-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

116. MARTIN LUTERO E LE ORIGINI DELLA RIFORMA


I Natali e qualche nota sulla vita di Martin Lutero li abbiamo già brevemente accennati nel precedente capitolo, mentre qui approfondiremo meglio tutto il percorso del monaco agostiniano fino al rogo della bolla papale, poi seguirà il capitolo "Lutero, il popolo tedesco e l'Impero".
Come gia riportato, Martin Lutero era nato ad Eisleben, nella Sassonia, il 10 novembre 1483. Suo padre era un contadino, sua madre una modesta borghesuccia della piccola città. Nelle linee del loro viso, che ci sono state conservate da Luca Cranach, in un dipinto del 1530, si mostrano evidenti le forme dure e rigide dei contadini tedeschi.

Così li rivelerà lo stesso Lutero: «Sono figlio di contadini. Mio padre, mio nonno, mio bisnonno sono stati veri e propri contadini».

Gente onesta e rigida, vigorosa e operosa, da essi Martin ereditò quella ostinatezza di carattere e quella serietà di propositi, che furono la sua grande forza nella sua lunga e memorabile lotta. Da essi ereditò forse anche un'altra sua grande energia: l'ambizione potente, che lo conduceva a cercare sempre maggiore successo. Il padre aveva sognato di fare del ragazzo un avvocato, e per questo dopo aver cambiato mestiere, improvvisandosi minatore e cercando rame in una modestissima cava, nonostante le continue ristrettezze finanziarie che coincisero con tutta la fanciullezza del ragazzo, lo aveva iscritto, all'Università. E a questo ideale rispondeva l'intelligenza del ragazzo, che si era dimostrata, fin dai primi anni, vigorosa e vivace. Se ne poteva fare insomma un buon avvocato.

Lutero ebbe quindi una fanciullezza grigia e difficile. La sua casa era triste; la sua famiglia era povera. Più tardi, egli ricorderà, non senza terrore, quella prima esistenza trascorsa tra superstizioni e paure e tra le ristrettezze familiari. Anche le scuole, a cui fu iniziato, a Mansfeld prima, poi ad Eisenach, non gli lasciano buoni ricordi: la prima istruzione veniva impartita, molto spesso, a suon di nerbate. Un profondo senso religioso, instillato dall'educazione materna e dalla scuola, gli fa conoscere e quasi temere un Dio giusto e terribile, pronto alla severità e alla vendetta.
Forse le aspirazioni paterne non avrebbero potuto essere soddisfatte, se il ragazzo non avesse trovato una protettrice: la moglie di Corrado Cotta, un nobile e ricco di Eisenach, la quale lo accolse nella casa, lo tenne come figlio, lo aiutò negli studi.

Aveva quattordici anni quando il padre lo mandò agli studi in Mansfeld; e forse si deve supporre che fosse allora costume di avventurare i giovanetti, anche con scarsi mezzi di fortuna e senza appoggi, confidando nella generosità dei cittadini e nelle istituzioni benefiche religiose, che attorniavano le scuole. Ma fu breve la dimora in quella città. Forse Lutero non aveva trovato i mezzi sufficienti alla vita.
Passò pertanto ad Eisenach, dove, facendosi distinguere per l'armoniosità del canto, attrasse l'attenzione benefica di una donna, Orsola, moglie del ricco mercante, già ricordato, Corrado Cotta, e quella, come si è detto, lo accolse in casa e lo tenne per alcuni anni, dandogli vitto ed alloggio.

Dovette la dama davvero trattarlo bene, perchè di questa pia benefattrice, Lutero conservò più tardi perenne e grata memoria, e più volte ne parlò con termini del più devoto rispetto. Non era insolita, come si disse, a quei tempi, l'offerta di protezione e di alloggio ai giovinetti avviati agli studi; e nulla vi era di strano nel senso di interesse e di pietà che aveva suggerito alla gentildonna, che pare fosse senza figli, di accogliere in casa e di aiutare il giovinetto povero ma di grande ingegno e sempre impegnato a studiare.

Nel 1500, Lutero entra, a diciotto anni, all'Università di Erfurt, come studente di giurisprudenza. L'Università di Erfurt era allora un centro umanistico molto reputato. Il giovane, avido di sapere, trovò largo spazio alle sue brame. Sappiamo che, oltre ai suoi studi, egli si appassionò per la musica, per la filosofia. Ma nemmeno in questi studi egli trovò quella pace, che, tra le superstizioni e la miseria, gli era stata negata nella fanciullezza.

Il mattino del 16 luglio 1505, il 22 enne Martin Lutero entrava nel chiostro degli Agostiniani di Erfurt, e chiedeva di esservi accolto come novizio, deciso a farsi monaco. Quali le ragioni di una simile risoluzione?
Conviene anzitutto ricordare che simili decisioni erano abbastanza frequenti, in questa età, specialmente nella Germania del medio evo. Ma per Lutero ci dovevano essere varie e complesse ragioni. Nella biografia di Lutero, si ricorda un avvenimento, che sarebbe stato determinante. Appunto nell'estate del 1505, mentre il giovane camminava con un amico nei dintorni di Erfurt, scoppiò improvviso un violento temporale e, tra la furia degli elementi, un fulmine cadde vicino ai due viandanti, e li investì, cagionando la morte del compagno. Lutero restò miracolosamente illeso, e in quel momento forse si determinò la sua vocazione; in quel momento forse pronunciò, nell'animo suo, quel voto, di cui parlò più tardi nei suoi scritti. Sta di fatto che, pochi giorni dopo la morte dell'amico, Lutero entrava nel convento.

Ma indubbiamente quella vocazione doveva essere stata preparata da altre circostanze, e da uno stato di coscienza interiore, che non é difficile spiegare. Lo studio del diritto non aveva esercitato alcuna attrazione sul giovane: dopo il baccellierato, egli aveva evidentemente trascurato ogni avanzamento in quegli studi, attratto da altre passioni. Benchè egli non lo confessi esplicitamente, dobbiamo ritenere che la sua giovinezza di studente non sia stata molto diversa da quella di S. Agostino (salvo alla fine).
D'altronde, gli studi umanistici non avevano eccitato alcuna attrazione nel giovane. E invece è facile intuire che, dal fondo religioso che si era formato nella sua coscienza di ragazzo, era venuto su un profondo terrore della giustizia divina, contro gli errori e le facili attrattive del peccato. Uomo di robusta costituzione e di temperamento sanguigno, come appare dai numerosi ritratti del suo tempo, Martin Lutero aveva dovuto combattere, in quella giovinezza, una fiera lotta contro le insidie della carne.

Più tardi egli si chiede: «Se l'uomo non può vincere le tentazioni della carne, più potenti di lui, perché deve essere dannato?». Nel dissidio tra le forti attrazioni del peccato e la legge divina, pareva che il giovane non trovasse la via di scampo. Nello scritto De libero arbitrio, che ci presenta più tardi le riflessioni cupe di una vita claustrale, sempre perseguitata da questa lotta profonda della coscienza, Lutero appare in preda alle frequenti visioni diaboliche e al terrore della giustizia divina.

Si può spiegare allora la risoluzione di Lutero. Nel chiostro, soltanto, poteva trovare la speranza della pace e la maggiore sicurezza contro la divina vendetta. Per quanto questa lotta debba essere continuata anche sotto la tonaca monacale, per il giovane entrato nel monastero a ventidue anni, tuttavia è evidente che, per uno spirito turbato da questo dissidio tra la tentazione terrena e la salvezza eterna, il monacato poteva essere il rimedio più opportuno. Lutero avrebbe dovuto trovare nella fede il conforto delle sue pene. Il versetto del profeta, citato da S. Paolo, dice: «Il giusto vivrà per la fede».
E la fede fu la grande consolatrice.

Ma la risoluzione, sia pure preparata, doveva avere avuto un motivo improvviso e contingente. Nella prefazione al trattato De votis monasticis, dettata in forma di lettera a suo padre, egli scrisse: «Nel terrore di una apparizione improvvisa, circondato dalla morte e credendomi chiamato dal cielo, feci un voto senza riflessione». Questo "senza riflessione" ha l'aria di pentimento, gli macererà l'anima fino a 44 anni, quando poi all'improvviso sposò una giovane ex monaca, forse con gli stessi suoi problemi, mettendo poi insieme al mondo in breve tempo sei figli.
È pur vero che Lutero, in questa prefazione, intende giustificarsi presso il padre, che aveva sognato per il figlio una diversa professione, e che anzi. come lo stesso Lutero racconta, anche dopo che il figliolo aveva professato i voti solenni, era scoppiato nell'esclamazione: «Dio voglia che questo non sia un tiro di Satana!».
Ma il ricordo preciso di un avvenimento straordinario, che aveva spinto il giovane ad un voto interiore, voto che, per timore di una pena celeste più grave, aveva poi dovuto soddisfare; questo ricordo, dico, autorizza a ritenere vero l'episodio della morte improvvisa dell'amico e dello spavento nel temporale, per cui la decisione venne allo spirito inquieto e pauroso, come ineluttabile.

La vita di questi tempi, che uscivano appena dal medio evo, era fatta di queste lente preparazioni o di queste improvvise decisioni. La riflessione interiore (con però inculcate fin dalla più tenera età il grave peccato per la sana tendenza umana, qual'era la passione per l'altro sesso) accumulava gli elementi per persuadere alla vita monastica, fatta di studio, di contemplazione, di dedizione e di mistero. Un avvenimento inaspettato e perturbante veniva a determinare, improvvisamente, la vocazione. Rarissimi erano allora i casi di incertezza e di pentimenti nelle vocazioni, poiché il timore dell'oltretomba consigliava piuttosto la perseveranza che l'abbandono. Ma forse il timore del disprezzo terreno popolare che poi seguiva era ancora più grande. Un apostata era considerato (o fatto dal pulpito considerare) una vera e propria eresia, degno di ludibrio generale.

Entrando nel chiostro, Lutero aveva portato con sé Plauto e Virgilio, non potendo del tutto staccarsi dai suoi studi. Ma i rudi fratelli del suo convento non ammettevano queste "distrazioni", che parevano una perdita di tempo: «Invece di leggere i classici, va a mendicare, ché così abbiamo pane per il convento».
E il giovane monaco si adattò ai più umili servizi, prese in spalla il sacco, andò alla questua nella città stessa che lo aveva visto studente. Non si lagnò mai, e offerse a Dio la sua umiliazione.

Tutto il noviziato fu una prova terribile per Lutero. Nel silenzio del chiostro, si agitava più forte la sua interna passione. Terribili crisi gli devastavano l'anima, e lo lasciavano, come egli confessa, quasi svenuto. Solo suo conforto era nella lettura della Bibbia, a cui si applicò con ardore.
Quando venne il giorno sacro del definitivo accesso nell'ordine, egli sperò che la quiete dell'animo dovesse essere conquistata. S'ingannava. I terrori, che l'avevano tante volte spaventato, continuavano ancora paurosi. Nella notte, egli gettava grida angosciose. Contro le tentazioni del demonio, si levava terribile la spada divina, fiammeggiante. Cristo era per lui non la fonte dell'amore, ma il giudice severo, inesorabile, pronto alla condanna.

Lo spavento della dannazione, il timore dell'inutilità degli sforzi dell'uomo per salvarsi gli davano angosce mortali. Tremava davanti al crocifisso. Quando celebrò la prima messa, l'idea, della presenza reale di Dio nell'ostia lo fece cadere quasi in deliquio.
Nella illustrazione delle sue tesi, edita nel 1518, egli scriveva, alludendo evidentemente a se stesso: «Io conosco un uomo, il quale mi assicurava di aver sofferto tormenti tali, fortunatamente di breve durata, che nessuna lingua o penna potrà mai esprimere, e che, se avessero durato anche un decimo d'ora, lo avrebbero finito... Gli pareva di essere fatto segno, senza speranza, all'ira di Dio inesorabile ».

Nella vita del chiostro, egli dunque non aveva trovato la pace. Con digiuni e con macerazioni, egli tentava di placare il terribile tormento, che tutto lo scuoteva: «Io mi sarei ucciso - scriveva nel 1537, quando, dopo il suo scisma, condannava la sua vita monastica - coi digiuni, con le veglie e con le intemperie, tanto ero pazzo e imbecille. Il mio martirio era tale che non avrei potuto durarlo più di un anno o due, se non fosse arrivata la grazia di Cristo».

Fu monaco esemplare, studioso dei testi divini, curante delle pratiche, operoso nella vita claustrale. «Esteriormente io non ero come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; ma osservavo la castità, l'obbedienza, la povertà. Libero dalle cure terrene, ero tutto dedito ai digiuni, alle vigilie, alle orazioni, alla lettura delle messe. Tuttavia sotto questa santità e fiducia di me, nutrivo una perplessa diffidenza, il dubbio, il terrore, l'odio e la bestemmia di Dio».
Si agitava così nel suo spirito una spaventosa lotta con sé stesso, ch'egli sintetizzerà con queste parole: «Questa é la lotta peggiore: che non si sa se Dio é il diavolo o il diavolo e Dio».

Da questo baratro fu tratto col conforto e col consiglio di un vicario degli Agostiniani, Giovanni Staupitz, che gli fece comprendere l'assurdità di questa concezione del peccato, e gli rivelò che Dio era prima di tutto amore e fede nella pratica divina, e lo incitò allo studio più appassionato della teologia.
Pervenuto agli ordini sacerdotali nel 1507, un anno dopo era chiamato come lettore di filosofia all'Università di Wittemberga; e qui, divenuto nel 1509 baccelliere di teologia, doveva più tardi, nel 1512, salire al grado di dottore.

L'Elettore di Sassonia, Federico, ebbe per Lutero e per la sua eloquenza, fin da questi anni, viva ammirazione, e fin da allora prese a proteggerlo, creando una situazione di fatto, che dovrà avere una importanza decisiva nelle grandiose vicende della vita dell'umile monaco.
Fu in questo periodo che, per una missione del suo Ordine, nel 1511, Lutero si mise in viaggio per Roma. Di questo viaggio, Lutero non ha lasciato nelle sue opere che pochissimi ricordi. È possibile come dicono i biografi, ch'egli ne sia ritornato con un senso vivo d'indignazione contro la Curia romana piena di scandali e di corruzione, dove la vita mondana, sia pure abbellita dal gusto delle arti, prevaleva sulla vita religiosa e divina.

L'Italia, pur lacerata dalle guerre (si iniziava allora la guerra, promossa da Giulio II, contro Luigi XII), era allora nel pieno sviluppo delle arti e delle scienze, e brillava per la fama delle sue Università. Ma Lutero nulla sentì di quel fuoco. Il suo spirito rigido non gli poteva consentire di fermare la mente ai problemi della filosofia, dell'arte e della scienza. Disceso per il passo dello Spluga, a Como, egli si fermò brevemente a Milano, dove fu contrariato di non poter celebrare messa, di fronte alle regole esclusiviste e singolari del rito ambrosiano. Quindi si fermò vicino a Padova; e là , in un monastero, ebbe occasione, come narra un suo biografo, di constatare la vita mondana dei conventi: nei giorni di digiuno, si mangiava ogni specie di carne! Con questo e altro lo lasciò scandalizzato, e proseguì per Bologna, dove fu preso da forti febbri. Guarito, proseguì il viaggio per Roma.

Ma doveva tornarne presto, e senza che l'Italia lasciasse nel suo animo la più piccola traccia. Troppo lontano era il suo spirito, tutto preso da una rigida preoccupazione religiosa.
Ritornò alla sua cattedra con l'animo acceso del credente, e si sprofondò negli studi biblici. Nel 1512, prendeva il grado di dottore, e la qualità di professore ufficiale dell'Università di Wittemberg. «Cominciò, dice Melantone, a tener discorsi sulla lettera ai Romani, poi sui Salmi, e spiegava questi scritti in modo che, secondo i giudizi di tutti gli uomini pii e dotti, era come, dopo una notte lunga e profonda, una nuova luce di dottrina che comincia a spuntare».

Negli scritti e nei sermoni di questo periodo, si scorge un animo più calmo e meno turbato. Lutero sostiene lungamente che non si deve avere orrore di Dio, ma soltanto un reverenziale timore. Egli ha superato dunque quella fase di profonda commozione, che aveva tenuto agitato il suo animo, nel periodo burrascoso e doloroso della sua travagliata giovinezza. Ora, nelle nuove funzioni di dottore, il suo animo ha guadagnato l'equilibrio e la sicurezza di se. Si dà con successo alla predicazione. Nel 1515, viene nominato vicario distrettuale dell'ordine degli Agostiniani, e si impegna con zelo in un ufficio molto delicato, che esigeva una cura assidua dell'amministrazione e della giurisdizione disciplinare nel monastero.

Nell'esercizio di queste delicate funzioni, Lutero usò metodi umani e paterni, che rivelano il suo spirito elevato e sereno, e le sue attitudini di organizzatore e di uomo d'azione. Si deve, anzi, ritenere che, in queste attività, egli abbia trovato quella quiete dello spirito e quell'equilibrio delle sue native e solide qualità, che gli erano state negate nella giovinezza inquieta e vagante e nei primi anni della difficile vita claustrale.
Il tormento della analisi interiore sembra superato e vinto. I doveri del suo ufficio lo assorbono e gli dànno la quiete e la serenità. Senza abbandonare gli studi della Bibbia e la preghiera, come ottimo e religioso monaco, egli s'impegna nelle attività dell'insegnamento e tanto dinamismo nell'amministratore, in cui le sue attitudini trovavano veramente lo sfogo fecondo e pacificatore.

Il suo spirito elevato e sereno, ci é rivelato da un episodio, su cui lungamente si ferma l'Hausrath. Un monaco di Dresda, soggetto alla sua giurisdizione (era allora, come si e detto, vicario distrettuale dei conventi della Misnia e della Turingia), dopo un grave scandalo, era fuggito e aveva cercato e ottenuto ricovero in altro eremo agostiniano di Magonza. La sanzione religiosa avrebbe potuto cadere come una folgore su questo colpevole. Eppure, la parola di Lutero venne mite ed ispirata, come si conveniva a chi aveva il difficile governo di tante coscienze e di tante vite. Ecco com'egli scriveva al priore del convento agostiniano, che aveva accolto il rifugiato: «Vi ringrazio di averlo accolto... Esso é una mia pecora smarrita... E' mio dovere ricuperarla. Onde io vi prego, in nome di Cristo e del comun nostro Padre Santo Agostino, di rimandarmelo a Dresda o a Wittemberg, oppure inducetelo a venire spontaneamente. Lo riceverò a braccia aperte. Egli non deve temere da me nessun castigo. So bene quante angustie ci possono affliggere, nè mi meraviglio dell'uomo che cade, ma ammiro quello che risorge. Caddero anche gli angeli del cielo, cadde Adamo, cadde Pietro ».

Venne anche l'occasione per rivelare il suo coraggio e la sua passione benefica. Quando, nel 1516, Wittemberg fu sconvolta dalla peste, Lutero continuò tranquillo nelle sue occupazioni. Consigliato a trasferirsi a Erfurt, si rifiutò. Rinviò i monaci nei diversi conventi soggetti alla sua giurisdizione, mentre lui con pochi devoti, non si mosse da Wittemberg, e sempre con la solita solerzia si impegnò nelle cure della sua amministrazione.

Lo spirito di Lutero aveva trovato nella maturità una sicurezza e un orgoglio, che, nella giovinezza, gli erano stati negati. Ed egli poté rivolgere allora il suo pensiero alla dottrina religiosa, formandosi una convinzione profonda, ch'egli dovrà presto rivelare nella sua azione scismatica.
Ispirato dalla lettura della Bibbia, egli si era formato una idea elevata e precisa della fede. Condannava i costumi depravati del clero, non soltanto in Italia, ma anche in Germania; nelle sue esposizioni teologiche e nelle sue prediche, egli non risparmiava gli strali contro l'abuso del culto dei santi e delle reliquie, che gli pareva deflettere dalla primitiva concezione cristiana. Acquistò rapidamente reputazione di maestro di dialettica, e fu fin da allora violento nelle sue polemiche religiose. La sua dottrina fu rigida e semplice; ma già, nella sua ispirazione, tendeva, sia pure per semplice esercitazione logica, a sottrarsi alle forme della credenza comune.

Già nelle sue prediche del 1516, si insinua il concetto della predestinazione: «nessun mortale deve disperare della propria salvezza, perché coloro che attentamente ascoltano la parola di Dio sono veri discepoli di Cristo, eletti e predestinati per la vita eterna. E perciò deve sopprimersi la paura che allontana da Dio gli uomini per la convinzione della indegnità, mentre a lui debbono fidentemente rifugiarsi».

Lo spirito di Lutero, in quel decennio di vita religiosa serena, di studi e di governo, aveva percorso un lungo cammino. Liberato dai tormentosi pensieri dell'analisi interiore, si era definita una dottrina di una fede semplice e sincera. Ispirandosi ai testi sacri, Lutero sentiva ormai in se la maturità e la sicurezza necessarie per dire una parola sicura sui problemi più ardui della teologia; e vedeva nella fede assoluta, illimitata, senza discussione e senza controllo, la sola linea direttrice di una vita umana, turbata dal peccato originale e guidata dalla volontà divina.

Non si deve credere, tuttavia, che Lutero avesse abbandonato quell'ispirazione mistica, che aveva accompagnato i suoi primi anni di monacato. Anche per questo periodo, si ha la prova sicura della passione ch'egli metteva nello studio della mistica di Taulero (sec. XIV), che preferì ad ogni altra. Dalle linee rigide della fede, egli si elevava così sulle sfere del misticismo più arduo. Ma questo spiega come si potesse maturare in lui, lentamente, quella dottrina singolare che, un anno dopo, lo doveva trascinare all'eresia.

La dottrina di Lutero si era venuta formando nella meditazione e negli studi, e già qualche sua predica sulla predestinazione aveva rivelato le sue tendenze. Mancava solo l'occasione, perché questa dottrina potesse sboccare in una predicazione tutta sua personale, avversa alle credenze comuni e agli errori della Chiesa militante.

A questo punto, scoppiò la questione delle indulgenze; e Lutero, forte del suo profondo sentimento religioso, prese il suo posto. La Bibbia gli aveva dato le nozione precisa dell'altezza e della semplicità del sentimento religioso; e invece ora Lutero lo vedeva, con una scandalosa speculazione, trascinato nel fango. La sua fiera e convinta voce levò la protesta, e cercò subito l'adesione dei vescovi delle diocesi vicine, Magdeburgo, Brandeburgo, Mersenburgo, Meissen, alla sua giusta "missione". Ma, come si e visto, egli capì che doveva contare, principalmente, sopra sé stesso, e lanciò le sue 96 tesi.

Queste tesi discutevano due punti fondamentali. Anzitutto, esse toccavano il principio delle indulgenze in genere, e venivano a questa conclusione, che qualunque cristiano veramente tale ottiene perdono dei propri peccati anche senza lettere di indulgenza e pagamento di tributo a chicchessia. In secondo luogo, le tesi discutevano la competenza del papa a concedere le indulgenze.

Il primo punto aveva una larga serie di argomentazioni. Lutero muoveva dal principio cristiano: «poenitentiam agite». Tutta la vita dei fedeli deve essere una penitenza; ma questa penitenza deve essere spontanea e sincera, deve essere accompagnata dalla mortificazione della carne. Non si deve credere che, col semplice acquisto delle lettere d'indulgenza e senza sincera contrizione, si possa assicurare la propria salvezza, poiché questa e subordinata alla sincerità del pentimento e alla volontà divina.
Non si deve lasciar credere che una moneta, fatta cadere nella cassa ecclesiastica (come predicava dai pulpiti Tetzel) possa avere il potere di liberare le anime dalle pene del purgatorio e mandarle in paradiso, poiché questo è solo arbitrio di Dio.

Lutero, in questa parte delle sue tesi, non ripudia la confessione e la penitenza, ma si ribella a tutte quelle forme materializzate, che avevano finito per diventare uno scandaloso traffico di un ripugnante mercante.
Quanto al secondo punto, le tesi di Lutero proclamavano che il papa non può rimettere che le pene imposte da lui, secondo i canoni, ma non già pretendere di rimuovere qualsiasi pena, anche quelle che muovono da una legge divina superiore.

Perciò la competenza del pontefice è riconosciuta, ma deve essere contenuta nei giusti confini. Le indulgenze apostoliche hanno un valore, ma il pontefice non può approvare che se ne faccia traffico; e le tesi di Lutero si dichiarano convinte che, se il papa conoscesse le forme condannabili adottate dai predicatori, preferirebbe vedere incenerita la basilica di S. Pietro, anziché vederla fabbricare con la pelle, con la carne e con le ossa delle sue pecore.

Ora, estendendo impropriamente la competenza delle indulgenze apostoliche, si corre il pericolo di far perdere al popolo il timor di Dio. Basta pagare e ci si sente liberati da ogni rimorso e si è anche convinti - perfino gli assassini - di andare in paradiso.

È noto che queste tesi trovarono subito larghissimo favore tra gli Agostiniani, e principalmente nella media nobiltà, nelle classi colte e soprattutto in quelle povere della Germania. Il convegno di Heidelberg, convocato dagli Agostiniani, nell'aprile del 1518, segnò il trionfo di Lutero.

Ma, bisogna riconoscerlo, questo trionfo generò anche in Lutero una grande confidenziale riflessione in se stesso, con la costatazione che lui non era privo di un orgoglio smisurato. E forse proprio da queste analisi nacquero in parte gli le idee essenziali della sua dottrina.
Di ritorno da Heidelberg, dove aveva disputato di scolastica, e aveva demolito Aristotele con l'autorità di S. Paolo e di S. Agostino, trascinando dietro la sua eloquente parola il maggior numero dei suoi uditori, Lutero si rivela, nelle sue lettere, mutato di spirito, animato da una grande fiducia nelle sue forze e deliberato ad una lotta ad oltranza.

La polemica serrata che Lutero aveva adottato, e che gli aveva dato una solenne vittoria, diventava anche il maggiore pericolo per la sua logica inquieta e per la sua coscienza religiosa. Dalla sua ardente polemica, più che da una convinzione profonda e maturata, potevano nascere le illazioni eccessive, ch'egli andava traendo dalle sue dotte tesi teologiche, penetrando arditamente nel campo della vita pratica e della organizzazione ecclesiastica.

Intanto egli aveva pensato di inviare le sue famose 95 tesi al papa, e le accompagnava con una lettera, che dava il segno della nuova visione del suo spirito.
In quella lettera, egli si scagliava contro coloro che, per spirito polemico, lo avevano descritto al pontefice come un ribelle ed un eretico. Egli proclamava l'intenzione sua sincera di opporsi ad una pratica d'indegno traffico, che aveva dato alle chiavi sante e al nome papale la fama di esosità. Si dichiarava sorpreso di averle viste così largamente accolte e diffuse; ma, nello stesso tempo, si giustificava di averle dovute sostenere, perché, nella loro stessa diffusione, non fossero malamente interpretate.

Ora quelle tesi erano tutte fondate saldamente sui sacri testi. Se, in qualche punto, l'autore aveva dovuto rifiutare qualche opinione di S. Tommaso o di S. Bonaventura, o di altri scolastici, ciò era avvenuto soltanto là dove le proposizioni di questi scolastici gli erano sembrate non fondate su prove sicure. Perciò poteva essere accusato di errore, ma mai di eresia.

Ma la vera dottrina di Lutero, nonostante queste formali dichiarazioni di ossequio, traspariva già dalle stesse sue tesi, dove già si metteva in dubbio la suprema autorità del pontefice e dove le teorie della predestinazione e del libero esame si insinuavano vittoriose.
Sta di fatto che, in questo periodo, prima ancora di essere chiamato a giustificarsi, in una controversia col domenicano Prierio, Lutero descriveva Roma come una Babilonia sede dell'Anticristo.

Intanto il pontefice Leone X, preoccupato delle accese discussioni sorte in Germania, aveva scritto al vicario degli Agostiniani, Staupitz, perché, valendosi delle sua autorità su Lutero, lo richiamasse sulla retta via; e contemporaneamente aveva fatto scrivere all'Elettore di Sassonia, per rimproverarlo del suo indulgente contegno verso Lutero.
Ma, poco più tardi, quando l'imperatore Massimiliano, intento, nella dieta di Augusta, a guadagnar seguaci per la nuova guerra contro i Turchi, avvertì il pontefice dei danni che la predicazione di Lutero andava facendo alla quiete della Germania, Leone X troncò ogni esitazione, e, promossa regolare procedura, scrisse al cardinale Gaetano l'ordine preciso che invocava l'aiuto del braccio secolare per far tradurre Lutero a Roma, dove era stato citato a comparire davanti al vescovo d'Ascoli, incaricato di istruire il processo contro di lui.

Ma Lutero affrontò attentamente il suo caso. Spedite a Roma le sue giustificazioni, nella forma delle Resolutiones, egli sperò forse in un parziale accoglimento delle sue istanze, in una sconfessione del traffico. Invece gli pervenne (luglio 1518) l'ordine di presentarsi, entro 60 giorni, a Roma, per rendere conto delle sue dottrine, sotto comminazione di gravi pene. Lutero invocò allora la protezione dell'Elettore di Sassonia, perché gli fosse risparmiato il viaggio e fosse sentito in Germania. Egli ottenne infatti di essere udito dal legato pontificio, cardinale di Gaeta, Tommaso de Vio, che si trovava in Augusta; ma questa concessione fu fatta sotto nuova comminazione di pene in caso di disobbedienza e sotto la minaccia della scomunica.

Lutero si reca ad Augusta, e compare davanti al Legato. Lutero stesso ci ha conservato il racconto di questo colloquio. Il cardinale Gaetano lo accolse con benignità, ma con risolutezza e quasi con boria sprezzante. Egli si rifiutava di discutere sulla sostanza della questione, e si fermava al solo fatto della disobbedienza alle prescrizioni della Chiesa. Perciò non chiedeva che una sola parola di sei lettere: Revoco: «mi ritratto».

Ma Lutero non era uomo da cedere ad una preghiera o ad una ingiunzione, quando era animato da una salda e sicura coscienza della profonda giustizia della sua causa. Tuttavia chiese qualche tempo per riflettere; ma poi, nella notte dal 20 al 21 ottobre, fuggì da Augusta, lasciando uno scritto, in cui dichiarava di presentare ricorso, appellandosi non al Papa male informato ma al Papa meglio informato. Il suo scritto, che ebbe poi per titolo la parola "Provoco" ebbe larga divulgazione in Germania, guadagnando nuovi sostenitori alle sue dottrine.

Tuttavia non era ancora fuori della Chiesa. Anzi, ingannato abilmente dalla affabilità di un cameriere e segretario particolare del papa, Carlo di Miltitz, gentiluomo scettico e avveduto, parve che Lutero tendesse a correggere le sue dottrine e a promettere di non muovere guerra alla Chiesa.
Ma una nuova disputa accademica, che si accende a Lipsia, verso la metà del 1519, tra un canonico di Eichstadt, il dott. Eck, procancelliere dell'Università di Ingolstadt e inquisitore per la Baviera, e un seguace di Lutero, Carlostadio, risveglia la questione.

Tra le tesi in discussione, ve n'era anche una che toccava la questione del primato della Chiesa romana, sostenendo che tale primato non sorgeva già nel secolo IV, ma risaliva a Cristo. La questione investiva la posizione del papato nella Chiesa, e Lutero non esita a prendere il suo posto, contro il pontefice.
La questione si allarga così dal terreno dottrinale e teologico a quello della disciplina ecclesiastica e dell'autorità del supremo capo della Chiesa. Forse l'animo di Lutero era già, anche su questo punto, deliberato, poiché fin dal gennaio 1519, in una lettera non divulgata, egli si era proposto il problema se il pontefice romano non fosse l'Anticristo, e pareva propendere per questa sentenza.

Intanto all'adesione di numerosi ordini religiosi, di Università, di credenti, si aggiunse ora quella di potenti signori laici, di nobili, di popolo. Lutero, che già era stato spinto dal favore popolare a questa lotta, si sente ormai chiamato ad una affermazione risoluta e ad una ardente propaganda, contro la Chiesa di Roma, che consente gli errori della vita mondana, che si cura soltanto degli interessi terreni, che si abbandona al traffico delle indulgenze.

Reso forte ormai da un senso preciso di sicurezza per la sua persona, Lutero non esita a rivelare anche all'esterno quell'apostasia dalla Chiesa di Roma, che era già da tempo compiuta nell'animo suo, e che fino allora non aveva osato in tutto di manifestare. Egli si giudica chiamato da una missione: quella di ricondurre la Chiesa alla purità primitiva, di spogliarla delle sue ricchezze mondane, di elevarla alla vera ispirazione religiosa; e formula il programma della nuova vita religiosa e civile: ritornare esclusivamente al Vangelo e rivolgere ad usi laici le ricchezze male acquistate della Chiesa.

Mentre a Roma si tenevano consulte, per riprendere quella azione energica, che la fuga di Augusta aveva interrotta; Lutero, guadagnata la sua convinzione e la sua libertà, trova un nuovo alleato e un nuovo maestro in Ulrico di Hutten, che rappresentava la guerra senza quartiere degli umanisti germanici contro la Chiesa e contro Roma. Dopo la disputa lipsiense, Hutten aveva abbracciato la dottrina di Lutero, e lo incitava a farne il fondamento per una lotta nazionale germanica contro Roma. Bisognava che tutta la Germania si sollevasse contro Roma, poiché là «é il grande granaio dell'orbe terrestre, ove si ammassa quanto é rubato e tolto in tutti i paesi».

Sotto l'influenza di Hutten, Lutero adottò un nuovo metodo di lotta, per cui, uscendo dal terreno teologico, la questione fu portata in mezzo al popolo, nel nome della nazione germanica anelante a sciogliersi dai vincoli di Roma.
Egli dettò allora due scritti, che furono diffusi rapidamente per tutta la Germania e che sono il manifesto del nuovo verbo religioso e politico: lo scritto «Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca», che è un invito ai grandi dell'Impero a svincolarsi dagli impacci della Chiesa romana e a portare la fede nell'interno della coscienza; e l'altro, intitolato: «La Cattività di Babilonia», che è una condanna della Chiesa romana e dei suoi metodi e una ribellione all'autorità. La Germania doveva liberarsi «dal ladro romano, dal vergognoso diabolico reggimento dei Romani». Invece di combattere contro i Turchi, bisognava combattere la Chiesa.

Quegli scritti furono accolti con immenso giubilo in tutta la Germania, e trovarono subito larghe adesioni nelle schiere della nobiltà e del popolo. Lutero diventava l'interprete di una ribellione religiosa e politica della Germania, contro l'autorità fino allora riconosciuta della Chiesa romana e dei suoi fautori. «La dottrina insegnata da Lutero, scrive il grande Elettore di Sassonia, é così radicata nei cuori che, se si tenta non di confutarla, ma di distruggerla, con la forza, non si otterrà altro che tempeste e rivolte da cui il popolo stesso non avrà che a soffrire ».

Quando; il 15 giugno 1520, il pontefice Leone X, preoccupato ormai del movimento religioso che si era diffuso in Germania, lanciò contro Lutero la bolla di scomunica, illudendosi di troncare quel moto con un atto di autorità, identico a quelli che, molte volte, avevano abbattuto le sorgenti eresie, era ormai troppo tardi.
Lutero aveva ormai preso il suo posto, non più in una questione teologica, ma in una lotta aspra, tenace, senza quartiere, di un intero popolo contro la Chiesa romana e contro i pontefici che la rappresentavano; e la nobiltà e il popolo di Germania, ansiosi di gettare dalle spalle un giogo, che gravava pesantemente e a cui non si adattavano, avevano abbracciato la causa di Lutero ed erano deliberati a difenderla fino all'ultimo sangue.

Tra i fautori di Lutero, la bolla di scomunica non destò sgomento, ma piuttosto sdegno e volontà di raddoppiare le forze nella lotta; e Lutero, ormai determinato più che mai, rispondendo col rogo al rogo dei suoi libri, il 10 dicembre 1520, dinanzi al palazzo del suo grande protettore, l'Elettore di Sassonia, in Wittemberg, brucia la bolla pontificia fra le acclamazioni dei suoi fedeli seguaci e tra l'entusiasmo di una moltitudine di popolo.


A questo punto
la lotta era entrata nella sua fase decisiva.


LUTERO, IL POPOLO TEDESCO E L'IMPERO > >

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