-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

79. PAPATO E CHIESA FINO A BONIFACIO VIII

Con la morte di Bonifacio sembrò finita la teocrazia
e il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie...

Verso la metà del XIII secolo il papato in seguito al suo trionfo sugli Hohenstaufen e sull'impero parve aver concentrato nelle sue mani tutta la somma dei poteri terreni. E la vittoria dell'autorità spirituale sul potere civile fece salire il papato anche in seno alla chiesa ad un grado di potenza quasi illimitata.

Gli inizi di questo processo di ascensione del papato risalgono all'epoca di Gregorio VII (1073-1085); ma il principio dell'assoluta autorità del pontefice romano nell'interno della chiesa fu posto e sostenuto nettamente soltanto da Innocenso III (1198-1216), ed un secolo dopo vediamo quasi raggiunto questo scopo dell'assoluta onnipotenza spirituale del papato. Quest'ultimo ormai si rivela come l'unica fonte che conferisce e commisura ogni potere spirituale; da esso solo le sacre facoltà scaturiscono e si diramano scendendo sino agli infimi organi della gerarchia ecclesiastica.

La via tenuta dal papato per arrivare a tale mèta fu in complesso quella di muovere dalla supremazia per così dire teoretica, riconosciutagli senza contestazioni nei vari rami dell'amministrazione ecclesiastica, per renderla reale sempre in maggior misura ed attuarla effettivamente sin nei più minuti particolari. Così in materia di giurisdizione ecclesiastica i papi non solo estesero sempre più il loro diritto di decidere in grado di appello facendo in modo che un sempre maggior numero di contestazioni fosse portato dinanzi al loro foro in seconda istanza, ma andarono più in là e riuscirono a far trionfare la massima che ogni lite potesse essere portata anche in prima istanza direttamente a Roma, cosicchè di fatto tutta la giurisdizione ecclesiastica si concentrò nella curia, la quale fu in grado quando le parve opportuno di eludere e paralizzare la giurisdizione ordinaria dei vescovi.

Un altro esempio si ha nella storia del potere legislativo ecclesiastico. Esso in origine non spettava ai papi, ma ai concili che impersonavano la rappresentanza di tutta la chiesa ; tuttavia assai per, tempo i papi si arrogarono la facoltà di esentare mediante dispense, per lo meno in casi singoli, dall'osservanza delle leggi e dei precetti vigenti, mettendosi in questo modo al di sopra della legge.

D'altra parte con la fine della lotta per le investiture i concili ecumenici divennero più rari; in un periodo di 172 anni, vale a dire dal 1139 al 1311, non si ebbero che cinque grandi concili, i quali inoltre, più che limitare i poteri dei papi, li consolidarono ed ampliarono. E così il potere legislativo passò dai concili ai papi.
A cominciare da Alessando III (1159-1181), il contemporaneo ed avversario di Federico Barbarossa, i migliori papi si presentarono più giuristi che teologi, e le « decretali » dei pontefici sostituiscono i canoni dei concili nel dettar leggi alla chiesa. Da queste decretali poi uscì quella grande compilazione che va sotto il nome di Corpus iuris canonici, che fece della chiesa un vero istituto ordinato giuridicamente e venne a porsi accanto al Codex lustinianus del diritto civile romano.

Fu papa Gregorio IX (1127-1241) che nel 1234 fece completare il Decretum, sorto come compilazione privata, e, diviso in cinque libri, lo promulgò come un codice avente valore formale di legge per la chiesa; e ciò fece di propria autorità senza chiedere il consenso di altre autorità ecclesiastiche.
Se si pensa che le decretali erano state emanate dai papi e che d'altro canto questi stessi papi, anzi essi soli, potevano dispensare dall'osservanza delle prescrizioni ecclesiastiche, si ha il risultato che in realtà i papi si erano conquistato il più completo arbitrio nel governo della chiesa.

Si aggiunga che essi finirono per avocare a sé l'imposizione dei tributi alla chiesa ed il conferimento degli uffici ecclesiastici. In origine e sino al XIII secolo questa tassazione fu di competenza dei concili; ma in seguito l'ingerenza papale invase anche questo campo.

All'inizio Roma avanzò la sua pretesa sotto la veste di preghiera; ma ben presto la curia sotto una quantità di pretesti prese il costume di sfruttare la chiesa con l'imposizione di «sussidi» d'ogni genere, di centesime, ventesime, decime, ecc. delle entrate ecclesiastiche.
Non diversamente avvenne in ordine al conferimento degli uffici ecclesiastici. Questo era anzi il punto più importante per la supremazia dei papi sulla chiesa. Avere infatti il diritto di nominare le cariche ecclesiastiche, significava avere in pugno la chiesa, averein proprie mani le immense sue ricchezze sparse in tutta la cristianità.
I papi naturalmente lo compresero benissimo, ed impegnarono tutto il peso della loro autorità per indurre anche in questa materia un mutamento di sistema a loro profitto. In origine alla curia romana spettava scarsa ingerenza nel conferimento delle cariche ecclesiastiche; gli uffici inferiori erano conferiti dai vescovi ed alle prelature (dopo l'eliminazione più o meno completa dell'ingerenza del potere civile in seguito alla lotta per le investiture) provvedevano per elezione i capitoli delle cattedrali. Anzi non si arrivò mai a riconoscere formalmente ai papi in modo generale, od anche semplicemente in determinati casi, la facoltà di, nominare i vescovi.
Ciò malgrado fin dal XII secolo i papi sostennero in principio che ad essi spettasse il diritto di conferire tutti gli uffici ecclesiastici, di modo che parvero fare una concessione con l'accontentarsi di «riservarsi » in alcuni casi, non fissati peraltro ma lasciati al loro arbitrio, di decidere in merito a tali uffici.

Ed anche qui all'inizio lo fecero in forma di preghiera : essi «raccomandarono» agli ordinari il conferimento di un certo beneficio ad una determinata persona; ma ben presto (già sulla fine del XII secolo) furono istituiti degli «esecutori» con l'incarico di provvedere alla effettiva realizzazione di queste raccomandazioni papali e vennero comminate pene per il caso che gli ordinari non vi ottemperassero; la preghiera si era sostanzialmente trasformata in ordine.

Il papa non si limitò poi a dare questi ordini nell'ipotesi di vacanza di benefici, ma cominciò ad emanare sempre in maggior numero le cosidette «expectantiae», con cui concedevano in antecedenza dei benefici nell'aspettativa che si rendessero vacanti; queste gli offrirono il mezzo di ricompensare i suoi cortigiani e favoriti e di disseminare partigiani devoti nel clero dei vari paesi.
E finalmente alle accennate due forme di ingerenza si aggiunsero in seguito le provisiones, provviste di benefici vacanti fatte direttamente dai papi; forma nella quale venivano conferiti persino dei vescovadi per quanto da principio solo in determinate eventualità, come se ad es. l'elezione era contestata o non era avvenuta con la rigorosa osservanza dei precetti canonici: quest'ultima condizione per altro era già molto elastica.

Un ulteriore ed importantissimo passo verso lo scopo agognato fece papa Clemente IV (1265-1268) nel 1265 dichiarando di esclusiva competenza del papato il conferimento di quei benefici «che si rendessero vacanti presso la curia», vale a dire se i titolari morivano mentre si trovavano permanentemente od anche soltanto casualmente o transitoriamente presso la curia; in altri termini il papato si assicurava la libera disposizione dei benefici di tutto il personale di curia, di regola riccamente dotato, dal cardinale all'ultimo funzionario, e di tutta la numerosa classe degli ecclesiastici che l'adempimento di un pio dovere, o il bisogno di chiedere qualcosa, o sopra tutto una lite faceva affluire a Roma.

Per conseguenza, allo stato delle cose sul finire del XIII secolo, il papa può disporre quasi illimitatamente dei redditi di tutta la chiesa e distribuisce a suo beneplacito le cariche ed i benefici ecclesiastici; i prelati sono suoi rappresentanti, suoi semplici funzionari.

Verso la stessa epoca si accentuò sempre più la separazione di classe del clero di fronte al ceto laico. Fu soltanto allora che il numero dei sacramenti si fissò definitivamente a sette; essi accompagnavano la vita di tutti gli uomini dalla culla alla tomba; ma uno speciale sacramento, quello della consacrazione, distinse il clero dai laici e lo innalzò al di sopra di tutto il resto dell'umanità come un ordine che serviva da intermediario tra gli uomini e la divinità.

Contemporaneamente fu creato il sacramento della messa, concepito come un giornaliero sacrificio, una offerta del corpo di Cristo da parte del sacerdote; la dottrina mistica della transustanziazione, a senso della quale il sacerdote per così dire miracolosamente restituisce il corpo di Cristo e lo offre in sacrificio a Dio, era già stata fondata nell'XI secolo sotto Gregorio VII; nel 1215 poi il quarto concilio Laterano la accolse tra suoi articoli di fede e dimostrò così di considerarla un dogma. Circa un secolo dopo venne creata la festa solenne del corpus domini (1311).

Ma nel frattempo anche le condizioni della società occidentale si erano trasformate in modo da rendersi ulteriormente incompatibili col predominio dell'elemento ecclesiastico. L'egemonia ecclesiastica era stata por così dire una necessità storica nei tempi antecedenti in cui si era trattato di guadagnare al cristianesimo gli ancor barbari fattori della futura storia dell'Occidente europeo e di educarli e prepararli alla missione di civiltà cui erano chiamati.

Ma quando quest'opera fu giunta al suo termine e cominciò a formarsi in seno a ciascuno dei popoli una coscienza nazionale, l'indirizzo universale impersonato dalla chiesa non poté a meno di essere sopraffatto dalle correnti particolariste. Ad affrettare questo processo contribuirono le crociate.
Esse emanciparono i popoli dell'Occidente dalle anguste forme di vita economico-sociale sin allora dominanti; nuovi elementi di cultura affluirono in Occidente in seguito alle relazioni ed ai contatti con l'Oriente; l'orizzonte delle idee si allargò grandemente, tutta la vita divenne più varia e complicata; una grande rivoluzione economica dovuta all'introduzione dell'economia monetaria fece salire a ricchezza e potenza le città e la borghesia, il vero e proprio elemento progressivo degli ultimi secoli del medio-evo, con l'aiuto del quale l'impero si sottrasse a poco a poco alla tutela in cui lo teneva la chiesa.

E già ora potevano dirsi poste le basi della formazione delle diverse nazioni dell'occidente europeo; le lingue nazionali cominciarono a scalzare il latino, l'idioma universale della chiesa, a penetrare in tutti i vari campi dell'attività intellettuale; sorsero Stati nazionali aventi ciascuno esigenze e fini particolari propri, con i quali era incompatibile un potere che, estraneo ai bisogni ed alle aspirazioni della vita politica nazionale, volesse esercitare dei diritti di sorveglianza e di ingerenza.
In questo elemento nazionale infatti il papato, che aveva avuto la forza di trionfare sugli imperatori di casa Hohenstaufen, trovò il suo domatore; e prima d'ogni altro nel sentimento nazionale francese. Gli stessi papi avevano contribuito ad accrescere la potenza della Francia per servirsene a controbilanciare la potenza dell'impero; a tale scopo l'avevano sempre favorita come avevano cercato il suo appoggio in momenti critici.

La prima conseguenza di quest'indirizzo fu intanto che la curia si trovò aperta all'influenza francese e la politica romana divenne assai più francofila di quanto convenisse agli interessi del papato.
Questo nuovo orientamento politico della curia romana comincia con l'elezione di Urbano IV (1261-1264), un francese.
Mentre sotto il suo predecessore, Alessandro IV (1254-1261), aveva potuto sembrare non del tutto escluso che la Santa Sede riconoscesse Manfredi, che in opposizione alla linea tedesca della sua famiglia si era proclamato re di Napoli e di Sicilia, Urbano IV invece non ebbe altro pensiero che di combattere e sterminare gli Hohenstaufen.
Egli perciò dichiarò decaduto Manfredi dalla corona e la offrì ad un principe francese, il conte di Provenza Carlo d'Angiò, il quale, dietro invito del papa sbarcò in Italia alla testa di uno scelto esercito di cavalieri francesi, sconfisse ed uccise nel 1266 Manfredi in una sanguinosa battaglia, e due anni dopo mandò al supplizio Corradino, che era venuto a riconquistare l'eredità paterna; la testa del legittimo erede cadde sotto la scure dell'usurpatore a Napoli.

Insieme con Carlo d'Angiò trionfò il papa, non Urbano IV che era morto nel 1265, ma il suo successore Clemente IV (1265-1268), anch'egli un francese; questa seconda elezione di un francese dimostra quanta preponderanza avesse già acquistato l'elemento francese nel collegio dei cardinali dopo che Urbano IV lo aveva arricchito di propri connazionali elevando alla porpora costoro a preferenza d'ogni altro.
Papa Clemente dopo questa decisiva vittoria conferì a Carlo d'Angiò la carica di senatore della città di Roma, vale a dire pose sotto il suo protettorato la capitale della cristianità, e lo investì dei poteri di vicario imperiale in Toscana.

Il principe francese, insieme col dominio sulla bassa Italia, acquistò così anche una forte posizione nell'Italia centrale, senza contare che dalla Provenza aveva già tentato di meter piede nell'Alta Italia. E dietro le spalle di lui, fratello di S. Luigi, vigilava la potenza della monarchia francese. Data questa condizione di cose non può destare meraviglia che la curia abbia cominciato a temere di vedersi ridotta allo stato di un mero strumento impotente della volontà del suo alleato, e che nel suo seno si sia prodotto un movimento di reazione, il quale alla morte di Clemente IV (1268) impedì che fosse eletto per la terza volta un francese, riuscendovi peraltro soltanto dopo tre anni di conclave.

Il papa finalmente eletto nella persona di Tebaldo Visconti di Piacenza, che assunse il nome dei Gregorio X (1271-76), ed il suo successore Nicola III, un romano dell'antica casata degli Orsini (1277-80), si impegnarono non senza buon esito di arginare e restringere l'influenza francese nella penisola. Papa Gregorio infatti contribuì considerevolmente a frustrare le ambizioni francesi alla corona italiana e con Nicola III ( 1277-1280) la politica curiale riacquista l'impronta della grandezza passata; egli seppe strappare di mano all'angioino così la carica di senatore come il vicariato di Toscana. Ed ambedue questi papi curarono pure il consolidamento e l'ampliamento dello Stato della Chiesa. Ma alla morte di Nicola III in conclave la marea portò nuovamente a galla un francese, anzi addirittura l'ex-cappellano di re Carlo, che in omaggio al santo vescovo di Tours, il protettore della Francia, prese il nome di Martino IV (1281-85) e non ebbe più limiti nella sua devozione all'angioino. Quest'ultimo a quel punto si sentì così sicuro in Italia che si preparò con grande zelo per mettere in esecuzione vecchi progetti contro Bisanzio.

Egli si proponeva cioè di restaurare l'impero latino in Oriente ed il papa compiacente si affrettò ad appoggiare la sua impresa fulminando l'anatema contro l'imperatore d'Oriente.
Ma a tal punto, all'apice della sua potenza, il carnefice di Corradino fu colto da un turbine improvviso che troncò tutti i suoi progetti.

In Sicilia scoppiò una formidabile insurrezione; la popolazione dell'isola, stanca dell'oppressivo governo di questo padrone impostole con la forza, si sollevò e rivendicò a sé il diritto di decidere delle proprie sorti; il primo esempio nel medio-evo di un popolo che insorge contro pretese dinastiche ed accordi diplomatici intessuti dietro le sue spalle !
Nei « Vespri Siciliani », la cui prima scintilla parti da Palermo il 30 marzo 1282, trovarono la morte tutti i francesi che erano nell'isola; e il loro dominio in Sicilia fu finito per sempre. Dalle mani del popolo vittorioso ricevette la corona di Sicilia don Pedro, re d'Aragona, il genero di Manfredi.

Va da sé che gli Anjou non si acquietarono al fatto compiuto; anzi per venti anni impegnarono tutte le loro forze per prendersi vendetta dell'affronto e ridurre nuovamente sotto il loro giogo la bella isola. Ma tutto fu vano, ed alla fine dovettero accontentarsi di Napoli, lasciando ai discendenti dell'aragonese la Sicilia costituita in regno a parte col nome di regno di Trinacria.

I papi, che vantavano l'alta signoria feudale su Napoli come sulla Sicilia, parteggiarono fedelmente per gli angioini nella lotta per la riconquista della Sicilia. D'altra parte il fatto che i loro potenti protettori rimasero, impegnati in Sicilia, costituì una diversione che procurò a loro una maggiore libertà d'azione e li preservò dal cadere in completa schiavitù di costoro.
Se non che la riacquistata indipendenza gettò la curia in braccio alla stessa anarchia che infuriava in tutta l'Italia e ridusse il papato a zimbello delle fazioni che si dilaniavano in Roma, nel patrimonio di S. Pietro, e nello stesso collegio cardinalizio.

I papi, compreso Nicola IV (1288-92), il primo francescano assurto alla tiara, non riuscirono a dominare questa situazione e ben presto si videro spogliati d'ogni autorità in Roma; solo di rado e transitoriamente i papi in quest'epoca dimorarono nella città, e di regola invece scelsero a residenza una località fortificata del territorio di S. Pietro a loro sicuramente devota. La morte di Nicola IV fu seguita ancora da una lunga sedisvacanza, perché i cardinali non poterono accordarsi su una persona di valore capace di reggere il timone della chiesa in tempi così tanto difficili, sedisvacanza che finì con la più strana e bizzarra elezione che conosca la storia del papato.

Nel luglio del 1294 i voti dei cardinali si concentrarono cioè sulla persona di un eremita, Pietro di Monte Murrone negli Abruzzi. Benché sorpreso quanto mai di questo fatto ben lontano da ogni suo pensiero, l'eremita nella sua semplicità accettò la tiaria, ma ben presto dovette convincersi della propria completa incapacità di portare la corona di Gregorio VII e di Innocenzo III. E quindi Pietro l'eremita - o Celestino V, come egli volle chiamarsi - rinunziò alla tiara dopo cinque soli mesi di pontificato, unico esempio nella storia dei papi d'una volontaria abdicazione; e dopo ciò per effetto di una comprensibile reazione salì al soglio la personalità sotto ogni riguardo più eminente tra i cardinali, Benedetto Gaetani, d'antica famiglia romana, uomo praticissimo degli affari e della politica, dotato di talento non comune e di vasto sapere, ma pretenzioso e dispotico, uso a perseguire i suoi fini inesorabilmente, a costo anche di calpestare i diritti e gli interessi degli altri.

Bonifazio VIII, come si chiamò il nuovo papa (1294-1303), apparteneva da cardinale al partito guelfo-angioino; e per la sua elezione poteva contare sulla protezione di re Carlo II di Napoli. Da papa riuscì a schiacciare la fazione che gli era avversa nello Stato della chiesa e nel collegio dei cardinali, ed a sbaragliare i suoi capi, i Colonna, che avevano goduto il favore e l'appoggio di Nicola IV; egli distrusse i loro castelli della campagna romana, confiscò i loro vasti possedimenti e li donò ai suoi nipoti, i Gaetani; egli fu il fondatore della potenza di questa famiglia che ancor oggi perdura.

Ma Bonifacio mirò a raggiungere ben più alti fini. Egli non solo volle restaurare l'assoluta autorità della Santa Sede in tutta Italia, ma sognò pure la piena realizzazione di quell'ideale di supremazia universale del papato, concepito da Gregorio VII ed Innocenzo III, e che ora gli parve più attuabile per la caduta dell'impero e per la posizione di quasi illimitato dispotismo raggiunta dal papato in seno alla chiesa; sognò di costringere ogni creatura umana a riconoscere la superiorità del potere spirituale del vicario di Cristo.

Ma egli fece i calcoli senza la Francia che, già alla testa delle nazioni europee, e già abituata a non vedere nel papato che un docile strumento della sua politica, attraversò la strada alle nuove velleità della curia e le insegnò che era irreparabilmente passato il tempo di mettere in campo così esagerate pretese.

 

INIZIO DELL'EGEMONIA FRANCESE


Dalla disorganizzazione e dall'anarchia la Francia sotto la dinastia dei Capetingi (987-1328) giunse gradatamente e laboriosamente a conquistarsi ordine all'interno ed influenza notevole all'estero. La corona, che si trasmise sempre regolarmente di padre in figlio, acquistò col tempo prestigio sempre più grande. Il re che all'inizio non poteva vantare se non quegli scarsi poteri che gli derivavano dall'alta signoria feudale, che era semplicemente primus inter pares, riuscì ad imporsi a poco a poco ed in misura sempre maggiore ai grandi vassalli, soprattutto da quando Filippo Il Augusto aumentò la potenza della corona strappando ai Plantageneti le regioni del nord-ovest della Francia ed aggregandole ai dominii regi.

Questi poi si ingrossarono ancora per la devoluzione di altri grandi feudi, ovvero la corona, come per la contea di Tolosa, acquistò in antecedenza il diritto di aspettativa alla successione; i rimanenti vassalli furono ripetutamente umiliati e sempre più ridotti all'obbedienza verso il re, che allo scopo si appoggiò non di rado sulle classi inferiori del popolo, e specialmente sulla borghesia che era in via di poderoso sviluppo e di cui promosse e favorì l'autonomia comunale. A questo modo furono create gradatamente le basi di uno Stato ordinato, sorsero gli elementi di una nazione attorno ad un unico centro, la monarchia.

Dal 1226 al 1270 sedé sul trono francese Luigi IX, detto il Santo, un monarca che fece della religiosità e della giustizia i due criteri fondamentali della sua politica. Alcune generazioni prima un tipo di re come S. Luigi sarebbe stato inconcepibile a capo di una nazione occidentale; la sua comparsa attesta il progresso morale compiuto dalla società occidentale superando l'era della faida selvaggia caratteristica dei secoli antecedenti.

Già i contemporanei ammirarono e circondarono di venerazione questo re la cui illibata personalità sembrò nobilitare la corona che portava riflettendosi sulla stessa nazione che governava. Tuttavia il fondo eminentemente religioso del suo carattere non disgiunto persino da qualche tendenza ascetica, non impedì a Luigi IX di salvaguardare i diritti della corona dei quali fu geloso custode, né lo trascinò a pericolose debolezze verso la chiesa e verso l'elemento ecclesiastico, come non gli impedì di mostrarsi sui campi di battaglia valente cavaliere pur dirigendo le sue maggiori imprese guerresche a difendere la causa dei cristiani in oriente.
Due volte egli prese la croce, con esito peraltro nell'uno e nell'altro caso infelice.

Una fonte di continui attriti e di perenni complicazioni era per la corona francese la politica dei suoi più potenti vassalli, i Plantageneti, i quali, saliti (dal 1154) al trono d'Inghilterra, ne approfittarono per creare difficoltà alla monarchia francese e sostenere di nascosto i suoi nemici. E infatti, anche sotto Luigi IX avvenne una delle tante sollevazioni generali dei vassalli, dietro le cui spalle stava re Enrico III d'Inghilterra.
Ma Luigi IX riuscì ad averne ragione e si valse dei trionfo per eliminare la causa dell'inconveniente. Fu stabilito che d'ora innanzi nessuno potesse essere contemporaneamente vassallo delle due corone; chi si trovava in questa condizione doveva rinunziare all'una od all'altra parte dei suoi feudi. Fu questo un passo importante verso la separazione delle due nazioni e verso il consolidamento di ciascuna di esse.

Anche verso mezzogiorno Luigi IX provvide alla sistemazione dei suo regno, concludendo un accordo con l'Aragona, col quale, dietro reciproca rinunzia a vecchie pretese territoriali, fu fissato sostanzialmente ai Pirenei il confine tra i due Stati.
Il regno del figlio e successore di S. Luigi, Filippo III (1270-85), si iniziò felicemente con la devoluzione alla corona francese della contea di Tolosa in seguito all'estinzione della linea collaterale dei Capetingi che ne era titolare. Su di essa a dire il vero elevò pretese un altro rampollo della dinastia capetingia, re Carlo di Napoli della linea degli Anjou; ma la corte suprema del regno gli diede torto e stabilì l'importante principio che all'estinzione di una linea collaterale della dinastia i suoi possedimenti rimanevano devoluti per intero alla corona, e che nessuna altra linea collaterale avrebbe potuto accamparvi diritti.

Da questo momento il mezzogiorno della Francia, unito al resto, poté maggiormente risentire le influenze del nord, in modo da permettere l'inizio di un processo di unificazione nazionale.
Anche all'estero aveva già allora cominciato a penetrare l'influenza francese. Già vedemmo come essa fosse divenuta addirittura preponderante in Italia dopo la vittoria di Carlo d'Angiò; ma anche verso oriente, nei paesi prevalentemente latini, vassalli dell'impero tedesco, l'influenza francese si insinuò sempre di più.

Filippo III indusse l'arcivescovo di Lione a prestargli il giuramento di fedeltà; all'atto poi in cui Gregorio X adunò il concilio di Lione (1274), prese il pretesto della protezione del concilio per mandare nella città una guarnigione francese che non fu più ritirata. Così pure re Filippo costruì una fortezza nel vescovado di Vivarais, sulla riva destra del Rodano, dove il territorio dell'impero tedesco si incuneava profondamente nel territorio francese, e costrinse i vassalli del vescovo a prestargli il giuramento feudale.
E finalmente un altro grande feudatario di confine, il conte palatino Ottone di Borgogna, venne unito in matrimonio con una principessa francese, e così reso completamente ligio alla Francia.

Lo stesso movimento di espansione si osserva verso il sud. Il re nel 1284 riuscì ad assicurare alla sua dinastia la successione futura del regno di Navarra; l'erede di questo regno, Giovanna, andò sposa al suo primogenito Filippo IV, recandogli in dote pure i paesi della Champagne e di Brie nella Francia propriamente detta.
Ma ben maggiori prospettive si aprirono al re oltre i Pirenei. Papa Martino IV, (ti pareva!!) adirato contro don Pedro d'Aragona per l'aiuto dato ai Siciliani dopo i Vespri, lo dichiarò decaduto dal suo regno ed offrì la corona a Filippo III per il suo secondogenito Carlo di Valois (1284).
Filippo non seppe resistere alla tentazione e l'anno seguente varcò i Pirenei con un forte esercito. Ma gli Aragonesi erano padroni del mare ed impedendo i rifornimenti ridussero i francesi in posizione assai critica. Sia per questo, sia per le epidemie scoppiate nell'esercito, l'invasore dovette battere in ritirata.

Ma Filippo già portava in sè i germi della fine, e infatti, fatti morì il 5 ottobre 1285 a Perpignano ai piedi dei Pirenei. La sua morte segnò pure la fine dell'avventura aragonese, per fortuna della Francia, nel cui naturale programma di sviluppo non poteva rientrare, nè lo voleva, l'espansione oltre i Pirenei.

Dal punto di vista interno il regno di Filippo III segna un progresso nell'organizzazione monarchica della Francia. Noi vediamo ora i grandi vassalli completamente devoti al re, il quale d'altro canto seppe pure giovarsi delle classi inferiori della popolazione. Un uomo di bassi natali, Pierre de la Brosse, che fungeva da chirurgo a corte, godé di grandissima autorità ed influenza nei primi anni del regno di Filippo III. Alla fine fu domato dall'odio della nobiltà cui Filippo ebbe la debolezza di sacrificarlo; il che non toglie però che egli continuò a circondarsi anche in seguito di uomini d'origine borghese specialmente della classe dei legisti, i quali sotto i re successivi salirono anche a maggior potenza.

Inoltre - cosa importantissima - Filippo III rese accessibili i feudi alla borghesia; fu una notevole vittoria dell'elemento più moderno del capitale sulla vecchia aristocrazia feudale. Sotto di lui incontriamo pure per la prima volta la concessione di titoli di nobiltà a borghesi.

Più ancora di Filippo III ci appare animato da uno spirito di modernità il suo successore Filippo IV, detto il Bello (1285.1314). Egli è un precursore della monarchia assoluta dei secoli successivi, un monarca il quale non esitò a sfruttare tutte le risorse dello Stato, tutte le energie della nazione per accrescere la propria potenza; tuttavia egli giovò pure all'avvenire della Francia ed al consolidamento dell'autorità dello Stato; tenendo infatti alto il prestigio della monarchia questo re tenne alta l'idea della potestà civile e difese gli interessi dello Stato nazionale. La figura di Filippo IV ad ogni modo, bisogna convenirne, é tutt'altro che simpatica; l'egoismo e la durezza inesorabile formano i tratti più salienti della sua indole.

Il primo scopo che il nuovo re si propose fu quello di diventare completamente padrone in casa sua. E quindi, per estirpare l'influenza inglese in Francia, approfittò dell'opportunità che il suo contemporaneo re Edoardo I d'Inghilterra (1272-1307) si trovò impegnato nelle lunghe guerre per l'assoggettamento del Paese di Galles e della Scozia, per spogliarlo con l'astuzia e con la forza dei suoi possedimenti francesi. Ma Edoardo non era un Giovanni Senza Terra; difese strenuamente i suoi diritti e la nazione inglese lo seguì in tali rivendicazioni; inoltre egli si alleò con altri nemici della Francia, come il re tedesco Adolto di Nassau, e soprattutto il conte di Fiandra, Guido di Dampierre che la comunità di interessi spingeva ad unirsi strettamente con Edoardo. Anch'egli infatti si vedeva minacciato da Filippo, il quale nella lotta scoppiata tra il conte e il patriziato delle città di Fiandra aveva preso le parti di quest'ultimo per accrescere l'influenza francese in quella regione. Anzi Filippo, con la connivenza del partito francofilo delle città fiamminghe, i così detti liliards, riuscì a conquistare le Fiandre (1299). Ma il suo dominio fu di breve durata. Il sentimento nazionale provocò una reazione che abbatté prima il predominio del patriziato traditore e poi si volse contro i francesi.

Il movimento partì da Bruxelles, dove il popolo si sollevò il 17 maggio 1302 ed uccise tutti i francesi (qualcosa di analogo ai Vespri Siciliani di venti anni prima). Ben presto poi il moto popolare si propagò alle altre città che anch'esse abbatterono il giogo straniero. E quando un forte esercito francese accorse ai ripari, subì presso Kortrik (Courtrai) nella «battaglia degli speron» una disfatta irreparabile.
Negli anni successivi i francesi, é vero, ottennero qualche successo, ma in conclusione le Fiandre riuscirono a mantenere integra la propria indipendenza politica; solo i Valloni caddero temporaneamente sotto il dominio francese.

Anche di fronte all'Inghilterra Filippo IV non raggiunse il suo scopo. Le ostilità furono troncate nel 1298 sulla base dello statu quo e la pace venne suggellata mediante matrimoni tra i membri delle due dinastie. Edoardo I benché già vecchio sposò in seconde nozze Margherita, sorella di Filippo, ed il suo primogenito, Eduardo II, ebbe la mano della figlia del re di Francia, Isabella; come figlio di lei, al momento dell'estinzione della linea principale dei Capetingi, Edoardo III d'Inghilterra accampò in seguito pretese alla corona di Francia.
La politica interna di re Filippo il Bello mirò ad aggiogare tutte le forze vive del paese alla volontà della corona ed ai suoi interessi, a fare della monarchia il fattore principale di tutta la vita nazionale. Già sotto gli immediati predecessori del re, il governo si era accentrato nella corte regia, la curia regis, presso la quale i grandi del regno solevano darsi convegno; ma ora ogni ingerenza di costoro nell'amministrazione fu completamente eliminata ed un consiglio della corona, composto di persone devote e ligie ai voleri del re, divenne il vero e proprio organo del governo dello Stato.
Anche nel supremo tribunale regio, il parlamento di Parigi, che fungeva da tribunale d'appello per tutto il regno, l'elemento baronale fu posto in disparte; i prelati che all'inizio vi sedevano anch'essi ne furono addirittura esclusi poco dopo la morte di Filippo (con una ordinanza reale del 1319); e sempre più prevalse nel parlamento l'autorità dei legisti, ligi ai voleri. della corona.

Nei demani della corona il re governava mediante propri funzionari che avevano soppiantato gli organi dell'ordinamento feudale, i senescalchi e balivi, ed agli ordini di costoro i prevosti. Essi avevano insieme competenza amministrativa e giudiziaria; nelle loro mani era anche il comando militare. Ma questi funzionari regi invasero pure spesso la sfera della giurisdizione patrimoniale dei feudatari che Filippo si impegnò in tutti i modi di spogliare dei loro antichi privilegi ed assoggettare al suo potere. La nobiltà inoltre perdette per opera sua, come classe, l'antico carattere, perché il re vi mescolò largamente elementi borghesi nobilitati da lui. Viceversa egli aggravò gli obblighi di servizio militare della nobiltà, restrinse o soppresse il diritto di batter moneta dei grandi baroni, assoggettò i nobili alla tortura contro il vecchio privilegio che ne escludeva la loro classe, e persino proibì, almeno temporaneamente, i tornei perché non sottraessero braccia alla difesa nazionale ed alla guerra, vale a dire agli scopi ed agli interessi della corona.

L'intero paese poi subì una pressione tributaria sino allora mai vista, che Filippo esercitò con l'aiuto della Chambre des conies, il supremo ufficio finanziario da lui creato ed organizzato; e vi si aggiunsero divieti di esportazione, alterazioni di moneta, ecc. Persino nella vita privata di tutte le classi sociali la monarchia si ingerì mediante leggi suntuarie. La convocazione di rappresentanti delle città del regno, fatta in alcuni casi dalla corona, non mirò in fondo anch'essa che ad accrescere la potenza della corona medesima, la quale se ne valse per controbilanciare il potere della classe feudale.

Questo governo dispotico provocò delle reazioni che si fecero sentire già sotto lo stesso Filippo IV con frequenti torbidi interni e complotti antidinastici della nobiltà; ma anche più ne subì le conseguenze dopo la morte del re (29 novembre 1314) il suo primogenito e successore Luigi X, che fu costretto a sacrificare al malcontento generale parecchi dei principali strumenti del dispotismo paterno ed a fare considerevoli concessioni alla nobiltà, in seguito alle quali fu ripristinato lo stato di cose vigente a tempo di Luigi IX. Tutto ciò peraltro non arrestò il processo di esaltazione dell'autorità della corona.

Morto prematuramente Luigi X (9 luglio 1316) senza figli maschi (cosa che accadeva per la prima volta da che i Capetingi sedevano sul trono francese), gli successe invece della figlia, che venne tacitata con la concessione della Navarra, il fratello FILIPPO V, e, morto anche quest'ultimo nel 1318 lasciando solamente figlie femmine, salì al trono l'ultimo dei fratelli, CARLO IV.

Gli ultimi due Capetingi, più somiglianti al padre che non Luigi X, strinsero nuovamente i freni del governo, per quanto si siano impegnati di vivere in buona armonia con la nazione. Questo giovò a Filippo V allorché si propose ed ottenne di consolidare per l'avvenire ed accrescere le risorse della corona dichiarando inalienabili i demani regi e revocando tutte le donazioni di tali beni che erano state fatte per lo avanti. Più vaste mire mostrò di nutrire Carlo IV. Egli sperò, con l'aiuto del papato, ligio alla Francia, di poter ottenere la corona tedesca a discapito di Ludovico il Bavaro, ma non vi riuscì.

Viceversa la debolezza di re Edoardo II d'Inghilterra gli offrì la possibilità di rendere vacillante la posizione degli inglesi nei loro possedimenti del sud-ovest della Francia. La breve durata del suo regno peraltro gli impedì di ottenere ulteriori risultati; anch'egli venne a morte precocemente (1 febbraio 1328) senza figli; nacque bensì una creatura postuma, ma era una femmina. Sino alla nascita di quest'ultima tenne la reggenza Filippo di Valois, figlio di un fratello di Filippo III e quindi nipote di Luigi il Santo; ed a lui i pari di Francia decisero spettasse ora la corona, respingendo le pretese di re Edoardo III d'Inghilterra, figlio della figlia di Filippo IV; essi preferirono al parente più prossimo della linea femminile il discendente in linea maschile conformemente al sistema seguito per i due re immediatamente antecedenti, ma senza dubbio anche per ragioni d'indole nazionale.

Così la dinastia dei Valois successe a quella dei Capetingi. Qui però noi dobbiamo arrestarci e ritornare ancora una volta a Filippo IV per rivolgere una particolare attenzione al sue conflitto con papa Bonifazio VIII ed alle conseguenze che ne derivarono.

LA SCONFITTA DI BONIFACIO VIII

Era, si può dire, fatale che tra papa Bonifacio VIII, l'energico campione delle più sconfinate pretese clericali, e Filippo IV, uno dei primi rappresentanti del concetto moderno dello Stato, dovesse scoppiare un conflitto. Sin dal XII secolo lo Stato aveva cominciato a tassare anche i beni e redditi ecclesiastici, mentre la chiesa non voleva riconoscere questo diritto al potere civile, se non tutt'al più in casi eccezionali e previa l'autorizzazione del papa.

Ora quando sulla fine del XIII secolo i re di Francia e d'Inghilterra ad onta di tutto iniziarono a tassare di proprio arbitrio il clero, Bonifacio credette di non dover tollerare questo. Ed il 25 febbraio 1296 emanò una bolla (detta dalle parole iniziali Clericos laicis), in cui rivendicò solo a sé il diritto di imporre tributi sui beni ecclesiastici e minacciò la scomunica contro l'autorità laica che mettesse tasse di questo genere e gli ecclesiastici che le pagassero.

Ma erano ormai passati i tempi in cui le parole minacciose della curia avevano dettato legge ai popoli ed ai governi. Mentre in Inghilterra il re senza curarsi minimamente della bolla proseguì a tassare il clero, Filippo IV volle far sentire al vicario di Cristo il peso della sua mano e gli restituì il colpo emanando un divieto generale di esportazione dell'oro e dell'argento, ed impedendo così alla curia di riscuotere dalla Francia le entrate in contante.

Il dissesto finanziario piegò Bonifacio; egli interpretò con una nuova bolla del luglio 1297 il suo precedente atto in maniera che sostanzialmente se lo rimangiò. E la santificazione di Luigi IX, appunto allora compiuta dal papa, sembrò suggellare il ritorno delle buone relazioni tra Roma e la Francia.
Ma gli attriti erano semplicemente sopiti, anzi, benché non apparisse, divennero più profondi. Quando nel 1298 il papa offrì la sua mediazione per metter fine alla guerra tra l'Inghilterra e la Francia, Filippo rispose che accettava soltanto la mediazione del privato cittadino Gaetani, e dichiarò ostentatamente che la potestà civile nel suo regno spettava a lui solo e che quindi non avrebbe mai permesso l'ingerenza o la supremazia di nessuna autorità estranea in materia civile.

Se questa dichiarazione intese dare un ammonimento al papa, questi o non lo comprese o non ne tenne conto. Ed il suo orgoglio anzi aumentò a dismisura per la splendida riuscita del giubileo da lui indetto. Egli aveva proclamato che chi volesse purgarsi dei propri peccati doveva durante l'ultimo anno del secolo recarsi a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli e dei santi; ed aveva promesso le più larghe indulgenze, valendosi del potere che come successore di Pietro gli dava il possesso delle chiavi del paradiso.

All'invito risposero centinaia di migliaia di persone. Per le vie della città eterna si stiparono per tutto l'anno folle di pellegrini, ed il papato vi guadagnò in autorità ed in denaro sonante; giacché naturalmente le indulgenze non si ottenevano gratis ed ognuno dovette deporre il suo obolo nel tesoro apostolico.
La solennità nel suo complesso assunse il carattere di una specie di grandiosa rivista dell'esercito dei fedeli schierato attorno al suo supremo pastore. Tanto più Bonifacio si stimò padrone del mondo; "il pontefice romano, egli proclamò, regna su tutti i re e su tutti i regni e su ogni creatura umana ; tutti i credenti in Cristo, per quanto alto sia il loro rango, devono sottostargli, e se smarriscono la retta via debbono accogliere i suoi mandati ed i suoi ammonimenti come un malato una medicina salutare".

A Bonifazio non doveva però mancare occasione di sperimentare in pratica quanta poca consistenza avessero tali pretese. Re Filippo IV infatti nel 1301 fece imprigionare e processare sotto l'accusa di lesa maestà il vescovo Bernardo Saisset di Pamiers che, fungendo presso di lui da legato pontificio, gli si era mostrato poco ossequiente. La risposta non si fece attendere; Bonifacio emanò una bolla rovente (Ausculta fili: 5 dicembre 1301) in cui, oltre a lagnarsi duramente di altri torti, esigeva l'incondizionata liberazione di Bernardo:
«A nessuno venga in mente di farti credere», dice il papa, alludendo manifestamente alla dichiarazione fatta da Filippo nel 1298, «che tu non abbia chi stia al di sopra di te e che tu non debba essere subordinato alla chiesa e al pontefice ».
E soggiunse minacciosamente: «Chi nutre queste idee, erra, e chi persiste nell'errore é un eretico».

Contemporaneamente il papa convocò a capitolo in Roma per l'autunno successivo i vescovi francesi allo scopo di studiare sotto la sua presidenza il modo migliore di ricondurre sulla retta via il re ed il suo regno.
Di fronte a questo che era un vero e proprio guanto di sfida, il primo pensiero del re fu di assicurarsi l'appoggio della nazione. E, mentre proibiva, sotto minaccia di pene gravissime ai vescovi francesi di recarsi a Roma, Filippo allo scopo di aizzare le suscettibilità dei suoi, fece divulgare un falso testo della bolla Ausculta fili, che in forma recisa e senza sottintesi metteva in bocca al papa l'affermazione che il re era suo subordi
nato anche in materia di affari temporali.
Dopo ciò il re chiamò a se i rappresentanti della nazione: prelati e nobili, nonché rappresentanti delle maggiori città. Fu la prima convocazione generale degli Stati avutasi in Francia, giacché la corona aveva bensì anche in tempi precedenti convocato i rappresentanti della borghesia per consigliarsi e per assicurarsi il loro appoggio; ma una convocazione contemporanea di tutti e tre gli Stati non si era mai ancora avverata. L'anno 1302 assisté alla nascita degli Stati generali (Etats généraux).

Ma i passi fatti unanimemente dai rappresentanti della Francia presso il papa, mal.grado lasciassero comprendere la loro solidarietà col re, non riuscirono ad arrestare Bonifacio sulla via per la quale si era messo, tanto più che una notevole parte dei prelati, contravvenendo ai voleri del re, aveva preferito ubbidire al suo capo spirituale e si era recata a Roma.
In risposta Filippo confiscò i loro beni. A sua volta Bonifacio rincarò la dose pubblicando una nuova bolla in data 18 novembre 1302 in cui diceva:
«Non vi é che una sola santa chiesa, e questa ha un sol corpo ed un solo capo, che è Cristo ed in qualità di suo rappresentante Pietro, nonché il suo successore, il papa. Al papa perciò appartengono ambedue le spade, la spada spirituale che egli stesso maneggia, e la spada temporale che egli ha affidato ai re". "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote".(in altri termini qui si afferma che il potere civile deriva da una semplice delegazione dei potere spirituale e gli rimane subordinato, é dipendente da esso). Se pertanto i re smarriscono la retta via, l'autorità spirituale ha diritto di giudicarli. Certo, anche chi esercita questa autorità é un uomo, ma il suo potere non é umano, ma divino; chi si oppone quindi a siffatto potere, é renitente alla volontà di Dio, e per ogni creatura umana che voglia guadagnarsi la beatitudine eterna é assolutamente necessaria l'ubbidienza al sommo pontefice romano ».

Fra tutti gli atti ufficiali emanati dalla curia romana la bolla Unam sanctam, di cui ora abbiamo accennato il contenuto, rappresenta il non plus ultra della presunzione clerico-papale. E si dice che Bonifacio l'abbia redatta personalmente. Ma anche altre penne vennero messe in movimento, come al tempo della lotta per le investiture, da questo riaccendersi del conflitto tra il potere spirituale e il potere temporale.

Germogliò tutta una letteratura di scritti polemici, dei quali gli uni sostennero i diritti dello Stato, gli altri i diritti della chiesa, argomentando come lo permettevano le risorse della scienza del tempo e nelle forme ad essa consuete. Tra i difensori del papato emersero specialmente i domenicani. Uno di essi, Egidio da Colonna, che morì nel 1316 arcivescovo di Bourges, nel suo trattato « Del potere spirituale » arrivò a sostenere che "non solo la sovranità politica, ma la stessa proprietà privata era un dono della chiesa ed era subordinata alla chiesa"; ed il suo confratello Jacopo da Viterbo dichiarò il "papato la fonte e la misura di ogni potere terreno, il papa la fonte di tutte le leggi, leggi che obbligano ogni creatura umana, salvo lo stesso legislatore. È naturale che per questo autore il potere spirituale sia la luce, il potere temporale il colore che esiste solo in grazia della prima".

Dall'altra parte vediamo invece i sostenitori della monarchia negare, ricorrendo alla teoria del diritto naturale, il carattere universale del potere spirituale, segnargli dei limiti, e stabilire su basi diverse i rapporti tra lo Stato e la chiesa. Essi dicono: "Anche la potestà regia, deriva direttamente da Dio e sta accanto alla potestà spirituale del papa come una autorità di pari grado; ciascuna di esse impera nella propria sfera, e quindi l'autorità ecclesiastica non deve ingerirsi in materia civile come il potere civile deve astenersi dal prendere ingerenza negli affari della Chiesa. I beni materiali di quest'ultima sono poi soggetti alla vigilanza dello Stato, che in caso di abuso può toglierglieli. Se la chiesa può aver dei beni, gli ecclesiastici non debbono personalmente possederne; il fatto che il clero si sia tanto allontanato, come oggi avviene, dalla povertà evangelica costituisce un traviamento, e si ha da cercare di ricondurlo alla sua missione religiosa che é soltanto quella di custodire il dogma, amministrare i sacramenti ed esercitare la cura delle anime. Anche la giurisdizione ecclesiastica era ricondotta entro i suoi limiti naturali. Il clero nazionale poi in materia civile é subordinato allo Stato, cui deve pure pagare le imposte, né al papa può essere permesso di ingerirsi in questo campo".

Notevole é in questi ultimi scritti anche l'intonazione nazionale-patriottica: i loro autori si mostrano animati da un profondo sentimento nazionale e da un vivo spirito di indipendenza. La Francia - questo é il loro ritornello costante - non tollererà mai che da qualsiasi parte si tenti di arrestarla o di impacciarla nella sua naturale evoluzione. E quindi questa letteratura francese, benché occasionata dal conflitto tra il papato e la corona, si appunta innegabilmente anche contro l'impero; il re, troviamo detto, è imperatore nel suo regno. Anzi, a dire il vero, un'altra corrente, rappresentata specialmente da Pierre Dubois, appartenente alla classe dei legisti già allora influentissima in Francia, va ancora più in là; essa rivendica alla Francia l'onore della dignità imperiale, in armonia al primato che questa nazione vanta su tutta la cristianità.

Naturalmente queste polemiche letterarie non decisero il conflitto tra il papa e la corona francese. Bonifacio invece lo acuì, riconoscendo ora in Sicilia la dominazione aragonese ed in Germania Alberto d'Absburgo, che all'inizio non aveva voluto riconoscere. Ed inoltre si preparò a colpire il suo avversario con l'anatema che in passato aveva portato ai piedi del papa tanti principi potenti e superbe corone.

Ma Filippo lo prevenne. Alleandosi con un partito d'opposizione esistente in seno alla stessa chiesa contro Bonifacio, la cui elezione considerava illegale perché fatta mentre era ancor vivo il suo predecessore, e dopo essersi nuovamente assicurato dell'appoggio della nazione, il re osò tacciare il papa di eresia, accusandolo inoltre di stregoneria e persino di vizi contro natura.
Nè basta, perché spedì in Italia uno dei suoi consiglieri, Guglielmo di Nogaret, un originario della Francia meridionale, assetato di vendicare il sangue dei suoi antenati sparso nella strage degli Albigesi, munito di pieni poteri e di abbondanti mezzi finanziari, con l'incarico di dare aiuto agli avversari del papa e di impedire ad ogni costo la pubblicazione della scomunica.

Pare che l'intenzione di Filippo fosse propriamente quella di impadronirsi della persona del papa e di trascinarlo in Francia per farlo giudicare da un concilio. A tale scopo il Nogaret si unì ai romani Colonna, i nemici mortali del papa e della sua famiglia, e lo sorprese nella sua città nativa di Anagni la vigilia del giorno in cui doveva esser letta pubblicamente la scomunica (7 settembre 1303).

Nogaret con in prima fila i Colonna, aveva organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi.
L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testa!". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto. Per decidersi su cosa fare mpiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.
Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, l'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.

Gregorovius così commentò quel monumento: "è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo".

Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza. Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.
Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi.

Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimoniò con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.

Ferreto da Vicenza scrisse invece che "...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, fino a far sanguinare la testa incanutita",
Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane". Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca" le riportò tutte con una certa acrimonia.

Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "Lo principe de' novi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX, 86-93).

A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V, per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza, poi seguito - paradossalmente - dal breve e arrendevole pontificato del mite Benedetto XI (1303-1304).

Nella lacrimevole fine dell'uomo che non aveva voluto riconoscere al di sopra di sé alcuna autorità terrena la pubblica opinione vide il dito di Dio che aveva inteso umiliare l'orgoglio del Gaetani. Tuttavia il collegio dei cardinali si mostrò così compreso del bisogno di tutelare la dignità della Santa Sede, che con rara unanimità e dopo tre soli giorni di conclave diede (22 ottobre 1303) un nuovo capo alla cristianità nella persona del generale dei domenicani, Nicola Bonvicini di Treviso, uomo di bassi natali. Per lo spazio di 75 anni fu questo l'ultimo conclave tenutosi in Roma. Il nuovo eletto, che prese il nome di Benedetto XI (1303-1304) era stato partigiano di Bonifacio, al pari del resto di tutto l'ordine cui egli apparteneva; ma non trovò l'energia necessaria a proseguire nella politica del suo predecessore. Restituì anzi ai Colonna i loro beni e revocò le disposizioni emanate da Bonifacio in odio al re di Francia. Soltanto dopo che, di fronte al fermento a lui ostile manifestatosi in Roma, si trovò costretto a fuggire a Perugia, la cittadella del guelfismo italiano, il papa assunse un'attitudine più virile e si decise a condannare per lo meno gli immediati esecutori e complici dell'attentato di Anagni. Se non che, poco dopo, il 7 luglio 1304 lo colse la morte a Perugia.

Ed appunto a Perugia fu tenuto il nuovo conclave. In seno al collegio dei cardinali si formarono due partiti diametralmente opposti; da un lato i bonifaciani o il partito patriottico italiano, dall'altro i francofili. Ne l'uno né l'altro riuscì a raggiungere la maggioranza necessaria per l'elezione del papa. I bonifaziani allora credettero di spuntarla proponendo l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, un guascone, che, sebbene suddito di re Filippo, aveva fama di nemico della Francia e di fautore della politica di Bonifacio VIII. Ma, quando i francesi sondarono l'ambizioso prelato, s'avvidero subito che la tiara gli stava assai più a cuore che le sue convinzioni, e perciò gli dettero anche i loro voti; e Bertrando venne eletto il 5 giugno 1305 assumendo il nome di Clemente V (1305-1314).

IL PAPATO DI AVIGNONE

 

CLEMENTE V non deluse le aspettative francesi; sconfessando tutto il suo passato questo papa divenne schiavo della Francia sino al punto da condannare la chiesa all'esilio. Infatti, avuta notizia della sua elezione, invece di recarsi in Italia in seno al sacro collegio, chiamò a sé i cardinali nel mezzogiorno della Francia. Incoronato poi papa a Lione alla presenza di re Filippo, Clemente creò subito dieci cardinali, di cui nove francesi, assicurando così per un pezzo la preponderanza dell'elemento francese nel sacro collegio. Anche la corte pontificia si francesizzò; ed in particolare Clemente arricchì largamente di benefici e di cariche ecclesiastiche i suoi conterranei, i guasconi, ed i suoi numerosissimi parenti. Dall'Italia egli rimase costantemente lontano e dal 1309 scelse a propria dimora la città provenzale di Avignone, appartenente agli Anjou.

Ligio servilmente alla volontà del re di Francia, Clemente assolse tutti coloro che avevano partecipato all'attentato di Anagni e consentì persino a sopprimere dai registri della cancelleria pontificia le bolle di Bonifacio VIII dirette contro la Francia. Ad una sola pretesa di Filippo egli si oppose; quella cioè che si aprisse contro il defunto Bonifacio un formale processo per le accuse di eresia e di stregoneria elevate contro di lui mentre era vivo. Invece Clemente si fece complice e manutengolo di Filippo nella sua opera di distruzione dei Templari.

Ancora oggi le opinioni degli storici sono discordi nel giudicare se quest'ordine cavalleresco potesse o no dirsi colpevole. Ma, se da un lato non si può negare che i Templari, arrivati alla ricchezza ed al fasto, avevano più del conveniente dimenticato gli originari fini dell'ordine, non si deve dall'altro lato trascurare che la confessione delle più gravi colpe dell'ordine furono strappate ai cavalieri sotto gli spasimi della tortura.

Nei paesi dove non venne applicato questo mezzo di intimidazione, da poco introdotto dai papi nella procedura contro gli eretici, non si riuscì a dimostrare alcun addebito a carico dei cavalieri. E' poi assolutamente certo che Filippo IV non concepì ed attuò la persecuzione dei Templari per zelo religioso ma per la più bassa cupidigia dei loro beni. Né il papa senza dubbio credette più di lui seriamente alla colpevolezza dei Templari. Clemente cercò prima di scaricare la responsabilità di tutto su un concilio da lui convocato a Vienne; ma il concilio si rifiutò di condannare l'ordine. Ed allora Clemente lo abolì di propria autorità e ne assegnò i beni ai Giovanniti, ad eccezione degli estesi beni situati in Francia di cui si era già impadronito re Filippo.

Dei Templari molti finirono la vita nelle carceri dell'inquisizione, gli altri che revocarono in seguito le deposizioni loro strappate sotto la tortura vennero arsi come eretici recidivi, e fra questi ultimi il gran maestro Giacomo di Molay, il cui rogo, innalzato nel 1314, chiuse la lunga serie delle esecuzioni.

Così lo stesso papato distruggeva ciò che ancora rimaneva delle istituzioni dei tempi della sua massima grandezza, di quel periodo della sua esaltazione che era cominciato da quando si era levato il primo grido di liberazione della Terra Santa dalle mani degli infedeli. Ma quanto era ormai lontana quest'epoca !

Nel 1291 era caduta Acri, l'ultimo baluardo della dominazione cristiana in Oriente, senza che l'Occidente, e sopra tutto la curia romana, avesse mosso un dito per impedirlo. Ed ora anzi la stessa curia infrangeva uno dei più solidi strumenti di lotta contro gli islamiti.
È noto però che spesso non ogni male vien per nuocere. La distruzione dei Templari giovò all'ordine dei Giovanniti, i quali nel 1310 si impossessarono dell'isola di Rodi, e qui per più di due secoli tennero gloriosamente alta la bandiera cristiana, per quanto senza conseguire successi decisivi.

La morte di Clemente V (20 aprile 1314) fu ancora seguita da una lunga sedisvacanza, perché nel collegio dei cardinali vi erano ancora degli elementi che si rifiutavano di considerare come un fatto compiuto la francesizzazione del papato. Solo con la violenza re Filippo ottenne finalmente che fosse eletto nuovamente un francese, Jacques Duése di Cahors, uomo di bassa origine che era salito in auge al servizio degli Anjou (7 agosto 1316). Soltanto con lui, che assunse il nome di Giovanni XXII (1316-1334), si, può dire che il trasferimento della curia ad Avignone divenne definitivo; durante i sedici anni del suo pontificato Giovanni XXII non abbandonò mai Avignone, dove in seguito sorse il grandioso palazzo dei papi (più fortezza che palazzo).

La permanenza del papato ad Avignone significò l'asservimento della curia alla politica della monarchia francese. Se anche questa schiavitù della chiesa è stata colorita con tinte esagerate, non si può nondimeno negare che ad Avignone i papi furono costretti a favorire gli interessi e le mire di una sola nazione, cosa che era in aperta contraddizione con il carattere universale del papato. E perciò le altre nazioni non poterono più avere completa fiducia nella sua giustizia ed imparzialità, come pure la pubblica opinione dovette necessariamente considerarlo parziale e non spregiudicato, con incalcolabile detrimento della sua autorità. In ogni caso poi era stato per i papi un passo assai pericoloso quello di staccarsi dalla base su cui era sorto l'edificio della loro grandezza, di disertare il luogo dove sembrava che la provvidenza stessa li avesse collocati.

Tuttavia col trasferirsi ad Avignone il papato acquistò nella monarchia francese un sostegno più saldo di quello che ormai da un pezzo poteva offrirgli il suolo vulcanico d'Italia. Il male è che la curia sfruttò questo vantaggio principalmente per arricchirsi. Essa cominciò ad assoggettare ad una imposta a proprio favore ogni nuovo conferimento di benefici ecclesiastici: per i vescovadi, i così detti servizi, cui, quando si trattava di chiese metropolitane, si aggiungeva una fortissima tassa per il pallio, il distintivo della dignità vescovile; e per i benefici minori le così dette annate (la metà delle rendite di un anno).

Ed i papi cercarono a bella posta di moltiplicare più che fosse possibile i mutamenti di titolari dei benefici contrariamente alle precedenti consuetudini. Ma anche i laici non vennero risparmiati; le grazie che la chiesa accordava e le dispense dai precetti canonici, anch'esse accordate in gran numero, furono a datare da Giovanni XXII sottoposte a tasse fisse, mentre sino allora i richiedenti non avevan dovuto pagare che dei diritti di cancelleria. Si aggiungano le sempre crescenti indizioni di giubilei e l'abuso delle indulgenze, con cui la curia cercò di spillare denaro dalle tasche dei fedeli.

Contemporaneamente la curia accentrò sempre più nelle proprie mani il conferimento dei benefizi ed uffici ecclesiastici, soprattutto con l'estendere il campo dei casi speciali in cui secondo la consuetudine era riservato al papa di disporre in ordine ad un beneficio.
Da ultimo Urbano V (1362-70) abolì in modo generale il sistema elettorale per i vescovi ed abati, riducendo in pieno arbitrio della curia il conferimento di queste cariche. In pratica la curia lasciò al potere civile la scelta dei titolari di tali uffici maggiori, nel senso che si contentò di nominare i candidati che i principi le presentavano; in compenso i principi permisero ai papi di collocare la pleiade dei loro favoriti negli uffici medi e minori e di sfruttare come credevano il clero.

Da questo stato di cose derivò che, siccome le nomine agli uffici inferiori vennero spessissimo fatte, più che per merito, per favoritismo e specialmente per denaro, e nei benefici si insinuò una quantità di elementi estranei, la funzione di cura delle anime si andò sempre più disorganizzando, sopra tutto nelle parrocchie di campagna; questi cacciatori di benefici si facevano sostituire da vicari, in genere gente incapace, i quali erano costretti a rifarsi della scarsità dello stipendio sfruttando addirittura i parrocchiani.

Si aggiunga che nei luoghi dove si conservò più intatta la vecchia classe dei parroci le sue funzioni e le sue rendite furono completamente paralizzate e falcidiate dalla concorrenza nell'esercizio della cura d'anime dei monaci mendicanti, francescani e domenicani, cui i papi avevano concesso in materia grandi privilegi.

Il primo a risentire le conseguenze deleterie di tale disorganizzazione fu lo stesso clero, che si deteriorò gravemente, e contro la cui cupidigia, intemperanza e mondanità si levarono sempre più alte proteste.
Quanto al ceto laico, la sua devozione alla chiesa acquistò nuovo incremento a datare dal XIII secolo, specialmente per merito dei popolari ordini mendicanti, la sua religiosità già vacillante fu nuovamente raffermata; ma essa ora rivela un carattere estrinseco, meccanico, superstizioso. Crebbe smisuratamente la credenza nei miracoli ed il culto delle
reliquie assunse forme grottesche, le feste religiose si moltiplicarono ogni ora di più, a detrimento del lavoro giornaliero produttivo.

La Chiesa poi agevolò la degenerazione della devozione religiosa in una semplice pratica esteriore dando tutta l'importanza all'osservanza delle forme estrinseche e considerando come cosa secondaria la realtà del sentimento; meglio che altrove lo si vede se si guarda al più serio di tutti i sacramenti, quello della penitenza, che a causa delle indulgenze continue, ottenibili con la massima facilità e da ultimo con il semplice esborso di una somma di denaro, venne ridotto ad una vera poco edificante commedia, per non dire mercimonio.

Ritorniamo ora ai fatti politici di questo stesso periodo
soprattutto inglesi e francesi


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