-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

138. LA SPAGNA E LA FINE DI RE FILIPPO


Il vero protagonista del secolo Enrico IV; da Ugonotto a Cattolico - e fu vincente

Per proseguire ad oltranza la sua guerra, dopo la morte dello sventurato Don Giovanni, il re di Spagna Filippo II trovò finalmente in Alessandro Farnese, figlio di Margherita di Parma, l'uomo all'altezza del compito come luogotenente nei Paesi Bassi. Esperto sotto ogni riguardo nell'arte militare, instancabile, autorevole tattico, il giovane principe di Parma era anche un uomo politico lungimirante, un abile negoziatore, accorto, tenace, operoso. Egli trovò, assumendo le sue funzioni, anche una situazione favorevole. Gli stati generali erano così a corto di mezzi pecuniari che tanto il conte Giovanni Casimiro quanto il duca d'Anjou avevano abbandonato il paese.

L'antagonismo tra le province meridionali cattoliche e quelle settentrionali protestanti si era inasprito fino al grado di odio mortale. Di questo stato d'animo si avvalse l'accorto Farnese ed indusse, oltre le province del Lussemburgo e di Namur che già gli erano devote, anche le province di Artois, Hennegau e Fiandra francese a stringere il 6 gennaio 1579 ad Arras una lega a sostegno della fede cattolica.
Tutto il partito dei "malcontenti" aderì il 6 aprile successivo all'unione di Arras col trattato di Mont-SaintCloy. A pronta risposta, il 29 gennaio dello stesso anno, le province di Olanda, Zelanda, Gheldria, Utrecht, Frisia (e più tardi anche Overyssel e Groninga) costituirono l'Unione di Utrecht in forma di alleanza perpetua per la comune difesa e per il mantenimento della completa libertà religiosa.

Fu questo l'atto di fondazione della repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi. Al Farnese era riuscito di scavare tra le varie regioni dei Paesi Bassi quel solco fatale che non poté mai più essere colmato.

Come primo obiettivo egli si propose la conquista del Brabante e delle Fiandre. Non avendo truppe sufficienti per prendere d'assalto le grandi città della regione, egli meditò di tagliare le loro comunicazioni commerciali mediante l'erezione di forti sulle principali strade e così costringerle alla resa. L'esecuzione abilmente condotta di questo piano gli arrecò in effetti splendidi risultati, giacché, avendo potuto occupare le città sino a Malines, ed in particolare Breda, egli si installò saldamente nel cuore del Brabante nelle immediate vicinanze di Bruxelles e di Anversa.

Per salvare la pericolosa situazione gli stati generali chiamarono nuovamente in aiuto il duca d'Anjou che giunse con 17.000 mercenari e volontari; fu dichiarato duca del Brabante e conte di Fiandra; lo stesso Guglielmo d'Orange si pose completamente ai suoi ordini.

Gli spagnoli, mentre riprendevano così, metodicamente l'offensiva nei Paesi Bassi, aggiungevano ai loro già vasti dominii un nuovo regno.
L'estesissima e mirabile opera di scoperte geografiche e di colonizzazione compiuta dai Portoghesi aveva logorato oltre misura le forze del loro piccolo e scarso popolato paese. Anche quella fioritura di commerci che per alcuni decenni aveva fatto di Lisbona il mercato frequentatissimo della seta e degli aromi d'Asia, dell'avorio e dei negri d'Africa e dei legnami pregiati d'America, ben presto si spense. La eccessiva ingordigia portoghese allontanò i mercanti stranieri che preferirono rivolgersi a Siviglia e ad Anversa.

Il Portogallo a poco a poco si ridusse ad un paese stremato di forze oltre che povero. Invece di cercare di metter riparo a tanta decadenza il giovane re Sebastiano si lasciò persuadere dal suo confessore Luigi Gonzalez ad intraprendere una crociata contro i Mauri del Marocco per convertirli alla fede cristiana; ma trovò la morte, a soli 24 anni, insieme con il meglio della nobiltà portoghese nella formidabile battaglia di Alcassarquivir il 4 agosto 1578.
Suo zio, il già vecchio cardinale Enrico, che gli successe al trono, regnò soltanto diciassette mesi. Con lui si estinse la dinastia portoghese il 31 gennaio 1580.
Numerosi furono i pretendenti all'eredità. Chi poteva vantare i migliori titoli era la duchessa di Braganza, il preferito della nazione era il priore don Antonio di Crato, il più potente: Filippo II di Spagna. Ma proprio di lui i portoghesi non volevano saperne, perché desideravano conservare l'indipendenza della loro patria e nessuno odiavano tanto, quanto lo strapotente vicino castigliano. Se non che Filippo, non solo trasse dalla sua parte con la corruzione e le promesse le personalità più influenti del Portogallo, ma fece invadere il paese dal duca d'Alba, ritornato nel favore del suo sovrano, a capo di un esercito di 20.000 uomini.
Don Antonio subì una disfatta al ponte di Alcantara e dovette fuggire all'estero. Questo segnò la sottomissione del Portogallo, le cui cortes all'inizio del 1581 riconobbero la sovranità del re di Spagna. Così Filippo divenne padrone dell'intera penisola iberica, nuovamente riunita dopo 870 anni di separazione.

Agli immensi dominii coloniali spagnoli egli aveva ora aggiunto le colonie portoghesi e poteva con orgoglio chiamarsi padrone dei mari. La sottomissione del Portogallo fu l'ultima impresa militare del vecchio duca d'Alba che nel dicembre 1582 morì a 71 anni nel palazzo reale di Lisbona.

Da ogni lato la fortuna arrideva in quel momento al re spagnolo. Invano la Francia tentò di arrestare i progressi della sua potenza. Una flotta al comando di Filippo Strozzi, da essa inviata in aiuto dei partigiani dell'indipendenza portoghese che opponevano le ultime resistenze: alle Azzorre, venne annientata il 26 luglio 1582 da una squadra spagnola.
Né migliori risultati raccolse in Olanda Francesco d'Anjou (così venne chiamato dall'avvento al trono di Enrico III suo fratello duca d'Alençon). Per lui, francese e cattolico, sarebbe stato necessario procedere con la massima prudenza ed arrendevolezza per accattivarsi le popolazioni protestanti delle province unite che lo guardavano con grande diffidenza. Invece lui e i nobili suoi compagni d'arme disprezzavano quei bottegai eretici, e non avevano ritegno di dimostrarlo.

Da ultimo poi l'Anjou concepì il folle disegno di insignorirsi con i suoi 10.000 uomini del paese creandosi un proprio regno. Il 17 gennaio 1583 alcune migliaia di francesi irruppero improvvisamente in Anversa, abbandonandosi al massacro ed al saccheggio. Ma i cittadini si levarono subito in armi, Guglielmo di Orange con le sue guardie si mise alla loro testa, e gli invasori francesi vennero rapidamente fatti a pezzi. L'Anjou dovette dichiararsi fortunato che in grazia dell'interposizione e dei buoni uffici dell'Orange gli fu consentito di lasciare indisturbato il paese nel marzo 1583 coi residui del suo esercito.

Chi ricavò vantaggio dal pazzesco e delittuoso tentativo dell'Anjou fu re Filippo. Abbandonati dalla Francia, paralizzati in una efficace difesa da dissensi interni, gli stati generali, cedendo alle armi di Alessandro Farnese, perdettero tutta la Fiandra occidentale con le città di Bruges e di Ypern. Per di più il vero e proprio campione della libertà, Guglielmo d'Orange, che era già scampato a cinque attentati, venne assassinato a Delft il 10 luglio 1584 da Baldassarre Gerard, nativo della Franca Contea.
Il Farnese aveva acconsentito all'assassinio e Filippo ricompensò la famiglia dell'uccisore, meritamente giustiziato, con i beni che l'Orange possedeva nella Franca Contea.

Prospettive di risultati ancor più brillanti di quelli ottenuti in Olanda si delinearono per Filippo II nei riguardi della nazione che sinora si era più energicamente di ogni altra opposta alla dominazione universale degli Absburgo: la Francia.
Qui il malgoverno di Enrico III aveva suscitato in tutte le classi della popolazione odio e disprezzo alquanto profondo. La situazione era tanto più pericolosa in quanto, durante i torbidi dell'ultimo trentennio, si era venuta formando in Francia una nuova feudalità, quella degli alti funzionarci, come governatori provinciali e comandanti di piazzeforti, i quali avevano finito per considerare le cariche e dignità di cui erano rivestiti come un patrimonio personale alienabile e trasmissibile in eredità. Questa nuova nobiltà, insubordinata verso la corona e ad essa ostile, trovò appoggio nell'alto clero che aspirava ad ottenere l'abolizione delle libertà concesse agli Ugonotti, l'espresso riconoscimento del concilio di Trento e il ripristino del sistema elettorale a favore dei capitoli del clero secolare e regolare.

Questo partito cattolico, misto agli elementi feudali e clericali, cui si alleò pure un elemento democratico dovuto agli abitanti delle grandi città, ebbe il sostegno palese ed occulto della Spagna che meditava farsene uno strumento per asservire la Francia, per assoggettarla alla sua egemonia. Alleati di Filippo erano i capi della Lega, i Guisa.

La crisi, che da un pezzo covava, scoppiò quando la morte del duca d'Anjou fratello di Enrico III (che era privo di prole) rese sicura l'estinzione della dinastia dei Valois e legittimò la prospettiva ché la corona passasse, all'eretico capo della famiglia dei Borboni, ENRICO di Navarra (poi Enrico IV - 1553-1610 - figlio di Antonio di Borbone e di Giovanna III d'Albret - sposò poi Margherita di Valois, figlia di Enrico II). Persino i più moderati fra i cattolici considerarono intollerabile la presenza di un ugonotto sul trono cristianissimo; i più zelanti e intransigenti poi erano risoluti ad impedire una cosa simile con le armi alla mano.

Filippo II colse avidamente l'occasione di mettersi alla testa del movimento cattolico in Francia e, se possibile, insediare sul trono francese un sovrano ligio ai suoi voleri. Nel gennaio 1585 egli strinse alleanza con i Guisa con l'intesa che alla morte di Enrico III la corona avrebbe dovuto passare, non ad Enrico di Navarra, ma a suo zio, il vecchio e quasi rimbecillito cardinale di Borbone, un fantoccio nelle mani degli alleati, e che il protestantesimo avrebbe dovuto essere completamente estirpato in Francia e nei Paesi Bassi.

In compenso dell'aiuto prestato alla Lega, la Spagna avrebbe ottenuto Cambrai a nord e la Navarra francese a sud. Qui si vede come da tutto ciò con quanta accortezza Filippo II sapeva conciliare il suo zelo cattolico con i propri vantaggi materiali e quanto poco importasse ai Guisa, questi lorenesi, l'onore e la fortuna della Francia; il che trova conferma nel fatto che essi promisero anche al duca di Savoia, in cambio del suo aiuto, Lione ed un ulteriore territorio sul Rodano.

Poco dopo (aprile 1585) si ebbe una generale levata di scudi da parte dell'alta nobiltà, dei parlamenti, delle città e del clero in favore della Lega e del cardinale di Borbone. Enrico III cedette tremando. E con l' editto di Nemours del 7 luglio 1585 riconobbe l'organizzazione militare della Lega e bandì dal regno tutti i riformati sotto pena di morte e confisca dei beni.

Naturalmente di fronte a tale sopraffazione i riformati ricorsero alle armi e trovarono nuovamente aiuto in tutti i cattolici moderati fedeli alla corona, i così detti «politici», capitanati dal maresciallo Enrico di Montmorency, governatore ed assoluto padrone della grande provincia di Linguadoca. A nulla giovò che papa Sisto V fulminasse l'anatema contro «i due degeneri ed abominevoli rampolli della illustre famiglia dei Borboni», Enrico di Navarra ed Enrico di Condé, perché questa intromissione di Roma irritò anzi maggiormente i cattolici realisti.

La lotta, che per sua natura era lotta tra due principi che dividevano l'occidente in due campi avversi, nei fatti si allargò anche a tutta l'Europa. L'Inghilterra, i riformati tedeschi e la Svizzera vennero in aiuto dei loro amici francesi. E da parte sua Filippo, non ancor soddisfatto della conquista del Portogallo, delle vaste colonie portoghesi e dell'asservimento politico della Francia, progettò di impadronirsi delle isole britanniche, il cui possesso gli avrebbe assicurato la dominazione mondiale.

Per tale progetto avrebbe dovuto servirsi del suo esercito operante nei Paesi Bassi, il quale nel frattempo aveva conseguito splendidi successi.

Dopo la morte dell'Orange, Alessandro Farnese aveva preso le città di Termonde e Gand, e finalmente, dopo un assedio durato oltre un anno, che attrasse su di sé gli sguardi dell'Europa intera, aveva costretto alla resa anche la grande e ricca Anversa. Qui tutti coloro che non vollero tornare alla confessione cattolica dovettero esulare (agosto 1585). Questo ostracismo fu la sentenza di morte per quella città che era allora la più opulenta e fiorente città d'Europa. Le aziende commerciali più importanti e i più grossi commercianti emigrarono ad Amsterdam, verso la quale pure spostarono i loro traffici i mercanti tedeschi, inglesi ed ugonotti, abbandonando la piazza di Anversa.

L'emporio delle Fiandre e le acque della Schelda divennero deserti. Va poi rilevato che in questo stesso periodo di tempo il governo francese, assillato dai bisogni finanziari procuratigli dalle guerre civili, colpì Lione, la grande città mercantile rivale di Anversa, di imposte così onerose che il traffico si allontanò anche da questa città. Ed anche questa decadenza di Lione tornò a vantaggio delle città olandesi e soprattutto di Amsterdam (fu la sua fortuna!)

La regina Elisabetta nel 1585 mandò in aiuto degli Olandesi il suo favorito Leicester con 6.000 uomini. Ma costui fece ben poco, piuttosto cercò, come un tempo aveva tentato di fare l'Anjou, di impadronirsi con la perfidia o la violenza una serie di città per farsene un suo regno. Ma il colpo anche questa volta andò fallito, e Leicester nel dicembre 1587 fu costretto a sgombrare dall'Olanda, cui non aveva arrecato che danni.

Era ormai chiaro che le province olandesi tuttora decise alla lotta non dovevano contare che sul proprio valore e sui propri sacrifici per la difesa della libertà. Esse trovarono una valida guida nel «pensionario» (cioè segretario e consulente legale) della città di Rotterdam, Giovanni van Olden-Barneveld, un uomo di stato riflessivo ed accorto. Tuttavia questi non fu in grado di impedire i costanti progressi di Alessandro Farnese, e la completa sottomissione della libera Olanda non appariva ormai più che questione di tempo nel momento in cui i sempre più giganteschi progetti di Filippo si appuntarono contro l'ultimo baluardo della libertà politica e religiosa, l'Inghilterra.

Finché i Guisa avevano lasciato intravedere l'intenzione di voler sfruttare a proprio vantaggio, e quindi in sostanza a pro della Francia, la riconquista al cattolicesimo delle isole britanniche, Filippo era stato per i loro progetti e per le loro trame assai largo di belle parole, ma assai parco di aiuti effettivi. E quelle trame erano tutte fallite ed avevano unicamente fruttato alla infelice Maria Stuarda una più dura prigionia sotto la sospettosa sorveglianza di Amyas Paulet, uomo probo e rispettabile, ma burbero, rigido e puritano intransigente, nemico acerrimo dei cattolici.
Ma da quando i Guisa divennero suoi sottomessi strumenti il re spagnolo pensò seriamente all'assoggettamento dell'Inghilterra, che con la spedizione di Leicester in Olanda gli aveva offerto piena ragione di rispondere alle ostilità con le ostilità.

Perciò egli diede una mano alla più pericolosa delle congiure ordite contro la vita della regina Elisabetta; congiura che, promossa da Antony Babington, trovò appoggio nei lords cattolici, nei Guisa ed in Alessandro Farnese, il quale raccolse navi e truppe per invadere l'Inghilterra, e appoggio anche in Maria Stuarda. Ma il ministro di polizia d'Elisabetta, Walsingham, era da tempo informato di tutte queste trame, e al momento in cui stavano per tradursi in esecuzione fece arrestare e incarcerare i congiurati, i quali vennero tutti condannati a morte e giustiziati.
Anche Maria Stuarda fu sottoposta a processo, e benché come sovrana non potesse essere assoggettata alla giurisdizione di un tribunale inglese, fu nondimeno all'unanimità dichiarata meritevole dell'estremo supplizio. Il parlamento e tutto il popolo inglese reclamarono l'esecuzione della sentenza e con ciò l'eliminazione della più pericolosa nemica dell'Inghilterra protestante.

Ed Elisabetta permise il supplizio della sua nemica con la più studiata ipocrisia, quasi vi fosse stata costretta, tentando così di ingannare i contemporanei e i posteri circa la sua compartecipazione personale a quest'atto illegale e disumano. Ma il suo tentativo fu pienamente vano e non valse che a gettare un'ombra anche più tetra sulla sua memoria.
La morte di Maria Stuarda sul patibolo (8 febbraio 1587) tornò in definitiva a vantaggio del partito cattolico in Europa, perché mise in triste luce la causa protestante ed infiammò il sentimento del mondo cattolico che prese a venerare Maria come una martire innocente. Soprattutto in Francia l'odio contro gli Ugonotti divenne sempre più forte e si era appuntata anche contro re Enrico III che venne accusato di eccessiva moderatezza.

La vittoria riportata da Enrico di Navarra il 20 ottobre 1587 a Coutras sui leghisti non ebbe effetti durevoli. L'ambasciatore di Spagna a Parigi, Mendoza, incitò apertamente il popolo ad impadronirsi del re e consegnarlo in potere di Enrico di Guisa, il capo del partito leghista filospagnuolo.
Tutto il mondo cattolico era in febbrile fermento. Ciò spinse Filippo II a mettere in esecuzione il suo disegno di assoggettare l'Inghilterra e di raccogliere in Scozia l'eredità di Maria Stuarda, il cui figlio d'altro canto era passato al protestantesimo.

Invano i suoi ministri, il suo generale Alessandro Farnese e il suo ammiraglio Santa-Cruz, il vincitore delle Azzorre, gli consigliarono di completare prima la conquista dei Paesi Bassi che erano una buona base per le operazioni, o per lo meno di impadronirsi prima delle città marittime olandesi. Il re rimase irremovibile nel suo progetto di conquista dell'Inghilterra e ne preparò con slancio l'esecuzione, ripromettendosene per la Spagna e per la Chiesa il coronamento dell'opera di dominazione universale. In effetti la Francia e l'Italia erano già soggette completamente all'influenza spagnola. Papa Sisto V, che aveva prima mantenuto un atteggiamento piuttosto indipendente, ora recava un considerevole contributo in denaro all'impresa inglese del re spagnole, ed anche in Germania la controriforma premeva sempre più potente, favorita dalla monarchia degli Absburgo. Ancora dunque uno sforzo ed il cerchio era chiuso.

Per raggiungere lo scopo venne destinata una superba flotta di 130 grosse navi da guerra con 2000 volontari, 20.000 soldati e 10.000 marinai. Sulla costa di Fiandra questa "Armada" si sarebbe ingrossata ancora con un considerevole numero di navi da trasporto con i 30.000 veterani del Farnese. Come avrebbe potuto la piccola Inghilterra tener testa a forze così poderose?

Nel frattempo anche in Francia la Lega preparò il gran colpo. Nei 16 quartieri di Parigi vennero segretamente reclutati ed armati 20.000 cittadini, che furono raggruppati in cinque reggimenti. Fidando sull'aiuto di queste milizie, il 9 maggio 1588 Enrico di Guisa, contro l'espresso divieto del re, fece ostentatamente il suo ingresso a cavallo in Parigi dove fu accolto con infinito giubilo, ed anzi si recò con tanta faccia tosta a far visita al re al Louvre.
Il misero monarca non osò punire questa ingiuria. A sua difesa egli fece entrare in città 4.000 svizzeri; ma nella «journée des barricades» (12 maggio) costoro si trovarono presi in mezzo dalla popolazione insorta e si videro coperti da una grandine di proiettili e di sassate piovente da ogni dove, dalle finestre, dai tetti e dalle barricate; cosicché gettarono le armi e si arresero a discrezione.

Stava ora al Guisa di prender prigioniero il re e metterlo in condizione di non poter più nuocere. Ma gli mancò l'animo di correre un simile rischio, e così diede tempo ad Enrico III di fuggire da Parigi e di salvare la sua libertà e forse la sua corona. «Dal momento che il tumore non é scoppiato come si sperava (scrisse Mendoza al suo sovrano) le cose si sono messe così male che sarà difficile condurle a buon fine».

Ma per il momento un simile pessimismo sembrò ingiustificato. Il pusillanime Enrico col trattato di Rouen (15 luglio 1588) si sottomise completamente alla Lega, cui consegnò le principali piazzeforti della Francia settentrionale e centrale, promettendole inoltre l'estirpazione piena degli eretici; il cardinale di Borbone venne riconosciuto come successore al trono ed Enrico di Guisa nominato comandante supremo di tutte le truppe regie. Era l'abdicazione del re a favore del suo più pericoloso avversario.

Dopo questi fatti, il 22 luglio 1588, l'"invincibile Armada" veleggiò verso le coste inglesi. Il governo sperava nella sicura e rapida riuscita dell'impresa. Con la vittoria la conquista del dominio mondiale della Spagna sarebbe stato un fatto compiuto.

Gli inglesi misurarono tardi la gravità del pericolo che li minacciava; ma, avutane la sensazione, si prepararono a fronteggiarlo con rapidità febbrile. Furono levate le milizie e la flotta fu portata a 197 unità con l'aiuto di numerose navi costruite in tutta fretta da città e privati. Queste navi erano per la maggior parte piccole di portata, ma assai più dotate di artiglieria e di marinai che non le navi spagnole, e per di più gli equipaggi erano costituiti dai più eletti, coraggiosi ed abili marinai di quei tempi che avevano fatto il loro tirocinio e la loro scuola sulle navi da corsari, ed erano guidati dai più eminenti capitani marittimi inglesi, come Drake, Hawkins, Forbisher, agli ordini del grande ammiraglio lord Howard.

Filippo aveva invece costretto ad assumere il comando della sua flotta un cortigiano incapace, il duca di Medina Sidonia, ad onta della sua riluttanza.
La lotta si rivelò ben presto impari. Gli inglesi con le navi più snelle, basso pescaggio e quindi veloci, seppero manovrare in modo da togliere agli spagnoli il vantaggio del vento e poi, evitando gli abbordaggi che gli spagnoli più forti per numero di soldati cercavano, attaccarono da lontano col fuoco superiore delle loro artiglierie le singole navi spagnole, cui le altre, grandi, lente e per di più trovandosi sotto vento non potevano recare aiuto, e ne distrussero alcune fra le più grosse.

Indebolito da queste perdite, Medina Sidonia giunse a Calais ove gettò l'ancora. Ma, avendo Drake inviato contro la flotta spagnola alcuni brulotti incendiari, l'inesperto ammiraglio castigliano si impressionò così tanto che diede ordine alle navi di tagliare i cavi delle ancore e di prendere immediatamente l'alto mare. E qui le aspettavano e furono attaccate dagli inglesi l'8 agosto nei paraggi di Gravelines.

Avendo la flotta spagnola assunto lo schieramento a forma di mezzaluna, Drake e Seymour la incalzarono alle due ali, che scompaginarono e sospinsero sul centro. Costrette in uno spazio così angusto, le pesanti e poco manovrabili navi spagnole si ammucchiarono l'una sull'altra, offrendo un sicuro bersaglio all'artiglieria superiore degli inglesi. È in questa battaglia navale di Gravelines, è dal cannone inglese, e non dalla tempesta che l'invincibile armata fu vinta; anzi in quei giorni persistette il bel tempo e il mare era tranquillo. Medina Sidonia perdette nuovamente la testa, ed invece di ascoltare il Farnese ed i suoi capitani che gli consigliavano di cercare rifugio nei porti tedeschi del Mare del Nord, ordinò alla flotta di prender la fuga dinanzi al nemico e di girare attorno alle isole britanniche per ritornare per quella via lunga e pericolosa in Spagna.
Solo a questo punto, a completare il disastro, intervenne una formidabile tempesta. Mentre gli inglesi poterono riparare nei vicini porti nazionali, i poco maneggevoli colossi spagnoli, danneggiati, facenti acqua da tutte le parti, privi di piloti, vennero in gran parte dispersi e sbattuti contro le coste della Scozia, della Norvegia e dell'Islanda. La grande armata si poteva dire distrutta, giacché é ben vero che 65 navi con circa 10.000 uomini riuscirono nel settembre a rientrare in Spagna, ma erano quasi tutti così danneggiati da non poter essere più adoperate in guerra. Ventimila vite umane e circa venti milioni di ducati erano così stati sacrificati invano.

Ma non basta; la distruzioni dell'armata spagnola significò il crollo di tutto il sistema politico di Filippo II. Egli aveva giocato tutto sulla carta della grandi impresa contro l'Inghilterra; il fallimento di questa gli aveva arrecato un colpo dal quali non poteva più risollevarsi. In quelle memorande giornate dell'agosto 1588 i marinai inglesi salvarono la libertà civili i religiosa e l'indipendenza, non solo del loro paese, ma anche dell'Olanda, della Francia, e di tutto il mondo civili, dall'asservimento materiale e spirituale al dispotismo della monarchia universale spagnola.

Tutti gli avversari della Spagna si sentirono ormai rincuorati, e la stessa Inghilterra che finora si era limitata ad alcune ostilità poco palesi, si schierò apertamente e decisamente tra i nemici di Filippo II.
D'altro canto questi, avendo impegnato nell'armata tutte le sue risorse militari e finanziarie, lo si poteva considerare per un po' di tempo ridotto all'impotenza, non essendogli possibili sostituire né i milioni in denaro né le migliaia di veterani che giacevano in fondo ai mari britannici. La potenza marittima spagnola era tramontata per sempre. Proprio nel momento in cui il solitario dell'Escurial credeva di coronare il suo colossali edificio, questo crollava sotto il suo stesso peso.

In Francia e nei Paesi Bassi i suoi avversari oltre che gioire levarono il capo con rinnovata fiducia.
Enrico III convocò a Blois gli stati generali del suo regno nell'ottobre 1588. Ma si rivelarono completamente dominati dai Guisa. Il duca Enrico di Guisa pose apertamente la propria candidatura alla corona e i predicatori dai pulpiti delle chiese di Parigi esortarono il popolo a relegare in un chiostro il Valois e mettere sul trono l'eroe della fede cattolica.
Il re ritenne suo buon diritto toglier di mezzo il traditore, e il 23 dicembre 1588 lo fece assassinare insieme col fratello, il cardinali di Guisa; così pure fece imprigionare altri membri della stessa famiglia e i suoi principali avversari fino agli stati generali.

Atterrita da questa catastrofe, dalla quali si attendeva grandi sventure, morì il 15 gennaio 1589 la vecchia Caterina dei Medici. E il suo presentimento non l'aveva ingannata.
All'eccidio dei Guisa seguì infatti una generale insurrezione delle maggiori città contro il re; a capo dell' opposizioni fu messo il fratello dell' assassinato Enrico di Guisa, il duca di Mayenne, personaggio di mediocri qualità, amante dei suoi comodi e grasso a dismisura. Enrico III - paradossalmente - fu costretto a cercar rifugio fra gli Ugonotti di suo cognato Enrico di Navarra, da lui sinora così fieramente perseguitati.

Col loro aiuto e con quello della nobiltà francese rimasta fedele alla corona, nonché con l'ausilio di riformati tedeschi e svizzeri, egli sconfisse i leghisti a Senlis ed iniziò l'assedio di Parigi. Ma il 31 luglio 1589 egli fu mortalmente colpito con una pugnalata dal fanatico domenicano Clément. Il 2 agosto moriva Enrico III, l'ultimo dei Valois, la cui famiglia aveva regnato sulla Francia per 261 anni con una sequenza di 13 re.

Gli ultimi Valois, i figli di Enrico II, sono stati sempre considerati come esemplari tipici di sovrani moralmente corrotti e politicamente nefasti. Tuttavia non bisogna dimenticare che la loro fu un'epoca di grande splendore per la poesia, la storiografia e le arti. I Valois, a cominciare da Luigi XII e Francesco I, mostrarono personale interesse per questo movimento intellettuale ed artistico, circondando del proprio favore poeti ed eruditi ed affidando agli artisti l'esecuzione di numerose e grandiose opere. Essi edificarono i magnifici castelli di St. Germain, Fontainebleau e Chambord, ebbero pittori come Francesco Clouet e Giovanni Cousin e scultori come Giovanni Goujon e Germano Pilon, tutti degni di reggere al paragone dei grandi maestri italiani.

Pierre Lescot costruì le incomparabili belle e ricche facciate del Louvre e l'Hôtel Carnavalet; Filiberto Delorme le Tuileries e il monumento sepolcrale di Francesco I.
Un raggio d'arte e di bellezza tempera dunque anche l'oscurità della sanguinosa e moralmente corrotta epoca dei Valois. Quest'epoca si chiude ora per dare luogo ad una nuova era, quella dei Borboni.
Con la morte di Enrico III divenne legittimo erede del trono di Francia Enrico di Navarra, che assunse il nome di Enrico IV. Egli era di statura media, snello, muscoloso, agile e abituato alle fatiche della caccia e della guerra. Nella sua faccia abbronzata dagli zigomi molto pronunziati brillavano due occhi azzurri, piccoli ma penetranti; aveva naso aquilino e mento aguzzo coperto da una folta barba nera precocemente brizzolata: in complesso una faccia non bella, ma intelligente, energica, simpatica.

Solo una parte dei «politici » si schierò in favore di Enrico. Gli altri fecero adesione alla Lega, la quale proclamò re col titolo di Carlo X il cardinale di Borbone, in quel momento prigioniero di Enrico. Egli parve unicamente destinato a tenere il posto per Filippo II, il quale al pari del papa, sussidiò largamente la Lega e le fornì anche alcuni reggimenti spagnoli. Enrico fu costretto a toglier l'assedio da Parigi.

La Lega era completamente fedele a Filippo, il quale riuscì anche a trarre dalla sua parte i capi della nobiltà con promesse di ogni specie. Il suo progetto era di mettere sul trono di Francia la sua figliola primogenita Isabella dopo la morte del cardinale di Borbone che era prevedibile a breve scadenza (e che di fatto avvenne nel maggio 1590). Nel frattempo si fece consegnare subito la Bretagna, cioè una vecchia provincia francese, ed aiutò il marito dell'altra sua figlia, il duca Carlo Emanuele di Savoia, ad impadronirsi di una parte della Provenza. La Lega offrì aiuto a tutti questi disegni parricidi e a tutte queste mutilazioni della Francia. Ma ciò non bastava per raggiunger l'intento, giacché bisognava prima toglier di mezzo Enrico di Navarra (Enrico IV).

Questi invece si mostrò tuttora militarmente superiore ai leghisti; li sconfisse ad Arques e soprattutto ad Ivry (14 marzo 1590), e ricominciò l'assedio della capitale. La Lega sarebbe stata perduta, se Filippo II non avesse ordinato ad Alessandro Farnese, ad onta della sua riluttanza, di sospendere nuovamente le operazioni nei Paesi Bassi e di intervenire in Francia. Ciò valse ad arrestare per il momento i vittoriosi progressi di Enrico IV.
Ma nel frattempo passò il momento buono per gli Spagnoli nei Paesi Bassi. La chimerica politica di conquista dell'universo perseguita da Filippo II lo aveva condotto a pretendere dalle sue forze più di quanto potevano dare ed a disperderle, in tal modo i suoi progetti non potevano fare a meno di naufragare l'uno dopo l'altro.

Da quando Alessandro Farnese era stato costretto ad accorrere in Francia con le sue valorose truppe per liberare dagli assedi Rouen e Parigi, il giovane MAURIZIO di NASSAU, figlio di Guglielmo d'Orange, che si era fatta una buona preparazione con accurati studi di matematica e di arte militare, approfittò rapidamente e risolutamente della sua assenza per passare da una, difensiva dannosa ad una offensiva vittoriosa. Questo giovane, tipo schietto di olandese, esteriormente ancor più silenzioso di suo padre Guglielmo «il taciturno», ma internamente pieno di fuoco e di passione, e per di più dotato di una scaltrezza eccezionale, diresse le operazioni militari in maniera metodica, matematicamente ed accortamente calcolata, utilizzando i mezzi tecnici dell'ingegneria militare in misura a quei tempi senza esempio.

Nello spazio di tre anni Maurizio riconquistò tutte le regioni settentrionali dei Paesi Bassi, raddoppiando così il territorio delle Province Unite gravemente ridotto dai successi del Farnese. Questi invece per colpa di suo zio e sovrano vide andare in frantumi tutta l'opera della sua vita. A questo generale ed eminente uomo politico toccò una tragica sorte, pari del resto a quella toccata a tutti i migliori servitori dell'infausto e visionario Filippo. Ferito nella campagna di Francia del 1592 e minacciato di destituzione dal suo ingrato padrone che non perdonava l'insuccesso anche quando pretendeva l'impossibile, egli si ritirò malato e disgustato ai bagni di Spa, dove morì il 3 dicembre 1592. Nei Paesi Bassi i generali spagnoli, continuamente sostituiti, si logorarono inutilmente l'uno dopo l'altro nell'ormai impossibile impresa.

Nel frattempo Filippo spendeva 4 milioni di talleri d'oro all'anno per i suoi progetti francesi. Ma anche qui le cose finirono per prendere una piega per lui sfavorevole.
Il Mayenne, completamente fedele a Filippo, aveva convocato per il gennaio 1593 gli stati generali per ottener da loro l'elezione a regina di Isabella di Spagna. A tale scopo Filippo promise ai cattolici francesi denaro e un esercito. Se non che gli umori della popolazione cattolica francese erano mutati; al primo impulso inconsiderato era subentarto il senso della vergogna di doversi veder governati da mercenari stranieri invece che dal sovrano nazionale, ed il sentimento patriottico alimentato dall'odio contro gli spagnoli aveva dovunque ripreso il sopravvento, specialmente poi in seno alla impulsiva e volubile popolazione parigina.

È allora che apparve quel capolavoro di satira politica contro la Spagna e la Lega che reca il titolo di «satira menippea»; questo scritto le danneggiò nell'opinione pubblica assai più che una battaglia perduta. Il nuovo stato d'animo emerse in seno agli stati generali che dimostrarono di non aver nessunissima voglia di eleggere l'infante di Spagna, e in seno al Parlamento di Parigi il quale minacciò la condanna per alto tradimento a chiunque avesse cooperato a simile elezione.

Enrico IV decise di approfittare della situazione favorevole. Nel tumulto delle fanatiche lotte confessionali che allora dilaniavano l'intera Europa si era a poco a poco venuta formando una categoria di persone, che in parte per indifferenza religiosa, in parte per vero spirito umanitario, cominciarono a nutrire idee più tolleranti e spregiudicate. Erano per lo più eminenti studiosi, uomini di stato e persino vescovi. Il più spregiudicato ed indifferente di tutti era Enrico IV, che perciò amava pure circondarsi di loro il più possibile e assumeva volentieri la protezione di coloro che la pensavano come lui. La sua indole sensuale, la sua inclinazione ai godimenti materiali della vita, il suo cuore leggero e il suo spirito sarcastico lo rendevano agnostico dalle cose di religione in genere.
Era più che altro la ripugnanza di dover fare l'ipocrita che lo avevano sinora trattenuto dal soddisfare i desiderii e le speranze della grande maggioranza dei cattolici francesi che continuamente insistevano perché egli passasse formalmente alla confessione cattolica.
Ora però, vedendo che gli bastava muoversi per ridare la pace alla sua patria e per assicurarsi la corona, mise da parte gli scrupoli personali e si decise "a fare", come egli stesso disse, «il salto pericoloso».

Dopo una sola mattinata in raccoglimento religioso, il 25 luglio 1593 in S. Dionigi egli si fece accogliere in seno alla chiesa cattolica dall'arcivescovo di Bourges. La Francia riaveva così un re ortodosso. La maggior parte dei leghisti furono lieti di avere un pretesto per abbracciare la causa del sovrano nazionale. Dei 118 vescovi, cento si dichiararono a lui favorevoli. Le regioni meridionali e centrali della Francia, nonché la Normandia, gli fecero atto di sottomissione. Gli stati generali si dispersero in fretta. Finalmente il 24 marzo 1594 il governatore di Parigi, Brissac, dietro promessa di magnifici vantaggi personali, gli consegnò la capitale, d'onde le truppe spagnole, 3.000 uomini, poterono allontanarsi senza colpo ferire.
Neppure la minima condanna o punizione turbò il trionfo della causa nazionale. Dopo la presa di Parigi, che indubbiamente era stata il più forte baluardo della Lega, le regioni, città e maggiori personalità ad essa aderenti si sottomisero rapidamente; così fece Mayenne e così fece pure nel dicembre 1594 il giovane duca di Guisa, figlia del Guisa assassinato a Blois, che Filippo II aveva destinato a marito di sua figlia Isabella.

Gli eventi svoltisi avevano rispecchiato il conflitto tra due grandi principii: il principio monarchico e il principio religioso. Nessuno dei due era stato in grado di riportare completa vittoria sull'altro, onde alla fine erano venuti ad un compromesso che li aveva lasciati sussistere entrambi, ma li aveva anche conciliati. Il legittimo successore al trono aveva costretto i cattolici zelanti a riconoscerlo, ma vi era arrivato solo piegandosi a riconoscere a sua volta il principio che esclusivamente un cattolico poteva essere re di Francia.

Chi doveva invece confessare la propria completa sconfitta era la democrazia, il cui potere sembrò affermarsi con quello della Lega; persino le grandi città, spaventate dai suoi eccessi, l'abbandonarono senza difficoltà. E un altro che usciva anche questa volta battuto dalla lotta era Filippo II. Egli aveva invano prodigato in questa impresa di Francia fatiche ed intrighi e vi aveva sperperato il sangue dei suoi migliori soldati, la vita dei migliori generali ed immensi tesori. Per voler nello stesso tempo troppo abbracciare, Filippo ci rimise tutto: Francia, Olanda, e infine l'Inghilterra.
Infatti a Filippo con l'Inghilterra le cose non gli andarono meglio. Una squadra alleata anglo-olandese al comando del conte di Essex penetrò nell'agosto 1596 nel porto di Cadice, il principal porto militare spagnolo, affondò tutta la flotta nemica, a capo della quale il testardo Filippo aveva lasciato l'incapace Medina-Sidonia, saccheggiò la ricca città e la diede alle fiamme. Il bottino fatto dai vincitori raggiunse i 20 milioni di ducati, senza contare gli inestimabili valori distrutti dal fuoco. Fu un formidabile e vergognoso colpo per la Spagna superba!

La decadenza di questa si rivelò nel fatto che, senza tenere alcun conto delle proteste di Filippo II, papa Clemente VIII nel settembre 1595 concluse la pace con Enrico IV, liberandolo dalla scomunica. E ciò era tanto più significativo, in quanto l'ugonotto Enrico pochi mesi prima aveva dichiarato formalmente la guerra alla cattolica Spagna.
La curia romana era in fondo felice di potersi liberare dal giogo del monarca spagnolo. Questi infatti, non solo aveva preteso ed estorto il diritto di porre il veto, in caso di elezione di nuovi papi, a qualsiasi candidato non gradito a Madrid, ma aveva pesato continuamente su ogni decisione del pontefice con moniti, rimproveri e minacce. «Ciò che S. Maestà fa, lo fa per il servizio di Dio e per il bene di tutta la cristianità e della fede cattolica» questo era il dogma della diplomazia spagnola e dell'intero partito intransigente filo-spagnolo in Europa.

Il re di Spagna, cui era direttamente soggetta più della metà dell'Italia, si era venuto a trovare di fronte al papato in certo modo nella stessa posizione degli imperatori del XII e XIII secolo, e come questi alla lunga dovettero finire per guastarsi coi papi, spesso contro le loro primitive intenzioni, perché le rispettive pretese di competenza e di autorità in materie di interesse comune non erano conciliabili, così avvenne ora per il re cattolico. Il papato mal tollerava così l'opprimente superiorità della dominazione territoriale spagnola in Italia, come la pretesa del re Filippo di padroneggiare la chiesa spagnola e la chiesa in generale.
Se il conflitto tra i papi del XVI secolo e i monarchi spagnoli non arrivò alla stessa forma acuta di quello tra il papato e l'impero, lo si dovette alla sola circostanza che le due autorità furono ora costrette (ipocritamente) a tenersi unite per la comune difesa contro lo stesso pericoloso nemico, il protestantesimo.

In definitiva dunque, come la politica laica, così anche la politica ecclesiastica di Filippo II aveva fatto naufragio. Egli aveva immaginato di sottomettere ai suoi voleri la curia e poi servirsi del suo aiuto per ridurre all’ubbidienza permanente la Francia all'egemonia spagnola; ma l'uno e l'altro risultato gli era sfuggito di mano.
Ideatore ed anima della generale e contemporanea politica offensiva della Spagna era stato il cardinale Granvella, che Filippo aveva chiamato nel 1579 a Madrid perché, date le sue eminenti qualità di uomo di stato e la sua energia di carattere, lo aveva ritenuto l'uomo più adatto a realizzare la conquista del Portogallo e l'unificazione della penisola iberica. Perciò egli lo investì di poteri quasi illimitati. Le idee e i programmi di Granvella costituirono in sostanza la base di tutta l'ulteriore politica di Filippo, ed é certamente sotto la loro influenza che la Spagna si avventurò nella lotta contro la Francia e l'Inghilterra nello stesso momento in cui era così gravemente impegnata nei Paesi Bassi.

Ma la personale ingerenza del cardinale negli affari correnti fu ben presto eliminata dall'ostilità dei Castigliani contro di lui, straniero, e dalla diffidenza di Filippo cui faceva ombra l'intelligenza e il carattere superiore del suo primo ministro. Col cuore spezzato, come tanti altri fedeli servitori di questo re, Granvella morì il 21 settembre 1586. I frutti che il suo sistema forse avrebbe potuto arrecare sotto la sua guida intelligente, attiva ed energicamente risoluta, divennero impossibili sotto la direzione di Filippo, i tratti fondamentali del cui carattere erano la lentezza, l'indecisione e l'indolenza, ad onta dei vasti disegni che la sua mente accarezzava.

Ma non si può conquistare un mondo con le finanze rovinate, con funzionari corrotti e disonesti, con soldati affamati e nudi e con navi male equipaggiate ed armate. In imprese simili si va incontro ai peggiori disastri se ogni decisione viene presa troppo tardi, se non si osservano cose e uomini con i propri occhi, se per meschine considerazioni non si mette mai l'uomo adatto al posto adatto.
Dopo la morte di Granvella tutti i ministri di Filippo vennero ridotti a varie banali funzioni esecutive, furono degli intelligenti ed esperti capi-ufficio; il re accentrò nelle sue mani la direzione di tutto, per quanto, come abbiamo accennato, la sua politica risentisse l'influenza postuma delle idee e dei programmi del defunto cardinale.

Il re si ingerì in ogni minima cosa, ma trattò ogni affare per iscritto, giacché a vederlo in persona non furono ammessi che pochi e servili suoi fedeli. Tale sistema causò il peggio, assorbito nel disbrigo di una valanga di minuzie di poco rilievo, egli sacrificò proprio gli affari più importanti, rinviandoli sempre a miglior tempo e ritardandone oltre misura la decisione. E ciò, ad onta che quest'uomo non si concedesse mai né uno svago né un momento di riposo; egli passava tutta la sua vita in un piccolo gabinetto che si era fatto costruire addossato alla chiesa dell'Escuriale, proprio all'altezza dell'altare maggiore, in modo che, aprendo le imposte di una finestra interna, poteva vedere il prete che diceva la messa. Dall'altro lato si trovava una sala di udienza assai sobriamente addobbata. E questa fu per lo spazio di 14 anni la dimora usuale del più potente re della terra.

Quanto al resto Filippo fu, padre tenerissimo per le sue figlie Isabella e Caterina, fratello amoroso per sua sorella l'imperatrice vedova Maria, e padrone indulgente per gli addetti al suo servizio personale. Le più strane contraddizioni si annidavano in questo spirito cupo ed enigmatico sempre assorto in chimerici sogni di potenza che nascevano dentro il suo eremo.
Le sconfitte e le perdite subite dalla Spagna nell'ultimo decennio del suo regno lo resero impopolare persino presso i castigliani che prima lo avevano ammirato come la personificazione delle virtù della loro stirpe; quanto agli altri popoli soggetti al dominio spagnolo, essi lo odiavano da lunga data.

Malgrado tutto, al tempo di questo re così infausto per la Spagna, le arti fiorirono nella penisola iberica come mai prima. Alonso Berruguete (1480-1561) fu, come il suo modello Michelangelo le cui creazioni aveva accuratamente studiate a Firenze ed a Roma, scultore, architetto e pittore a un tempo, e nel campo di tutte e tre queste arti produsse opere, che per la grandiosità della concezione, per lo studio riuscito della natura, per l'esecuzione ardita ed efficace, possono dirsi ben degne del geniale maestro cui si era ispirato.
Del rimanente é da osservare che le forme classiche della Rinascenza italiana si colorano nelle mani degli spagnoli religiosissimi di un ardente spirito cristiano, estraneo agli italiani della prima metà del cinquecento, e che in ciò consiste la caratteristica nazionale dell'arte iberica di quei tempi.
Il competitore di Berruguete, Gaspare Becerra (1520-1570), educato anch'egli alla scuola dell'arte italiana, divenne scultore e pittore di corte di Filippo II. Alla spiccata tendenza all'esatta imitazione della natura anch'egli unì l'entusiasmo per l'ideale cristiano innato negli spagnoli d'allora.

Come questi artisti dalle molteplici attitudini si riannodavano a Michelangelo, così altri risentirono l'influenza di Raffaello: tali Luigi de Bargas di Siviglia e specialmente l'eminente pittore Vicente Joanez da Valenza (1525-1579) segnalato per profondità di sentimento, per la grazia e per la rigorosa classicità del disegno. Come per i due più distinti ritrattisti dell'epoca di Filippo II, Alonso Coello e Juan Navarrete, seguirono a preferenza la maniera dei Veneziani. Navarrete soprattutto, il quale anche nei quadri di soggetto religioso imitò lo smagliante colorito di Tiziano, esercitò una profonda influenza sull'ulteriore svolgimento tecnico della pittura spagnola.

Altezze maggiori che non l'arte raggiunse sotto il regno di Filippo II la letteratura spagnola. In questo campo gli spagnoli conquistarono il primo posto in Europa in maniera analoga a quanto avvenne un secolo più tardi per francesi. Tutto ciò non fu naturalmente frutto del ferreo dispotismo di Filippo, ma il raccolto maturato degli elementi vivificatori di coltura che nella prima metà del XVI secolo, in regime più libero, avevano fecondato il genio del popolo.
Si cominciò con l'imitazione dei modelli dell'antichità classica e dei poeti della Rinascenza italiana. Ma, come l'arte, così la poesia spagnola ben presto plasmò i modelli stranieri in forma nuova, caratteristica e schiettamente nazionale. Ed allora si ebbe una vera fioritura di eminenti poeti. La dignitosa e naturale sublimità delle odi di Luis Ponce de Leon, la vigorosa satira di Diego de Mendoza, gli smaglianti ed armoniosi inni di Fernando de Herrera, i dolci idillii di Francisco di Figuera, l'ineguale, ma eloquente ed efficace epopea «l'Araucanra» di Alonso de Ercilla, il nobile e magistrale romanzo pastorale "Dranas" del Montemayor, le geniali creazioni di Cervantes, i drammi originali di Juan de la Cueva, e finalmente le indescrivibili opere epiche, didattiche, tragiche e comiche della «fenice degli ingegni», del « portento di versatilità », Lope de Vega; tutte queste svariate produzioni, talune veramente di prim'ordine, ma tutte eminenti ed originali, innalzarono in breve tempo la letteratura spagnola al grado di vera e propria letteratura mondiale.

Queste produzioni vennero variamente imitate, soprattutto dai francesi, per lo spazio di due secoli. Sotto l'influenza feconda delle vecchie epopee popolari si formò e sorse in particolar modo il dramma spagnolo, la più completa e immediata espressione dei sentimenti, del modo di pensare e delle tendenze della nazione. È in esso che noi vediamo trasfusi il suo eroico valore e coraggio, il suo austero sentimento d'onore e il suo spirito cavalleresco, il suo fanatico entusiasmo religioso; ma anche la sua indomita ambizione, il suo sfrenato sensualismo e la sua crudeltà, il suo gusto per l'insidia e l'intrigo. Innumerevoli furono i poeti drammatici in quei tempi nella penisola, dei Pirenei; ma nessuno può stare a pari per fecondità, varietà, garbo e venustà di forma con Lope de Vega, le cui centoquindici «commedie» sono uno specchio fedele dei costumi, delle idee e delle caratteristiche peculiari del suo popolo.

Anche nel campo della storiografia gli spagnoli ci lasciarono lavori classici, come Diego de Mendoza e il famoso gesuita Mariana. Patriottismo elevato, fervore religioso e coraggio cavalleresco infiammarono i cuori di questi poeti e scrittori, la maggior parte dei quali servirono devotamente lo Stato ed il re in ogni parte del mondo con la penna od anche con la spada.

Ma gli scrittori non poterono impunemente occuparsi di filosofia e di politica. L'inquisizione e le regie carceri impedirono ogni libertà di opinione e di parola al riguardo. Così l'espansione della letteratura in tutti i campi di attività spirituale venne violentemente arrestata, e l'inevitabile conseguenza fu che essa ben presto rimase soffocata degenerando nell'affettato e nella falsa pompa.

Più manifesta ancora si rivela sotto Filippo II la decadenza della Spagna sotto l'aspetto militare ed economico-sociale; cosa che per verità non va data la colpa esclusiva del suo malgoverno, ma deve essere riconosciuta anche una conseguenza di abitudini e tendenze prevalse in seno al popolo spagnolo fin dalla fine del XV secolo. L'esercito, forte, almeno sulla carta, di 200.000 uomini, ma disperso su vastissimi territori e in numerose piazzeforti, esigeva una spesa annua di 15 milioni di talleri d'oro. Ora le finanze spagnole non poterono più sopportare una spesa simile per questo solo scopo. I soldati mal pagati, mal nutriti e mal vestiti si abituarono alla disobbedienza, al furto e alla rapina e divennero assai più scadenti dei loro predecessori di trent'anni prima.
In condizioni anche peggiori si ridusse la flotta, la quale, avendo perduto in ripetute azioni sfortunate i suoi migliori ufficiali e marinai, divenne ben presto facile preda dei venti, nonchè degli inglesi, olandesi e barbareschi, i quali tutti si posero a dar la caccia alla bandiera spagnuola su ogni mare. Questa trovò ovunque nemici; amici mai.

Le continue guerre in tutte le parti del mondo esaurirono sempre di più le risorse demografiche ed economiche della Spagna. Come infatti era possibile colmare i vuoti scavati dalle migliaia di uomini che annualmente lasciavano la penisola per servire all'estero negli eserciti e nella flotta, e per lo più non ritornavano vivi in patria?
La stessa cosa per i milioni di ducati che in numero indefinito venivano continuamente sottratti all'economia nazionale e gradatamente la immiserivano. Invano le Indie occidentali e il Perù inviavano ogni anno cospicue quantità d'oro; ed invano il governo, esercitando una formidabile pressione tributaria sui suoi sudditi cercò di elevare il più possibile le entrate dello Stato; tutto questo denaro sfumò come nebbia al sole, inghiottito in gran parte dagli interessi che Filippo dovette pagare per i numerosi prestiti contratti. Per rimediare al dissesto finanziario egli ricorse due volte alla bancarotta, riducendo arbitrariamente nel 1575 e nel 1596 a quasi la metà il tasso d'interesse dei prestiti dello Stato. Ad onta di questo poco onorevole rimedio, egli lasciò tuttavia al suo successore 200 milioni di ducati di debiti. Questi debiti che, salvo 4 miseri milioni di ducati, impegnavano tutte le rimanenti entrate, erano per lo più contratti con stranieri, tedeschi o italiani; di modo che quasi l'intero gettito delle imposte del regno di Spagna andava a finire all'estero. Dei 260 milioni di ducati in metalli preziosi, inviati dall'America in Spagna negli anni dal 1531 al 1594, 200 circa emigrarono nuovamente dal paese esaurito, dopo avere nel loro passaggio per la Spagna fatto salire più che al doppio i prezzi di tutti i generi di prima necessità.

Il divieto di esportazione dei metalli preziosi e molti altri ostacoli posti all'esportazione di merci verso le colonie contribuirono anch'essi a rovinare l'economia nazionale spagnola. L'afflusso dei metalli preziosi dall'America, la legislazione economica perversa e l'esorbitante peso delle imposte gravanti il commercio, con la diminuzione della popolazione e la mancanza di abili operai, fecero salire i prezzi delle materie prime e della mano d'opera in tale misura che agli industriali spagnoli divenne impossibile sostenere la concorrenza con l'estero. Conseguenza naturale della disoccupazione e della miseria che ne seguì fu la precipitosa diminuzione della popolazione.

L'essersi la nazione spagnuola dedicata quasi esclusivamente alla guerra, alle scoperte e conquiste delle terre d'oltre mare aveva avuto ripercussioni profonde sul carattere del popolo che aveva acquistato uno spirito irrequieto, amante delle avventure e avverso al lavoro. Allo spagnolo sembrò degradante guadagnarsi la vita con l'indefesso e tranquillo lavoro piuttosto che conquistarsi rapidamente la ricchezza da soldato col saccheggio oppure da colono con lo sfruttamento degli indiani.
Chiunque aveva un reddito di qualche centinaio di ducati cercò di diventare nobile, gentiluomo (hidalgo); cosicchè finirono per esservi 200.000 hidalgos, che con le loro famiglie rappresentavano il quindicesimo circa del popolo, i quali si sarebbero ritenuti disonorati di dover lavorare.
Del pari in Spagna vivevano 200.000 ecclesiastici che naturalmente non facevano nulla, producevano solo prediche. Si aggiungano i soldati e funzionari con le rispettive famiglie (altri 300.000 individui) e finalmente gli innumerevoli mendicanti schivi del lavoro, oltre a gente che in parte era benestante.

Complessivamente si può dire che su 8 milioni di spagnuoli ve n'era un milione e mezzo che viveva esclusivamente del lavoro degli altri; e anche questi a causa delle numerose feste religiose se ne stavano oziosi per un buon tempo dell'anno. Ne derivò che i campi rimasero incolti e abbandonati e l'industria languì; il commercio bancario e la parte attiva delle industrie caddero in mano degli italiani; il traffico mercantile terrestre venne in mano dei francesi e quello marittimo degli inglesi ed olandesi.
E la rovina si propagò in America e in Asia. Le colonie spagnole e portoghesi divennero facile e opulenta preda degli intrepidi marinai olandesi, cosicchè per i Paesi Bassi la lotta con la Spagna si risolse in una fonte di benessere e di potenza. E gli inglesi pure si fecero la loro buona porzione nel saccheggio delle colonie spagnole.

Filippo II non potè alla fine chiudere gli occhi di fronte all'evidenza che il suo governo era stato funesto al suo regno e al suo popolo. Una invincibile tristezza si impadronì del suo spirito, accresciuta da mali fisici tormentosi e dalla coscienza che l'unico figlio rimastogli, Filippo, sia per natura, sia per l'educazione datagli, volutamente informata a tenerne basso il morale e tiepida l'intelligenza, era incapace di impegnarsi in qualsiasi attività mentale e la minima energia di carattere.
Anche riguardo ai suoi figli il sistema di Filippo portò all'immiserimento. Per queste ragioni il re, sentendo avvicinarsi la sua fine, concluse a qualsiasi prezzo la pace col suo più pericoloso avversario, Enrico IV.
Il trattato di Vervins (2 maggio 1598) restituì alla Francia tutte le conquiste spagnole, fra le quali sei importanti piazzeforti nel nord del territorio francese.

Pur di trasmettere al suo debole successore il regno in condizioni di tranquillità e di pace, Filippo rinunziò così anche ai pochi vantaggi che si era procurato in Francia con l'enorme dispendio di sangue e di denaro durante 15 anni di lotta.

Per rendere ancora più agevole il compito a suo figlio, Filippo affidò il governo dei Paesi Bassi alla figlia prediletta Isabella, maritata all'arciduca Alberto, uno dei figli dell'imperatore Rodolfo II. Se non che Alberto, prima arcivescovo di Toledo e cardinale, per quanto impeccabile dal punto di vista religioso e morale, era un uomo di intelligenza limitata, bonario, insignificante, e quindi assolutamente non adatto al difficile compito che gravava sulle sue spalle.

Fra terribili sofferenze, peggiori delle torture inflitte per suo ordine alle vittime del suo odio politico e religioso, Filippo chiuse gli occhi alla vita nel chiostro dell'Escuriale con quello stoicismo rassegnato che era nella sua indole e con una sottomissione devota alla volontà divina tale che avrebbe fatto onore ad un santo. Filippo II morì il 13 settembre 1598 all'età di 71 anni, dopo 43 anni di regno.
Con una ingenuità che ha dell'incredibile egli era convinto dell'incontestabile diritto dei re di Spagna di tener soggiogato al suo scettro ovvero alla sua egemonia il mondo intero, perchè riteneva questa fosse la volontà di Dio. E ai suoi occhi era delitto per chiunque - dal più povero dei suoi sudditi agli altri re ed allo stesso papa - opporsi a questa sua pretesa; e contro chi si fosse reso reo di simile delitto non esitava ad usare il supplizio, il pugnale o il veleno.
In ciò Filippo personificava semplicemente lo spirito castigliano, tutto imbevuto dall' idea fissa che la bandiera giallo-rossa fosse chiamata da Dio a stendere la sua ombra su tutta la terra accanto allo stendardo della croce.

Gli sforzi di Filippo II non erano tuttavia falliti così completamente come spesso si ritiene. Nel campo religioso egli era riuscito ad estirpare dalle radici l'eresia in Italia e nella Spagna. E se in Germania e in Polonia la controriforma fece continui progressi, lo si deve all'esempio, ai consigli e agli aiuti diretti di Filippo II.
Nelle regioni meridionali dei Paesi Bassi egli ristabilì l'esclusivo dominio della confessione cattolica, le cui sorti erano già estremamente compromesse. Costrinse Enrico IV a convertirsi al cattolicesimo se volle avere Parigi ed assicurarsi in genere la corona di Francia; di modo che veniva pure assicurato alla religione cattolica il carattere di religione dello Stato francese.
In breve la chiesa cattolica deve in primo luogo al romito dell'Escuriale se riuscì ad arginare l'avanzata del calvinismo. Certo le vittorie della controriforma, che debbono ascriversi a suo merito, coincisero con altrettante sconfitte politiche per il suo Stato; esse furono pagate troppo care con l'esaurimento e la rovina della Spagna che dal regno di Filippo in poi precipitò irresistibilmente per la china della decadenza.

Al tramonto della potenza di questo regno corrispose il sempre più splendido incremento delle fortune delle sue avversarie e rivali: la Francia e l'Inghilterra.

Di queste fortune, ora accenneremo a entrambe
pioniere in un modo o in un altro di un generale rivolgimento politico ed economico; protagoniste dei successivi anni

ELISABETTA TUDOR - GLI STUART - I BORBONI > >

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