-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

20. I PRIMI QUATTRO CALIFFI


La moschea di Omar a Gerusalemme

cartina gigante con le conquiste arabe dal 622 al 945
IN FONDO ALLA PAGINA

Come abbiamo visto alla fine del capitolo 15, Maometto alla sua morte, non avendo lasciato alcuna indicazione, la successione alla direzione dello Stato divenne un problema all'interno dei suoi discendenti.
Un problema non semplice: Abu Bakr e Omar, suoceri del Profeta, il genero Alì, e lo zio Abbas, si ritenevano tutti degni di accedere alla più alta carica dello Stato islamico e autorizzati alla successione.

Al momento della morte del Profeta, Abu Bakr si trovava fuori città. Rientrato a Medina, aveva prese in mano la situazione con lucidità e fermezza. Fece inoltre un discorso nella moschea che scosse profondamente i fedeli. Dopo aver reso lode a Dio, disse con fermezza: "O gente, per chi voleva adorare Muhammad, invero Muhammad è morto; per chi voleva adorare Dio, invero Dio è Vivente e non muore". (in breve voleva dire "morto un papa se ne fa un altro").

Ai musulmani si presentò il difficile problema di stabilire un successore. E fin dal primo momento nacquero e si evidenziarono i primi contrasti. E non solo all'interno della stessa famiglia ma anche nelle varie province.

Parve all'inizio che la morte del profeta mettesse in dubbio anche l'opera della sua vita, l'unità religiosa e politica dell'Arabia. Che sarebbe andata incontro al triste destino che lo stesso Maometto aveva pessimisticamente preconizzato. Così Aisha commentò più tardi quel particolare momento storico: "Dopo la morte del profeta molti credenti rinnegarono la loro fede. Ebrei e critiani tornarono a sollevare il capo, e grande fu l'ipocrisia che si manifestò ovunque. I musulmani, perduto il profeta, sembravano un gregge di pecore sotto la pioggia di una notte d'inverno".

I maggiorenti delle famiglie medinesi videro nella morte del capo dello Stato l'occasione che avevano atteso da tempo. L'arroganza degli uomini della Mecca li aveva sempre irritati, e sempre li aveva indisposti il fatto che solo loro, solo i credenti della prima ora, potessero accedere alle più alte cariche dello Stato. In effetti, nessuno che fosse originario di Medina era mai riuscito a entrare nel gruppo dirigenziale e nella ristretta cerchia dei consiglieri del Profeta. Dalla Mecca erano giunti molti parenti del Profeta che avevano voluto vivere a Medina, più vicini non solo a lui ma al potere centrale. Anche costoro erano malvisti dai medinesi, che li consideravano veri e propri stranieri. Il momento per scrollarsi di dosso il potere meccano sembrava arrivato. Si sarebbe tornati finalmente a una politica autonoma, scevra da condizionamenti esterni, né sarebbero mancati uomini ricchi di iniziativa pronti a guidare un simile rivolgimento.
Ed infatti una prima riunione di dissidenti si tenne in casa di Saad Ibn Ibade, uomo rispettato e di nobili origini. Saad era un brillante oratore, inoltre conosceva lo stato d'animo dei propri connazionali e amici, e sapeva quanto avessero sofferto della condizione di relativa inferiorità imposta loro dal Profeta. Erano stati sempre considerati nell'ambito della gerarchia islamica, come uomini di secondo rango rispetto agli emigrati della Mecca.
Il discorso di Asad, fu piuttosto chiaro: Voi vantate nei confronti della fede islamica un merito che nessuno vi può disconoscere. Allah ha voluto distinguere con la sua grazia, donandovi la fede nel Profeta e dandovi la forza per difendere lui e gli altri emigranti, e per esaltare la sua persona e il suo credo. Voi siete scesi in campo contro i nemici della fede, voi avete sostenuto le lotte più dure, voi avete osteggiato i nemici di Maometto ancor più che se fossero stati vostri stessi nemici. E solo grazie alla vostra tenacia tutti i nemici si sono sottomessi al volere di Allah. È giunto quindi il momento della ricompensa. E sono sicuro che la volontà di Allah non è certo che i meccani restino al potere per sempre.

Ma nella stessa Medina riuscì ad Abû Bekr, il suocero e il più antico e fedele compagno di Maometto, di prendere con autorevolezza, dopo brevi incertezze, le redini del governo, come suo vicario o califfo; poiché tanto Alì, cugino e genero del profeta, quanto Saad ibn Ubada, capo degli Ansar, non possedevano l'energia necessaria per far valere le loro pretese, fondate per il primo sul diritto ereditario, per il secondo sul diritto della designazione nella propria famiglia. Ma in tutta l'Arabia si svegliò presto lo spirito della rivolta. La lotta non era, per lo più, diretta contro l'Islam: come religione, ma contro la supremazia dei Koraishiti a Medina. I profeti si mettevano a capo dei ribelli in nome di Allah, come Maometto, non già in nome di uno degli antichi idoli. Alcuni dei rivoltosi di altre province fecero sapere a Medina che essi intendevano continuare l'esercizio del culto, ma non più pagare tasse.
Il loro malcontento era stato in particolare provocato da quegli uomini spediti da Maometto, negli ultimi anni, presso molte tribù per predicar loro la fede e riscuotere le tasse; le tribù, finora libere e padrone nei loro pascoli, vedevano in essi delle spie del governo di Medina e quindi li avevano sempre in odio.

Oltre a questo, l'ultima iniziativa del profeta era stata di mettere in armi l'esercito destinato a vendicare sui Bizantini la disfatta di Muta. Sebbene la rivolta minacciasse già da ogni parte, Abû Bekr sentì il dovere di compiere l'ultima decisione del profeta. Le migliori forze dell'Islam le inviò pertanto verso il nord, guidate da Usâma; ma non sappiamo che risultati avesse questa spedizione, e nemmeno se oltrepassasse il confine bizantino.
Ad ogni modo essa rimase due mesi lontana da Medina. Vista la capitale priva di difensori, le tribù più prossime, degli Asad e dei Ghatafan, ne approfittarono per assalirla.
Ma Abû Bekr riuscì a reggersi fino al ritorno dell'esercito. Allora egli affidò il comando supremo a Chalid ibn al-Wâlid, la provata «spada di Dio»; questi inflisse alle due tribù, presso Busacha, una sconfitta tale, che si sottomisero immediatamente.

Più pericolosa appariva la rivolta dei Banû Hanîsa nel Jamâma. Come abbiamo già accennato, era qui comparso, mentre ancora Maometto viveva, un uomo di nome Mussailima, che si diceva profeta e chiedeva da Medina il riconoscimento della sua dignità. La tradizione musulmana ci dà, com'é naturale, solo notizie imperfette intorno al suo pensiero religioso. Pare che Mussailima desse speciale importanza all'ascesi: apprezzava il digiuno, proibiva il vino, esortava alla castità e prescriveva che i rapporti coniugali cessassero con la nascita di un erede maschio.
Nelle sue prediche riecheggiano, ancor più che in quelle di Maometto, pensieri cristiani. Li riveste con la lingua dei suoi compagni di tribù, dediti all'agricoltura; parla loro «delle pecore nere e del bianco latte, del macinare e del cuocere in forno, della rana, l'animale della regione irrigua e coltivata».
Nonostante il suo aspetto insignificante, egli seppe ispirare tanto entusiasmo ai suoi seguaci, che molti di loro, anche diversi anni dopo la sua caduta, gli si mantennero fedeli.

Un movimento simile a quello di Mussailima nacque fra le tribù dei Tamim, attendati nel nord della penisola, presso al confine persiano, da una donna di nome Sag'ach. Aveva cominciato la sua carriera fra i Taghlib, nella Mesopotamia; giuntale la voce della morte di Maometto, si recò, con un seguito già molto numeroso, dai Tamim, suoi compagni di tribù.
All'inizio la seguirono solo i suoi parenti più prossimi, gli Hansala; presto però tutta la tribù fu per lei. Pare che poi scendesse verso il sud e si alleasse con Mussailima.
Ma né all'uno né all'altra riuscì di riunire i loro seguaci in una lotta comune contro i Medinesi. Perciò di lì a poco si separarono, e Sag'âch tornò in Mesopotamia. Quando poi Chalid ibn al-Walid entrò nel territorio dei Tamim, quasi tutti gli fecero atto d'obbedienza. Solo Malik ibn Nuwaira, capo degli Jarbû, sottotribù dei Hansala, si mantenne fedele a Sag'ach. Ma quando Chalid con le sue truppe lo ebbe bloccato, fece anch'egli atto di sottomissione. Cionondimeno Châlid lo fece massacrare insieme ai suoi seguaci; si dice perché invaghito della sua bella consorte.

Sottomessi i Tamim, Châlid mosse contro i seguaci di Mussailima nel Jamâma, che nel frattempo avevano già sconfitto un battaglione musulmano sotto Ikrima. Dopo questo primo successo Mussailima si era spinto sino al confine settentrionale del Jamama, dove si venne, presso Akraba, ad una battaglia decisiva, la più sanguinosa che si sia mai combattuta in Arabia.
Per spronar l'amor proprio delle sue genti, Chalid fece combattere separatamente i compagni della fuga, gli Ansar e i Beduini. Gli Hanîfa eran superiori per numero e dinanzi al loro primo urto impetuoso i credenti indietreggiarono. Ma lo scherno dei nemici spinse più di tutti i Medinesi a tentare l'ultimo sforzo. Riuscirono così prima ad arrestare la battaglia, poi a respingere a poco a poco i nemici. Quando questi videro prossima la sconfitta, ripararono in un gran parco, cui avevano fissato la loro base: sperando che le forti mura li proteggessero dall'assalto dei Musulmani.

Questa fortino fu invece la loro rovina. Penetrati i Musulmani nel «giardino della morte», come lo chiama la tradizione, fecero una terribile strage dei nemici : nessuno sfuggì, e Mussailima stesso vi trovò la morte. Ma anche i Musulmani ebbero da lamentare gravi perdite; solo dei compagni della fuga e degli Ansar erano caduti circa 700, fra i quali molti dei più vecchi compagni del profeta e dei più dotti della rivelazione.

Questa vittoria pagata a caro prezzo decise della sorte non solo degli Hanixa, ma degli Arabi stessi. I resti dispersi dei seguaci di Mussailima si erano rifugiati nei loro castelli, dove si salvarono capitolando. Ogni resistenza era qui spezzata per sempre.

Anche nella regione marittima presso il Golfo persiano, in Bachrain, sottomessa poco prima della morte di Maometto, si era tentato di scuotere il giogo dei Medinesi. Nella capitale Hag'ar si mise a capo del movimento un discendente dell'antica dinastia degli Hira, dominante fino in quella regione. Ma il governatore Aia, nominato da Maometto stesso, se ne stava in un castello a nord di Hag'ar, finché Chalîd, caduto Mussailima, lo destituì. Quindi si recò in persona a Hag'ar, e di lì a poco la rivolta era domata.

Più a lungo resistette la popolazione costiera, composta in massima parte di Persiani. Il loro capo Firôs si mantenne nel porto di Sara, probabilmente l'odierno Katif, fino ai primi anni del regno di Oman. Solo allora il governatore Ala riuscì a imporgli la capitolazione, avendogli prima tagliato il rifornimento di acqua.
La popolazione di Oman, formata quasi tutta di pescatori e di pirati, ha saputo mantenersi indipendente per quasi tutto il medioevo, e fin sotto il sultanato di Mascat.
Solo una sollevazione contro l'antica dinastia dei G'ulande, che tenne il trono fino al tempo degli Abbasidi, offrì allora ai Musulmani occasione ad un intervento. Il loro re Amr aveva abbracciato l'Islam; ma i Beduini dell'interno insorsero contro gli esattori delle tasse da lui mandati in nome del governo centrale. Abû Bekr ordinò a Ikrima, che fino allora non era riuscito a far nulla contro Mussailima, di prestargli man forte. I Beduini stabili dovettero cedere alle forze riunite dei Musulmani.

Dall'Omân, Ikrima si recò nel Hadramant e nel Jemen, dove la rivoluzione era scoppiata prima che altrove, e dove diede più a lungo da fare ai Musulmani. Quando l'Islam penetrò nella regione, i Beduini stabiliti nella parte settentrionale di essa, nella Tihama, avevano quasi del tutto soffocato l'antica popolazione sabeica del fertile Mezzogiorno, soggetta alla dominazione persiana. Caduto l'impero persiano in rapida rovina dopo l'uccisione dei Sassanide Parwês, le province arabe, in specie il remoto Jemen, rimasero abbandonate a se stesse. Nella anarchia generale allora dilagante, numerose tribù, caduta la Mecca, avevano annunziato mediante deputazioni a Medina la loro conversione all'islamismo.

Poco prima della sua morte, Maometto aveva regolato gli affari del paese e le tassazioni erano spesso rimaste anche in seguito quali egli le aveva fissate. I suoi inviati non avevano però spodestato i molti piccoli potentati indigeni, ma tenevano accanto a loro il posto che tengono all'incirca i residenti di potenze coloniali accanto ai principi indigeni. Oltre all'ispezione generale, regolavano il culto, amministravano la giustizia e soprattutto riscuotevano le tasse. Per la brutalità con cui esercitavano questa parte più sgradita del loro ufficio avevano provocato, già vivente il profeta, una sollevazione nel Hadramant, sedata con sanguinosa severità.

Già prima era apparso nel Jemen, nella tribù degli Ans, un profeta, Aihaba Dhu'I-Himâr, cosiddetto dall'asino che cavalcava, come del resto in Oriente l'asino è ritenuto ab antiquo (Zach., IX, 9) come la cavalcatura dell'atteso liberatore. Per questo dicono i vangeli che Gesù fece il suo ingresso in Gerusalemme sopra un'asina; per questo anche, nel decimo secolo, il fondatore di una sètta di fanatici nell'Africa meridionale si chiamò Dhu'l-Himâr; e anche Buhamâra il capo di una rivoluzione scoppiata contro il sultano del Marocco, entrarono vincitori cavalcando un asino.

Il monoteismo era già, grazie agli Ebrei ed ai Cristiani, molto diffuso nell'Arabia meridionale; e quindi questo profeta non apparve in nome di Allah misericordioso. Saputo che Maometto era tornato infermo dal suo ultimo pellegrinaggio, Aihaba aveva cominciato a predicare in pubblico. Partito da Nag'rân, assalì il governatore persiano tuttora residente a Sanâ; sconfittolo, tutto l'Jemen era ai suoi piedi. La sua arroganza fece il resto.
Benché ammalato, Maometto aveva, per mezzo di lettere e di messaggeri, raccolto i suoi fedeli contro il falso profeta. Per istigazione di uno de' suoi messi, i cittadini persiani più importanti formarono una congiura e poco dopo uccisero Aihaba, si dice il giorno prima della morte di Maometto.

Ma a questa breve vittoria dell'Islam seguì presto una nuova rivolta. Kais, il partigiano più notevole di Aihaba, si sollevò, appoggiato dagli Arabi, contro i Persiani. Allora Abû Bekr mandò, sotto la guida di un governatore nominato da Maometto stesso per una parte di Hadramant, un esercito, che ristabilì l'ordine nella regione.
Riassoggettata così, in tempo relativamente breve, tutta l'Arabia al dominio dell'Islam, Abû Bekr poté riprendere l'ultimo piano del profeta: estendere la fede al di là dei confini della sua patria.

Abû Bekr voleva prendere occasione di espandersi al di fuori a est, con quelle forze che erano inattive e che da qualche tempo erano sempre pronte solo a scontrarsi l'una contro l'altra. Mentre invece il profeta, forse facendo troppo affidamento alle proprie forze e con un errato apprezzamento della situazione politica mondiale, voleva tentare di attaccare innanzi tutto Bisanzio.
Ma morto il Profeta, il suo successore volse prima lo sguardo a oriente, all'impero persiano; indubbiamente doveva essergli giunta notizia della debolezza in cui da un po' di tempo si era ridotta la Persia.

Muthanna ibn al-Hâritha, che aveva preso parte alla spedizione di Bachrain, aveva già in diverse scorrerie oltrepassato il confine persiano. Per ordine del califfo, si unì ora a lui Chalid ibn al-Walid, dopo aver domata nel Jamâma la rivolta di Mussailima.

All'inizio essi mossero contro Hira. Questa città aveva allora da tempo perduta la sua iniziale importanza come baluardo contro i Beduini, da quando cioè Mundhir V, l'ultimo dei Lachmidi, era stato nel 602 spodestato da Chosrau II. Il comandante persiano della guarnigione di Hira fu sconfitto presso Ullais, l'antico Vologesias, e la città stessa cadde senza fare altra resistenza nelle mani dei Maomettani. Ciò accadeva nell'anno 633.

Riuscita con tanta inaspettata facilità la conquista della Babilonia meridionale, a Medina si pensò sul serio al piano già concepito dal profeta, di rivolgersi verso Bisanzio e in Palestina in Terra Santa.
Anche nell'impero bizantino, non meno che nel persiano, vivevano degli Arabi, ai quali si dovevano portare i benefici dell'Islam, e quindi da incorporare nel nuovo regno nazionale sorto.
Tenuto conto della difficoltà dell'impresa, già invano tentata due volte al tempo del profeta, la spedizione contro la Siria fu fin dall'inizio accuratamente studiata e preparata in Medina stessa.

Nella primavera del 634 Abû Bekr spedì due eserciti contro la Siria. Il primo, al comando di Amr ibn al-Ass, invase la Palestina a sud-est; l'altro, al comando di Jesid ibn Shurachbil e di Abû Ubaida, l'antico Moab.
Spintosi Amr all'inizio troppo avanti, i Bizantini gli mandarono contro un esercito molto numeroso. Avuta notizia dei successi in occidente, Chalid era accorso da Babilonia con un distaccamento di cavalleria scelta, ed aveva assunto il comando supremo dell'esercito nella regione orientale del Giordano.

Con questo esercito marciò in difesa di Amr. Nel luglio o agosto del 634 si venne, presso Ag'nâdain, ad una grande battaglia; gli eserciti riuniti dei musulmani sconfissero i Bizantini. Solo oltre il Giordano riuscì ai generali di fermare le truppe in fuga e di raccoglierle. Esse avevano rotto gli argini presso Baissân, rendendo così difficile il passaggio del Giordano. Nonostante Chalid riuscì a passare sull'altra sponda: raggiunse e riassalì i nemici presso Fichl, dove si erano concentrati; li costrinse alla ritirata a li inseguì fino a Damasco.

Nel frattempo un piccolo distaccamento musulmano si era spinto a nord del paese sguarnito di truppa a aveva preso la città di Hims-Emasa. Dinanzi alla mura di Damasco Châlid diede ancora una volta battaglia ai Bizantini, li affrontò e li fece arretrare fino a costringerli a chiudersi nella città, che fu subito posta in assedio. Dopo quasi un anno di assedio Damasco si arrese, nell'agosto del 635.
Per motivi a noi sconosciuti il comando supremo passò da Châlid ad Abû Ubaida, ma quello rimase anche in seguito la vera forza motrice della spedizione. Intanto un nuovo esercito bizantino era passato da Antiochia nella Siria, probabilmente con la missione di liberare Damasco.
Giunto troppo tardi, potè solo riprendere Hims. Durante l'autunno a l'inverno si ebbe, coma pare, un armistizio. Nell'estate dal 636 i Bizantini riaprirono la campagna con un potente esercito condotto dal Sakellarios Teodoro.
I Musulmani li aspettavano presso l'Jarmûk e qui inflissero loro, il 20 agosto, una disastrosa sconfitta. Continuando quindi la marcia vittoriosa verso il nord, occuparono Hims per la seconda volta.

Nel frattempo anche in Oriente era andata avanti la lotta contro i Persiani. Partito Châlid nella primavera del 634, il Bekrit Muthannâ aveva assunto il comando supremo in Hira. Nel luglio dello stesso anno era morto a Medina il califfo Abû Bekr ed aveva assunto il governo OMAR, il più forte e notevole dei compagni della famosa "fuga".
Come già aveva energicamente sostenuto la campagna di Siria, così ora mandò rinforzi anche a Babilonia, sotto il comando di Abû Ubaid della tribù dei Thakîf. Ma anche i Persiani si prepararono alla difesa contro gli invasori. Presso Kuss an-Nâtif un esercito persiano si schierò contro i Musulmani. Abû Ubaid passò l'Eufrate sopra un ponte di barche e accettò la battaglia; ma fu sconfitto ed egli stesso cadde. Essendo stato il ponte di barche già in parte distrutto da un troppo zelante musulmano, Muthannâ fece fatica ad assicurare la ritirata ai fuggiaschi.

Tuttavia le agitazioni interne dell'impero persiano impedirono ai vincitori di sfruttare il loro successo. Ma anche Omar aveva per questo primo insuccesso, perso ogni interesse riguardo al teatro della guerra babilonese.
Solo nell'anno seguente i Persiani tornarono all'assalto. Muthannâ li aspettava presso Buwaib, dietro uno dei canali ad occidente dell'Eufrate. Nonostante si difendessero valorosamente, i Persiani ebbero la peggio. I Musulmani si spinsero allora con le loro scorrerie molto dentro nel paese.
All'inizio dell'estate del 635 i Persiani si prepararono ad un colpo decisivo. Nel frattempo Muthannâ era morto, e in vece sua aveva assunto il comando supremo sui Musulmani Saad ibn abi Walkâss, uno dei più vecchi e fidi compagni del profeta.

A capo dell'esercito persiano stava il generalissimo Rustam in persona; da poco era salito sul trono dei Sâssânidi, il giovane Jesdegerd, dopo che vi si erano succedute diverse regine, e che con determinazione metteva ogni impegno a sgombrare dai nemici la compromessa provincia di confine.
La battaglia decisiva si combattè presso Kâdissija. Abbiamo intorno ad essa una quantità di dettagli romantici, che non giovano a darci un'idea chiara di come si svolse. Essendo difficile presupporre un'azione strategica coerente da parte dei Persiani, e combattendo gli Arabi per tribù, la battaglia si sarà probabilmente risolta in una serie di singoli combattimenti.
Ad ogni modo i Persiani riportarono una grave sconfitta; ma anche i Musulmani soffrirono perdite tali, che dovettero rinunciare a disturbare la ritirata dei nemici.

Ma di lì a poco, riprese le forze, passarono l'Eufrate, muovendo contro Ctesifonte e Seleucia, capitale dell'impero. Dopo due scaramucce durante la ritirata, i Persiani dovettero sgombrare Babilonia, e gli Arabi entrarono nella loro capitale.

Il bottino che vi fecero e di cui la tradizione racconta miracoli, servì naturalmente anche in Arabia a spronare molti volontari, quando si trattò di colmare con nuovi reclutamenti le perdite sofferte.

I Persiani si erano nel frattempo ritirati verso Holwân. Là Jesdegerd raccolse gli avanzi dell'esercito, completandoli con nuove leve. Essendosi a poco a poco i Persiani spinti fino a discendere la valle del Dijâla, che si getta nel Tigri sopra a Ctesifonte, Saad spedì contro di essi suo nipote con 12.000 uomini. Verso la fine del 637, questi li sconfisse presso G'alûlâ, a quindici miglia circa dalla capitale. La corte persiana rimase ancora per un po' di tempo al sicuro in Holwân; ma la pianura fino al confine con la Media era in possesso dei Musulmani, che in segno di una loro stabile occupazione avevano già costruito nella capitale la prima moschea.

I Musulmani una volta padroni della Siria e della Babilonia, la Mesopotamia, posta fra queste due regioni, doveva necessariamente venire in loro possesso. Di truppe bizantine ve n'erano alcune solo nelle poche piazzeforti; la popolazione indigena aramea era stata sempre perseguitata dalla dominante ortodossia greca a causa della sua fede monofisitica e non aveva quindi proprio nessun interesse a difendere per poi conservare la odiata potenza imperiale. Inoltre nella stessa Mesopotamia vivevano molti arabi.

Già da secoli gli Arabi nomadi si erano sparsi in gran numero nel paese e per un certo tempo aveano tenuto perfino il dominio di Edessa e di Hatra. La Mesopotamia era quindi ben preparata per la conquista musulmana.

L'assalto dei Musulmani mosse dalla Siria. Qui Omar, dopo la morte di Abû Ubaida, aveva insediato nell'anno 639 Ijâd ibn Ghânim come governatore di Himss e Kinnesrin, coll'incarico di allargare il suo dominio attraverso la Mesopotamia. Nella seconda metà di quell'anno entrò con le truppe nel paese, e in un anno e mezzo costrinse quasi tutte le città a capitolare; solo per la presa di Reshaina ci volle una lotta accanita. Compiuta poi nel 641 una scorreria fin nell'interno dell'Armenia, Ijâd ritornò nella sua residenza, dove di lì a poco morì.

Contemporaneamente alla Mesopotamia fu iniziata anche la conquista dell'Egitto. L'Umaijade Amr ibn-Ass, il primo comandante dell'esercito mandato in Palestina, vi fece a quanto si dice senza esserne stato incaricato dal califfo Omar e con truppe insufficienti, un'incursione nella fertile pianura del Faijûm. Qui si scontrò con i Bizantini, condotti dal duca Giovanni di Barka : furono però sconfitti, e il loro generale cadde in battaglia.
Nonostante il successo Amr non si fidò di spingersi più oltre, avendo Teodoro e Anastasio, capi dell'amministrazione militare e civile in Egitto, raccolto un forte corpo d'esercito in Babylon, l'antica Memphis. Ma ricevuti che ebbe Amr 4000 uomini di rinforzo agli ordini di Subair, un amico molto ben visto del profeta, attrasse i Bizantini fuori della loro fortezza e li vinse in una battaglia campale presso Heliupolis, nell'estate del 640.

Il castello di Babylon però non cadde nelle mani degli Arabi se non il 9 aprile 641, il lunedì dopo Pasqua. Ma le loro colonne mobili avevano già attraversato il paese saccheggiando e incendiando, e la situazione si faceva tanto più difficile per i Bizantini, in quanto l'imperatore Eraclio era morto l'11 febbraio 640 e disordini interni rodevano l'ossatura dell'impero.
Nella capitale - proprio per questi disordini - si era poco disposti ad assecondare le urgenti richieste di rinforzi da parte di Teodoro, avendo bisogno Costantinopoli stesso e nelle province vicine delle truppe, contro la rivoluzione minacciante.
Pare che lo stesso patriarca di Alessandria, Ciro, che allora si trovava alla corte, consigliasse di venire ad un accordo con i barbari. Avendo Teodoro, pure invitato a Bisanzio per dare un parere sulla situazione militare, appoggiato la sua proposta, l'uno e l'altro furono incaricati di aprire trattative con gli Arabi. Ma appena tornato ad Alessandria, Ciro seppe che il governo nella capitale era già cambiato e chiese quindi nuove istruzioni. Ma i tutori dell'allora undicenne imperatore Costanzo II dovettero lasciar correre gli affari d'Oriente per la loro triste china, essendo ancora impegnati in Italia nelle lotte contro i Longobardi.

Ciro si recò quindi a Babylon e strinse un patto con Amr, il 17 ottobre 641: entro undici mesi i Bizantini dovevano sgombrare da Alessandria. Contro la promessa di un tributo fisso, i Musulmani in Terra Santa si impegnarono a lasciare ai cristiani il possesso delle loro chiese ed a non ingerirsi nella amministrazione delle loro comunità. In esecuzione di quel patto, il 17 settembre 642 Alessandria fu sgombrata dai Bizantini, ed occupata dagli Arabi.

Come primo segno della presa di possesso della valle del Nilo da parte dell'Islâm, Amr ibn al-Ass eresse a Fustât (poi Vecchio Cairo) la moschea che porta tuttora il suo nome.

In Egitto, come nelle altre province, i Musulmani mantennero essenzialmente il sistema amministrativo dei loro predecessori; anzi lasciarono per lo più i loro impiegati nel posto che occupavano. Grazie al clima del paese, ci sono conservati numerosi papiri, dai quali possiamo farci un'idea assai precisa dell'andamento delle faccende. La tassa, già anticipatamente riscossa sulla raccolta del frumento tanto dai Romani per il mantenimento delle guarnigioni, quanto poi dai Bizantini per rifornire la capitale, la esigettero anche gli Arabi per i soldati e le loro famiglie.

Ogni singola comunità riceveva ogni anno dal governatore l'indicazione della quota di frumento spettante, per lo più verso la fine dell'anno, poco prima che si iniziasse la nuova semina. Il capo del distretto era responsabile della riscossione di questa imposta in natura. Da lui dipendevano gli esattori, ai quali si rilasciava il 5% dell'importo come onorario e in compenso di eventuali deficit. Essi restavano garanti di fronte allo Stato per il frumento consegnato dai contadini finché non lo avevano depositato nei magazzini governativi nelle singole località, in specie nelle capitali dei distretti.
Di là il grano veniva trasportato, per lo più per via d'acqua, nella capitale e qui distribuito alle truppe e alle loro famiglie. Oltre a questi tributi in natura, le comunità dovevano versare anche un'imposta in denaro, in compenso della protezione loro accordata dallo Stato e della libertà religiosa loro concessa.

Naturalmente i contadini non potevano ricavar denaro se non dal commercio del frumento, sempre però rigorosamente sorvegliato dallo Stato. Tutto il frumento doveva esser portato sopra un ammasso governativa, dove probabilmente si facevano anche le vendite. Forse il governo, in luogo delle imposte da pagarsi nominalmente in contanti, prendeva anche qui non di rado del frumento; diremo pertanto col Becker che il sistema economico dell'Egitto era misto, pur con prevalenza del monetario.

Nel frattempo anche il destino dell'impero persiano si stava compiendo. Nel 640 il re Jesdegerd aveva abbandonato Holwân, dove non si sentiva più sicuro, dato che il paese tutt'intorno era già caduto nelle mani degli Arabi; e si era ritirato nella Perside. Qui si preparò all'ultima resistenza. Prima ancora di penetrare nei possessi da poco conquistati dagli Arabi, Omar lo fece assalire da un esercito messo insieme con tutte le truppe disponibili al confine, e comandato da Noomân ibn Mukarrin.

Già all'inizio della campagna, nel 642, riuscì ai Musulmani di occupare Karmassîn a nord-est di Holwân; il passaggio nella regione montagnosa era così nelle loro mani. Presso Nihâwend, a sud di Hamadan, l'antica Ekbatana, s'incontrarono col nemico, comandato dall'esperto generale Firôsân. I Persiani erano superiori in numero; la lotta durò un paio di giorni, senza mai un vincitore. Poi Noomân cadde, tuttavia la vittoria la completò Hudhaifa ibn alJamân, il successore anticipatamente fissatogli da Omar.

Dopo questa sconfitta non c'era più da pensare a una resistenza concorde, nel centro dell'impero persiano. L'esercito disperso si gettò nelle città fortificate, e le difese isolatamente contro i Musulmani sempre incalzanti.
Già nel 643 cadde l'importante città di Ispahân, dove Jesdegerd stesso aveva cercato rifugio dopo la battaglia. Davanti all'inseguimento dei Musulmani dovette allora ritirarsi a Istachr, Persepoli, l'antica capitale della patria persiana. Qui i Musulmani posero l'assedio, per un certo tempo; dovunque nella provincia e specialmente nelle montagne la popolazione indigena combatteva un'ultima disperata lotta.

Quando il re non poté più difendersi in Istachr, accettò l'invito dell'Ispahbadh del Tabaristân, la contrada montuosa presso la riva meridionale del Mar Caspio, sperando di poter trovare aiuto efficace presso i Satrapi delle province orientali. Nella sua fuga attraverso il Chorâssân, l'antica barriera dell'Irân contro i domini dei Turchi, trovò dappertutto sì accoglienze ospitali; ma nessuno volle fornirgli mezzi per continuare la guerra. Il destino gli faceva provare quel che mille anni prima, nella stessa regione, aveva provato Dario, l'ultimo degli Achemenidi. Anzi, il vassallo del Chorâssân spinse il suo confinante principe turco ad assalire il suo proprio signore.

Così Jesdegerd perse l'ultimo appoggio dei suoi fedeli. Riuscì a fuggire verso Merw, ma anche qui la città gli chiuse le porte. Lo accolse in casa un mugnaio; ma il principe traditore lo fece uccidere qui, nel suo ultimo nascondiglio, nell'anno 651.
Così finì l'ultimo dei Sâssânidi. La sua memoria vive ancor oggi fra gli ultimi seguaci della religione nazionale iranica, i Pârsi dell'India, che datano la loro era dal giorno della sua assunzione al trono.

Ma lo sviluppo interno dello Stato arabo non andò di pari passo con la grande estensione della sua potenza politica fuori dei confini. Idealmente era uno stato teocratico, ma a chi spettasse il reggimento terreno era questione tuttora ancora aperta.

Finché visse Maometto, egli era certamente il sovrano, come messo e vicario di Dio, e nessuno ne mise in dubbio l'autorità. Ma egli morì senza aver provveduto alla successione. Mentr'egli era in vita, i suoi fedeli avranno magari pensato ch'egli avrebbe retto la comunità fino al giorno del giudizio. Ma ora, sparito lui dal mondo, questa continuava ad andare come prima.
La regola della vita, lasciata dal profeta ai suoi col Corano e la Sunna, non permetteva loro di risolvere la questione più urgente: chi dovesse, dopo di lui, reggere la comunità. Un capo personale del culto e del governo era pertanto indispensabile. Diritto ereditario non esisteva; ancor meno un sistema elettivo. Solo un'audace risoluzione poteva, morto il profeta, salvare la comunità dalla minacciante rovina. Con lui vivo i più vecchi e più fidi suoi seguaci lo avevano assistito con il loro consiglio negli affari del governo; e furono che questi presero le redini cadute dalla mano del Profeta.

Il più ragguardevole di essi era OMAR ibn al-Chattâb. Alto di statura, e nonostante il suo timor di Dio sempre pronto ad agire energicamente. Aveva l'abitudine di tenere sempre il frustino in mano; e già vivente il profeta le sue donne avevano più rispetto di lui che non del loro stesso consorte. Però egli non assunse subito alla morte del Profeta il governo: lasciò la precedenza ad Abû Bekr, il più vecchio amico di Maometto.
Solo dopo la morte di lui, avvenuta di lì a due anni, egli assunse anche formalmente la signoria trasmessagli per testamento da Abû Bekr.
Abû Bekr ed Omar ebbero sempre la coscienza di reggere lo Stato solo come vicari del solo legittimo capo della teocrazia, del profeta.

Abû Bekr prese quindi il titolo di «califfo», cioè «vicario» del messo di Dio; Omar, all'inizio di "vicario del vicario del messo di Dio"; ma risultando questo titolo nell'uso quotidiano troppo prolisso, si fece chiamare semplicemente califfo e principe dei credenti.

Agli affari di Stato non partecipavano però solamente i compagni di "fuga" a Medina del profeta, ma con loro anche quelli delle tribù affini che solo all'ultimo momento, e dopo la sua indiscussa vittoria, avevano aderito all'Islâm: i Koraish. Ad essi, come gli stessi parenti del profeta, s'inchinarono all'inizio di buon grado pure gli altri credenti. Solo gli Anssâr disputavano la loro posizione privilegiata, proprio loro che già vivente il profeta avevano protestato contro la indebita preferenza da lui accordata ai suoi parenti nella distribuzione del bottino di guerra e in ispecie dei terreni.

Anche l'antico odio a Medina fra gli Aus e i Chasrag' non era ancora spento dai comuni interessi di fronte ai Meccani, anche se Maometto era riuscito sempre ad acquietare questi Anssâr della Mecca, che avevano sì posti importanti ma non predominavano numericamente in Medina.
Alla fine gli stessi Medinesi il loro ultimo tentativo di riprendere la loro indipendenza dopo la morte del profeta, era naufragato di fronte alla fermezza di Abu Bakr e Omar (che abbiamo già accennato qui a inizio pagina).
Anzi gli Aus e i Chasrag' , piuttosto di vedere uno di loro come successore del profeta, entrambi accettarono di buon grado prima Abu Bakr poi Omar.


La sollevazione degli altri Arabi riunì poi anche Anssâr e Muhâg'irûn
nel comune pericolo; ed i primi presero parte notevole, sebbene non direttiva, nelle guerre di conquista.
Queste guerre - sempre vittoriose - alla fine strinsero in un interesse comune anche le tribù arabe che dopo la morte del profeta si erano staccate dall'Islam, nel cui seno però questi apostati avevano fatto poi fatica a ritornare, perchè tacciati di opportunismo venale e non religioso; tuttavia i grossi vantaggi che poi ne ebbero, li compensarono ampiamente dei sacrificio di sentirsi bollare avidi e apostati.

Dentro ai confini della penisola araba una sola religione doveva quindi d'ora in poi esser tollerata: l'Islam, perciò Omar trapiantò in Siria gli Ebrei, che Maometto aveva pur lasciati stare a Chaibar. Chi abbracciava l'Islam, diveniva per tale conversione arabo ed era ascritto come cliente ad una delle tribù. Dai non arabi non si aspettava la conversione: lo scopo della guerra santa fu all'inizio di assoggettarli al dominio dei cittadini nati nella teocrazia islamica.

Il regno teocratico, che dopo la morte del profeta si svolse dallo stato nazionale da lui fondato, comprendeva così due classi, distinte per religione e quindi anche per politica. I Musulmani costituivano la classe dei signori e nello stesso tempo dei guerrieri. Per un certo periodo gli esercizi della devozione passarono in seconda linea di fronte alle esigenze militari. I Muslim erano pertanto organizzati come un esercito. Tutti gli uomini validi, segnati nei registri militari secondo la tribù e la famiglia. Essi venivano domiciliati nelle città conquistate; donde il nome di Muhâg'ir, emigrati, come si dissero diversi secoli più tardi i Turchi, stabilitisi fra i cristiani della penisola balcanica.

Molte volte però si stabilirono per essi anche nuove colonie militari: tali Fustât (Vecchio Cairo) in Egitto, e più tardi Kairawân nell'Africa romana e in ispecie Kufa e Bassra nel Irâk.
Il dominio dei Musulmani nei paesi conquistati rimase per lungo tempo organizzato militarmente. I generali conquistatori erano i primi prefetti del califfo; e siccome esercito e comunità religiosa facevano tutt'uno, erano loro stessi che recitavano le preghiere e tenevano le prediche del venerdì. All'inizio dovevano anche render giustizia; solo col fondatore della dinastia degli Umayyadi si nominarono per questo incarico funzionari speciali.

Come prima nel deserto, così anche ora si lasciarono alle tribù molte attribuzioni, che in uno Stato costituzionale spettano alle autorità. Ma nel deserto la cura della disciplina e dell'ordine era toccata alle famiglie minori; nelle colonie militari invece spettò ai gruppi maggiori di tribù, avendo essi raccolto gli elementi dei piccoli parenti dispersi durante le spedizioni militari.

Alla casta araba dei guerrieri si contrapponevano come sudditi i non arabi, i raija (plur raâjâ), le «greggi», così chiamati con un'antica metafora semitica, familiare già agli Assiri. Mentre i Muslim pagavano solo la tassa dei poveri, essi dovevano versare l'imposta e così provvedere al mantenimento di quelli.
Dei loro affari interni però il governo si curava ancor meno che di quelli delle tribù. Nei paesi già cristiani i vescovi assunsero la direzione degli affari civili; in Persia rimase alla bassa nobiltà paesana dei Dichkâne o podestà. I governatori dovevano solo pensare affinchè i tributi fossero puntualmente pagati; più tardi il governo pose loro accanto speciali funzionari di finanza, con egual trattamento.

Le città e le province arresesi senza lotta ai Musulmani, conservavano libertà e proprietà: il tributo da versarsi in compenso si fissava nell'atto stesso della capitolazione.
Quelle invece che avevan dovuto prendersi con le armi, divenivano preda dei vincitori. Lo Stato se ne riservava un quinto, oltre ad antichi beni della corona e a fondi abbandonati dai loro proprietari. Tutto il resto, compreso le terre e gli abitanti, si divideva fra i soldati che avevan preso parte alla conquista.
Siccome però i Musulmani non potevano staccarsi dai loro corpi militari per stabilirsi isolatamente nel paese e per coltivarlo, fu necessario lasciare gli antichi proprietari ai loro posti. Però il ricavo spettava ai Musulmani ed ai loro eredi. In pratica pertanto le località conquistate non venivano a trovarsi in posizione essenzialmente diversa da quelle che avevano volontariamente capitolato: solo che il loro tributo poteva essere ad ogni momento aumentato ad arbitrio dei conquistatori.
Lo Stato però si riservava anche la riscossione di questo tributo, sul quale pagava solo pensioni fisse agli uomini validi ed ai loro discendenti.

Mentre attendeva alla grande opera della diffusione dell'Islâm, una morte violenta rapì il califfo Omar al termine della sua virile età, nell'anno 644. Era appunto tornato dal pellegrinaggio di cui ogni anno era abituato a mettersi a capo. Uno schiavo persiano, Firôs, che lavorava a Medina per conto del governatore di Kufa, Mughira ibn Shuva, si era lamentato col califfo della esosità del canone da pagare al suo padrone; ma la sua istanza era stata respinta. Il mattino seguente, entrato il califfo nella moschea per la recitazione della preghiera, il persiano per vendetta gli assestò due pugnalate, una delle quali mortale.

Sul letto benchè moribondo, Omar volle provvedere a un successore adatto, che potesse conservare e continuare l'opera sua. E scelse a ciò Abdarrachmân ibn Auf, uno dei più vecchi compagni del profeta. Ma questi non si sentì di affrontare la responsabilità di cui lo si riteneva capace: né Omar seppe decidersi a designare un altro in vece sua.
Raccolse quindi intorno al suo letto, con Abdarrachmân, altri quattro compagni di provata fede, i due generi del profeta Alì e Othmân, nonché Subair e Saad ibn abi Wakkâss, incaricandoli di eleggere entro tre giorni un nuovo signore. Talcha, allora assente da Medina, avrebbe dovuto far parte come sesto di questo comitato per la elezione, se fosse tornato in tempo. Ma date queste sue disposizioni, Omar morì, il 23 novembre 644.
La scelta degli elettori cadde sul più insignificante di essi, OTHMAN ibn Affan della casa Umaija.

Dopo aver provato così a lungo la mano ferma di Omar, si sperava di andar meglio con lui: speranza delusa, ma la causa veramente non fu del nuovo califfo, ma del suo parentado, alla cui influenza egli si abbandonò ciecamente.

Gli Umaija erano imparentati con gli Hâshimidi, della schiatta del profeta, ai quali però durante il periodo pagano alla Mecca erano stati molto superiori in potenza ed in considerazione.
Il loro abile capo Abû Sufjàn era stato per anni l'anima dell'opposizione dei Koraish contro il profeta. Poi o per opportunismo e perchè convinti e convertiti cambiarono bandiera.

Dopo la caduta della Mecca, si eran trasferiti pure loro quasi tutti a Medina, dove ebbero una lieta accoglienza dal profeta. Già sotto Abû Bekr ed Omar, Jesid, figlio di Abû Sutjân e, morto lui, suo fratello Muâwija avevano avuto frequenti occasioni di farsi conoscere. Con Othmân, gli Umayyadi presero il timone dello Stato, poiché il suo regno era il regno della stirpe Umayyadi.

Infatti a Medina Othmân mise a capo degli affari suo cugino Marwân, ed affidò ai suoi parenti tutte le faccende importanti dello Stato. Dai progressi di questa nuova dinastia vedevano minacciata la posizione fin allora tenuta i vecchi compagni del profeta; i quali, dopo aver tentato invano di sottrarre Othmân all'influenza del suo parentado, gli si voltarono contro. Di lì a poco rimasero al califfo in Medina solo pochi amici, tanto più quando gli si mise contro anche la giovane e intrigante vedova del profeta, Àïsha, la «madre dei credenti».
Ma anche nelle province gli Arabi eran messi su contro Othmân.

Calmatasi l'inquietudine dei primi anni di guerra, i soldati della fede si accorsero a poco a poco del danno fatto a sé stessi col cedere al governo i beni immobili conquistati nelle guerre stesse. Poiché in tal modo lo Stato aveva potuto rendersi indipendente dall'esercito, cui pur doveva tutto: era esso infatti che fissava l'ammontare delle pensioni e poteva anche negarle a persone poco gradite. Il malcontento trovò una volta sfogo nel saccheggio di una cassa provinciale; ed in specie nelle proteste per il fatto che tale cassa spediva alla capitale le proprie eccedenze.

Questo sistema era già stato introdotto da Omar, ma mentre nessuno osava di metterglisi contro, Othmân non possedeva l'autorità del suo predecessore, senza dire che gli si faceva carico anche degli arbitri dei governatori, in buona parte imparentati con lui. Così anche certi saggi provvedimenti da lui presi furono dappertutto criticati.

Durante una spedizione in Armenia nell'anno 653, alla quale partecipavano truppe della Siria e dell'Irâk, furon riscontrate alcune differenze nelle copie del Corano di queste e di quelle. Poiché fra gli abitanti delle due province esisteva già una certa ruggine, queste dispute a proposito di varianti e omissioni degenerarono in vie di fatto. Per ovviare al ripetersi di tali incidenti, il califfo decise di procurare un'edizione officiale del Corano. Già vivente Abû Bekr e dopo che nella battaglia finale contro Mussailima eran caduti molti esperti del Corano, Omar, per timore che la scienza della rivelazione potesse perdersi del tutto, aveva consigliato al califfo di far raccogliere le singole sûre del Corano. Abû Bekr ne aveva affidato l'incarico a Said ibn Thâbit, un giovane medinese, che aveva servito al profeta da segretario.

Ma la raccolta così formata era rimasta un'opera del tutto privata e senza alcun valore ufficiale; Abû Bekr l'aveva lasciata in eredità a Omar e questi a sua figlia Hafssa. Othmân riprese questa raccolta, incaricando ancora Said di farne un'altra revisione, insieme a tre insigni Koraishiti. Dopo di che, tre copie di egual tenore furono mandate a Damasco, a Bassra e a Kufa e qui riprodotte in altri esemplari.
Con quanta cura la commissione di Othmân adempisse al mandato, risulta dal fatto che all'opera sua fu in seguito, dovunque e senza contrasto, riconosciuto valore canonico. Ma per il momento anche ciò offrì a quelli di Kufa materia per intensificare l'agitazione contro il califfo.

Viveva fra loro Abdallâh ibn Mass'ûd, uno dei più vecchi compagni del profeta; si teneva egli per il miglior conoscitore del Corano. E da lui appunto mosse la mostruosa accusa che la edizione riveduta fosse falsificata e incompleta: che vi fossero state soppresse delle rivelazioni, e inserite altre nelle quali s'imprecava agli Umayyadi come nemici di Maometto.

Di questo malcontento generale seppero far loro pro gli avversari del califfo in Medina, guidati da Alì, Talcha e Subair. Sebbene si sentissero i campioni della vera teocrazia contro il reggimento secolarizzato di Othmân, non osarono però di mettersi in lotta aperta contro di lui; lasciarono questa parte odiosa alle province, nello quali oltre a ciò erano raccolte le risorse materiali dell'Islâm.

Nell'anno 655 fecero loro capire che se volevano combattere per la fede, avrebbero potuto farlo allora meglio a Medina, che sui confini. La tempesta scoppiò a Kufa. Tornato quel governatore Said, nel giugno del 655, dal pellegrinaggio, 1000 uomini condotti dal jemenese Mâlik al-Ashtar, personalmente devoto ad Alì, gl'impedirono di entrare in città. Othmân credette di potere ancora scongiurare il malanno, sostituendo Said con una persona gradita ai Kufani.

Othmân non aveva avuto scrupolo di destituire in Egitto Amr ibn al-Ass, cui pur si doveva la conquista di quella regione e di nominare in vece sua a governatore il proprio cugino Ibn abî Sarch, benché già prima proscritto dal profeta.
Oltre ad Amr, soffiava nel fuoco, in Egitto, Muhammed ibn abi Hudhaifa, figlio adottivo di Abû Bekr e ardente seguace di Alì. In una grande battaglia navale, combattuta presso le coste della Licia fra la flotta egiziana e l'imperatore Costante,. gli Arabi malcontenti si erano ritirati con una nave, adducendo a pretesto che si trascurasse allora la vera guerra santa.
Nell'anno seguente 500 Arabi mossero dall'Egitto, per aprire a Medina la lotta voluta da Dio contro il nemico interno.
Apparsi nell'aprile del 656 dinanzi alla città, i Medinesi si schierarono in gran parte con essi. Othmân, pur regnando allora sull'impero più potente della terra, non aveva a disposizione, nella capitale, nemmeno i mezzi più modesti: sicché dovette venire a patti con i 500 rivoltosi. Promise di abolire i loro pesi, inducendoli così a ritirarsi.

Allora gli Umayyadi (i suoi parenti) rialzarono la cresta. Indussero il califfo ad affermare, nella predica del venerdì, che gli Egiziani erano partiti perché avevano riconosciuto di esser dalla parte del torto. Ciò mosse i Medinesi a tale sdegno che presero ad insultare il califfo e a gettargli contro dei sassi. Lo portarono via, svenuto, dalla moschea, dove non doveva più rimetter piede.

I Medinesi, raccoltisi dinanzi alla sua casa, non si movevano d'un passo. Ed ecco tornare anche gli Egiziani: dicevano di avere intercettato una lettera di Othmân al suo governatore Ibn abî Sarch, nella quale gli ordinava di sopprimere i caporioni al loro ritorno. Il califfo dichiarò di non saper niente della lettera che gli veniva mostrata. Ma quando si pretese che abdicasse, giacché una cosa simile era potuta accadere a sua insaputa, egli rifiutò dignitosamente.

Allora fu bloccato nella sua casa, difesa solo da alcuni dei suoi congiunti, con pochi schiavi e clienti. I Medinesi non mossero un dito per opporsi agli Egiziani; alcuni degli Anssâr, anzi, diedero loro man forte. I veri autori della rivolta, Alì, Talcha e Subair, si tennero in disparte, per salvare le apparenze. Àïsha, prudentemente, abbandonò la città; così dopo non avrebbero detto che era entrata nella faccenda.
L'ultima fase della lotta fu aperta da uno dei difensori di Othmân, che uccise uno degli Egiziani con una sassata. Poiché non lo vollero consegnare agli insorti, questi cominciarono l'assalto. Riusciti a penetrare da un podere contiguo nella casa, uccisero il califfo che fino allora era stato tranquillamente in preghiera, senza prender parte alla battaglia. Ciò avvenne il venerdì 17 giugno 656.

Già durante l'assedio ALI, genero del profeta e allora indiscutibilmente il primo tra i Musulmani, aveva diretto il servizio divino e nominato anche un capo dei pellegrini. Il giorno stesso dell'assassinio di Othmân ricevette nella moschea, come califfo, l'omaggio del popolo. Ma Talcha e Subair, che finora in apparenza avevan lavorato per lui, se ne staccarono e gli attribuirono la colpa dell'assassinio, recandosi poi da Àïsha, alla Mecca.

La madre dei credenti nutriva da un pezzo odio contro Alì; saputo che aveva ricevuto l'omaggio, chiamò i fedeli a vendicare l'ucciso. Oltre agli Umayyadi, si schierarono con lei anche parecchia altra gente, solo perché ne dividevano l'antipatia contro Alì. Per consiglio di Ibn Amir, che era stato per molto tempo governatore di Bassra e che vi aveva ancora molte relazioni, decisero di recarsi in quella città. Quattro mesi dopo la morte di Othmân i congiunti, raccoltisi in accampamento sulla strada dell'Irâk, si misero in marcia, in numero di 600.
Giunti a Bassra, levarono di mezzo, a tradimento, il governatore, che non si era messo dalla loro parte, ma voleva aspettare gli ordini di Alì. Subito dopo la presa della città, Talcha e Subair vennero a questione su chi dovesse dirigere la preghiera; Àïsha per allora li calmò, affidando tale ufficio a suo nipote Abdallâh, figlio di Subair.

Ma nemmeno Alì poteva restare a Medina, sfornita di truppe. Nell'ottobre del 656 passò con un centinaio di uomini nell'Irâk, sperando di potersi appoggiare a Kufa. Vi si fece precedere da suo figlio Hassân: questi riuscì a guadagnare alla causa di suo padre gli uomini più validi della città. Alì rimase nel campo a Dhû Kâr, e di là, dopo che 12.000 Kufani ebbero preso contatto con lui, marciò contro Bassra. Dopo vane trattative con Talcha e Subair, si venne a battaglia. Quello fu mortalmente ferito; questi, spinto dai rimorsi, abbandonò il campo di battaglia e fu ucciso mentre fuggiva.
Ma la lotta ebbe sosta presso il cammello sopra al quale Àïsha, secondo l'antica usanza araba, incoraggiava i guerrieri.
Caduto il cammello, dal quale ebbe nome questa battaglia, la vittoria rimase ad Alì (6 dicembre 656). Àïsha si ritirò a vita privata; l'Irâk si sottomise ad Alì, che vi si trattenne, stabilendo la sua residenza a Kufa.

Così la direzione dello Stato passò dall'Arabia, e in specie da Medina, alle province, nelle quali già da un pezzo risiedeva la potenza materiale.
I compagni del profeta rimasti a Medina perdettero la loro influenza politica e si diedero allo studio della tradizione sacra. La città, che per un certo tempo aveva dominato l'Asia anteriore, si ridusse a sede di erudizione per i devoti, e di facili piaceri per l'aristocrazia mondana, che si vedeva soppiantata dai provinciali nella direzione dello Stato.
Alla Mecca un ricco privato fondò la prima sala da gioco e da lettura, nella quale gli ospiti avevano a loro disposizione scacchi e dama, nonché libri. A Medina, al-Achwass coltivava la poesia amorosa e il persiano Jûnus esprimeva i più raffinati sentimenti con nuove melodie. La città del profeta si acquistò presto la fama di ospitare non solo le migliori cantanti, ma anche le più arrendevoli.

Il dovere di vendicare l'uccisione di Othmân spettava al capo degli Umayyadi, a Muâwija ibn abî Sufjân, governatore della Siria. Prima però di adempiere a questo dovere, egli doveva assicurare la sua posizione, sempre minacciata dai Bizantini. A tale scopo gli occorreva soprattutto l'Egitto. Ed infatti gli riuscì a far prigioniero il governatore di laggiù, Alis. Prima però che potesse impadronirsi del paese, fu assalito da Alì, il quale doveva imporre con la forza in tutto l'impero il suo riconoscimento come califfo.

All'inizio dell'estate del 657 Alì mosse verso il nord-ovest, e Muâwija gli si fece incontro presso il confine della Siria, nella pianura di Siffin lungo l'Eufrate.
I Siri erano militarmente meglio disciplinati dei turbolenti abitanti dell'Irâk: ciononostante sotto il comando di Mâlik al-Ashtar, ardente partigiano di Alì, questi ebbero all'inizio il vantaggio. Allora i Siri legarono dei Corani in cima alle loro lance, per indicare che piuttosto che decidere con le armi, si appellavano alla parola di Dio. Quelli dell'Irâk si lasciarono prendere con tale astuzia e costrinsero Alì a sospendere la battaglia e ad aprire trattative con Muâwija: in seguito alle quali furono eletti due arbitri, Amribn al-Ass, già governatore di Egitto, per Muâwija, ed Abû Mussa per Alì: in base al Corano, dovevano essi sentenziare a chi spettasse la signoria.
Come sede del convegno, da tenersi nel mese di Ramadân, fu designata una località fra la Siria e l'Irâk.

Durante la ritirata gli Irâkesi si accorsero di esser stati giocati; ma invece di accusarne se stessi, per aver sospeso la battaglia rimproverarono Alì. Arrivato questi a Kufa, 12.000 uomini lo abbandonarono, accampandosi ad Harûrâ. Questi dissidenti, o Chârig'iti, rifiutavano l'arbitraggio, spettando la decisione soltanto a Dio. Però Alì riuscì ancora una volta a indurli a ritirarsi, guadagnandosi i loro capi mediante vantaggi personali. Ma quando videro che lui non li conduceva contro i Siri, come si aspettavano, lo abbandonarono di nuovo e nel marzo del 658 si elessero un califfo proprio.

Solo dopo tre mesi Alì poté volgersi contro di essi: nel luglio si venne a battaglia presso Nachrawân, dove i Chârig'iti furono completamente battuti.
Nel frattempo si era riunito il tribunale arbitrale. Non vi é tradizione sicura circa il luogo e il tempo, e nemmeno sappiamo bene come si svolgessero le discussioni. Pare che, per motivi sconosciuti, la data prima convenuta non fosse mantenuta e che solo nel 658 gli arbitri si riunissero ad Adhruch, nell'antico Edom.
Pare anche che il negoziatore di Alì proponesse che i due rivali si ritirassero e che, come era avvenuto dopo la morte di Omar, la elezione del nuovo califfo fosse rimessa a un comitato. Alì non poteva accettare tale proposta, né del resto poteva venir meno alla promessa di sottomettersi alla sentenza degli arbitri.

Muâwija riprese intanto la conquista dell'Egitto, dalla quale lo aveva distolto l'assalto di Alì. Il nuovo governatore gli si fece incontro mentre egli entrava con le truppe in Egitto, ma fu battuto (luglio 658). Amr finì di assoggettare del tutto il paese. Muâwija si garantì da un attacco dei Bizantini, stipulando nello stesso anno un armistizio coll'imperatore Costante, in compenso di un tributo annuo.

Nel maggio del 660 Muâwija raccolse a Gerusalemme l'omaggio del popolo, come califfo.

A quel punto Alì il suo rivale, si preparò ad una spedizione punitiva contro l'usurpatore. Ma non ebbe tempo di iniziare la lotta: il 24 gennaio del 661 fu assassinato nella moschea di Kufa. Era la vendetta di Nachrawân e una donna della tribù dei Katâm l'aveva imposta al suo sposo come prezzo della sua mano.

Il califfato tornava così agli Umayyadi
con la capitale a Damasco, senza interruzione regneranno
con 14 califfi fino all'anno 740
(gli Umayyadi di Spagna 756-1031 rivendicavano il titolo di califfi)


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