-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

72. FINE DELLA LOTTA TRA PAPATO E IMPERO


L'impero degli Hohenstaufen - 1125-1254

Dobbiamo qui fare un passo indietro e ritornare alla fine del capitolo 68, dove lo abbiamo terminato riportando la improvvisa morte di Enrico VI (di appena 32 anni) lasciando suo successore il figlio, un bambino che non aveva ancora 3 anni, accudito dalla regina vedova Costanza d'Altavilla. Questo bambino era FEDERICO II.

Un sovrano che farà riempire moltissime pagine della storia, non solo riferendosi al suo impero e ai fatti d'arme, ma anche alla intera cultura europea, e se lasciamo da parte certi stupidi giudizi, affrettati e nutriti di ignoranza, che ci raccontano che i cittadini della penisola vedevano il popolo tedesco come il "naturale nemico" del popolo italiano, scopriremo invece che questo imperatore germanico fu tra gli spiriti più "italiani" dell'epoca, oltre che a porsi come protagonista della Storia, mostrando visioni politiche che si possono definire modernissime (considerando l'epoca).

Dei suoi natali ne parleremo ancora più avanti, ma ci preme subito dire che Federico II nasce proprio in Italia, a Jesi, nel 1194, figlio dell'imperatore Enrico VI e di Costanza D'Altavilla, regina di Sicilia, ultima erede della dinastia normanna, figlia del grande Ruggero d'Altavilla.
Orfano di padre a soli tre anni, dopo due anni Federico perse anche la madre e per volontà di questa venne affidato alle cure di un tutore di eccezione: il Papa allora Innocenzo III, che resse le sorti della Chiesa dal 1189 al 1216, uno dei Pontefici più attivi e grandi che la storia ricordi; anche se usava di frequente un'arma potentissima, che oggi potrebbe far sorridere, ma che allora aveva un grande peso nella carriera di un "uomo politico": la scomunica. Con Federico II il papa quanto a scomuniche battè il record.

Federico lo vedremo "bambino" poi "ragazzo" posto sotto la tutela del Papa. Ma morto INNOCENZO III, all'improvviso inizieremo a conoscere il "vero" Federico, quello che, quando maturo, scriverà al giovane figlio Corrado una lettera di rimprovero ammonendolo che "i principi devono essere più di ogni altra persona suscettibili di disciplina". E scriveva questo non perché voleva fare il pedagogo, ma scriveva chi aveva imparato troppo nella fanciullezza; chi avendo dovuto comporre la sua disciplina del suo animo tutto da sé, sapeva quanto sia difficile la formazione di una compiuta personalità.

E la personalità di FEDERICO II è una delle più complesse della storia.
Nato da padre tedesco e da madre normanna, egli ha la fierezza, la durezza, l'alterigia e l'ardire della razza germanica; lo spirito d'iniziativa e il temperamento avventuroso dei Normanni; cresciuto in Italia, fra gente di stirpe latina, greca ed araba, ha degli Italiani il senso pratico e positivo, dei Greci la scaltrezza e l'istinto della dissimulazione, degli Arabi la sensualità.
Vissuto in un periodo di transizione, in un tempo in cui tramonta un'epoca ed una nuova sorge, Federico ha del medievale e del moderno, può essere considerato come l'ultimo imperatore del Medioevo e il primo principe del Risorgimento.

Era, il suo periodo, travagliatissimo: la Chiesa non voleva rinunciare alle sue prerogative temporali, mentre la nobiltà germanica cercava la sua autonomia e in Italia altri fremiti di autonomia venivano dai Comuni che ne avevano abbastanza sia delle servitù imperiali che delle subordinazioni clericali.

La lotta sostenuta dall'imperatore Federico II e dai suoi successori a difesa dei diritti dell'impero e dello Stato normanno costituisce l'ultimo atto della grande battaglia combattuta dall'impero medioevale contro le pretese di Roma alla supremazia universale. La formazione dei maggiori Stati europei, soprattutto della Francia e dell'Inghilterra, nonché dei regni di Aragona e di Danimarca e delle repubbliche marittime italiane, preparatasi già nel XII secolo e più o meno arrivata a compimento nel XIII secolo, aveva ormai creata una situazione di cose che rendeva impossibile una autorità imperiale nel senso degli Ottoni e dei Salii.
Durante la giovinezza di Federico, Venezia in occasione della spartizione dell'impero bizantino aveva già assunto la parte della grande potenza che detta la legge, quella parte che sarebbe spettata di riritto e di fatto all'imperatore. E la formazione delle signorie territoriali tedesche ebbe effetti analoghi. A buon diritto perciò Federico II non tentò di restaurare in Germania il tipo dell'antica monarchia, e fece anzi ai principi grandi concessioni, legalizzando quanto era stato sinora spesso mantenuto in via di semplice usurpazione. Egli cedette anche al re di Danimarca le regioni da lui occupate di là dall'Elba e dall'Elda, vale a dire l'Holstein e i territori adiacenti verso est (dicembre 1214).

Fu questo certamente un atto che poteva tornar funesto. La Danimarca, dopo i giorni del suo massimo splendore, l'epoca cioè di re Svend (985-1014) e di re Knud il Grande (1017-1036) il quale aveva riunito sotto il suo scettro la Danimarca, l'Inghilterra e la Norvegia ed aveva avuto a sua disposizione un esercito agguerrito ed una potente flotta, si era ridotta allo stremo delle forze a causa delle guerre intestine per la successione al trono, e l'allora Barbarossa, divenuto arbitro della situazione, aveva visto i due antagonisti Svend e Knud alla dieta di Merserburg (1152) piegarsi al suo verdetto. L'imperatore decise in favore di re Svend, e questi ricevette da lui in feudo il suo regno e gli prestò il giuramento di vassallaggio.
Anche re Valdemaro il Grande (1157-1178) che salì a maggiore importanza per le vittorie riportate sugli Slavi pagani delle coste del Baltico, si mantenne subordinato all'impero e perdette parte del suo territorio in seguito alla violenta politica espansionista di Enrico il Leone. Ma nei Danesi era assai vivo il sentimento e l'orgoglio nazionale, tanto che ebbe un'eco già allora nella letteratura, specialmente nella cronaca di Saxo Grammaticus. Questo orgoglio nazionale si appuntò, come è naturale, contro gli oppressori tedeschi, e durante le lotte tra i principi tedeschi vicini alla Danimarca per il possesso dei vari territori in cui si spezzò dopo il 1181 il dominio di Enrico il Leone, i Danesi riportarono dei successi che alimentarono anche maggiormente il loro orgoglio nazionale.
Il figlio di Valdemaro I, Knudo (1182-1202) soggiogò poi gli Slavi del Mecklenburg e della Pomerania e rifiutò il giuramento di vassallaggio all'imperatore Enrico VI. Il suo successore Valdemaro II il Vittorioso (1202-1241) estese i dominii della Danimarca sulla sponda del Baltico da Lubecca sino all'Estonia.
Le guerre per la successione al trono tedesco e le lotte degli imperatori coi papi gli lasciarono le mani libere. Più volte sembrò imminente l'incorporazione alla Danimarca delle regioni tedesche vicine, compreso il Mecklenburg e la Pomerania, soprattutto dopo che Federico II col trattato del 1214 impresse il sigillo delle legalità alle conquiste danesi.

L'atto audace del piccolo principe Enrico di Schwerin, il quale nel 1223 sorprese nella sua tenda il temuto re Valdemaro e lo fece prigioniero, e la vittoria riportata il 22 luglio 1227 a Bornhoved dai principi e dalle città vicine e dai contadini del Ditmarsch su re Valdemaro, che dopo la sua liberazione aveva invaso l'Holstein con un poderoso esercito ingrossato dagli aiuti de Ottone di Lúneburg, nipote di Enrico il Leone, arrestò il cammino della Danimarca. E dopo la morte de Valdemaro (1241) la potenza de questo Stato fu fiaccata da conflitti interni, e quindi sparì pure il pericolo che i paesi settentrionale della Germania divenissero una provincia danese.

Ma nom fu per merito dell'imperatore che questa enorme perdita di tterritorio venne evitata all'impero, sebbene per merito delle signorie territoriali, e ciò non tornò certo a vantaggio dell'autorità della corona ma valse solo ad accrescere la potenza dei signore territoriali.
Tutto questo va rilevato senza reticenze, ma non ci sembra che se ne possa far carico a Federico II. La potenza dei principi territoriali era un fenomeno che datava da due generazioni e già Federico I Barbarossa aveva dovuto subirla e scendere a patti con essa spingendosi a forte concessioni pericolose come quelle accordate al margravio d'Austria e ad Enrico il Leone.
E Federico II non disponeva in Germania neppur lontanamente dei mezzi di cui in precedenza aveva potuto disporre Barbarossa, senza contare che l'autorità e le pretese della curia erano anch'esse notevolmente aumentate.

Federico II ha dovuto concedere ai papi quanto esse non avrebbero mai osato nemmeno di chiedere a Federico Barbarossa, ma non per questo egli riuscì ad assicurarsi la pace con la curia, da lui desiderata e cercata con ogni mezzo; fu trascinato suo malgrado nella lotta, e questa lotta consumò tutte le sue forze. Considerando serenamente tale circostanze non si può pretendere che Federico II restaurasse pure l'autorità regia in Germania di fronte ai principi e facesse guerra alla Danimarca.
Si aggiunga poi che Federico, date le sue condizioni personali, guardava il regno de Napoli e di Sicilia ed i possedimenti imperiali in Italia come la base principale della sua potenza e ad ogni modo come il campo principale della sua attività.

Federico era infatti italiano di nascita come sua madre Costanza, la quale persino quando i Siciliani si erano ribellati a suo marito (Enrico VI) non aveva potuto dimenticare di essere italiana. Suo padre stesso, Enrico VI pure, sebbene di origine tedesca, aveva nondimeno esplicato quasi tutta l'opera della sua vita nello Stato normanno ed in Italia e sull'Italia aveva dovuto far fondamento per i suoi disegni di conquista.

Federico II non aveva ancora tre anni quando morì a Messina suo padre Enrico VI e papa Innocenzo III approfittò degli imbarazzi in cui venne a trovarsi la regina vedova Costanza per spogliarla dei più essenziali diritti spettanti alla corona di Sicilia. Egli la costrinse a concludere un concordato che metteva si può dire interamente in balia del papa la chiesa siciliana e specialmente la nomina dei vescovi, e poi volle imporle un nuovo atto di infeudazione che modificava a tutto danno della corona il rapporto di vassallaggio del regno verso la Santa Sede. I legati papali incaricati di presentare questo atto e di ottenerne l'accettazione forse non trovarono nemmeno più viva la regina; la morte la liberò il 19 novembre 1198 dalle pene che le aveva procurate la corona.

Papa Innocenzo III assunse la tutela del fanciullo Federico, che era già stato incoronato re de Sicilia, ma non custodì fedelmente né la persona né gli interessi del principe. Il regio fanciullo cadde più volte in potere di altri ed il prestigio del nome reale rimase in questo periodo molto compromesso.
A 14 anni Federico fu dichiarato maggiorenne e durante l'anno successivo (1209) venne unito in matrimonio con la vedova del re d'Ungheria, assai più anziana di lui, una figlia di re Alfonso d'Aragona.
A 16 anni (1211) egli era già padre di un maschio e ricevette una deputazione di principi tedeschi che gli offrirono la corona imperiale. Federico fin da quando aveva due anni (ancora vivo suo padre) era stato eletto dai principi tedeschi a successore di Enrico VI, ma nel profondo disordine in cui cadde la Germania dopo la sua morte, neppure il più devoto e fedele partigiano dell'imperatore sarebbe riuscito ad esercitare una reggenza tutelare e quindi si era rinunziato a lui.

Per conservare la corona nella famiglia degli Hohenstaufen il partito affezionato ad essa persuase Filippo di Svevia, che era il più prossimo parente e uomo di sperimentate qualità come governante e come soldato, a lasciarsi eleggere re.
Gli avversari degli Hohenstaufen, capitanati dall'arcivescovo di Colonia, elessero invece re Ottone di Braunschweig, conte di Poitou, figlio minore di Enrico il Leone, perché il figlio primogenito, il conte palatino Enrico, non era ancora ritornato dalla crociata. Prese le parti di Ottone tutto il partito guelfo con l'appoggio di re Riccardo Cuor di Leone d'Inghilterra. Ottone era figlio del duca di Sassonia e fu chiamato Ottone di Sassonia, ma la Sassonia non era la sua patria. Sua madre era inglese, egli stesso era nato in Normandia ed era cresciuto alla corte di Riccardo Cuor di Leone, fratello di sua madre. Questo zio lo amava molto, lo elevò a conte di York ed a conte di La Marche ed in seguito gli assegnò la contea di Poitou con altri territori adiacenti.

Riccardo tentò anche - sebbene invano - di ottenere che il re di Scozia si scegliesse a genero il suo nipote prediletto e lo designasse a suo successore. In Sassonia Ottone non aveva vissuto che pochi mesi. La sua vita ci dimostra quanto la cavalleria avesse allora carattere internazionale. Ottone non aveva patria, non lo si può dire tedesco, ma nemmeno inglese; forse la cosa più accettabile é annoverarlo nel gruppo dei francesi appartenenti allora politicamente all'Inghilterra. Egli era più un Plantageneto che un Guelfo.

Il papa attese che fosse scoppiata la guerra civile senza tentar nulla per evitarla e poi favorì Ottone, ma pose a profitto lo sconvolgimento interno per ridurre a più stretta dipendenza da Roma vescovi tedeschi, Filippo Augusto di Francia prese le parti di Filippo di Svevia, il re l'Inghilterra ed il legato papale le parti di Ottone IV, ma quando negli anni 1204 e 1205 Filippo cominciò ad avere il sopravvento il papa iniziò un voltafaccia e nel 1208 lo riconobbe re.

Il paese sperò di vedere avvicinarsi la pace, quand'ecco il 21 giugno 1208 re Filippo cadde assassinato da Ottone di Wittelsbach che riteneva di essere stato da lui offeso. Dopo ciò Ottone IV alla dieta di Francoforte si sottopose ad una rielezione, venne eletto ad unanimità e riconosciuto dappertutto.

Ancora una volta il paese sperò di poter arrivare alla pace agognata, ma ancora una volta le sue speranze rimasero deluse, perché, non avendo voluto Ottone rinunziare in Germania ed in Italia a tutti i diritti dell'impero che Innocenzo III aveva usurpati, il papa riaccese la guerra civile fulminando la scomunica contro Ottone IV e persuadendo il partito degli Hohenstaufen a creargli un competitore nella persona del figlio di Enrico VI.

I consiglieri di Federico II si mostrarono molto poco proclivi all'accettazione della corona. Lo stesso giovane principe restò lungo tempo indeciso se compiere l'opera iniziata di ristabilimento dell'ordine e di consolidamento della sua autorità in Sicilia ovvero cedere allo splendore del titolo imperiale. Sembra che egli non si sia definitivamente deciso ad accettare se non in seguito alle ostilità intraprese da Ottone IV contro il suo regno ereditario di Sicilia.
Ottone infatti aveva già conquistato Napoli e avanzava in Calabria per passare in Sicilia; ma fu costretto a tal punto a tornare indietro essendogli giunta notizia che i principi tedeschi prendevano a pretesto la scomunica inflittagli dal papa per defezionare da lui.

Può darsi che Federico abbia creduto che la guerra civile in Germania come conseguenza della sua elezione lo avrebbe più agevolmente liberato da attacchi del genere di quello subìto, ma non é possibile asserirlo con sicurezza. Il re giovinetto fu spinto alla corona imperiale dalla gloria dei suoi antenati e dal destino della sua famiglia. È del resto assai dubbio se le sue sorti si sarebbero volte al meglio qualora avesse impiegato la sua attività a creare qualcosa di duraturo in Sicilia, qualora egli avesse resistito alla tentazione.

Federico II esitò prima di scegliere la via, ma una volta scelta la proseguì con determinazione. Fino alla morte egli combatté con accortezza e valore per la corona che aveva assunta e si mostrò inesauribile nelle risorse allo scopo finale necessarie.

Federico iniziò la lotta in stretta alleanza col papa, il suo ex-tutore. Egli fece in forma solenne ampie promesse nei riguardi del regno delle Due Sicilie e dei diritti dell'impero in Italia. E si presentò in Germania come protetto e strumento del papa. Ma i vecchi partigiani della sua casa e i molti che credettero di poter guadagnare nel mutar bandiera gli costituirono ben presto una posizione indipendente che egli consolidò abilmente mediante trattative con la Francia e con la Danimarca.

Alla battaglia di Bouvines (27 luglio 1214), nella quale l'imperatore Ottone con i suoi alleati inglesi fu sconfitto da Filippo Augusto e dai partigiani degli Hohenstaufen, Federico II non partecipò personalmente. Egli entrò in campo soltanto alcune settimane dopo, ma quella vittoria e la maniera come Federico la mise a profitto gli assicurarono ugualmente la corona. Tuttavia Ottone IV si sostenne sino al 1218, epoca della sua morte, nei suoi dominii, e tanto meno perciò Federico poté pensare a reclamare energicamente la reintegrazione degli antichi diritti della monarchia gravemente menomati dopo la morte di Enrico VI.
Anzi egli fu costretto a fare ai principi concessioni ancor maggiori prima di ritornare nell'agosto del 1220 in Italia ove la sua presenza era richiesta urgentemente. Il 22 novembre 1220 Federico si fece incoronare imperatore. In tale occasione egli rinnovò il voto di una crociata da iniziarsi nella successiva primavera. Ma le cose di Sicilia e gli impegni della carica imperiale lo costrinsero a procrastinare l'impresa di anno in anno, limitandosi a mandare piccoli contingenti in Terra Santa. Nel luglio del 1225 egli rinnovò ancora una volta il voto, promettendo più precisamente di mantenere per due anni in Terra Santa mille cavalieri e nel frattempo di approntare determinate somme e un determinato numero di navi e di uomini per la crociata.

Ma le condizioni d'Italia nel 1226 furono talmente sconvolte che Federico non poté osare di abbandonare il paese; tuttavia completò i preparativi e nel settembre del 1227 s'imbarcò per la Terra Santa. Ma una epidemia gli decimò l'esercito; lo stesso Federico II ed il langravio di Turingia che lo accompagnava ne rimasero contagiati; onde furono costretti a tornarsene in Italia.
Il langravio mori, Federico guarì, ma venne scomunicato da papa Gregorio IX (1227-41) perché non aveva adempiuto al suo voto. Federico nel suo intimo era tutt'altro che schiavo dei dogmi della Chiesa, ma teneva a conservare esteriormente una condotta corretta dal punto di vista religioso e soprattutto ambiva ardentemente di vivere in pace con la Chiesa.

Non vi é la minima ragione per credere che abbia violato il suo voto per spirito di opposizione o per alterigia; anzi egli si impèegnò in tutti i modi per convincere il papa che era tornato indietro soltanto perché costrettovi da imprescindibili necessità. Né si lasciò trascinare dall'ira per l'ingiusta scomunica inflittagli dal papa e così preparò una nuova crociata che guidò con successo nell'anno seguente.

I grandi Stati maomettani che dal tempo degli Omajadi e degli Abbassidi si susseguirono nei territori degli antichi imperi assiro e persiano trovarono nella stessa loro smisurata estensione una causa di debolezza. A lungo andare queste colossali creazioni del genio personale di grandi conquistatori non poterono essere tenute insieme che con l'aiuto di masse di mercenari e mediante l'applicazione di un brutale assolutismo, per quanto larvato dal favore dimostrato per le scienze e per le arti, un assolutismo che trattava gli uomini come semplici masse e corrodeva sé stesso.

Nessuno di questi Stati raggiunse una costituzione politica che, seguendo lo sviluppo della società, ne soddisfacesse i bisogni e favorisse l'educazione politica del popolo. Verso l'epoca in cui i Latini conquistarono Costantinopoli e papa Innocenzo III sembrò stesse per arrivare a riunire nelle sue mani il supremo potere temporale e spirituale, il sultano Maometto II estese a tutta la Persia l'ereditato regno dei Caresmi che giaceva tra l'Osso e l'Aral e comprendeva la famosa città di Merw, e tentò di costringere il califfo di Bagdad a subordinarsi al suo protettorato, come era stato sinora sotto il protettorato dei Selgiucchi.

Avendo il califfo rifiutato, Maometto approfittò della diffusione che prendevano in Persia le dottrine sciite e contrappose qual rivale al califfo di Bagdad, sunnita, un preteso discendente di quell'Alì che nel 656 era stato creato califfo e secondo le convinzioni degli sciiti era stato ingiustamente detronizzato da Muawija. Ma, mentre era sul punto di soggiogare il califfo di Bagdad, Maometto II fu a sua volta assoggettato da Gengis-Khan, che già nel 1206 aveva organizzato le orde mongoliche residenti ad est del mar Caspio in una immensa monarchia militare con capitale a Karakorum.
Questo villaggio di nomadi dopo ciò, in seguito all'affluire di gran numero di persone abili
in tutti i rami delle arti e del sapere dai paesi civili assoggettati, specialmente dalla Cina e dalla Persia, si trasformò in una città che poteva gareggiare con le città dei grandi imperi maomettani, come Merw, Gasna ed altre.

Gengis-Khan assoggettò prima la Cina, poi si volse verso occidente, occupò con le armi il territorio a nord dell'Osso e nel 1219-20 vinse e sottomise il sultano o scià Maometto. Per anni ed anni le sue orde saccheggiarono e devastarono le fiorenti città e campagne dell'ex regno dei Gasnavidi ed il sultano Maometto II, che pochi anni prima aveva conquistato con la spada questi territori, morì fuggiasco nella miseria. Suo figlio Gellaleddin continuò a resistere mediante una guerriglia eroica sinché nel 1231 fu assassinato per vendetta.
Il suo eroismo non aveva potuto mutare le sorti. Questi paesi asiatici d'antica civiltà, in cui malgrado l'alternarsi delle dominazioni maomettane l'incivilimento sotto molti riguardi si manteneva ad una considerevole altezza, furono ora completamente devastati ed inceneriti. Non é possibile immaginare la massa di gente che fu trucidata né la brutalità sopra ogni misura con cui infierirono questi Mongoli.

Di Gengis-Khan si narra che fu un legislatore e che era in grado di conversare con i dotti e capace di ragionare dell'esistenza di Dio; ma questi fatti non possono né mitigare né cancellare la sua colpa di aver devastato mezzo mondo, massacrati gli abitanti e spenta la loro civiltà nel sangue e nelle ceneri degli incendi. Egli distrusse così l'incivilimento islamico permettendo così a quello cristiano ad acquistare e mantenere il primato nel mondo.
Gengis-Khan morì nel 1227. I suoi figli e nipoti soggiogarono la Russia, devastarono le regioni attorno al basso Danubio, poi l'Ungheria, poi i territori di confine dell'impero tedesco, finché nel 1241 alla battaglia di Liegnitz trovarono nei cavalieri tedeschi un ostacolo tale che li persuase a tornarsene indietro.

In Asia invece la devastazione procedette inesorabile. Le regioni dell'Eufrate e del Tigri vennero invase e messe a sacco ed a fuoco dai Mongoli, Bagdad e tutte le altre città sorte dall'incivilimento maomettano furono date in preda alle fiamme. La stessa sorte toccò alla Siria. Ma i Mamelucchi d'Egitto seppero tener testa ed i Mongoli dovettero rinunziare alla Siria e poi anche alla stessa Bagdad ormai spoglia, distrutta incenerita.

Nei decennii successivi il loro impero si spezzò in parecchi Stati particolari. Nella Persia e nella Cina essi assimilarono la religione ed i costumi dei popoli soggiogati, ed anzi in Persia rifiorì un certo incivilimento. I Kan dei Tartari tollerarono le missioni cristiane e protessero i commerci. Con la protezione di questi Mongoli i mercanti veneziani nel XIII e nel XIV secolo penetrarono nell'interno dell'Asia ed arrivarono fino in Cina (Marco Polo ecc.)

Il sultano Saladino, che nel 1171 aveva abbattuto in Egitto la dominazione dei Fatimidi. assoggettò anche la Siria e vi regnò riconoscendo l'alta sovranità del califfo di Bagdad su questo paese. Nel 1187 conquistò Gerusalemme e sostenne l'urto della terza crociata. Dopo la sua morte (1193) il fratello Aladil (Adel) riuscì a spodestare i figli eredi di Saladino, ciò che provocò delle scissioni nel campo maomettano e facilitò ai cristiani di Siria la resistenza. Questa era la situazione delle cose allorché Federico II, il 7 settembre 1228 sbarcò ad Acri, l'antica Tolemaide.

Egli, mettendo abilmente a profitto tale situazione sfavorevole ai maomettani e dopo abili negoziati, di cui sono arrivati sino a noi soltanto alcuni curiosi residui, concluse il 18 febbraio 1221 con il figlio di Adel, il sultano Kamel d'Egitto, un trattato che attribuiva ai Cristiani Gerusalemme, Nazaret ed il territorio tra queste due città ed i porti di Giaffa e di Acri, compresi questi importanti porti ed altre località.

Questo trattato é un notevole saggio della perspicacia dei sovrani che lo conclusero, i quali compresero che non era possibile aspirare a tener tutto per sé ma che bisognava accontentarsi di un equo compromesso e non pretendere quanto l'altro non poteva per il momento acconsentire.
All'imperatore Federico II inoltre premeva di tornare in Italia per difendere il suo regno contro il papa che durante la sua assensa si intese con i grandi vassalli ribelli, e il sultano d'Egitto da parte sua sapeva che le basi della sua potenza erano in pericolo e che soprattutto lo minacciava un nuovo attacco dei Mongoli.
Cristiani e Maomettani avevano un comune interesse che fosse arrestata l'onda mongolica e ad un occhio acuto gli Stati islamitici non potevano non presentarsi come un baluardo della stessa cristianità contro questo pericolo. E quanto ciò fosse vero l'Occidente dovette accorgersene con terrore quando nel 1241 i Mongoli invasero e devastarono le regioni danubiane spingendosi fin nella Slesia e stanziandosi poi permanentemente in Russia.

Federico ottenne i risultati di cui abbiamo parlato ad onta che il papa avesse impiegato tutta la sua influenza per impedirglielo, avesse persino fulminato l'interdetto su Gerusalemme e diabolicamente già fatto invadere dalle sue truppe i dominii italiani dell'imperatore crociato. Per questa ragione Federico tornò dall'Oriente prima del tempo, scacciò le truppe papali dal suo regno e costrinse il papa a scioglierlo dall'anatema (pace di S. Germano del 1230).

In occasione di questi negoziati, come nelle lotte degli anni successivi, al momento della ribellione in Germania di suo figlio Enrico (VII), come nel conflitto con le città lombarde, nella persecuzione degli eretici, in tutte le occasioni insomma Federico II cercò di accontentare i desiderii dei papi fin dove credette ciò compatibile coi suoi doveri di imperatore e di re.


Egli aveva accordato di già ai papi quanto essi non avevano sinora mai osato nemmeno chiedere, ma le loro pretese crebbero smisuratamente non appena Federico si trovò alle prese con altri nemici. Federico allora aprì la lotta e la proseguì con animo irremovibile, convinto che anche gli altri re avrebbero avuto interesse ed obbligo di venirgli in appoggio e di vedere nella difesa dei suoi diritti la difesa dell'onore e dell'indipendenza dello Stato di fronte alla prepotenza clericale.
Ed ai principi tedeschi egli ricordò (1240) che le altre nazioni invidiavano ai Germani il possesso dell'autorità imperiale, la signoria del mondo (mundi monarchiam), e che gli irriducibili Germani avrebbero dovuto difendere nella sua corona questo patrimonio d'onore; nè si ingannava, perchè la storia dimostrò poi come Francesi, Inglesi e Spagnuoli si disputarono la corona imperiale appena la discordia tra i Tedeschi, dopo la caduta degli Hohenstaufen, ne offrì loro l'occasione.

Anche nella lotta con papa Innocenzo IV (un deciso assertore della teocrazia papale), che occupò gli ultimi anni della sua vita, l'imperatore Federico fu trascinato contro sua volontà, perchè costrettovi. «Federico, dice Giulio Ficker, sarebbe stato in qualsiasi momento pronto a venire ad una pace pienamente riguardosa per i veri interessi della Chiesa; condizioni di pace come quelle che egli accettò nel 1244 i papi non avrebbero mai osato proporle a Federico I e tanto meno questi le avrebbe neppur discusse».

Le ragioni con cui papa Innocenzo IV il 17 luglio 1245 giustificò in seno al concilio di Lione la scomunica e la deposizione di Federico II non erano delle ragioni, ma solo pretesti. Anche allora la solennità con cui Innocenzo IV circondò quest'atto non riuscì a nascondere al mondo che la santità delle parole celava semplicemente un criminoso abuso della potestà spirituale.

Inoltre questa assemblea di appena 150 prelati all'incirca, in massima parte appartenenti ai paesi neolatini, non salvava neppur le apparenze di un concilio universale. Dal tempo del concilio Laterano tenuto da Innocenzo III il mondo aveva concepito l'idea che occorreva fossero adunate molte centinaia, anzi migliaia di prelati di ogni paese perchè un concilio assumesse il carattere e potesse pretendere l'autorità di un concilio universale. Se ad onta di questo i re d'Inghilterra e di Francia non protestarono contro il procedere del papa, ciò dipese in parte dalla loro rivalità verso l'imperatore, in parte da una quantità di ragioni personali ed occasionali (ma la pima restava quella di buttarsi sul territorio dell'impero come avvoltoi).

Non sfuggiva a questi uomini che la Curia romana era sulla via degli abusi, e che ben presto questi abusi si sarebbero riversati anche su di looro. Documenti redatti a quel tempo a Verdun, pur provenienti da partigiani della chiesa ostili a Federico II, lamentano a chiare note le spoliazioni delle chiese e dei monasteri francesi. Ciò che il papa ci lascia, essi dicono, se lo prendono i cardinali. Ancor più significativo è il seguente fatto: un anno dopo il concilio di Lione, nel 1246, numerosi membri della nobiltà francese strinsero fra loro una lega per difendersi dalle usurpazioni della Curia; essi si accordarono persino a non riconoscere efficaci le scomuniche e gli interdetti se prima il presidente della lega non avesse esaminato le cose e non li avesse dichiarati giustificati.

Non sembra che questa lega abbia acquistato grande influenza, ma essa rimane d'importanza come indice dei germi di opposizione che il papa medesimo seminò a Lione e dopo il concilio di Lione. Nelle posteriori lotte dei re francesi ed inglesi e della nobiltà dei due paesi contro la Curia, la ribellione dell'opinione pubblica contro la sopraffazione commessa dal papa a Lione, contro la sua falsità e contro lo sfruttamento dell'entusiasmo per le crociate agli scopi della sua politica italiana, devono essere certamente serviti spesso come argomenti non lievi.
Nella lotta contro Federico papa Innocenzo IV trovò appoggio nei re di Francia e di Inghilterra, rivali dell'impero, nelle città lombarde ed in molti principi e signori spinti dalla speranza dell'utile o dal desiderio di vendetta a prendere parte in suo favore. Ma le maggiori risorse sia morali che finanziarie le trasse dall'entusiasmo popolare per le crociate. Il concilio di Lione aveva imposto a tutti gli ecclesiastici una tassa del 5 % sui redditi per tre anni a favore della crociata che re Luigi IX di Francia intendeva intraprendere contro i Saraceni.

Ma Innocenzo IV mutò arbitrariamente poco dopo questa deliberazione del concilio ed avocò a sè il tesoro di guerra, e tutto il gettito che la tassa avrebbe fruttato in Italia, in Germania e nel nord d'Europa, per servirsene contro Federico.

L'anno seguente Innocenzo vietò persino che in Germania si predicasse la crociata in Terra Santa, ordinando che vi si predicasse soltanto la crociata contro Federico. In seguito mitigò il rigore di questo ordine arrivando però solo a concedere che si predicassero ambedue le crociate. Soprattutto i monaci dell'ordine dei mendicanti predicarono allora la crociata contro Federico.

Questi maneggi fruttarono al papa somme così ingenti che egli potè pagare ai competitori di Federico, Enrico Raspe di Turingia e Guglielmo d'Olanda 61.000 marchi d'argento. E ad altri suoi partigiani diede pure considerevoli somme. Tutto sommato deve avere erogato 200.000 marchi. Inoltre egli fece il più sfacciato abuso degli altri strumenti della sua autorità spirituale e finalmente si ingerì anche in cose temporali, disponendo a sua volontà come se egli fosse la fonte di ogni legge.
Confermò ai suoi partigiani il possesso dei territori e dei castelli che questi avevano usurpato, quasi fosse egli il re, e non credette a tale scopo neppure necessario di servirsi dei re che aveva messo contro Federico. Vietò ai capitoli e conventi dal 1246 al 1252 l'elezione dei vescovi e degli abati, avocando a sé le nomine dei titolari di questi ricchi benefici allo scopo di servirsene per guadagnarsi dei partigiani contro Federico e ricompensarne degli altri.
Agli stessi fini sfruttò pure il diritto di dispensa dall'osservanza dei precetti ecclesiastici. Ma ad onta di tutto ciò i competitori contrapposti in Germania dal papa come re a Federico, il langravio Enrico Raspe di Turingia e dopo la morte di lui (1247) il conte Guglielmo d'Olanda, fecero una figura lacrimevole.

Anche in Italia Innocenzo IV non riuscì a riportar la vittoria sull'imperatore. L'unico effetto che ottenne fu che la lotta tra le città guelfe e ghibelline e la lotta delle due fazioni nell'interno delle città assunse forme sempre più feroci, ma più spesso per i propri interessi e non per quelli nè del papa nè dell'imperatore.
Le gesta del terribile tiranno Ezzelino e le torture inflitte dai Bolognesi ai figli del suo infelice fratello Alberico cadono in questa epoca. Papa Innocenzo dovette di fronte a tanti interessi, dimenticare completamente la sua qualità di sacerdote per sopportare lo spettacolo di tante calamità, che pure era stato principalmente lui stesso a provocare con le sue smodate pretese avverse ad antichi diritti della corona imperiale.
Ed egli tollerò questo spettacolo con cuore imperterrito; ma ad onta di ciò non vinse. L'imperatore Federico II in Italia ed il suo valoroso figlio Corrado in Germania lottarono con buon successo, per quanto con varia fortuna e non senza perdite dolorose. L'imperatore era pertanto in progressivo vantaggio e poteva lusingarsi con la speranza della vittoria finale, quando la morte repentinamente troncò le sue fatiche e le sue speranze.

Federico morì dopo breve malattia il 13 dicembre 1250 a Fiorentino in Puglia dopo aver serenamente manifestato le sue ultime volontà con un testamento formale e dopo aver pensato a regolare i diritti dei molti paesi e uomini che da lui dipendevano.
Ma morte lo coglieva a soli 56 anni. Ancor fanciullo aveva portato sul capo la corona e ne aveva provato il peso. Dal 15° anno si trovava nel turbine degli affari; già allora si era dimostrato di una maturità di corpo e di spirito così precoce da far stupire; eppure, malgrado tale precoce dispendio di forze, egli rimase sino alla morte pieno di energia e per lo più pienamente padrone di sé. Una volta un monaco fanatico afferrò per il morso il suo cavallo e lo coprì di ingiurie; ma l'imperatore frenò i cavalieri del suo seguito che avrebbero voluto castigare come meritava quell'insolente, dicendo: «Lasciatelo andare, egli vorrebbe volentieri diventare un martire, ma non raggiungerà certo il suo scopo servendosi di me».

Anche di fronte al papa egli non tradì mai la sua calma, ma purtroppo non seppe serbarla di fronte alle città lombarde. Federico vide in queste città semplicemente le ribelli a quell'autorità regia, che egli nel regno di Sicilia aveva portato al grado di un quasi illimitato assolutismo. Non che egli mirasse a conquistarsi uguali diritti ed a stabilire uguali forme di amministrazione anche nelle città dell'Alta Italia, ma tuttavia recò nella lotta contro di esse le sue idee sull'autorità reale, tanto più che sapeva come gli imperatori romani avessero un tempo esercitato in quel territorio ben più ampi diritti. Di più in questi Comuni straziati dalle fazioni intestine già si manifestavano segni non dubbi che il periodo della loro costituzione repubblicana si avviava al tramonto e che la tirannide si sarebbe insediata nelle singole città od avrebbe imperato su gruppi di città .

A Federico II ciò non sfuggi e forse credette di poter sfruttare la situazione in modo da farla servire ai suoi fini. Se questa fu la ragione per cui dopo la vittoria di Cortenuova (1238 - contro la ricostituita Lega Lombarda) impose alle città vinte durissime condizioni, vuol dire che egli non apprezzò al giusto quanta capacità di resistenza e quanta abnegazione civica esse tuttora celassero nel loro seno. Ma forse non si trattò tanto di un calcolo sbagliato quanto di un atto d'ira e di vendetta. Forse ancora egli volle dare un esempio.
Comunque sia, il fatto che dopo la vittoria di Cortenuova egli non abbia saputo moderare le sue pretese appare per lo più al giudizio dei moderni come una delle principali cause dei suoi insuccessi. Ma, pur convenendo in quest'ordine di idee, forse non si deve dimenticare quanto fosse allora complicata la situazione e quanto sia stato facile che le stesse inimicizie partigiane che infierivano nell'alta Italia e le esigenze dei fautori di Federico abbiano costituito un ostacolo a che l'imperatore seguisse una politica conciliante rispetto agli avversari.

Federico non aveva tanta libertà d'azione quanta se ne suppone allorché si imputa alla sua durezza o al suo desiderio di vendetta l'aver lasciato passare il momento favorevole a ristabilire la pace.
Con ciò non vogliamo affatto asserire che Federico fosse alieno dalla durezza e dalla crudeltà. In questo lui era non del tutto dissimile da suo padre Enrico VI. In lui inoltre si celava non poca dose di quel dispregio degli uomini, proprio dell'autocrate, che sacrifica senza molti scrupoli gran numero di vite ai suoi progetti e anche ai suoi capricci. La tradizione dei Greci e dei Saraceni si perpetuò a questo riguardo nel regno siciliano dei Normanni e degli Hohenstaufen. Lo stesso deve dirsi del lusso smodato della corte di Federico, dell'harem di donne cristiane e saracene che ne faceva parte, dei servi di ogni nazione, «negri d'Etiopia sonanti trombe d'argento, danzatori e giocolieri mauri» che lo seguivano ovunque e lo seguirono anche in Germania. Egli si tirava dietro pure un vero serraglio; cammelli, leoni, pantere, orsi bianchi ed un elefante. Tutto ciò non costituiva soltanto qualcosa di strano che gli alienava il popolo tedesco, ma creava un grande disturbo nei suoi viaggi oltre che uno sperpero di denaro che non poteva non influire sulla sua politica.

Del resto questo variopinto splendore della sua corte e del suo seguito, questa pompa di uomini di varia nazionalità, dei prodotti della loro arte e delle loro mode, non era una creazione artificiale, ma era dovuta necessariamente alla mescolanza di popoli che caratterizzavano il suo regno di Sicilia. Se Federico parlasse correntemente e bene il tedesco non é sicuro, ma é probabile; certo egli parlava, oltre il dialetto italiano, che dobbiamo considerare come la sua lingua natia, il provenzale ed il francese, di più il latino, il greco e l'arabo.
Tutte queste lingue erano parlate anche alla sua corte, e nel regno di Sicilia oltre alla chiesa romana, godevano libertà di culto i Greci, gli Ebrei ed i Saraceni. Qui la tolleranza religiosa era tradizionale dal tempo dei Normanni. «Che ognuno invochi il Dio che venera», disse il re normanno Guglielmo II ai Saraceni ed ai Greci; «chi crede al suo Dio ha il cuore tranquillo».

Gli stessi sentimenti espresse il poeta Freidank che accompagnò nel 1220 Federico in Terra Santa e riassunse le sue impressioni con le parole: «Ad Acri non v'é differenza tra cristiani, ebrei e pagani». Egli non riusciva a persuadersi che agli ebrei ed ai pagani od eretici spettasse l'inferno, perché - diceva - Dio fa risplendere il suo sole sugli uomini di ogni credenza e arreca loro le stesse tempeste. Era notorio che Federico condividesse le stesse idee. Gli si é stato persino messo in bocca il motto che Mosé, Cristo e Maometto erano tre impostori della stessa risma. È inverosimile in massimo grado che egli abbia prestato una simile arma contro di sé ai suoi avversari clericali, ma non é dubbio che in molte occasioni si sarebbe nel suo intimo sentito disposto a pronunziare tali parole.
Se, malgrado queste idee, egli fece la parte del birro del papa contro gli eretici e contro quegli infelici che volevano conservare la loro religione ed emanò ed applicò contro costoro le crudeli leggi reclamate da papa Innocenzo III, fu certamente un semplice atto dettato da considerazioni politiche; ma fu anche un atto che gli venne aspramente rinfacciato da molti.
Il trovatore Guglielmo Figueira, che era stato un ammiratore entusiasta dell'imperatore, scrisse nel 1239 una canzone in cui lo attaccava violentemente chiamandolo vile e bassamente volgare. È ben vero che esteriormente le sue censure riguardavano il modo a suo parere non sufficientemente energico con cui Federico aveva condotto la guerra in Italia, ma è stato giustamente osservato che ciò non basterebbe a spiegare il mutamento dei suoi sentimenti verso l'imperatore e che la sua ira é dovuta principalmente alle leggi emanate nel 1238 da Federico contro gli eretici. A questo motivo il poeta non accenna, perché forse nel farlo si sarebbe esposto a un pericolo anche maggiore; e se questa é la ragione per cui tacque, la violenza del suo sdegno trova anche miglior spiegazione.

Federico trattò come cosa indifferente ciò che sembrava invece sommamente prezioso all'uomo che reclamava il diritto alla libertà delle proprie convinzioni. Egli era un autocrate per cui gli uomini non erano che oggetti o strumenti del suo potere. Questa fredda indifferenza, in certi momenti critici diventa follia. Ed essa tornò a danno anche di Federico; egli non si guadagnò i preti e perdette fra i laici più di un braccio valente e fidato.
L'imperatore Federico II ha trovato presso i suoi contemporanei e dinanzi al tribunale della storia più ammirazione che amore. Malgrado tutte le sue innegabili doti, egli non ebbe le vere caratteristiche della grandezza. Si potrebbe anzi dire che, ad onta della corona imperiale che portava sul capo, egli ebbe molto del pretendente o del tiranno che lotta con ogni mezzo per la propria esistenza, ebbe molto di ciò che ci ripugna in Roberto Guiscardo e nei posteriori tiranni del XIV e XV secolo.
E se tutto ciò noi ce lo possiamo spiegare, non per questo lo possiamo lodare.

Ma anche chi guarda Federico con tale sentimento di avversione é costretto ad ammirare le splendide doti che spiegò quest'uomo che non aveva avuto giovinezza, che fin da fanciullo aveva provato le preoccupazioni ed i pericoli della corona, che a 15 anni aveva dovuto stringere un matrimonio politico ed a 16 anni aveva dovuto prendere una risoluzione che esigeva la fermezza di un uomo maturo, e che poi per 39 anni aveva dovuto ininterrottamente talora lottare, talora vivere in rapporti malsicuri con le maggiori potenze del suo tempo.
Federico assolse questo compito, malgrado che il suo mal consigliato figlio Enrico fosse stato indotto da traditori a ribellarglisi e malgrado che molte altre avversità gli amareggiassero i frutti delle sue vittorie. Egli fu di carattere irremovibile, acutissimo di ingegno e per di più molto colto, non solo nel senso dell'erudizione, ma anche nel senso dell'originalità del pensiero. Nel suo trattato della caccia col falcone egli si liberò completamente dalle pastoie della forma scolastica e scrisse il risultato delle sue accurate osservazioni con l'esattezza e la precisione di Cesare, del quale la sua figura ricorda anche sotto altri riguardi alcuni tratti.

Perciò Federico risulta come la figura dell'uomo moderno in mezzo ad un mondo medioevale, dell'imperatore che riuscì a tenere in piedi l'impero ad onta di tutto un flutto di tendenze politiche e religiose che da un lato miravano all'instaurazione di una teocrazia il cui splendore mistico traeva in abbaglio anche la mente di molti fra i migliori, e dall'altro lato maturavano il germogliare di nuove forme di vita politica e di Stati, inconciliabili con l'idea dell'antico imperium.
Con la morte di Federico la lotta non cessò. Ancora per 18 anni, sino al 1268, la sostennero e proseguirono i suoi figli Corrado e Manfredi (1266) e suo nipote Corradino, per quanto con la morte dell'imperatore il partito degli Hohenstaufen, composto di elementi poco disciplinati, fosse venuto a mancare di un capo generalmente riconosciuto.

Il figlio di Federico, CORRADO IV, mori prematuramente nel 1254, e circa sei mesi dopo (7 dicembre 1254) mori anche papa Innocenzo IV. Innocenzo però non morì affatto nella gioia della vittoria; ché anzi chiuse gli occhi sotto l'incubo delle preoccupazioni che gli avevano destato i progressi del figlio illegittimo di Federico, MANFREDI, il quale con un ardito colpo di mano si era impadronito della forte Lucera ed aveva sbaragliato presso Foggia le truppe papali. Papa Innocenzo IV aveva fatto servire la chiesa quasi esclusivamente come strumento di mire politiche e queste mire si riassumevano nella conquista di un dominio universale che non era possibile conquistare e che, se conquistato, non sarebbe stato possibile governare, tanto meno da un prete che doveva far combattere le battaglie da altri, i quali - ovviamente - tanto più gli si imponevano quanto più erano bravi come generali e come principi.

Innocenzo IV é stato il più grande o uno dei più grandi papi del Medio-Evo, ma i metodi di falsità che adottò, l'abuso che fece delle sacre istituzioni che aveva il dovere di custodire e la poca solidità dell'autorità ch'egli ebbe anche nei giorni del successo - e molte altri errori che si rivelano a guardar più a fondo la sua opera - dimostrano che la potenza acquistata dal papato tramite suo era pari al fumo di un fuoco che consuma sé stesso.
Se grande era il desiderio dell'umanità di conquistarsi il paradiso e se i papi erano stati ritenuti come coloro che ne potevano aprire e chiudere le porte, l'opera del papato da Innocenzo III a Innocenzo IV non solo scosse questa fede in migliaia di persone, e specialmente delle persone più elevate ed influenti, ma abituò gli Stati a riconoscere bensì il dogma che i papi erano i detentori delle chiavi del cielo, ma a trattare in pratica la curia come una potenza politica che andava giudicata secondo i disegni che di volta in volta concepiva e i metodi che adottava.

Se il papa avesse lasciata in pace la Germania, l'imperatore Federico II avrebbe avuto ai suoi giorni la possibilità di accrescere considerevolmente la potenza dell'autorità imperiale e regia, perché nel periodo tra il 1246 e il 1248 si estinsero rapidamente tre famiglie principesche, dominanti su vasti territori: gli Andesch Merani, i Babenberger in Austria e i langravi di Turingia.
Era questo un momento quanto mai propizio perché la corona germanica si avviasse a ricostituire la Germania ad unità seguendo quella stessa strada che avevano già battuto con fortuna l'Inghilterra e la Francia. Ed invece l'estinzione di quelle famiglie non fece che accendere lunghe lotte di successione che in Austria non finirono se non quando RODOLFO d'ABSBURGO riuscì ad ottenere la corona.

Né le cose andavano meglio nelle altre parti dell'impero. Ovunque il tradimento, se la defezione al partito del papa offriva vantaggi, e dopo la morte di re Corrado nel 1254 anche i partigiani fedeli dell'impero si videro costretti a pensare alle proprie sorti. Rodolfo d'Absburgo era stato uno di questi; egli non aveva mai tradito Federico II e dopo la sua morte era rimasto accanto a Corrado IV.
Il papa aveva scomunicato Federico ed aveva fulminato l'interdetto sui suoi territori; ma egli rimase impavido, e non pochi furono pure gli ecclesiastici che non si curarono di questo interdetto, anzi alcuni vescovi parteggiarono persino per Federico. Ma, morti che furono papa Innocenzo IV e Corrado IV, Rodolfo fece pace con la chiesa e con i principi vicini di partito papale, guadagnando in tale occasione preziosi acquisti di territorio.

Uno dei suoi fratelli era caduto in Italia combattendo per l'imperatore; un altro era canonico a Strasburgo ed insieme col suo capitolo e col suo vescovo fu uno di quelli che saccheggiarono i beni degli Hohenstaufen e dell'impero. Lo stesso fece anche la città di Strasburgo. Ma, caduta che fu la potenza degli Hohenstaufen e dell'impero, quando non vi fu più un re che tutelasse la pace, la città e il vescovo, ambedue animati dalla stessa avidità, vennero in fiero conflitto. Il vescovo cercò di prendere la città di sorpresa e domarla, ma rimase sconfitto con i suoi cavalieri davanti all'esercito cittadino nella battaglia di Hausbergen.
Ciò avveniva nel 1262, l'8 marzo, cioè al tempo in cui i papi avevano trionfato sull'impero. Questo prova di che trionfo si trattasse, perchè i papi, apparentemente padroni del mondo, non poterono, come si vede, impedire che il vescovo di Strasburgo si battesse in una battaglia campale come un cavaliere qualsiasi, e nemmeno che i cittadini di Strasburgo lo sconfiggessero e quindi definissero con la spada le questioni tra città e vescovo.

E lo stesso accadeva dappertutto. Il figlio del conte di Savoia divenne allora arcivescovo di Lione senza che avesse mai avuto gli ordini sacri; però un suo fratello aveva in moglie la nipote di papa Innocenzo. Questo è un esempio degli abusi che ovunque si commettevano sfruttando il sentimento di devozione del popolo al papato.
La riforma iniziata per epurare e rendere indipendente la chiesa aveva distrutto l'antica subordinazione della chiesa allo Stato e con essa la potenza dell'impero, ma non aveva né aumentato la pietà e la disciplina del clero né garantito il pacifico e sicuro possesso dei beni ecclesiastici.

È difficile riassumere i risultati della lunga lotta; ma alcuni fatti spiccano nettamente. In Italia ed in Germania l'autorità dello Stato ne uscì gravemente pregiudicata. Il potere regio si frantumò in una quantità di signorie territoriali grandi e piccole che si fecero del potere pubblico un concetto assolutamente o prevalentemente privatistico, e che si combatterono a vicenda con furore fanatico per cause spesso piccole e spesso addirittura insignificanti.
L'autorità spirituale ne uscì anch'essa indebolita per l'abuso che aveva fatto delle proprie armi e il dominio temporale le tornò mille volte a svantaggio e sfortuna.

In Francia, in Inghilterra ed in Danimarca invece l'autorità della corona in quest'epoca aumentò, nonostante questi paesi siano rimasti spesso coinvolti nella grande lotta tra il papato e l'impero e tormentati dagli abusi della Curia.
La Germania vide andare in pezzi due grandi territorii che sembravano sulla via di acquistare quella estensione senza la quale uno Stato non può aver la forza di affermarsi di fronte all'estero e di reggersi all'interno. Erano a nord il territorio di Enrico il Leone, a sud quello degli Hohenstaufen. Ambedue si frantumarono in un gran numero di piccole signorie; ma a sud si costituì in mezzo a loro il nuovo grande dominio degli Absburgo.

Nella Germania sud-occidentale, la sede principale della potenza degli Hohenstaufen, la lotta tra Roma e l'impero si era delineata in sostanza come una lotta dei numerosi signori feudali, delle città e delle chiese, aspiranti all'indipendenza e all'espansione territoriale, contro gli Hohenstaufen, i quali, basandosi sull'autorità ducale loro spettante sulla Svevia e sull'autorità regia di cui erano investiti, si incamminavano ad organizzare i loro possedimenti in un grande ed unico dominio, tale da tenere in soggezione le piccole signorie territoriali inframmezzate tra questi possedimenti.
La caduta degli Hohenstaufen volle dire la vittoria dei piccoli signori. L'aggregazione di questi territori ai dominii della casa d'Absburgo mise poi in grado Rodolfo d'Absburgo di restaurare la monarchia tedesca. In occasione della sua elezione troviamo attuato il nuovo principio che il veto per l'elezione dell'imperatore spettasse soltanto a sette principi e non a tutti i principi, come si praticava a datare dal XII secolo; esso ci si presenta già come una norma generalmente riconosciuta senza indizio di un atto legislativo che l'abbia stabilita.

Gli Absburgo già nell'XI e XII secolo avevano grandi possedimenti in Alsazia ed in Svizzera e forse per questo l'imperatore Enrico V, o il suo successore Lotario, li investì dell'autorità comitale nell'Alta Alsazia, ed il vescovo di Strasburgo del balivato sul territorio di Ruffach dipendente dalla chiesa vescovile e che si estendeva a sud di Colmar. In grazia di queste due cariche si concentrò nelle mani degli Absburgo il potere politico sulla massima parte di questa bella regione, posta in situazione assai favorevole all'ampliamento della potenza della famiglia. Altri balivati e territori si aggiunsero in seguito, cosicché ai tempi di Federico II gli Absburgo erano già fra i più potenti signori della Germania sud-occidentale. Il loro capo, Rodolfo il Vecchio, si conservò fedele all'imperatore, e Federico II nel 1218 gli tenne a battesimo il nipote, cui fu apposto il nome di Rodolfo e che divenne il fondatore di una nuova dinastia imperiale, una dinastia che doveva conservare il titolo e la dignità imperiale fino all'inizio del XX secolo, benché entro limiti di territorio e con forme di governo assai diverse.

Il dominio familiare degli Absburgo costituì il principale sostegno dell'impero, e questo dominio, già aumentato al momento dell'estinzione delle case di Zàhring e di Hohenstaufen, fu poi con l'aiuto dell'autorità derivantegli dalla corona imperiale ampliato in tal modo da Rodolfo d'Absburgo che nessun'altra casa poté reggere al paragone degli Absburgo.
In Germania alla morte di Federico II seguì un periodo di vera anarchia, in cui una serie di inetti oltre che impotenti pretendenti si contesero la corona regia. I grandi signori, che già durante le lotte di Federico II con la curia avevano usurpato una quantità di beni degli Hohenstaufen e dell'impero, approfittarono di questo periodo di interregno per continuare nelle usurpazioni; ogni diritto venne calpestato, ma il popolo fu abbastanza forte per superare questa prova e per creare sulle rovine degli antichi ordinamenti nuove forme di costituzione politica.

I territori dei principi laici ed ecclesiastici, come pure molte città, acquistarono sempre più la coscienza e le forme di Stati, e dalla somma dei diritti singoli loro spettanti germogliò il concetto della sovranità territoriale. L'imperatore Federico II aveva intuito questo movimento di trasformazione ed aveva cominciato a regolarlo legislativamente. L'impero prese la figura di una federazione di Stati e nel suo seno gruppi maggiori o minori di territori strinsero leghe particolari per il mantenimento della pace, per provvedere alla sicurezza delle strade, dei mercati e della circolazione monetaria, alla abolizione di ingiusti dazi e per altri analoghi fini. Questi patti, le così dette «tregue», rappresentano la principale forma di legislazione di quei tempi, ed in sostanza non ha natura diversa anche la grande legge generale che l'imperatore Federico II emanò nel 1235 alla dieta di Magonza per consiglio e coll'adesione (de consilio et assensu) dei principi e che chiamò sacras constitutiones da inserirsi nella raccolta delle leggi dell'impero (public munimenta).

Ma é una ben dolorosa prova delle condizioni dell'epoca e dell'imperfetto funzionamento della giustizia, paralizzata dai privilegi del clero e dagli altri privilegi, il vedere che anche questa legge emanata dall'imperatore si trovò costretta ad ammettere la legalità della vendetta e della guerra privata per quanto limitata al caso di diniego di giustizia o di violazione del diritto da parte del giudice.
L'imperatore Federico II rimase nella memoria del popolo tedesco come l'ultimo ed anche il più grande rappresentante dell'autorità imperiale. Egli venne considerato la stessa persona con il suo avo Federico Barbarossa e così nacque la leggenda che non fosse morto, ma che sarebbe ritornato per restaurare l'impero, per ripristinare la pace, soccorrere gli oppressi e castigare i preti tracotanti.

Nell'epoca della dissoluzione dell'impero che cominciò con la morte di Federico II, questa leggenda rispecchiò le speranze del popolo. Lo spirito popolare vi lavorò attorno ancora variandola, sinché in una poesia del XIV secolo essa assunse la forma seguente: «Dopo giorni di formidabili lotte tra i due capi della cristianità verrà l'imperatore Federico e ripristinerà la pace e l'impero del diritto; restituirà ai pupilli, alle vedove ed agli orfani quanto fu loro sottratto, abbatterà il dominio dei preti e lascerà sussistere di costoro appena la settima parte. Egli distruggerà i chiostri, costringerà monaci e monache a sposarsi ed a lavorare la terra per coltivar il frumento e la vite. Dopo ciò verranno per noi tempi migliori. Egli conquisterà tutti i regni pagani, domerà gli ebrei al punto da non potersi più risollevare e marcerà con un grande esercito su Gerusalemme, e qui sul monte degli ulivi rinunzierà all'impero. Ovvero egli si recherà con una innumerevole schiera di uomini e di donne senz'anni in Terra Santa, questa terra che la volontà di Dio gli ha destinata, e qui appenderà il suo scudo ad un alto albero disseccato custodito da pagani, il quale allora rinverdirà».

È trascorso mezzo millennio prima che il popolo tedesco abbia potuto restaurare l'impero, per quanto non nella forma fantastica dell'impero universale ma in quella figura limitata che risponde ai bisogni della nazione, ed in tutto questo lungo periodo é rimasta viva nel popolo la leggenda che l'imperatore non fosse morto e la speranza nel suo ritorno.

Purtroppo morto lui era morto anche l'impero
e sui resti pronti gli avvoltoi...

IL PAPATO DOPO LA CADUTA DEGLI HOHENSTAUFEN > >

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