pitti, Scoti e pirati germanici devastavano in lungo ed in largo le terre un tempo così fiorenti dei Britanni, i quali però vivevano pure questi continue lotte fra di loro.
In queste distretti sembra che essi verso la metà del V secolo abbiano fatto causa comune coi Sassoni invadenti contro gli odiati Scoti. I Sassoni ricevettero delle terre nella regione di Kent, ma, ingrossati sempre più dagli arrivi di nuovi immigranti dalla loro patria, si mutarono da alleati ausiliari in nemici conquistatori.
Ma oltre ai Sassoni cominciarono ad immigrare gli Angli venuti dall'odierno Holstein ed accanto ad essi gli abitatanti del Jútland. I Sassoni si stabilirono in sostanza sulla costa meridionale dell'isola e sul Tamigi, gli Angli lungo il vallo di Adriano e sull'Humber, gli Jútlandesi in forma dispersa qua e là. Dopo lunghe lotte i Britanni sparirono per far posto a piccoli Stati germanici, come quelli di Kent, Sussex, Wessex, ecc.

Nella direzione opposta si ebbe la conquista dell'Africa da parte dei Vandali. Abbiamo visto prima come i residui dei Germani di Spagna fossero stati costretti dai Goti a rifugiarsi sui monti della Galizia. I vincitori avevano appena ripassato i Pirenei che i vinti vennero nuovamente alle mani fra di loro; i Romani intervennero ed obbligarono i Vandali a ritirarsi nel mezzogiorno della penisola, dove ben presto riacquistarono una posizione predominante.
A causa dei continui spostamenti cui erano andati soggetti essi avevano in buona parte smarrite le abitudini sedentarie ed avevano ripreso l'indole di popolo prevalentemente guerriero e di nomade.
Il sentimento della propria forza e lo spirito d'avventura li spinse a nuove imprese, tanto più che trovarono in Genserico un condottiero di valore ed energia non comuni. Essi costruirono una flotta, assalirono le Baleari, attaccarono di sorpresa Cartagine e visitarono devastandola tutta la costa della Numidia e della Mauretania, allora vantata come il «granaio » del mondo.

Non desta meraviglia che verso queste fertili contrade si appuntassero le loro cupidigie. Bonifazio era stato dichiarato ad opera di Ezio reo di fellonia e contro di lui era stata mossa la guerra. Il momento era dunque favorevole per i Vandali.
Nel maggio 429 Genserico sbarcò sulla costa della Mauretania con 80.000 seguaci, in maggioranza uomini; il nucleo principale della spedizione era composto di Vandali, cui si erano aggregate torme di Alani, Goti e anche provinciali romani. Il sistema di diffidenza seguito dall'Impero - con una esagerata misura di precauzione - col non permettere che la maggior parte delle città africane fosse munita di fortificazioni, l'odio degli antiortodossi contro gli Anastasiani, facilitarono la via ai conquistatori.
Bonifazio fu sconfitto; si ritirò ad Ippona e, ricevuti rinforzi, tentò di nuovo la sorte delle armi, ma per soccombere una seconda volta.
Tuttavia Genserico avrebbe finito per essere schiacciato dalle forze riunite degli imperi d'Oriente e d'Occidente, se la gelosia fra Ezio e Bonifazio non avesse provocato il richiamo di quest'ultimo in Italia dove poco dopo morì di una ferita riportata in battaglia.

I Vandali così rimasero padroni del campo, e ben presto tutte le città, salvo Cirta e Cartagine, caddero in loro potere. Il governo imperiale non seppe far di meglio che riconoscere il fatto compiuto contentandosi di un annuo tributo. Gli invasori rimasero in tal modo signori del paese benedetto da Dio per la sua fertilità.
Torniamo in Europa - Dappertutto i Germani cercarono di costituire nelle nuove sedi degli Stati ordinati. Per primi vi riuscirono i Visigoti del regno di Tolosa sotto Teodorico I (419-451). Egli regolò le relazioni tra Goti e provinciali e cercò di estendere con le armi il suo dominio, ma all'inizio il suo tentativo di prendere l'importante città di Arles andò fallito.
Ezio, rimasto solo a dominare dopo la morte del suo rivale, intraprese la riconquista della Gallia, ormai quasi perduta; a tale scopo portò la guerra anche contro i Goti, ma senza riuscire a nulla. Fu fatta la pace, molto probabilmente a prezzo di nuove perdite per l'Impero, ed i Goti tornarono a combattere come ausiliari negli eserciti romani, soprattutto contro gli Svevi della Spagna che scendendo dai loro monti della Galizia avevano soggiogato una gran parte della penisola. Ma la campagna condotta contro di loro nel 446 fallì, e Teodorico comprese che era meglio avere amici gli Svevi piuttosto che averli nemici. Perciò egli diede in moglie una delle sue figlie al re degli Svevi.
Anche con i Vandali Teodorico tentò di seguire questa politica di imparentamenti, ma gli toccò vedere sua figlia rimandata alla casa paterna crudelmente mutilata. Per questo fatto Goti, Svevi e Romani vennero a trovarsi uniti in una comune inimicizia contro i selvaggi conquistatori dell'Africa. E già gli eserciti dell'Occidente europeo volgevano gli sguardi verso il sud, quando inaspettatamente un nuovo nemico si presentò ai confini della Gallia, il re degli Unni Attila.

Varie cause provocarono la sua invasione. Da quando i Germani si erano stabiliti su suolo romano l'impero non poté più servirsene per gli scopi militari come aveva fatto prima, perché la coscienza nazionale aveva cominciato a divampare. Il Goto ora trovava nel suo re quel che gli occorreva. Gli imbelli provinciali non erano adatti a dare contingenti idonei, e quindi sembra che Ezio avesse formato il suo esercito reclutandolo sostanzialmente fra le popolazioni germaniche non ancora stanziate nell'Impero, fra Gepidi, Eruli, Sciri ed altri, ed anche fra gli Unni. Se non che l'Unno ritornava nella sua desolata steppa e raccontava delle splendide città vedute, della ricchezza del paese, delle discordie dei suoi abitanti e così via; e ciò in un'epoca in cui le forze degli Unni si erano concentrate come mai prima di allora.
Alla prima invasione di questo popolo nomade, che aveva causato il grandioso spostamento delle popolazioni germaniche, era succeduto un periodo più tranquillo. La signoria degli Unni si estendeva dalla Pannonia all'Ural su popoli vassalli e tributarii, fra i quali primeggiava il grande gruppo gotico. Lungo il basso Danubio dimoravano gli Ostrogoti, che ampliarono il loro dominio con guerre fortunate sotto il re Torismundo, cui successe dopo una lunga minorità Valamero insieme con due fratelli.
Probabilmente assai più numerosi degli Ostrogoti erano i Gepidi. Anch'essi erano discesi dalle rive del Mar Baltico. Il loro re Ardarico ci si mostra come l'uomo di fiducia di Attila. Gli Eruli originariamente devono essere stati i vicini occidentali dei Gepidi sul Baltico. I loro baldi figli errarono in seguito in lungo ed in largo, ed una porzione di essi arrivò sino al Mar Caspio, dove restò finché l'onda degli Unni non la sospinse verso occidente nelle regioni danubiane.
Accanto agli Eruli dimoravano i bellicosi Rugi, gli Sciri ed i Turcilingi, che probabilmente prima avevano avuto le loro sedi alle foci dell'Oder. Fra i seguaci degli Unni vengono annoverati anche degli Svevi, evidentemente residuo dell'antico popolo svevo, dal quale derivano pure i Quadi e i Marcomanni. Fra tutti costoro però la vera e propria grande potenza era costituita dal popolo degli Unni, che, come vedemmo, al tempo di Ezio era entrata in misura sempre maggiore in relazioni con l'impero.
Gli Unni avevano una serie di regole, fra le quali prese il predominio Rugila (Rua), un alleato del magister militum romano. Morto lui nel 433, gli successero i nipoti Attila e Bleda, coi quali cominciò un nuovo periodo storico. Essi costrinsero Teodosio II a pagar loro ingenti tributi e ad obbligarsi a non stringere alleanza con i propri nemici. Preparato così il terreno, iniziarono la loro opera conquistatrice, togliendo di mezzo tutti gli altri regoli degli Unni ed estendendo enormemente la loro alta sovranità. Sembra che la loro autorità sia arrivata fin molto dentro l'Asia da un lato, e fino alle isole danesi e nella Germania interiore dall'altro.
Da ultimo Attila si liberò di suo fratello e rimasto solo signore si accinse all'impresa di sottomettere l'Europa. Prima funestò per molti anni la penisola balcanica con invasioni e scorrerie devastatrici; l'imperatore si vide costretto a pagare tributi quasi esorbitanti.
Poi Attila volse lo sguardo all'occidente. Venne a rottura con Valentiniano III perché gli aveva rifiutato la mano di Onoria. Nel frattempo scoppiò tra i Franchi la lotta per la successione al trono; Meroveo si recò per ricevere un aiuto alla corte imperiale, mentre il suo rivale chiese l'appoggio di Attila.
Così pure Genserico, minacciato da Visigoti e dai Romani, si rivolse al re degli Unni. Tutto spingeva alla guerra. Attila concepì la speranza di edificare il proprio dominio universale sulle rovine dell'impero decadente.
Le parti principali del continente europeo si divisero in due gruppi, uno spettacolo grandioso, quale non si vedeva da secoli. Da un lato tutto il vasto aggregato di paesi e popoli diversi sottoposti alla signoria degli Unni, più i Vandali; dall'altro la Gallia e l'Italia con i loro federati.
Da una parte dunque l'elemento unno-germanico, pagano; dall'altra parte l'elemento romano-germanico, cristiano. Le forze dell'Oriente erano riunite sotto il solo comando di Attila. Nel suo accampamento tra il Danubio e la Tisza egli se ne stava assiso su un trono di legno, minuscolo di statura in mezzo alla corona dei colossali principi germanici che lo circondavano, un mongolo ributtante a confronto dei suoi biondi seguaci, ma altero nel portamento, lo sguardo vivo e penetrante.
Attila era calcolatore ed astuto, pienamente padrone di sé, per quanto d'indole estremamente violenta. Quanto la sua mente ambiziosa di conquiste escogitava, egli lo attuava con l'energia d'un soldato e con la, brutalità di un selvaggio. Nessun'altra figura ha lasciato così larghe tracce di sé nella saga germanica come quella dello straniero re degli Unni, del possente Etzel.
Di fronte ad Attila, Ezio rappresentava l'unità dell'impero romano, ed era un avversario degno di lui. Ezio era originario della Mesia gotica e di madre italiana, e nella prima giovinezza aveva vissuto come ostaggio fra gli Unni. Egli possedeva le qualità dell'uomo nato per comandare in relazione ai suoi tempi. L'esercito onorava in lui l'eroe valoroso, l'abile stratega, il generale da seguire con piena fiducia. Come uomo di Stato egli fu di nette vedute, violento, ambizioso, geniale ed intrigante, superiore alle piccole passioni del giorno, tutto assorbito nell'ideale di essere grande e di compiere grandi cose.
Nell'autunno del 450 un selvaggio torrente di barbari risalendo il Danubio si precipitò sul Reno: erano gli Unni di Attila.
Attila - come già detto - era succeduto nel 434 allo zio Rua, aveva ucciso Bleda, suo fratello per rimanere a governare tutto da solo.

Iniziata una guerra di conquista in Oriente, Teodosio
l'imperatore invece di affrontarlo sul campo gli inviò i suoi ambasciatori a proporgli solo oro, nient'altro che oro, e questo per Attila che era della steppa, non era coraggio, era vigliaccheria;  ma poi Attila accettò il donativo perchè così poteva regalare ai suoi funzionari oro e preziosi omaggi. 
Ma Teodosio non fu umiliato solo per questo, ma ne subì un'altra di umiliazione che rimase all'occhiello di ATTILA come un piccolo gioiello di un grande condottiero qual'era. 
TEODOSIO dopo aver fatto quel compromesso venale, pensò di ricorrere a "mezzucci" in uso a Costantinopoli. Pensava a un tradimento della sua fiducia; anche perchè Attila senza tante precauzioni riceveva al suo cospetto dove lui viveva, sempre e comunque anche un semplice cittadino.
   
Il "mezzuccio" era l' assassinio; e per compierlo si scelse un certo EDICONE, un principe baldanzoso che si era offerto lui di mettere fine per sempre a quel tiranno. La mano di un suo enuco di corte, CRISAFIO, avrebbe vibrato il colpo mortale mentre lui lo intratteneva in una visita di ambasceria. 
I due si misero in cammino con quel PRISCO che divenne poi lo storico e il biografo del capo unno, e raggiunsero ATTILA nel suo quartiere generale .
Il suo "palazzo reale" era dislocato nella steppa ungherese, fra Theiss e Koros, in una vasta area circolare semplicemente circondata da una palizzata di legno, dove al centro sorgeva l'umile residenza reale. Una grande costruzione in legno con al pianterreno  un'unica sala, che era poi contemporaneamente l'abitazione pubblica e anche privata di Attila.

P
risco riferisce che era architettonicamente ingegnosa, questa unica sala era -da come ce la descrive- a compartimenti modulari scorrevoli, come esistono in certe sale di conferenza in certi alberghi di oggi dove si fanno i Meeting. 
In questo "palazzo" venivano ricevuti i nobili unni, che erano considerati da Attila anche consiglieri di stato quando riuniva nella grande sala gli stessi, per decidere i progetti del governo dei territori, gli interventi militari, gli scambi commerciali etc. 
Nella stessa sala si portavano i bottini delle razzie o i tributi che ormai giungevano da ogni parte. Gli stessi venivano divisi, in base alla posizione dei nobili, e questi poi provvedevano a distribuirli ai loro subalterni. 
Tutto attorno c'erano gli accampamenti in legno che ospitavano sia i soldati che le loro eventuali famiglie. E non c'erano solo Unni, ma anche Germani, e perfino molti Romani che Attila particolarmente stimava per l'intelligenza e la cultura, pertanto oltre che alla lingua Unna si parlava diffusamente il latino e il goto. 
Prisco ci racconta che molti romani avevano scelto di vivere volontariamente nella steppa ungherese con Attila per la libertà e la protezione di cui godeva ogni suddito, e che naturalmente non pagavano tasse. Prisco aggiunge che ognuno preferiva questa vita libera, e che solo così si sentivano nel loro elemento naturale. 
La semplicità nel vestire era estrema, e la semplicità nel mangiare altrettanto, e si risolveva in grandi pignatte dove notte e giorno bollivano pezzettini di carne scelta, in un prelibato sugo ma dove mettevano delle spezie fortissime. (Doveva essere questo il capostipite del famoso Gulash Ungherese) con pani di segala che provenivano da colture a perdita d'occhio, insieme a grandi numerose mandrie di animali allo stato brado. 

Prisco scrive: "Anche se Attila avesse conquistato Roma o Costantinopoli lui la sua vita l'avrebbe vissuta sempre lì e non nelle città che odiava". Insomma a quanto pare Attila non voleva vedere pietre attorno a se. E vivendo nella sua "tana"  per ben 8 anni era più che soddisfatto, gli bastava tenere i romani e tutti gli altri solo in soggezione per riempirgli i forzieri da distribuire ai suoi fedeli che amministrava con una giustizia semplice e saggia. Come un padre.
E per chi non lo sapesse "ATTILA" significava nella loro lingua Unna, proprio "piccolo padre"
Torniamo al "mezzuccio" di Teodosio. Il gruppetto una volta arrivato a destinazione, lo sguardo furbo o magnetico e penetrante degli occhi di Attila ("che erano come due spilli" - narra Prisco) Edicone tremò dalla paura, non osò fare il cenno convenuto al sicario, ma addirittura rivelò al re Unno le intenzioni della sua visita, cioè il delitto ordinatogli da Teodosio. 
A questo punto Attila si vendicò coprendo di ridicolo la missione di un nemico ormai degno solo di disprezzo. 
Li rimise in marcia verso Costantinopoli con il seguito; PRISCO (il nostro biografo), EDICONE e lo stesso sicario CRISAFIO, con ognuno al collo un gran bel cartello fatto fare dai suoi scribi. Su questo c'era scritto:
"ATTILA è figlio di un Re, TEODOSIO è figlio di un imperatore, ma essendo questo diventato tributario e quindi schiavo di Attila che è quindi suo padrone, Teodosio ha commesso un azione vergognosa, attentando alla vita del suo padrone; ma Attila non è solo un padrone, è innanzitutto un uomo giusto e non uccide tre piccoli schiavi di un padrone vergognoso, ma dà a loro la vita perchè oltre ad Attila ci siano altri tre uomini sulla faccia della terra che potranno disprezzare TEODOSIO vivo o morto, finchè vivranno".
Teodosio non solo aveva rotto un patto, ma si era dimostrato non degno della fiducia che Attila gli aveva accordata.
Ora a parte questa singolare punizione psicologica, era venuto anche il momento - e c'era la giustificazione- di infliggere una severa punizione al "traditore". Attila non perdonava i voltafaccia; per lui il tradimento era il peggior crimine del mondo e la più grossa sventura che poteva colpire un sovrano. Attila, preparato un grande esercito si decise così a marciare nei territori bizantini.
Prisco, che ebbe modo di viverci accanto (era come abbiamo detto ambasciatore di entrambi i due rivali) riporta nelle sue note, episodi curiosi oltre a illustrarci il vero carattere di Attila. Era costui dice "un uomo nato e destinato ad essere "capo branco";  non per procurarsi il necessario per vivere, ma il necessario per esistere; e per esistere ad Attila era necessario essere "capo branco". E molto affine a quest'uomo era anche Genserico il capo dei vandali.
Quella di Prisco resta forse l'unica veritiera biografia del capo degli Unni, senza pregiudizi. In certi passi Prisco nutre perfino dell'ammirazione verso Attila.
Passaggi dove troviamo ATTILA - lui rozzo, piccolo, brutto e analfabeta - rimanere affascinato e impietrito dalla commozione di fronte alle statue elleniche, di fronte ai colonnati della grande Grecia, dove scorazzò "visitando" circa 70 città.
Saccheggi e distruzioni non si contarono; soprattutto quando a Teodosio era succeduto Marcione, che al momento in cui l'ambasceria di Attila si presentò per incassare il tributo pattuito dal suo predecessore lui rispose di "avere doni per gli amici ma solo armi per i nemici". C'era da aspettarsi la collera di ATTILA, che avrebbe potuto dare sfogo distruggendo e incenerendo la Grecia, Costantinopoli e tutto l'impero d' Oriente. 
Invece Attila non solo abbandonò la zona ormai interamente saccheggiata dai suoi uomini, ma non riprese più quella strada verso Tessalonicco, che aveva fatto ben tre volte. In Grecia non si vide più nemmeno l'ombra di un Unno.

Rivolse invece le sue attenzioni al ricco Occidente iniziando dalla Gallia.

Si dice che Attila sia entrato in Gallia con 500.000 uomini. Metz andò in fiamme, Orléans cadde nelle mani dell'Unno; quand'ecco apparve Ezio con i federati. Erano questi i Burgundi con alla loro testa il re Gunderico, i Franchi di Meroveo, schiere di Sassoni ed Alemanni, mentre i Visigoti costituivano un esercito a parte, guidato dal re Teodorico I.
Attila ripiegò nelle pianure della Champagne, la cui vasta estensione presentava le condizioni più favorevoli per l'impiego della sua cavalleria, superiore per numero rispetto a quella dell'avversario. Sui campi catalaunici, fra Chàlons e Troyes, si venne alla battaglia decisiva, una battaglia «come l'antichità non ricordava mai l'uguale». Teodorico vi lasciò la vita ed Attila corse serio pericolo con la sua.
Fu la più sanguinosa battaglia di quest'epoca irta di battaglie. Sul vasto campo disseminato di cadaveri ben presto si distese la sua ala la leggenda; essa narra che il sangue fluente da ogni parte formò una fiumana come dopo una pioggia torrenziale, e che gli spiriti dei caduti si levarono nell'etere per rinnovare qui la battaglia. Attila fu respinto, ma non vinto. Egli si tenne fermo riparandosi dietro la sua solida trincea di carri; ma entrambi gli avversari si sentirono così scossi dalle numerose perdite subite che non osarono affrontare una seconda battaglia.

Così Attila iniziò la ritirata e se ne tornò in Pannonia, indisturbato dal suo nemico. Durante l'inverno radunò un nuovo esercito e nel 452 riapparve in Italia. Una parte delle atterrite popolazioni cercò rifugio sui banchi di sabbia del mare Adriatico presso le foci del fiume Brenta, dove a poco a poco da un semplice accampamento di fuggitivi, in quella che era una infima laguna, si sviluppò nel giro di qualche decennio la superba Venezia.
Aquileia, Milano, Pavia caddero nelle mani di Attila, che concepì il disegno di marciare su Roma. Ma il clima d'Italia, anche perchè vi era scoppiata la peste, generò delle epidemie anche nel suo esercito, in più, nei territori che attraversava già colpita da una lunga biennale carestia, venne a fargli difetto il foraggio per i cavalli e le vettovagli per gli uomini; per procurarsele le molte città fortificate incontrate sulla via gli costarono gravissime perdite.
Per di più, Attila anche se conosceva vagamente com'era fatta l'Italia, sapeva che era una stretta penisola circondata dai mari, e non voleva di certo scendendo verso sud rimanere imbottigliato, con Ezio alle sue spalle, e i bizantini pronti a sbarcare nei porti meridionali con le loro navi, che ovviamente Attila non possedeva.

Inoltre i suoi uomini portavano con se i vari bottini, e l'unica cosa che desideravano era quella di far ritorno al loro paese per godersili.
La realtà degli avvenimenti è invece un po' distorta e viene narrata così: Per fermare Attila, si recò presso di lui una ambasceria con a capo papa Leone; questi lo invitò ad abbandonare l'idea di scendere a Roma e nel sud d'Italia. Il re unno concluse un accordo con il Santo Padre e se ne tornò quatto quatto verso il Danubio. La leggenda cattolica ha glorificato questo primo atto d'importanza storica universale del successore di S. Pietro. E secondo la leggenda, "facendogli apparire in cielo gli apostoli minacciosi". Figuriamoci se l'Attila descrittoci da Prisco era un tipo così arrendevole. Come abbiamo accennato sopra, c'erano molti fattori contrari all'impresa e il capo Unno che era un formidabile calcolatore i conti li fece subito.
Tuttavia Attila dopo questo ritiro si era acquattato come una tigre ferita nella sua pianura spiando un'occasione propizia, roso nel profondo dell'animo per gli insuccessi patiti. D'un tratto nel 453 morì. Il mondo trasse un respiro di sollievo; il «flagello di Dio» si era spezzato. Con la sparizione di Attila si sfasciò anche il dominio universale degli Unni. I suoi figli non del suo valore vennero in lotta tra loro; i popoli soggetti si sollevarono con audacia e sconfissero i loro dominatori sul fiume Neda (nella Pannonia). Gli Unni furono costretti a retrocedere sulle coste del Ponto e nei paesi che erano stati il centro del loro dominio rialzarono il capo i Germani.
La Dacia ed una parte dell'Ungheria fu occupata dai Gepidi, la Pannonia da Goti col consenso dell'imperatore, i Rugi, gli Eruli e gli Sciri sembra abbiano ottenuto delle terre parte nel settentrione della Baviera e nell'Austria, parte in Tracia, i Longobardi si erano stanziati nella Moravia e nel mezzogiorno della Slesia.

L'impero ed il cristianesimo erano salvi ed Ezio fu celebrato come l'eroe degli avvenimenti. L'irrequieto re dei Visigoti, Torismondo, fu nel 453 assassinato dai suoi fratelli, ed uno di essi, il romanofilo Teodorico II, venne assunto al trono, forse non senza intromissione del magister militum romano. L'autorità e l'orgoglio di quest'ultimo ingigantirono. E mentre già volgeva in alto le sue mire, Valentiniano lo fece uccidere nel 455. Pochi mesi dopo anche il suo uccisore cadde in pieno campo di Marte sotto la mano vendicatrice di due compagni d'arme di Ezio. Ciò fu causa dello scatenarsi di una vera rovina, perché con Valentiniano venne meno l'ultimo rampollo della casa imperiale bizantina di Teodosio e mancò l'erede al trono.
I Germani si ritennero sciolti dagli obblighi assunta con i loro trattati; Franchi, Alemanni, Burgundi e persino Sassoni si spinsero in avanti; i Visigoti divennero di dubbia fede. Nei territorii romani scoppiarono rivolte militari. I Vandali sopra tutto avevano messo a profitto il tempo per ampliare il proprio dominio; essi si impadronirono di sorpresa di Cartagine e le loro navi pirate ricominciarono a correre il mare. Un trattato di pace concluso nel 441 divise l'Africa tra Genserico e l'imperatore.
Da questo momento il Vandalo Genserico cercò di mettersi in rapporti pacifici con l'impero; egli pose fine alle persecuzioni dei cattolici e nel 454 permise che fosse nuovamente nominato il vescovo di Cartagine. Avvenuto l'assassinio di Valentiniano, Genserico, sotto il pretesto di farsi vendicatore della casa di Teodosio, mosse dall'Africa con la sua flotta, sbarcò presso il Tevere, occupò nel 455 Roma indifesa, la lasciò brutalmente saccheggiare con tutto comodo dai suoi Vandali per lo spazio di 14 giorni, e costrinse una delle figlie dell'imperatore, Eudossia, a sposare suo figlio Unerico.
Roma non fu più in grado di risollevarsi dalle funeste conseguenze del «vandalismo» subito (fino al punto che vandalismo divenne sinonimo di distruzione e saccheggio). La grande Roma cominciò a ridursi a un deserto, una tomba, muta, ma eloquente testimonianza di una passata grandezza. Centro dell'impero essa aveva già cessato di essere da tempo. In Gallia il magister militum Avito, appoggiato dai Visigoti, fu proclamato imperatore. Egli affidò l'esercito a Ricimero, il cui padre discendeva dalla famiglia regia degli Svevi, la madre da quella visigota. Ricimero sconfisse i Vandali in Sicilia e nelle acque della Corsica, però poi pure lui si ribellò all'imperatore, lo vinse e lo spodestò.
Nell'Impero d'Oriente venne a morte Marciano; Ricimero diventò il padrone dell'Impero. L'elemento germanico nelle cui mani da tempo si era concentrata la forza, volle ora esercitare effettivamente il potere. E per 16 anni infatti Ricimero lo esercitò, non nel senso di assumere egli stesso la dignità imperiale (troppo pericolosa) ma di mettere sul trono imperatori fantocci, che prendevano ordini da lui; meritandosi il nome di «fabbricatore di imperatori».
Il nuovo arbitro dell'Impero fu vero figlio per quanto eminente di un'epoca degenerata; bellicoso, violento, passionale, pieno di energia e di ambizione, pieno di perfidia e di egoismo, senza alcun rispetto di Dio e degli uomini. Accortamente egli si procurò il riconoscimento nominale da parte dell'imperatore d'Oriente ed in base ad esso in realtà fece quel che volle. Ottenne per primo la porpora il favorito di Ricimero, Majoriano. Questi peraltro si rivelò un principe di valore, sconfisse una flotta vandalica, dei partigiani gallici, Burgundi e Visigoti e cercò di ricondurli all'osservanza dei loro obblighi verso l'Impero. Ma una impresa contro Genserico gli andò fallita e poco dopo rimase vittima di una rivolta militare. Uomini come Maioriano non erano nelle vedute di Ricimero; gli occorrevano degli imperatori più docili e sottomessi. E difatti nessun altro imperatore come Maioriano pose più piede in Gallia e nella Spagna, e toccò ormai solo più a generali romani il duro e penoso compito di difendere in quelle contrade l'autorità e l'integrità territoriale dell'impero.
Il valente Egidio nella Gallia non volle riconoscere il nuovo imperatore "marionetta" messo da Ricimero sul trono, ed essendosi i Visigoti impadroniti dell'importante città di Narbona, mosse loro la guerra, durante la quale morì nel 464, lasciando in eredità a suo figlio Siagrio il peso di un ben difficile compito.
I Franchi avanzarono fino alla Loira, dove incontrarono e combatterono dei Sassoni, evidentemente arrivati via mare.
Da ultimo Ricimero si trovò ridotto alla sola Italia, la quale per di più fu funestata a nord da scorrerie di Alemanni ed Ostrogoti e lungo le coste dalle piraterie dei Vandali. Non un angolo delle spiagge italiane poté più dirsi al sicuro dagli assalti di Genserico, che contemporaneamente entrò in contatto e alleanza con tutti i nemici di Ricimero, evidentemente con vaste mire, egoistiche, tutte sue. Con indicibili fatiche Ricimero mise su nel 466 una flotta; che però non riuscì a far nulla contro il capo dei Vandali ben piazzato e indisturbato sulle coste africane tutte in mano sua.
A questo punto intervenne il nuovo Imperatore d'Oriente, Leone, che mandò in Italia quale imperatore d'Occidente il greco Antemio. La speranza dell'aiuto bizantino indusse Ricimero a riconoscerlo. In realtà costui non era che un luogotenente dell'imperatore orientale ed un subordinato del vero padrone, lo svevo. Ad ogni modo fu messa insieme una flotta dei due imperi alleati e comparve dinanzi a Cartagine. Già la città stava per cadere, quando i Vandali, ormai divenuti esperti marinai, sopraffecero la flotta nemica e ricominciarono senza incontrare ostacoli a devastare le coste. Una alleanza coi Visigoti li rese completamente padroni dell'intera costa Mediterranea, e anche dello stesso mare.
Nel frattempo il sovrano nominale ed il vero padrone d'Italia erano venuti a rottura tra di loro. Ricimero con un esercito composto sostanzialmente di Germani pose l'assedio a Roma, la quale fu difesa da un Goto, Bilimero. Dopo una lotta formidabile gli assedianti penetrarono nella città che abbandonarono al saccheggio ed al massacro; Bilimero cadde combattendo ed Antemio fu ucciso mentre cercava di salvarsi con la fuga.

Presto lo svevo elevò al trono il marito della figlia minore di Eudossia, Olibrio, soddisfacendo così i desiderii di Genserico; poi inaspettatamente morì ed il suo potere passò al burgundo Gundobado. Questi era magister militum delle truppe barbariche e solo per questo poté imporsi nel paese sconvolto ed esausto di forze; egli creò un nuovo imperatore, ma la morte del padre lo richiamò in patria. Cosicchè il suo imperatore perdette il sostegno, e Giulio Nepote, inviato da Costantinopoli per occupare il seggio imperiale poté facilmente abbatterlo. Gli avvenimenti si susseguivano con rapidità quasi febbrile; erano come le convulsioni spasmodiche di un moribondo.
L'alleanza fra Vandali e Goti ebbe conseguenze fatali. I Goti si impadronirono di tutto l'occidente della Gallia sino al confine della Loira verso nord, i Vandali continuarono come prima le loro scorrerie devastatrici, e Giulio Nepote fu cacciato da Ravenna dal suo magister militum Oreste e costretto a rifugiarsi in Dalmazia, dove proseguì (ma solo virtualmente) a «regnare», mentre il vincitore elevava in Italia al trono il suo giovane figlio Romolo (475).
Parve eliminato nel modo più naturale il dissidio fra imperatore e patrizio. Ma più forti di entrambi si erano da un pezzo rivelati i mercenari germanici. Come nelle province i loro connazionali avevano acquistato stabili sedi, così costoro reclamarono la concessione di terre in Italia. Avendo Oreste rifiutato, essi elevarono a loro capo uno dei loro, Odoacre, il quale sconfisse presso Pavia il suo avversario e lo fece decapitare al cospetto dell'esercito.

In seguito alla vittoria sembra che i mercenari abbiano proclamato re questo loro generale, se pure non lo avevano già fatto prima. Odoacre spogliò Romolo Augustolo della porpora, ma lo lasciò in vita, e mandò all'imperatore bizantino Leone una legazione del senato romano, la quale dichiarò che l'Occidente non aveva più bisogno di un sovrano a parte, che uno solo, quello d'Oriente, bastava per ambedue gli imperi. E perciò il senato pregava di accordare ad Odoacre, da esso prescelto, il patriziato e di affidargli il governo d'Italia.
Con questa ultima manifestazione di impotenza quel corpo che nei giorni lontani aveva dominato sul mondo si ritrasse dalla scena della storia. L'impero romano apparteneva al passato; esso continuò a vivere solo nello schematismo dei cronisti e come idea, e anche se le sue conquiste intellettuali divennero la base di un nuovo incivilimento per molti popoli, politicamente l'avvenire, il dominio, spettava ai figli del Nord.
Sullo sviluppo dei Germani, oltre alle, cause politiche e nazionali, influì con altrettanta forza anche il mutamento di religione.

L'antica religione pagana-germanica era essenzialmente legata alla natura dei luoghi e per di più non era mai pervenuta a limpidezza di idee ed a perfezione tecnica. Ora i fedeli di Donar e di Wotan abbandonarono le selve ed i colli della loro gelida patria e si trovarono trasportati in un mondo diverso e del tutto sconosciuto. Non desta pertanto meraviglia che il paganesimo si sia visto alla fine mancare il terreno sotto i piedi, si sia disorientato e sia divenuto fiacco ed incapace di sostenere la lotta col cristianesimo già radicato nelle nuove terre, saldamente organizzato e riccamente elaborato come dottrina della salvezza dell'anima.
Tuttavia esso difettò all'inizio di unità, giacché, a prescindere da altri scismi dommatici, infuriò nel paese la lotta fra le dottrine dei due padri della chiesa alessandrina, Atanasio ed Ario. Si trattava di questioni in realtà impenetrabili, del rapporto cioè in cui stava il divin figlio col padre. Gli Anastasiani sostenevano l'originaria unità di Dio nella trinità, mentre Ario affermava che il figlio era stato creato dal nulla per volontà del padre, e quindi di per sé creatura, non dio per origine ma per traslazione.
Schiavi, mercenari e mercanti avevano già nel II e III secolo portato qua e là nell'interno della Germania le dottrine cristiane. La fede cristiana sul principio del IV secolo divenne generale fra i Goti delle foci del Danubio, evidentemente nella forma allora dominante dell'ortodossia. Ma quando, dopo la morte di Costantino, l'arianesimo assurse al grado di religione di Stato, esso si diffuse anche fra i Goti, e vi pose tanto più salde radici in quanto costoro ebbero in Ufila (o Wulfila) un uomo che già i contemporanei chiamarono il «Mosè dei Goti». Ufila tradusse la bibbia nella lingua del suo popolo, creando un'opera di cui conserviamo ancora oggidì un esemplare scritto in lettere d'oro su pergamena purpurea, uno dei più preziosi manoscritti del mondo.
All'inizio la posizione dei Goti cristiani divenne insostenibile fra i loro connazionali pagani e perciò cercarono protezione in territorio romano. Ragioni politiche si nascondevano dietro la questione religiosa. Sotto la pressione degli Unni nel 376 la maggioranza dei Visigoti passò il Danubio e ben presto il Cristianesimo acquistò fra loro tanta forza che persino re Atanarico lo abbracciò. Teodosio ed altri tentarono di far trionfare fra i barbari la dottrina sancita dal concilio di Nicea. Invano; la massa così dei Visigoti come degli Ostrogoti rimase ariana.
Anche gli altri Germani dimoranti di là dal Danubio accedettero alla stessa confessione, con tutta probabilità per lo più per influenza dei Goti. I Burgundi in virtù di influenze galliche si convertirono dapprima al cattolicesimo, poi dalla vicinanza dei Goti vennero conquistati pure loro all'arianesimo. Lo stesso avvenne per gli Svevi di Spagna. Diversamente invece i Vandali che forse erano già ariani quando intrapresero la loro grande migrazione verso occidente e in Africa. E anche l'ultimo popolo germanico che invase poi territori romani, quello dei Langobardi, appartiene a questo gruppo.
Persino tra i Franchi l'eresia ariana prese in parte piede. E a quel punto, l'arianesimo può essere considerato come la religione nazionale e la religione di Stato germanica, in antitesi ai Romani prevalentemente cattolici.
La conseguenza nell'avvenire fu che la comunanza di fede rafforzò il sentimento nazionale di per sé debole e salvaguardò l'elemento germanico dominante dall'essere sopraffatto dai Romani soggiogati, ma nel tempo stesso lo scisma religioso (così poco comprensibile) nell'interno dei singoli Stati ne provocò la rovina, giacché uno Stato ordinato non può permanentemente tollerare un simile dissidio. Il popolo che per primo lo eliminò sopravvanzò immmediatamente e di gran lunga tutti gli altri; e fu il popolo dei Franchi.
L'opera di unificazione religiosa di questi fu dovuta a Clodoveo. Personalmente egli era ancora pagano, ma sua moglie, una burgunda, seguiva la fede cattolica. La. leggenda dice che egli si convertì per avere con buon esito invocato l'aiuto del dio di sua moglie in un momento critico di una battaglia. In realtà, è il suo acume politico (al pari di Costantino) che deve averlo deciso ad abbracciare il cristianesimo non solo, ma la, confessione cattolica. Operando così Clodoveo si fece alleati i provinciali con alla testa il papa. Il vescovo burgundo Avito poté scrivergli "Dove tu combatti, noi vinciamo". La consacrazione di Clodoveo per mano di Remigio vescovo di Reims può considerarsi il preludio dell'incoronazione di Carlo Magno in S. Pietro e della dominazione universale franca.
A poco a poco poi il nuovo indirizzo prese piede fra tutti i Germani e pose capo allo stesso risultato, quello di ricondurli nel seno della chiesa ortodossa. Certo da principio il Cristianesimo fu poco compreso e sentito dai Germani. La loro mente ancor rozza trasportò semplicemente nella nuova fede le idee tradizionali. Il dualismo degli dei supremi, di Wotan e di suo figlio Donar, trovò immediato riscontro nel dualismo cristiano del Padre e del Figlio. E quando si sviluppò il rapporto di feudalità e di vassallaggio, il dovere di fedeltà del vassallo verso il suo signore apparve come un vincolo di devozione del credente a Cristo.
Benché Clodoveo avesse abbracciato la religione che predicava l'amor del prossimo, ciò non gli impedì di perseguire i suoi fini con formidabile egoismo, crudeltà e perfidia. La vittoria dell'ortodossia sull'arianesimo era inevitabile già per il fatto che la prima era la religione dei Romani fra i quali i conquistatori vivevano.
Essa era intellettualmente superiore, possedeva una grandiosa organizzazione, si proclamava universale, anche se con prepotente e violenta intolleranza. Non così l'arianesimo; esso si mostrò conciliante, tollerante, inoltre diviso in tante chiese nazionali. Non é quindi da meravigliarsi che sia rimasto soccombente.
Una considerevole influenza vi ebbero le donne, che il cattolicesimo ha in tutti i tempi saputo accattivarsi. Come la burgunda Crotechilde riuscì a trarre dalla sua Clodoveo, così fecero poi la bavara Teodolinda e sua figlia Gundeberga fra i Langobardi, la franca Berta fra gli Anglosassoni, Caretena (moglie di Ilperico) fra i Burgundi, le franche Crotechilde ed Ingunthis con Teodosia (moglie di Leovigildo) fra i Visigoti.
È per opera delle donne che l'arianesimo uscì per così dire di moda. Gli Stati degli Ostrogoti e dei Vandali si sfasciarono dopo un breve splendore; fra i Burgundi salì al trono nel 516 il cattolico Sigismondo, fra i Visigoti nel 586 il cattolico Recarado, fra i Langobardi nel 653 il cattolico Ariperto. E già verso il 560 al tempo di re Teodemiro la fede cattolica era stata già accolta nel regno degli Svevi.
Il cattolicesimo aveva conseguito una delle sue più grandi vittorie; ormai esso trionfava sul paganesimo e sull'arianesimo.

Ma prima di narrare le sue successive vittorie
ritorniamo brevemente sulle coste mediterranee
per conoscere meglio la .....

LA DOMINAZIONE DEI VANDALI IN AFRICA > >

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