-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

25. L'ISLAM NELLA SPAGNA E IN AFRICA SETT.LE


Se in oriente l'impero intristiva a causa delle lotte incessanti per il trono, in occidente non è che le cose dopo circa oltre un secolo, andavano meglio. Anche in Spagna la potenza dell'Islâm aveva da tempo oltrepassato il punto culminante.

Nel paese lacerato, sotto gli Umayyadi, dalle rivalità delle tribù arabe e berbere, aveva trovato rifugio, nell'anno 755, Abu ar-Rahmân, nipote del decimo califfo umayyade Hishâm, fuggito dinanzi agli Abbâssidi nella famosa strage di tutti i maschi Umayyadi.

In quella strage c'era appunto uno scampato che riuscì sfuggire al massacro generale degli Omayyadi, ordinato dagli Abbasidi. Era ABU al-RAHMAN ibn Muawiya che attraversando a nuoto l'Eufrate con il fratello tredicenne, questi lo vide acciuffato nell'altra riva e sgozzato, mentre lui riusciva a salvarsi in mezzo ai canneti facendo finta di essere morto.
I suoi fedeli liberti BADR e SALIM in seguito lo raggiunsero in Palestina portandogli denaro e pietre preziose, e di lì passò in Africa dove avrebbe potuto vivere un'esistenza tranquilla rimanendo appartato. Ma “sogni ambiziosi popolavano senza tregua la mente di questo giovane di venti anni. Alto vigoroso e audace, aveva ricevuto una accurata istruzione e possedeva capacità fuori del comune. Il suo istinto gli diceva che era "chiamato a un destino glorioso"; e altre profezie dello zio Maslam, rafforzarono la sua convinzione che lui sarebbe stato il salvatore degli Omayyadi.
Si convinse che lui era destinato a ritornare a sedere su un trono. Ma dove poteva trovarne uno visto che ormai non c'erano possibilità né a Damasco e tanto meno a Bagdad? Rimanevano però la Spagna e l'Africa, che con Damasco e Baghdad non erano in ottimi rapporti.

"Vagando di tribù in tribù e di città in città - ci racconta Dozy uno storico del tempo - Abd al-Rahman passò da un capo all'altro dell' Africa". Per cinque anni non trovò la sua strada, ma giunto poi in Marocco, aveva visto i fermenti che da queste parti esistevano fra arabi e berberi, e fra arabi e arabi. Il governatore della vecchia dinastia dopo le notizie di Damasco si era rifiutato di riconoscere gli Abbasidi e già aspirava a un suo regno indipendente. Lo scampato alla strage qui non aveva quindi nulla da opporre né aveva i mezzi per farlo, visto che l'altro possedeva i reparti di Berberi che sarebbero scesi in campo, anche se questi erano su due posizioni come ben sappiamo; quelli sulla costa ormai sottomessi e agli ordini degli arabi, e quelli interni, molto più numerosi, decisi a rovesciare la dominazione araba sulla loro terra, ma anche pronti ad aiutare i Berberi in Spagna che, dopo le conquiste, avevano seguito la sorte delle popolazioni sottomesse senza ricevere la minima gratitudine dagli arabi.
Arabi che pure loro approfittando del crollo del califfato di Damasco, pur essendo in buona parte abbasidi, tentavano di farsi nella penisola iberica un proprio califfato indipendente, ignorando le pretese sia della Omayyadi messi in disparte sia dei sempre scontenti Berberi.
Abd al-Rahman si informò allora di questi scontenti in quella terra che era al di là dello stretto di Gibilterra. Vi mandò il suo fedele servo SALIM che in Spagna c'era già stato e la conosceva bene, e prese contatti con quelle fazioni di arabi Omayyadi a lui favorevoli e di tutti quei berberi che da anni cercavano di ottenere dagli arabi i pari diritti.

Lui era diventato intanto presso i Berberi africani una bandiera del riscatto. Abd al-Rahman era un principe arabo nato a Damasco da padre arabo, ma sua madre era una donna berbera che venti anni prima caduta come bottino in Marocco era stata inviata al califfo di Damasco. Essendo una bellissima oltre che intelligente fanciulla, non finì nell’harem del califfo, ma ne divenne la moglie, dandogli appunto come erede Abd al-Rahman.

Abd al-Rahman non poteva desiderare di meglio. Ai berberi non sembrò vero di poter contare su un figlio della loro terra, e a questi si unirono pure tutti gli arabi scontenti.
Altra opera di proselitismo lo fece l'altro suo liberto BADR in Marocco nelle file dei Berberi ribelli rifugiatisi all'interno. Questi come sappiamo, da anni per non essere stati compensati con le loro conquiste, contattati per dare un appoggio all'invasione, accettarono l'idea di una rivoluzione nella penisola iberica; finalmente nell'eventualità di una vittoria qualcuno prometteva loro pari trattamento e la democratica spartizione nelle cariche nello Stato e ovviamente di tanti altri privilegi.

A questo punto
dobbiamo tornare alcuni anni indietro
per narrare come gli Arabi erano giunti in Spagna.

Gli Arabi, dopo avere conquistato definitivamente l'intero territorio dell' Egitto, proseguirono verso l'esarcato di Cartagine, che a quanto pare non aveva ricevuto da Bisanzio né rinforzi a terra né una flotta navale per difendersi.
Costantinopoli (in casa con altro da pensare) con delle spedizioni fallimentari aveva inutilmente poi tentato di riprendersi Alessandria e l'Egitto, che non solo perse definitivamente, ma non fu nemmeno in grado di contrastare l'avanzata verso Cartagine, che poteva diventare per gli arabi una formidabile testa di ponte anche per uno sbarco nella vicina bizantina Sicilia o proseguire a occidente sulla costa fino in Marocco e minare la stessa Spagna.

Fu il generale Musa (dal 708) che iniziò una intelligente politica non aggressiva ma di pacificazione di tutta l'Africa Settentrionale.
Poi con il generale Uqbah; l'espansione islamica si spinse nella Tunisia meridionale. Gli Arabi la conquistano e vi fondano la nuova città di Kairouan. Nella stessa iniziano subito i lavori per la costruzione della famosa moschea omonima.
La città diventa subito una importante base araba per la conquista del Maghreb, dove per un certo periodo i Berberi contrasteranno con tenacia l'avanzata islamica. Più avanti però, finita la politica delle invasioni, iniziata quella degli insediamenti pacifici, gli stessi Berberi diventarono i preziosi alleati degli arabi per l'espansione pacifica dell'Islam sull'intera costa africana settentrionale. Ricevendo gli stessi capi delle tribù importanti cariche governative.
E saranno proprio i Berberi, in seguito, con un liberto del califfo, a fare una estemporanea spedizione-scorreria in Spagna, che invece diventerà una vera e propria conquista dell'intera penisola iberica.

Vediamo ora come avvenne questa invasione e soprattutto i motivi che spinsero a questa invasione.

IN SPAGNA in quegli anni la situazione era molto intricata per la successione del nuovo re, visto che quello insediatosi nel 701, WITIZA era morto lasciando a suo figlio ACHILA la successione. Costui nel prendere possesso della eredità paterna come sovrano, si trovò sulla strada un competitore, che voleva invece salire lui sul trono; era RODERIGO , che prima, sotto WITIZA era solo duca della Betica (Andalusia), ma nel suo "regno" si faceva già chiamare re di Spagna, e voleva diventarlo a tutti gli effetti e ad ogni costo e con ogni mezzo. In effetti era l'ultimo re visigoto, anche se era stato costretto a fare il duca.

Il goto con un suo piccolo personale esercito assediò il palazzo di ACHILA, che fu costretto a fuggire lontano; molto lontano per non essere ucciso; infatti attraversò lo stretto che divide la Spagna dall’Africa (che non si chiama ancora Gibilterra) e andò a rifugiarsi in Marocco nelle braccia degli Arabi e dei berberi islamizzati chiedendo loro aiuto.
Con lui c'era un personaggio che nella più antica storia dell'Islam ha sempre suscitato un grande interesse ed è entrato nella leggenda, ma di cui non si sa storicamente nulla. Forse perchè gli eventi successivi divennero così grandi che forse il vero protagonista passò in secondo piano.

Era costui un certo GIULIANO; di lui si racconta che vassallo di re Achila, e poi di RODERIGO (l’usurpatore che aveva cacciato Achila), aveva una figlia bellissima che era per lui il suo più grande tesoro, tanto la amava e tanto ne era orgoglioso. Si narra che in una festa dove Giuliano partecipava con la figlia, il suo arrogante "padrone" mise gli occhi concupiscenti addosso a quel fiore di fanciulla, ripromettendosi di conquistarla per il suo sollazzo.
Terminata la festa, e non avendo la fanciulla degnato di uno sguardo il sovrano, nella notte, il turbamento che gli aveva suscitato quella ragazza, lo portò ad esercitare quel diritto che lui pretendeva dai suoi sudditi: la fece rapire e se la fece portare nel suo letto. Ottenendo così con la violenza quello che non aveva potuto ottenere con l'intelligenza o la simpatia.

Il padre, umiliato e sconfitto in quel modo indegno, fuggì in Africa unendosi al fuggiasco spodestato Achila, con un solo e ormai unico scopo e desiderio, di vendicarsi di quel maiale di re, che aveva osato lordare sua figlia. Sbarcarono - come già detto - in Marocco presso gli arabi-berberi chiedendo loro aiuto. Uno per riprendersi il trono l'altro per vendicarsi.

Giuliano e Achila forniscono loro tutte le indicazioni della strada da seguire e, dove, come e quando trovare il "re di Spagna" RODERIGO, e una volta catturato la sorte che gli devono riservare.
Fu così che avvenne un evento epocale, e con una precisione di tempi e di spazi che non possiamo pensare che non ci sia in questa leggenda qualcosa di vero, e che anche se fosse una leggenda, troppi parlano da diverse angolazioni di questo personaggio, GIULIANO, che non può essere stato inventato dal nulla.
Quella usurpazione che abbiamo vista nei confronti di Achila, e questo episodio appena raccontato che ha il colore rosa romanzato, provocherà per l'intera Spagna uno sconvolgimento che avrà ripercussioni su tutta la sua storia fino a conseguenze che ancora oggi è difficile quantificare a riguardo della lingua, istituzioni, influssi sulla vita politica e sociale, tradizioni e stile di vita.

Non si potrà mai fare una simulazione che cosa sarebbe avvenuto se invece di fuggire in Marocco, quel re mancato fosse fuggito a chiedere aiuto in Francia, né cosa sarebbe accaduto se quel re libertino quella notte invece di agitarsi, si fosse tranquillamente addormentato. La sorte dell' Europa o di una parte di essa, forse sarebbe cambiata, se non per sempre almeno per un certo periodo.
La sostanza rimane che, gli arabi già forse intenzionati a sferrare prima o poi un attacco all'Europa, si trovarono sollecitati ad intervenire proprio da un sovrano europeo mancato e da un funzionario che conosceva i piani strategici del re; come non approfittarne !

L’emirato in Marocco, sollecitato ad intervenire in Spagna, indubbiamente forse fece alcune considerazioni. I pochi seguaci che poteva avere quel ragazzo (ACHILA, re di Spagna) detronizzato e cacciato dall'usurpatore RODERIGO, era pur sempre un re che aveva sul territorio un fazione dalla sua parte, e quindi voleva dire che mettendo lui in testa e lottando per la sua causa era come avere metà della popolazione e forse anche di più, dalla sua parte.
Insomma l’operazione spedizione-punitiva aveva una carta vincente, ed era un intervento che finalmente poteva portare Maometto anche in Spagna, o almeno fare una testa di ponte sul continente, per poi chissà, anche invadere in seguito la Francia, l'Italia fino alla Sicilia per unirla alla Cartagine islamizzata.
E perché no?, dall’Italia scendere poi nei Balcani per unirsi poi con i territori bizantini che stavano già per essere tutti Islamizzati.
Un progetto semplice, fattibile, abbastanza realistico. Infatti, ci mancò poco per essere realizzato.

Il progetto sopra - dicendo forse - lo abbiamo immaginato noi qui; mentre si afferma che l’emiro MUSA ibn NUSAIR già da qualche tempo in Marocco (e di cui era diventato Governatore quasi autonomo da Bagdad) non aveva questi progetti, che il desiderio di espansione non lo sfiorava minimamente, perché aggiungendo altri territori al suo “Emirato”, sarebbe stato poi difficile mantenere la situazione sotto controllo.
Inoltre attraversare lo stretto e inoltrarsi sul quel territorio non doveva essere così semplice. Ancora dai tempi di Genserico, dal 429, la strada era sbarrata ad ogni tipo di invasione e innanzitutto dalla grande "fortezza" naturale qual'era la rocca.
Tuttavia quel re detronizzato e fuggiasco e quel padre che voleva vendicarsi, entrambi sulla stessa persona, cioè l'usurpatore, furono accolti con simpatia dagli arabi e dall'Emiro stesso. E dietro loro insistenze fornirono alcuni uomini per la spedizione punitiva.

Ma dal Marocco non parte alla conquista dell'Europa un condottiero, un generale, un califfo: ma parte dalle sponde africane uno “schiavo” berbero con 7000 suoi amici quasi tutti Berberi.
L’Emiro MUSA in Marocco, rimase tranquillo, mandando questo manipolo di quasi schiavi, anche se poi dovrà in seguito muoversi anche lui e quasi con una certa apprensione e con un certo impaccio logistico e organizzativo. Perché i fatti che andiamo a narrare si susseguono uno dietro l'altro in un modo precipitoso; Musa del resto anche se lo avesse voluto, non poteva decidere un intervento alla grande, gli mancava perfino il tempo materiale di organizzarsi, mentre quel gruppo di berberi, più che altro per non averli inoperosi fra i piedi - lo aveva mandato avanti per fare qualche scorreria in Spagna e nulla più di tanto. Anzi pensò di non aggregare arabi per non avere lui alcuna responsabilità.

L' ex schiavo che guidava questi 7000 berberi, era TARIQ. Partito dal Marocco con i suoi uomini, sbarcò sulla penisola di quella lingua di terra montuosa che l'Europa protende verso l'Africa, e i suoi compagni visto quel monte, quella rocca spiovente nel Mediterraneo, porta d' entrata sull' Oceano, le famose nell'antichità, “Porte di Ercole”, lo battezzano con il nome del loro capo, chiamandolo "il monte di Tariq" che in arabo è appunto " Gebel tàriq" , e quindi in spagnolo "Gibaltar", in italiano Gibilterra.

Da Gibilterra Tariq con i suoi uomini entrò in Spagna; GIULIANO e ACHILA sono la sua guida, che in breve tempo lo portano a incontrare l'usurpatore del trono RODERIGO, e il violentatore della giovane bella fanciulla. Agganciato il re visigoto, la battaglia si svolse a luglio, nella valle dove scorre il Rio “Salado”, vicino a un paese che gli arabi chiameranno Medina, e purtroppo il conto che deve pagare quel re usurpatore e il suo seguito, sarà proprio “salato”; di lui e il suo esercito non si saprà mai più nulla, lo spazzarono via; una cronaca afferma che li uccisero tutti, poi li buttarono nel fiume, di loro in pochi giorni non esisteva più traccia, spariti nel nulla, scomparsi perfino i corpi.

Poi gli uomini di Tariq, proseguirono, conquistarono senza incontrare resistenza, Cadice, Siviglia, Egica, Cordova, Toledo, tutte città che non erano paesini, ma città molto popolate, attive nei commerci da secoli.
Le entrate di questo manipolo di uomini nelle città che conquistarono, sono celebrate con cortei trionfali senza pari, spiegabili col fatto che il governo dei goti-bizantini era da qualche tempo profondamente avversato dalla popolazione locale. Come in Italia nel territorio bizantino, anche qui i grossolani errori in campo politico e religioso avevano generato discordie fra le popolazioni e preparato in tal modo la strada all'invasione araba.

E chissà con quale liberazione li accolsero gli ebrei, che se erano stati -molti anni prima- a Medina e alla Mecca ostili alla religione islamica e subendo le persecuzioni che però loro stessi avevano provocato per la non accettazione di Maometto, ora erano proprio i seguaci del Profeta che li venivano a salvare da una condizione pessima, che gli arabi in breve tempo migliorarono, così come tutte le popolazioni conquistate, salvo quando queste si ribellavano al potere islamico che era costituito da leggi e istituzioni ben precise.
E fu proprio un paradosso, che gli Ebrei dovettero salutare gli arabi come liberatori da quei fanatici cristiani ortodossi che avevano intrapreso una guerra di sterminio nei loro confronti. Guidato da quel GIULIANO che lo seguiva come un' ombra (e anche qui la leggenda si è sbizzarrita ) TARIQ, lo schiavo, avanzava. La più ostile e più violenta battaglia fu a Egica, mentre Toledo e Cordova fecero qualche scaramuccia poi la stessa aristocrazia aprì le porte delle città e si unirono ai conquistatori. Alcuni ebrei diventarono degli ottimi funzionari e perfino ministri.

Non era ancora finita l'estate, e TARIQ era padrone di oltre metà della Spagna, e i suoi successi senza precedenti cominciarono a suscitare la gelosia di MUSA, il generale che era rimasto passivo in Africa, dal momento che quella spedizione non era stata progettata come una conquista sistematica della Spagna, ma soltanto con lo scopo di effettuare la solita scorribanda estiva, per far racimolare qualche bottino ai suoi disoccupati berberi. Tariq aveva invece distrutto il regno dei Goti, quasi conquistata l'intera Spagna. Desiderando anche per sè la fama, Musa nell'inverno inizia a mettere insieme un esercito di 18.000 uomini per iniziare anche lui in Spagna la sua campagna di conquiste.

Entrato in Spagna alla fine del 712, Musa va a raccogliere i frutti fatti maturare dal suo schiavo TARIQ. Varca la Sierra Morena si impadronisce dell'Estremadura dove riceve la collaborazione degli Ebrei che erano stati da anni sempre perseguitati sia dai Visigoti sia dai Bizantini. Evitando di ripetere il percorso del suo schiavo-condottiero, Musa occupò prima le città che ancora resistevano, di cui una lo tenne occupato per un mese, Merida, ma poi gli abitanti di questa città conosciute le promesse che faceva il generale, il 30 giugno si arresero. I patti che gli arabi avevano fatti furono però rispettati scrupolosamente.

Anche Siviglia si ribellò al primo attacco, ma poi anche questa città che era la sede del governo dai tempi dell'impero romano, aprì le porte a MUSA e l'arabo entrò in questa città che era la sede e il centro intellettuale della Spagna. Proseguendo arrivò anche lui a Toledo, dove lo aspettava ben sistemato il pacifico TARIQ. Con lui riuscì a sfogare la sua collera provocata dall'invidia che nutriva nei confronti di questo suo subalterno sfacciatamente baciato dalla fortuna. Un’invidia che aveva covato per quasi un anno e mezzo. Ma venne poi anche per lui il turno dei rimproveri. Questi gli giunsero dal Califfo WALID, che gli mandava a dire che doveva rientrare immediatamente a Damasco, e che nessuno gli aveva detto di fare quelle conquiste, nè lui e tanto meno Tariq che era pur sempre un suo subalterno.

Perché questo sia accaduto, possiamo rispondere solo attenendoci alle varie interpretazioni che ci sono state lasciate dagli storici occidentali di allora e poi tramandate, ma dato che queste versioni contrastano con quelle degli Arabi, possiamo benissimo delle prime avere molti dubbi.
(Tuttavia ci affidiamo agli Arabi in Spagna, di H. Schreiber e alla Storia dei popoli Arabi, di A. Hourani).

È certo che alcune ragioni di quel rimprovero e quindi divieto di fare conquiste in Spagna, le dobbiamo cercare all'interno della struttura politica Araba che da Damasco doveva essere ben diversa vista da un generale stanziato in Marocco (dove Musa era Emiro – cioè un governatore resosi quasi autonomo).
Da Damasco molto probabilmente avevano pensato che ogni movimento ha i sui limiti, e la migrazione araba anche sul continente non avrebbe permesso di mettere in campo un numero di uomini sufficienti a mantenere una occupazione permanente della Spagna, anche se in questa inviavano non eserciti arabi ma tutti i berberi possibili del Marocco.

Si sarebbe verificato in Spagna con la divisione dei vari territori, ciò che stava succedendo già fra i califfi nella stessa Arabia. Da Damasco vedevano lontano, perché in effetti queste divisioni si verificarono proprio anche fra Berberi e gli Arabi del Marocco. I movimenti in Spagna erano avvenuti in un momento favorevole, e le fortunate conquiste le poteva ugualmente fare chiunque si fosse avventurato sopra Gibilterra in questo periodo.

Del resto i Berberi prima e gli Arabi dopo, non sarebbero mai riusciti a conquistare la Spagna, e forse neppure a entrarci, senza le discordie interne che avevano preceduto il loro arrivo. Per la mancanza di disciplina e di unità che avevano i duchi, il clero e il re, la Spagna era in una situazione di alta vulnerabilità. I Re dei vari territori, oltre che farsi la guerra, emanavano editti contro le popolazioni in continuazione, creando perfino nei propri sudditi odio e desiderio di rivalsa ad ogni occasione. Operando così in queste continue lotte intestine si distruggevano reciprocamente con le proprie mani. E non essendoci una unione, tutti singolarmente erano estremamente vulnerabili.

Abbiamo visto che perfino gli ebrei arsi dall'odio, paradossalmente corsero ad aprire le porte ai loro più acerrimi nemici, agli arabi! accolti come fratelli! Quelli che atavicamente erano i peggiori nemici del popolo di Israele, accolsero in trionfo gli Islamici come fratelli liberatori.

Ma lo stesso errore fatto dai re, dai duchi, dal clero in Spagna, fra poco lo faranno però gli stessi Arabi. Partito MUSA per Damasco e lasciato sul posto suo figlio, ABD al AZIZ e lo schiavo-condottiero TARIQ, si scateneranno le rivalità, l'antagonismo fra Arabi e Berberi. Una lotta che sarà destinata ad essere fatale soprattutto per gli arabi dato che alcune discordie che erano già scoppiate in oriente (gli abbasidi stavano imponendosi sugli omayyadi) cominciarono a farsi sentire fino in Marocco, e quasi subito nella stessa Spagna. In tal modo si spezzò la compattezza dei nuovi conquistatori. Iniziarono cioè a farsi mancare l' unità necessaria per conservare quanto avevano conquistato.
Quando gli arabi saranno fermati con la Battaglia di Tours (o di Poitiers), cui diamo molto importanza e viene presentata come un evento determinante nella storia del mondo, affermando che quella battaglia segnò l'arresto degli arabi, gli Arabi erano già da anni in lotte interne e a Poitiers emerse proprio la non unità. A Poitiers vi era solo un piccolo gruppo di arabi, o forse berberi-arabi, dissidenti dagli altri, che stavano cercando pure loro di farsi un proprio dominio. Anzi in alcuni gruppi emerse la banalissima venalità.
Da libri marocchini oggi sappiamo, che i Berberi nella loro campagna in Spagna furono ripagati dagli arabi con il bottino più scadente, e che MUSA prima di partire per Damasco diede l'incarico di ricolmare le sue navi di tutti gli oggetti preziosi che lui, ma soprattutto Tariq suo subalterno, si erano procurate nelle razzie, e i denari che avevano richiesto alle città quando avevano patteggiato la resa.
Al British Museum di Londra c'è il papiro dell'arabo generale Musa quando lasciò la Spagna richiamato a Damasco dal Califfo, e ci ha tramandato diversi dati di questa carovana che si apprestava a far ritorno a Damasco; sappiamo che tutto il tesoro razziato andò al Califfo, e che lo stesso Musa poi cadde in disgrazia e non occupò più nessuna posizione di primo piano; mentre i suoi figli che aveva lasciato in Spagna a fare i governatori o furono deposti o furono uccisi. Ma non dai locali, ma dalle lotte intestine.

Se poi andiamo pure a vedere le carte dei Berberi, troviamo che un altro loro capo che aveva contribuito a raccogliere tutto quel tesoro, ma che fu ripagato con gli scarti, andò ad allacciare rapporti non solo amichevoli con un duca che fra poco farà bella figura contro gli arabi, ma dichiarerà la sua indipendenza dagli arabi e allaccerà anche rapporti familiari con i Franchi. E quel duca era ODDONE.
L'arresto degli arabi sui Pirenei fu puramente una delle tante battaglia che dovrebbe accennare solo la cronologia; solo incidentalmente gli Arabi furono fermati con la battaglia di Poitiers, poiché quello che poteva sembrare una rapporto causa effetto non era che una coincidenza. Lo abbiamo detto già prima; ogni movimento di conquista ha i suoi limiti, e in Spagna questo limite si era già verificato nelle stesse file arabe nel periodo della battaglia di Poitiers.

Abbiamo visto nella nascita dell'Islamismo come erano sorte all'improvviso le varie dinastie che iniziarono con il potere a moltiplicarsi e a combattersi non più come i loro nemici nel deserto per un cammello o una pianta di datteri come nell'assedio di Medina, ma vi erano in gioco ora regni interi, egiziani, persiani, bizantini, e non erano cose da poco, ma Città millenarie, con dentro immensi tesori accatastati da secoli.
La stessa cosa accadde nei Berberi, ma nell’arco di tempo ancora più breve; in venti anni, si erano già create dinastie che si combattevano l'un l'altra per prendersi città come Siviglia, Malaga, Cordova, Toledo, Siviglia, Salamanca, l'Andalusia e tante altre città.
In Marocco i berberi prima erano una unità, ma poi esaltati dai successi, si misero pure loro a dare inizio a lotte intestine. La prima fase fu quella di voler essere indipendenti dagli arabi, questi all’inizio, pur essendo i padroni degli orgogliosi berberi, non erano i conquistatori della Spagna. I berberi sapevano che gli arabi erano saliti sul loro carro vincente solo dopo, eppure si comportavano come conquistatori e padroni, così le contese iniziarono; e non avvennero solo fra i due antagonisti, ma c'era di mezzo il popolo locale che ora si schierava con questo ora con l'altro; ogni città diventava nemica o degli arabi o dei berberi in un modo alternato, e senza nessuna unità nazionale, sempre pronte -spesso per necessità- ad essere ora amiche ora nemiche.

Ed eccoci all'anno 745, quando giunge presso i berberi l'ultimo omayyade. A Damasco si pensò perfino di punirlo con gli arabi presenti in Marocco, ma ABU al-RAHMAN , accolse quelli che erano andati a punirlo come amici, e distribuì loro doni dieci volte di quanto prometteva a loro Damasco, rendendo inefficace ogni potere militare inviato dalla lontana capitale Araba.
In più disse ai generali, prendetevi l'esercito e rendetevi indipendenti da Damasco, che tanto qui altri eserciti non arriveranno mai, o se arriveranno, li accoglieremo come abbiamo accolto voi come amici. Qui c’è abbondanza per tutti. I bottini ce ne sono in tutte le città d'Europa, e anche se l' Europa non è grande come l' Asia, ha però più ricche città che non tutta l’Asia.

I Berberi avevano inoltre capito una cosa, che gli Arabi nel Marocco (che fra l’altro non erano poi molti) avevano perso oltre che le capacità anche la volontà di combattere, perché logorati dall’ozio e dal benessere, quando avevano tentato una secessione dagli islamici nel 741, costoro furono del tutto impotenti a reagire, da tempo si erano dati ai divertimenti con i ricchi bottini che giungevano dalla Spagna. Mangiavano, bevevano, si contornavano di cento concubine ciascuno, più nessuno era capace di montare su un cavallo per fare mille chilometri come facevano i loro non lontani avi. Il meno graduato dei soldati arabi aveva il suo harem di 10 donne e una tenda che solo pochi anni prima non aveva neppure il più grande commerciante de la Mecca.

Da Damasco –piuttosto allarmati- fu inviato un altro un poderoso esercito per ricreare disciplina, ordine, sudditanza al Califfo, ma fece la fine del primo, si sciolsero in Marocco, e ogni comandante di un reparto, accolti nelle tende dove c'erano ogni delizia del corpo e dello spirito, conquistati e desiderosi di emulare quelle ricchezze che tutti dicevano accumulate in pochi mesi, presero con ABU al-RAHMAN subito la via di Gibilterra a farsi in Spagna la loro personale conquista, aggiungendo confusione a confusione. Anarchia ad anarchia. Il più bravo dopo due tre colpi andati a segno creava subito la sua dinastia, i sui eredi, i suoi successori; tutti si sentivano re, e tutti credevano di poter fondare un loro regno per l'eternità.
Quasi simile fu l'altra grande avanzata saracena nell'Europa centrale, e più precisamente in Sicilia e nell' Italia meridionale in parte. Ma questa è un'altra storia di cui parleremo più avanti.

Dunque ABU al-RAHMAN giunto in Spagna, riuscì a riunire nuovamente le forze disperse dell'Islâm e ad allargare il proprio dominio combattendo contro i cristiani e non solo contro questi, perché per tutto il suo regno, durato 32 anni (756-788), dovette continuamente lottare contro ribelli della sua stessa stirpe; gli si sollevarono contro gli antichi emiri, da lui spodestati ed anche uno dei suoi parenti umayyadi, che aveva chiamato in Spagna, offrendogli non solo un asilo dalle persecuzioni degli Abbâssidi, ma anche ricchezze e potenza.

In queste lotte intervenne anche il potente fondatore del regno dei Franchi, Carlo Magno. Lo sceicco dell'Jemen, Sulaimân al-Arabi, governatore di Barcellona, si recò con alcuni parenti dall'emiro Jûssuf, che aveva regnato in Spagna prima dell'arrivo di Abd ar-Rachmân, nel 777 a Paderborn, dove Carlo Magno, vittorioso dei Sassoni, teneva una « festa di maggio ».
Egli promise loro di entrare in Spagna, dove il governatore di Barcellona avrebbe dovuto poi unirsi a lui, mentre i parenti di Jûssuf con la loro tribù dei Fichr si sarebbero sollevati, nella regione di sud-est, contro gli Umayyadi.
Ma la rivolta scoppiò troppo presto, e fu repressa dalle genti dell'Jemen. Quando i Franchi comparvero dinanzi a Saragozza, dove al-Arabi soggiornava, gli abitanti rifiutarono di obbedirgli.

Avuta notizia di una nuova sollevazione dei Sassoni, scoppiata inaspettatamente, Carlo Magno dovette andar via in fretta. Nella ritirata attraverso i Pirenei i Baschi inflissero alla sua retroguardia, condotta dal conte Ruotland (Rolando) della Bretagna, la celebre sconfitta di Roncisvalle.
Se i fondatori della dinastia avevano potuto facilmente sbarazzarsi dei cristiani loro nemici, altrettanto non poterono i loro successori. Coll'ascensione al trono delle Asturie di Alfonso II, lo spirito era mutato. Alleatosi coi Baschi e coi Franchi dell'Aquitania riuscì a ritogliere Barcellona al terzo degli Umayyadi, Hakam I, e in una scorreria verso il sud ad occupare per breve tempo la stessa Lisbona.
Anche nell'interno del regno Hakam dovette lottare senza posa per mantenere la propria autorità, non solo contro l'ostilità di parenti, ma anche, nella stessa Cordova, contro la folla aizzatagli da fanatici dottori della legge (Fakîh), che gli facevano rimprovero dell'opulento tenore di vita, inosservante, come già ne' suoi antenati siriaci, delle minuzie formalistiche della dottrina.
Si aggiunga l'aspirazione alla libertà dei cristiani sottomessi, che alleatisi in Toledo con i neofili spagnuoli avevano costituito un'amministrazione civica indipendente e che solo nell'807, morto il loro capo, si piegarono dinanzi ai procedimenti energici e sommari del governatore nominato dal califfo.

Dopo la pericolosa sommossa dell'814, Hakam domò gli spiriti ribelli della sua capitale, facendo demolire tutti quanti i sobborghi a sud, i cui abitanti, aizzati dal clero, erano insorti, e cacciando in esilio i ribelli, in numero di circa 60.000.
Sotto il suo debole successore Abd ar-Rachmân II, Toledo ritornò per lungo tempo pressochè indipendente dal governo centrale; mentre fra i cristiani di Cordova, che in generale si erano finora adattati alla tollerante signoria dei musulmani, subendo persino la forte influenza della loro elevata cultura intellettuale, alcuni fanatici, come il prete Eulogio, attizzavano l'ardore della fede tanto che molti cristiani cercarono la palma del martirio.

Invano un concilio convocato dall'arcivescovo Reccafredo condannò quel temerario disprezzo della morte; l'influenza del basso clero continuò a dare imbarazzi al governo. L'emiro Muhammed, successo a Abd ar-Rachmân, e tutto imbevuto del fanatismo dei Fakih, alimentò ancor più, durante il suo lungo governo (852-886), la discordia fra le due classi della popolazione, facendo pagare anche ai cristiani disposti alla conciliazione le colpe dei loro fanatici compagni di fede.
Accorgendosi che erano necessarie economie per risollevare le finanze indebolite dalla prodigalità di suo padre, Muhammed trascurò la difesa militare, trovandosi poi spesso in serie difficoltà nelle lotte con l'Asturia e Navarra. Nell'Aragona si proclamarono indipendenti il rinnegato Mûssâ e i suoi figli, e a Badajoz un altro rinnegato, Ibn Merwân, alleatosi con Alfonso III di Asturia, si sollevò contro l'emiro (875).

Nel settentrione il contrasto fra il sentimento nazionale spagnolo e la dominazione straniera degli Arabi aveva così tanto offuscato il dissidio religioso fra cristianesimo e Islâm, che Ibn Merwân poté pensare a introdurre per i suoi una nuova fede, mista un po' dell'una e dell'altra.
I successi degli Spagnoli a settentrione eccitarono le popolazioni meridionali, finora rimaste tranquille. Nell'884, nella regione montuosa di Serrania, il rinnegato Omar ibn Hafssûn insorse contro la signoria degli Umayyadi e riuscì a sostenersi per anni contro Mundhir, successore di Muhammed, che aveva combattuto contro di lui già da principe ereditario.
Dopo due soli anni di regno, costui fu avvelenato dal fratelk Abdallâh (888-912), il quale concluse subito la pace col ribelle.

Sotto questo principe altrettanto astuto quanto vile, il paese si sfasciò in piccoli Stati, restando il suo potere in sostanza ristretto a Cordova e Algeciras. A Merida si erano impadroniti del governo i Berberi, a Siviglia gli Arabi dell'Jemen; tutte le altre città erano in mano di condottieri rinnegati. Solo quando Omar ibn Hafssûn, appoggiato dai cristiani di Cordova, che avevano occupato una fortezza davanti alla città e chiamato in aiuto, venne a minacciare l'emiro nella sua stessa capitale, egli si decise finalmente ad una seria resistenza, riuscendo nella battaglia di Polei (991) a spezzare per qualche tempo la potenza del rinnegato.
Ibn Hafssûn rese ancor peggiore la sua situazione col ritornare in grembo al cristianesimo: ché così perse la stima de' suoi sudditi, per la maggior parte islamiti convinti, senza che i suoi nuovi compagni di fede potessero prestargli aiuto.

La morte di Abdallâh (912) liberò l'emirato di Cordova da così profondo avvilimento. Suo nipote Abd er-Rachmân, figlio del fratello da lui assassinato, si mostrò deciso, non appena salito al trono, a ristabilire la potenza dei suoi predecessori. Procedendo con energia e mitezza riuscì in breve tempo a riassoggettare le province di Jaen e di Elvira. Però Ibn Hafssûn si mantenne indipendente, fino al giorno della sua morte (917), nel suo nido fra le rupi della Serrania.
Ma già l'anno dopo uno dei suoi figliuoli, Sulaimân, dovette rinunciare alla lotta; suo fratello G'afar cercò di salvarsi riabbracciando l'Islâm, ma fu ucciso dai suoi stessi ex seguaci cristiani. L'ultimo de' suoi figli, Hafss, resistette fino al 928 in Bobastro, la fortezza principale della Serrania ; poi dovette capitolare. Gli altri castelli, che si erano già quasi tutti arresi, furono spianati al suolo; i notabili del paese furono trasportati a Cordova. Nel 930 rimaneva indipendente la sola Toledo; ed anche questa città-repubblica, dopo 80 anni di regime di libertà, dovette sottomettersi all'emiro dopo un assedio di due anni.

Giunto al sommo della potenza, Abd ar-Rachmân assunse nel 929 il titolo di califfo e di sovrano dei credenti, e il nome regale di an-Nâscir, «il salvatore», per ovviare alle pretese tanto degli Abbâssidi quanto dei Fâtimidi di Egitto di essere riconosciuti come sovrani spirituali. Al pari degli Abbâssidi, volle assicurare la sua posizione mediante una milizia straniera di schiavi assoldati.

Ai Turchi in Oriente, corrispondevano qua in Occidente i Sakâliba o Slavi, sotto il cui nome erano compresi i prigionieri dei più' vari paesi europei. Credendo egli di potersi fidare più di costoro che degli Arabi, finì per mettere talvolta qualcuno dei loro ufficiali a capo del proprio esercito. Al loro malcontento diedero sfogo gli Arabi nel 939: trovandosi il califfo in guerra contro Ramiro, re di Leon, nella battaglia di Simancas rimasero così passivi, da fare infliggere al loro sovrano la sconfitta più grave che mai gli fosse toccata.
Ma sul finire del suo regno egli ridusse all'obbedienza anche gli avversari più pericolosi. Sancho di Leon e Tota di Navarra furono costretti a chiedergli pace, e aiuto contro nemici interni.

Sotto il suo governo fiorì nella pacifica Andalusia quella cultura che eccitò l'ammirazione dell'Europa medioevale. L'agricoltura e il giardinaggio, l'industria e il commercio prosperavano a gara. Si calcola che sotto di lui le tasse e i dazi rendessero annualmente 6.245.000 dinar. Si dice che il califfo assegnasse un terzo di tale somma al suo tesoro, un terzo alle spese correnti dello Stato, un terzo alla costruzione di edifici. Fu certamente uno dei più splendidi re-costruttori che la storia dell'Islâm ricordi.

Abbiamo già visto che l'archittetura dell'Islâm deve i suoi primi impulsi all'antica cultura orientale, indigena nella Mesopotamia e Persia. Sotto gli Umayyadi della Siria anche maestri bizantini avevano lavorato a costruzioni islamiche. Il primo e più importante compito degli architetti musulmani fu la costruzione di moschee. Agli edifici antichissimi, che forse avevano ancora una qualche rassomiglianza con la moschea del profeta a Medina, subentrano presto costruzioni più cospicue, la cui pianta si ripete quasi dappertutto. Dalla porta principale, per lo più aperta nell'asse longitudinale dell'edificio, si entra nel cortile rettangolare (Sachn), circondato da tre parti da colonnati ad una o più navate. Nel centro si trova il midâ, fontana ad acqua corrente per le abluzioni rituali. Davanti alla porta principale sorge la moschea vera e propria, formata per lo più di diverse navate.

Nella direzione della Mecca, o Kibla, nel muro che chiude l'asse longitudinale viene lasciato vuoto uno spazio per la nicchia della preghiera, o Michrâb. Qui sta l'Imâm, quando dirige la preghiera dei credenti. Davanti alla nicchia sorge per lo più una cupola, un'altra corona talvolta la navata centrale.
I più antichi e venerandi monumenti dell'architettura islamica sono la moschea di Amr ibn al-Ass al Cairo, la moschea degli Umayyadi a Damasco e la moschea di Cordova.

II fondatore della dinastia umayyade cominciò a costruirla nel 785-86, sul posto della cattedrale, l'unica chiesa rimasta fin allora in possesso dei cristiani, Le fondamenta dell'edificio furono compiute in dodici mesi; tanta era la fretta con cui si lavorava che nel prendere le colonne da altre chiese, per lo più già in rovina, non si faceva molta attenzione a che i capitelli combinassero con le colonne.

Ma nel corso del X secolo si svolse presso i Musulmani una scultura indipendente, all'inizio modellata sulla bizantina, ma via via sempre più dominata da ideali artistici suoi propri. Tutti gli emiri che vennero in seguito contribuirono al compimento della moschea. Il minareto fu innalzato da Hishâm, figlio di Abd ar-Rachmân. Muhammed I ridusse, mediante una balaustra, la Maksûra a loggia di corte; Abdallâh, di carattere sospettoso e quindi intento ad evitare ogni contatto con la folla, congiunse quella loggia col palazzo mediante un passaggio coperto.
Il primo califfo Abd ar-Rachmân eresse un nuovo e splendido minareto al posto del vecchio. Il suo successore Hakam II ampliò di 100 metri a sud le undici navate maggiori e costruì un nuovo Michrâb, la cappella Zancarron tuttora conservata ed eretta, secondo un'epigrafe, nel 954, nonché una nuova Maksûra. Il reggente Almanssûr, infine, aggiunse alle undici navate maggiori altre otto.
Un'alta muraglia coronata di merli circondava tutto l'edificio, svolgentesi in un rettangolo da nord a sud. Venti porte rivestite di bronco battuto mettevano, attraverso quella muraglia, nell'interno.
Sul lato nord sorgeva il minareto di Abd ar-Rachmân, coronato da due melograne d'oro e una d'argento. Accanto a questo, l'ingresso principale metteva nell'atrio. Dirimpetto, sul lato sud, s'innalzavano le navate maggiori del tempio, aperte verso l'atrio. Più di 1400 colonne reggevano il soffitto di pino africano, riccamente dipinto e intagliato. Le pareti erano rivestite di marmo: e in alto, eran praticate finestre, dalle quali prendeva luce il tempio. Le singole colonne eran congiunte da archi a ferro di cavallo, sui quali un altro arco tondo sorgeva via via dai pilastri. Tre belle porte conducevano alla maksûra, contenente 119 colonne disposte a ovest ad est e 22 da nord a sud. Nella sua parete meridionale si apriva il Michrâb, formato da tre nicchie contigue con archi dentati a ferro di cavallo, ornati di mosaici in pietra e vetro variopinti e dorati, con sentenze del Corano, arabeschi e festoni. Sulla nicchia di mezzo si ergeva una grande cupola di marmo bianco, con un ampio lampadario.
Il Michrâb principale era formato da una nicchia ottagonale, terminante in alto con una gigantesca conchiglia marmorea (dalla descrizione oculare dello Schack). A destra del Michrâb era posto il pulpito di legno intagliato, Mimbar. La decorazione abbondava soprattutto nella più larga navata centrale e vi concorrevano persino delle rappresentazioni figurate.

Su due colonne rosse erano dipinte le leggende dei sette dormienti di Efeso e del corvo di Noé. Nella proibizione delle immagini, nel fiorire della cultura islamica, non veniva più presa tanto alla lettera, non più che si facesse riguardo al vino. Così i califfi umayyadi Muâwyya e Abdelmelik erano riprodotti in figura intera sulle monete; e il tûlûnide Chumârawaih teneva nel suo palazzo del Cairo statue in legno raffiguranti lui stesso, le sue mogli, alcune danzatrici. Nella tappezzeria gli ornamenti figurati erano comunissimi; i Fâtimidi possedevano tappeti con ritratti di sovrani e di uomini celebri.

Compito della pittura era soprattutto l'illustrazione di manoscritti: però sappiamo che esistevano anche quadri ed affreschi: un califfo fâtimida fece ornare una villa con i ritratti di poeti. Nei lavori in metalli, finalmente, uno dei più bei fiori dell'arte islamica, le figurazioni di animali furono sempre impiegate senza alcun scrupolo.
Durante il regno di Abd ar-Rachman l'architettura ne abbellì la capitale anche con magnifici edifici profani, a noi noti solo dalle descrizioni degli storici. Cospicuo soprattutto il sobborgo di as Sachrâ, così detto dal nome di una schiava favorita. Iniziata la costruzione nel 936 alle falde del monte Arûss, circa tre miglia arabe a nord di Cordova, tenne occupati per 25 anni 10.000 operai. La città era divisa in tre terrazze sul declivio del monte: al disotto i giardini, nel mezzo le abitazioni dei funzionari di corte, in alto il palazzo del califfo. La sala principale tutta di marmo variopinto e d'oro, ornata nel mezzo da una perla offerta dall'imperatore bizantino Leone.

Le otto porte posavano su pilastri di marmo variopinto e cristallo, con archi di ebano ed avorio, dorati e tempestati di gemme. Nel talamo del califfo si trovava una vasca ornata con dodici figure di animali in oro brunito. Il castello si estendeva per 2700 metri da est ad ovest, per 1500 da nord a sud; le 1500 porte ornate di ferro dorato e di borchie in rame e le 4300 colonne importate parte dall'Africa, parte dalle terre dei Franchi.
Ma i successori di Abd ar-Rachmân non seppero conservare questo grandioso e mirabile edificio: nella seconda metà dell'XI secolo ne restavano solo singole parti, ed oggi alcuni rottami nella cosiddetta Cordova vecchia, un miglio da Cordova sul pendio della Sierra, indicano il luogo dove sorgeva.

Di pari passo alla cultura materiale procedette in Andalusia quella intellettuale. La poesia, del cui sviluppo in Spagna siamo bene informati solo al periodo della decadenza, accompagnò certamente, secondo le antiche tradizioni e come era avvenuto nella Siria, con panegirici e satire le lotte delle tribù. La poesia laudativa fiori naturalmente più di ogni altra alla corte degli Umayyadi : ispirata dall'arte contemporanea di Bagdâd, celebrava quei sovrani con ricchezza di iperboli e di adulazioni grottesche.
Ma come in Oriente i Persiani avevano ravvivato le vecchie forme della poesia beduina, così qui agì su di essa lo spirito spagnolo; possiamo consentire con A. Muller attribuendo all'influenza del pensiero indogermanico la particolare delicatezza e profondità del sentimento, la quasi moderna sensibilità per le bellezze della natura e l'arte di renderle in modo perspicuo e grazioso.

Fra le scienze, la filologia e la teologia furono ben presto coltivate con ardore anche in Spagna. L'armeno al-Kâli, educato a. Bagdâd, introdusse nel 942 lo studio della linguistica. Nella teologia gli Spagnoli seguirono la scuola rigidamente tradizionale di Mâlik, messa in voga soprattutto per merito del berbero Fakih Jachja, alla corte di Hi shâm I.
La storiografia, qui come dovunque nell'Oriente islamico coltivata con molto ardore, serviva quasi esclusivamente alla corte, quindi con perpetuo danno della imparzialità.
Nelle scienze naturali si tentò di rendersi in parte indipendenti dalla tradizione orientale. Abd ar-Rachmân III fece apprestare una nuova traduzione della «Materia medica» di Dioscoride, dall'originale greco speditogli da Costantinopoli.

Suo figlio Hakam II, zelante amico delle scienze, raccolse una biblioteca che si dice contenesse 400.000 volumi, mantenendo in tutto l'Oriente degli agenti per completarla. A lui si deve anche la fondazione di 27 scuole, a Cordova, dove s'impartiva insegnamento gratuito ai figli degli sprovvisti di mezzi.
Nei quindici anni del suo regno (961-976) Hakam II seppe rafforzare all'interno
l'eredità di suo padre, ed anche difenderla dalle pretese dei cristiani. Negli ultimi anni, paralizzato da un colpo di apoplessia, dovette affidare quasi tutte le cure del governo al suo primo vizir G'afar al-Musschafî, uomo non molto capace. Quando egli mori, l'unico figlio rimastogli, Hishâm, aveva solo dieci anni. Sua madre, la basca Aurora-Sobch, ne assunse la tutela insieme al ministro delle finanze Ibn abi Àmir, divenuto presto suo amante. Questi cercò, per conservarsi il potere, di rendere innocuo il piccolo principe esaltandone la mente con una educazione bigotta. Vinta l'opposizione di suo suocero, il vecchio generale Ghâlib, Ibn abi Amir assunse il nome onorifico di al-Manssûr, in segno della dignità quasi sovrana di reggente, da lui arrogatasi.

Riuscì a sedare, con mano ferrea, le rivolte dei musulmani: riportò splendide vittorie sui cristiani e ristabilì l'influenza della Spagna sul Marocco, sconfiggendo e facendo decapitare un Idrisside, che aveva tentato di fondare una dinastia a Fez (985). Essendosi la madre del califfo guastata con lui, seppe inimicarsi il califfo stesso in modo da ottenerne sempre l'approvazione per ogni suo atto.
Morto al-Manssûr il 10 agosto 1002, di ritorno dalla sua cinquantaduesima spedizione contro i cristiani, suo figlio Abdelmelik poté conservare la reggenza per altri sette anni. Ma il figlio di lui, Abd ar-Rachmân, commise l'imprudenza di volersi assicurare, mediante un decreto di Hishâm, la successione al trono nel caso di morte del califfo. Avendo egli lasciato la capitale per una spedizione contro i cristiani, scoppiò alle sue spalle una rivolta.
Il califfo Hishâm fu costretto a rinunziare al trono in favore del cugino Muhammed II, che assunse il nome, di Machdi. L'Amiride, tornato subito indietro, fu abbandonato dai soldati e ucciso dinanzi alle porte della città. Ma il nuovo califfo non era in grado di assicurarsi il potere.

Scoppiò una rivolta; si combatté con alterna vicenda, dieci califfi, un dopo l'altro, salirono al trono e furono detronizzati, finché i capi della città, imprigionato l'ultimo di essi, Hishâm III, diedero alla città la forma di repubblica aristocratica, come già a Toledo, assumendone il governo.

La Spagna musulmana fu allora preda dello sminuzzamento in piccoli stati: del governo delle singole città s'impadronirono nel sud in prevalenza i Berberi, nell'est gli Slavi. Soltanto la discordia dei cristiani fece sì che con questi piccoli principati l'Islâm potesse ancora mantenersi nella penisola.
Di queste piccole dinastie solo gli Abided di Siviglia meritano breve considerazione. In questa città, caduto il califfato, si era costituito, come a Cordova, un governo di patrizi. Ma nella lotta contro il Hammûdide al-Kâssim di Malaga, il giudice Muhammed della casa di Abbâd riuscì ad assicurarsi la direzione degli affari e, benché continuasse a portare il solo titolo di Kâdi (giudice), a trasmettere il potere ai suoi discendenti.
Egli stesso ridusse sotto di sé vari dei piccoli principati limitrofi; ed il figlio Abbâd, succedutogli nel 1042, continuò con successo tale politica. Suo padre aveva creduto di dover legittimare la propria signoria mediante il riconoscimento da parte di un preteso umayyade Hishâm ; egli invece si sentì abbastanza forte da esigere l'omaggio, morto il padre, sotto il nome di Mutadid.

Sbarazzatosi con implacabile crudeltà di tutti gli' avversari, Abbâd allontanò dal proprio regno, mediante abili trattative, il re di Castiglia e Leon Ferdinando I, che aveva ripreso energicamente la lotta contro i musulmani.

Questa età di bassezza politica diede però frutti ancora abbondanti nel campo della cultura intellettuale. Le tradizioni della poesia artistica furori mantenute da poeti come Ibn Abdico e Ibn Saidûn; e nella prima metà del XII secolo Ibn Kusmân introdusse nella letteratura nuove forme tratte dal tesoro della poesia popolare, col loro colorito dialettale.
La storiografia, le scienze naturali, la filosofia erano pur fiorentissime. Il chirurgo Abul-Kâssim e lo studioso di Aristotele Ibn Bâdg'a erano tenuti come autorità anche nell'occidente cristiano. Un peculiare fenomeno di questo periodo é offerto dalla vivace partecipazione degli Ebrei al movimento intellettuale: che come nella politica, vi si erano già distinti sotto gli Umayyadi. Abd ar-Rachmân III aveva nominato ministro delle finanze il suo medico ebreo Kisdai ben Shaprût. Samuele ha-Levi tenne per quarant'anni l'ufficio di vizir presso l'emiro di Granada e i suoi compagni di fede gli affidarono la direzione di tutti i loro affari, onorandolo col titolo principesco di Nagid.
Egli aspirò anche all'alloro di poeta, attribuito, certo a miglior titolo, al suo amico Salomone ibn Gabirol, studioso di filosofia.

Nel nord-ovest dell'Africa, i cui vari piccoli stati avevano subito l'influenza parte della Spagna parte dell'Algeria, si andava intanto preparando un movimento che per lungo tempo dominò tutto l'occidente islamico. La popolazione berbera del Saharâ si era fîn dal IX secolo convertita all' Islâm, ma il livello della loro cultura religiosa era ancora assai basso. La costituzione politica dell'Islâm ufficiale non si confaceva allo spirito democratico dei Berberi. Fin quasi dall'inizio troviamo nel suolo africano movimenti sediziosi, che la storiografia islamica fa per lo più dipendere dai Chârig'iti, ma che non possono certamente esser stato altro che la reazione dello spirito popolare berbero contro il dominio loro imposto dell'Islâm.

In questioni religiose i Berberi stavano ancor più tenacemente attaccati alle ataviche tradizioni nazionali. Del resto è anche vero che l'Islâm non si é mai potuto interamente sottrarre all'influenza delle antiche religioni, da esso soppiantate.
In Persia lo spirito iranico vi segnò la sua particolare impronta con lo Shiitismo. Perfino in Egitto e in Siria, dove il cristianesimo aveva preparato il terreno all'Islâm, sopravvivevano avanzi di credenze popolari pagani nel culto dei santi e in varie festività. Nell'Africa settentrionale si trovano anche oggi tribù che professano l'Islâm solo di nome, ma in realtà sono rimasti legati ai costumi ed alla fede dei loro padri. Nella sétta dei Baragwata, venuta fuori nel primo quarto del secondo secolo dell'egira, troviamo ancora, in luogo di Allâh, il dio moresco Bacach, noto dalle iscrizioni latine dell'Africa settentrionale (Goldziher).
Ogni predicatore che si appellasse ai sentimenti nazionali dei Berberi e li invitasse alla resistenza contro i dominatori, poteva contare su uditori numerosi e ben disposti.

Circa nel 1036 un capo della tribù dei Lemtûna, i cui attendamenti giungevano a sud fino al Senegal, avendo compiuto il pellegrinaggio della Mecca, si convinse che la fede dei suoi compaesani aveva bisogno di riforme. Nel viaggio di ritorno riuscì a persuadere il dotto teologo di Sig'ilmâssa, Abdallâh ibn Jâssin al-Guzûli, a seguirlo, per essere presso i suoi maestro della vera fede. Non avendo incontrato all'inizio molta simpatia, si ritirò con alcuni fidi seguaci in un'isola del Senegal e vi fondò un Ribât, cioé un posto avanzato per la lotta contro gli infedeli e nello stesso tempo un eremitaggio per esercizi di devozione.
Le sue tendenze riformatrici eran volte non solo contro gli abusi nella vita privata, ma anche e soprattutto contro quelli nello Stato, per esempio contro le tasse eccessive. In dieci anni il numero dei suoi seguaci era già tanto cresciuto, che egli poté condurli a combattere contro i principi sul confine settentrionale del deserto.
Ibn Jâssîn affidò il comando militare dei suoi Murâbitûn, gli Almoravidi degli Spagnoli, al capo Jachja; morto questi (1056), ad Abû Bekr ed a suo nipote Jûssuf ibn Tâshefîn; si fece valere molto, presso ambedue, la moglie di Abû Bekr, Sainab. Caduto, di lì a poco, Ibn Jâssin in battaglia, il governo fu assunto da quei capi. Minacciandosi rivolte nel sud, essi si separarono; Abû Bekr tornò nel Saharâ; suo nipote, cui egli aveva ceduto la moglie, continuò le conquiste nel nord

Nel 1062 si costruì una nuova residenza a Marocco, nel 1070 prese Fez, nel 1078 Tangeri, nel 1081-82 estese il suo dominio fin nella regione di Algeri. Avendo Abû Bekr ancora una volta tentato di far valere la sua autorità pure nel nord, Ibn Tâshefin lo rimandò senz'altro nel Saharâ, dove mori nel 1087, restando suo nipote unico sovrano degli Almoravidi dalle coste settentrionali dell'Africa fino al Senegal.

Lo stato vassallo dei Fâtimidi nell'Africa settentrionale era già stato indebolito dalla scissione tra Sairidi e Hammâdidi e privato dai cristiani dei suoi ricchi possedimenti nelle isole del Mediterraneo; l'invasione delle tribù beduine Hilâl e Sulaim (circa il 1050), aizzate contro l'occidente dal vizir del fâtimide Mustanssir, lo portò sull'orlo della rovina. La civiltà, pur qui una volta in pieno sviluppo, fu del tutto rovinata dagli invasori, che agevolarono i successi degli Almoravidi.

Nel frattempo in Spagna il forte Alfonso VI re di Castiglia e Leon, aveva energicamente sfruttato le debolezze dei piccoli stati islamici. Tutti gli si erano resi tributari; e quando l'àbbâdide Mutamid di Siviglia (1082) osò punire con la morte la sfacciataggine di un esattore ebreo, i suoi possedimenti furono devastati dai cristiani, fino alla strada di Gibilterra. Nel 1085 Alfonso costrinse l'incapace signore di Toledo a cedergli quell'antica e potente città dei Goti, in cambio di Valenza.
In tale situazione critica Mutàmid ricorse agli Almoravidi. Nel 1082 Jûssuf aveva dovuto rifiutargli l'aiuto già allora chiesto, essendo ancora occupato nell'assedio della città di Ceutà, tenuta dal hàmmâdide Sakot. Nel 1084 l'aveva espugnata; sicché quando, fu occupata Toledo dai cristiani, egli lo richiese di nuovo e urgentemente di aiuto, questi si trovò pronto. In compenso chiese solo Algeciràs e promise di lasciare ai piccoli principati spagnoli tutto il loro possesso.

Nel 1086 trasportò l'esercito degli Almoravidi in Spagna e si spinse subito a nord, dove Alfonso assediava Saragozza. Il 23 ottobre si venne a battaglia presso Sallâka, terminata con una disastrosa sconfitta dei cristiani. Ma essendo morto ad Jûssuf il figlio, poco dopo che egli lo aveva lasciato come suo luogotenente in Africa, dovette ritornare laggiù; cosicché Alfonso ebbe tempo di riprendersi dal colpo. Accingendosi poco dopo ad assalire la fortezza di Aledío, Motamid invitò per la seconda volta Jûssuf (1090).
Questa volta però si accontentò di costringere i cristiani a ritirarsi da Aledo, quindi si volse contro i piccoli principati musulmani; fece dichiarare dal clero indegni del trono gli emiri di Malaga e di Granada: il più famoso teologo del suo tempo, al Ghazâli, ne sanzionò in un parere legale la destituzione.
Quindi affidò al suo generale Sair ibn Abi Bekr l'incarico di sottomettere il resto del paese e tornò in Africa. Motamid morì nel 1095 nella prigione di Aghmât presso Marocco.
Morto Jûssuf nel 1106, ebbero del tutto il sopravvento i suoi consiglieri spirituali, alla cui influenza egli nei primi tempi del suo dominio si era sottoposto; mentre Ali, suo figlio e successore, era tutto occupato da interessi religiosi.

I Berberi, molto presto snervati dai piaceri, fino allora inconsueti, della civiltà spagnola, non poterono opporsi all'avanzata dei cristiani. Nel 1118 Alfonso I di Aragona espugnò Saragozza, la tanto contesa sentinella al confine settentrionale dell'Islam.
Ma le tribù beduine ricominciavano ad agitarsi; da controversie teologiche nasceva un avversario pericolosissimo per la signoria degli Almoravidi. La legislazione di Mâlik aveva resa dominante in tutto il Maghrib, in questione dogmatiche, quella rigidissima ortodossia, che prendeva rigorosamente alla lettera tutti gli antropomorfismi del Corano.
Anche la dottrina nazionalista dei Mutasiliti si era sottomessa, come vedemmo, a tale ortodossia, pur nel centro della cultura islamica, nonostante la protezione per un certo tempo accordatale dal governo.
Sul principio del X secolo, Abu 'l-Hassan ali al-Ash'ari di Bagdâd (morto nel 935), seguace, fino al quarantesimo anno della sua vita, delle dottrine mutasilitiche e poi convertitosi alla ortodossia, si era dato a modificarla in senso dialettico e su basi scientifiche. Lunghe lotte dovettero sostenere i suoi alunni, prima che le sue dottrine fossero accolte. Già nei primi anni del regno di Alp Arsslân erano state maledette dal pulpito, come eretiche. Ma il gran vizir dei Selg'ûkidi, Nizâm al-Mulk, le prese a cuore. Egli chiamò nelle scuole superiori da lui fondate a Bagdâd gli ashariti al-G'uwaini, Imâm al-Haramain ed al-Kashairi; nonostante l'opposizione dei reazionari Hanbaliti, talora sfogantesi in dimostrazioni di piazza, la dottrina di Ash'arî finì per imporsi.

Circa il 1107 il berbero Muhammed ibn Tûmart della tribù dei Massmûda di Sûss, a sud-ovest dell'odierno Marocco, dopo un breve soggiorno a Cordova si era recato a Bagdâd, per completare alla fonte i suoi studi di teologia. Qui aveva appreso la dottrina di Ash'ari, che presto cominciò a sostenere con la tenacia propria della sua razza Ritornato in patria, aprì la lotta contro la concezione antropomorfica della teologia ivi dominante; in contrasto con la quale proclamò la confessione dell'unità, Tauchid, che valse ai suoi seguaci l'appellativo di Muwachchidûn, in spagnolo Almohadi.

Nel campo della teologia pratica sostenne l'esclusivo valore della tradizione, mentre gli Almoravidi tenevano in alto conto la deduzione giuristica dei Fakih. Per meglio accentuare la sua lotta contro gli abusi dominanti, asserì di discendere da Ali e di essere pertanto il Machdi atteso per ripristinare la giustizia nel mondo. Come già prima di lui gli Almoravidi, inveì contro tutte le tasse non fondate sulla tradizione: il che mostra che in pratica quelli non si saranno dati molta cura di sopprimerle. Accarezzò inoltre il sentimento nazionale dei Berberi, prescrivendo che l'invito alla preghiera si facesse in lingua berbera.

Dopo aver predicato in diverse grandi città, anche al-Marocco, sempre però respinto dalle autorità, si recò dalla sua tribù nell'Atlante, dove lavorò con successo per la sua dottrina. Presto fu in grado di muovere contro il governo. Il governatore di Sûss fu sconfitto; al-Marocco poté difendersi ancora (1130). Morto Ibn Tûmart di lì a quattro anni, il suo seguace più fedele, Abd al-Mumim ibn Ali continuò da califfo l'opera sua. Nei dieci anni successivi gli eserciti degli Almoravidi non ebbero che sconfitte. Anche all'estero la loro potenza precipitava sempre più. Nel 1122, alleatisi col Sairide Hassan, avevano attaccato i Normanni di Sicilia; i quali se ne vendicarono espugnando nel 1148-49 la capitale del sairide Machdija ed occupando per un certo tempo tutta la costa da Sûss a Tripoli.

In Spagna i cristiani progredivano in maniera sempre più minacciosa.
L'inetto almoravide Ali era morto nel 1143, ma tutta l'energia del figlio suo Tâsefîn non bastò più a trattenere l'invasione degli Almohadi. Assediato a Tlemssên (1144), mori l'anno dopo, fuggiasco, nei presi di Orân. Il suo fratello minore, Ali, perse nel 1147 anche Marocco, il che decise della vittoria degli Almohadi.
Dopo la caduta della signoria almoravidica, erano presto risorti in Spagna vari piccoli sovrani, i quali naturalmente così disuniti non potevano più offrire una seria resistenza ai cristiani. Nel 1147 i Portoghesi espugnarono Lisbona; l'anno dopo Alfonso VII poneva già l'assedio a Cordova. Ma qui gli si fecero contro gli Almohadi, sì che dovette ritirarsi senza aver nulla concluso.

Nel 1149 il califfo aveva ridotto all'obbedienza tutte le tribù berbere ancora recalcitranti; poté quindi agire con energia maggiore anche all'estero. Mandato per intanto in Spagna il figlio, liberò la costa settentrionale dell'Africa dalla occupazione normanna. Terminata questa campagna, si preparava a passare in Spagna, quando lo colse la morte (1163).
La potenza degli Almohadi raggiunse la massima altezza sotto il figlio di lui, Abû Jakûb Jûssuf (1163-1184) ed il nipote (1184-1199). Il primo riuscì a riassoggettare la massima parte della Spagna; ma cadde durante l'assedio di Santarem, combattendo contro Sancho, infante del Portogallo.

Solo nel 1195 al-Manssûr poté vendicare il padre, nella celebre battaglia di Alarcos, dove un esercito castigliano rimase distrutto. Però il califfo non poté sfruttare questa vittoria, essendo stato di lì a poco richiamato in Africa da una sollevazione. Sotto i suoi successori la potenza degli Almohadi riprese a declinare rapidamente. Sotto il califfo successivo, Nâssir, il governo era nelle mani di un vizir da poco, alleato col teologo di corte.
Morto Nâssir e poi suo figlio, questo vizir mise sul trono un califfo di facciata (1224), per conservare a sé stesso il potere; ma scoppiò una rivolta che lo costrinse ad esulare. Allora in breve tempo lo stato degli Almohadi si sfasciò. Sorsero nuove dinastie: a Fez i Merînidi, a Tlemssên i Syyânidi, a Tunisi gli Hafssidi. Gli ultimi discendenti del fondatore del califfato almohadico furono distrutti nel 1275 nell'Atlante da un governatore dei Merinidi.

Dopo l'esodo degli Almohadi, in Spagna si era messo avanti, come campione contro i Cristiani, Muhammed ibn Jûssuf ibn Hûd, che riuscì ancora una volta a raccogliere nelle sue mani il dominio sulle città più importanti. Ma dopo la morte di Alfonso di Leon e la riunione dei suo stato con la Castiglia (1230), i cristiani ripresero energicamente l'offensiva e sconfissero Ibn Hûd presso Xeres.
Ne approfittò Muhammed ibn Jûssuf ibn al-Achmar, discendente di una delle più nobili famiglie medinesi, per farsi proclamare sultano di Andalusa a Arjona, sua città natale. Grazie alle discordie dei musulmani, Cordova, la loro antica capitale, cadde in potere dei cristiani. Due anni dopo, Ibn Hûd morì per mano omicida, dopo aver perduto un'altra battaglia contro i cristiani. Però Ibn al-Achmâr vinse Ferdinando di Castiglia e fu quindi riconosciuto sovrano delle province di Granada, Malaga, Almeria e Baza in oriente, di Ronda e Gibilterra in occidente. Qui i Nassridi, suoi discendenti, si sono mantenuti per altri 250 anni, barcamenandosi abilmente fra i cristiani e i Merinidi.

La cultura della Spagna musulmana ebbe in questo suo ultimo rifugio un'altra splendida rifioritura. I lavori artistici, in specie la lavorazione dei metalli, raggiunsero la perfezione e procacciarono benessere al paese.

Opera dei Nassridi fu l'Alhambra, «la fortezza rossa» al di sopra di Granada, l'ultimo e più splendido monumento dell'architettura musulmana in Spagna. Essa é costruita per piccola parte con pietre lavorate e mattoni, per gran parte con la cosiddetta tapia, pietra artificiale di terra, calce e ghiaia. Il colle della fortezza é chiuso tutt'intorno da un muro di cinta merlato e dominato da numerose torri. L'ingresso principale, formato da una sala prolungantesi attraverso una doppia torre, si chiama la porta della legge. Dietro questa porta si trova la cisterna: a destra di questa, la Kassaba o cittadella; a sinistra, una grande moschea, oggi la chiesa della Vergine e il palazzo reale. Di quest'ultimo restano ancora due parti: l'atrio della vasca coll'attigua torre Comares e l'atrio della fontana dei leoni (nell'immagine sotto) con le sale adiacenti.


«Il pavimento era coperto da lastre di marmo banco; la parte inferiore delle pareti, per una altezza di circa quattro piedi, rivestita da mattonelle di maiolica colorata o azulejo; più in alto le pareti erano stuccate; seguiva poi un fregio come base del tetto, sopra al quale fregio qua e là pur sostenuto da piccole mezze colonne, posava il soffitto, pendente in forma di stalattiti e composto parte di pezzi di legno, parte di piccole cellette e orecchioni lavorati in stucco.

Colonne di marmo di forma graziosissima e con capitelli variati all'infinito sostenevano mensole o sporti, sui quali posava la travatura e fra i quali erano incastrati gli archi dei colonnati, in muratura rivestita di gesso. Dominava in questi archi la forma del semicerchio rialzato, con lieve accenno al ferro di cavallo; ma lo stucco che li ricopriva dava loro di frequente un aspetto di archi a sesto acuto. Nei muri si incavavano nicchie di vario genere: più ampie, coperti di cuscini, per riposarvi; più piccole, con brocche da acqua. Su ogni parte del palazzo poi, sulle pareti, soffitti, colonne, arcate e nicchie erano sparsi ornamenti a piene mani e con prodigale varietà ; gli azulejos s'intrecciavano in variopinti arabeschi : lo scalpello aveva dato al marmo i più svariati aspetti, lo stucco era lavorato a rilievo in mille e mille intrecci, rappresentanti figure caleidoscopiche di ogni sorta, stelle e ottagoni, piante e pietre. Si aggiunga una incredibile quantità di iscrizioni, prolungantisi lungo il fregio, avvolgenti sugli archi, le finestre e le nicchie, distese in singoli medaglioni simmetrici, e apparenti quali arabeschi, perché trattate al pari degli altri ornamenti, all'occhio non esercitato. L'effetto di splendore, prodotto da tutti questi ornamenti, era in fine di molto cresciuto e reso abbagliante dalla pittura altrettanto ricca quanto di buon gusto. Una magnificenza di colori era sparsa a piene mani in tutti i locali del palazzo. In alto dominavano, per rafforzare l'effetto, il rosso carminio, l'oro e l'azzurro, più in basso il violetto, la porpora e l'arancio. A quanto pare, anche le lastre di marmo bianco del pavimento erano dipinte » (von Schack).

Le continue discordie nella casa dei Nassridi resero facile il toglierli di mezzo a Isabella la Cattolica, quando essa nel 1479, riuniti i due regni, decise di cacciare del tutto gli infedeli dalla Spagna. Contro l'ultimo emiro Abu l-Hassan si sollevarono i suoi due figli Abû Abdallâh Muhammed, il Boabdil degli Spagnoli, e Jûssuf. In queste lotte, nelle quali Boabdil avrebbe potuto finire per impadronirsi di Granada, intervenne con astuta diplomazia il consorte di Isabella, Ferdinando.
Dopo che egli si fu impadronito delle città minori difese dagli Arabi talvolta con insigne valore, Granada gli si arrese (2 gennaio 1492), dopo un lungo assedio. Boabdil fu lì per lì accontentato mediante un piccolo feudo; poi si ritirò a Fez, dove morì. Gli ultimi musulmani di Spagna, se non emigrarono, e ad onta dei patti di capitolazione, furono convertiti o condotti dall'Inquisizione in grembo alla Chiesa, unica dispensiera di... beatitudine.

Ma anche in Siria, nello stesso periodo si stava sfasciando tutto
e una nuova potenza
affrettò la rovina dell'antico califfato

 

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